Un anno di
Il meglio di MaddMaths! (http://maddmaths.simai.eu) il sito di divulgazione di Matematica Applicata della SIMAI (SocietĂ Italiana di Matematica Applicata e Industriale)
Indice Editoriali
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Vita da matematico
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Test di Proust
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Fantamatematica
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Focus
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L'Angolo Arguto
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L'alfabeto
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Giovani matematici crescono
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I Luoghi della matematica
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Noi e Image des MathĂŠmatiques
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Recensioni
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Speciali
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Un anno lungo un libro Maddmaths! (http://maddmaths.simai.eu) è il sito per la diffusione della matematica della SIMAI, la Società Italiana di matematica Applicata e Industriale, ed esiste da marzo del 2009. Scritto e interpretato per lo più da matematici attivi a livello della ricerca internazionale, ha come scopo quello di proporre ad un pubblico non specialistico un'immagine dal di dentro, ma raccontata in modo piacevole, della matematica applicata (e non solo...). Queste sono quindi le seconde vacanze di Natale per Maddmaths! Lo scorso anno ci hanno colto di sorpresa, ma quest'anno ci siamo fatti trovare pronti. E abbiamo deciso di farvi anche noi un regalo. Abbiamo raccolto alcune delle cose del nostro sito che ci sono piaciute di più, scartato a malincuore alcune cose bellissime che non riuscivano a trovare il loro posto, e abbiamo deciso di confezionarle insieme per un libro virtuale che ognuno di voi potrà, volendo, far diventare cartaceo, e magari offrire in dono ai vostri amici e parenti. O anche leggere. E poi volevamo vedere che effetto faceva vedere i nostri articoli stampati. È stato un anno intenso per noi e per la matematica. Come in tutti gli anni pari non olimpici, sono state assegnate le Fields Medals e noi abbiamo intervistato uno dei vincitori, Cedric Villani. Abbiamo anche intervistato il vincitore del Premio Abel, John Tate. Abbiamo inoltre cercato nuove direzioni (Fantamatematica, l'Alfabeto Matematico), e abbiamo lanciato il nostro sito Facebook. Abbiamo superato i 5000 accessi mensili, triplicandoli rispetto ad un anno fa. Insomma, abbiamo lavorato, e speriamo di avervi interessato. Intanto, però fateci fare qualche ringraziamento. Innanzitutto agli autori, che ci hanno aiutato in modo impareggiabile. Ringraziamo esplicitamente quelli che appaiono in questa compilation: Giulio Magli, Corrado Mascia, Carlo Sinestrari, Giovanni Felici, Gian Italo Bischi, Alessandra Celletti, Jean-Paul Allouche, Maurizio Vianello, Michelle Schatzman (che questa estate purtroppo ci ha lasciati), Maria Gualdani, Pino Rosolini. E ringraziamo di cuore anche tutti gli altri che tanto hanno fatto per riempire in questo anno le 3539 pagine del sito, tra cui coloro che si sono fatti intervistare. E poi grazie a Cristiana Di Russo e Alice Sepe, che hanno condiviso la nostra redazione, anche se intente a fare tante altre cose, tra cui, principalmente, occuparsi delle loro preziose Tesi di Dottorato. Grazie al CEMSAC di Salerno, Centro di eccellenza su metodi e sistemi per aziende competitive, con Ciro D'Apice e Carlo Troiano, che da quasi due anni gentilmente ospita il nostro sito. Un grazie speciale a Luca Lollobrigida, che gestisce la pagina web e che, pur tra mille difficoltà, non ci ha mai abbandonato. Grazie alla SIMAI http://www.simai.eu, per il sostengo economico e morale a questa iniziativa. E infine un grazie a voi lettori. Parlate bene di noi ai vostri amici, fate i bravi... Roberto Natalini e Stefano Pisani 5
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Editoriali
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Il conto che conta di Roberto Natalini Apro il computer e un lieve turbamento mi assale mentre leggo questa notizia sul sito di Repubblica: “Fare calcoli? Non serve più. Polemica su una ricerca francese”. Leggo l'inizio dell'articolo: "La capacità di calcolo e il ragionamento aritmetico non sono più necessari nella vita quotidiana". L'affermazione, contenuta in un rapporto dell'Istituto nazionale di statistica e studi economici francese (Insee), fa discutere gli esperti: davvero le calcolatrici hanno reso superflua l'abilità di fare calcoli a mente? Insomma sembra che il 3% degli adulti non sappia più fare semplici calcoli a mente, ma che tutto sommato questo non influisca per nulla nella loro capacità di cavarsela nella vita quotidiana. L'articolo continua tra chi sostiene che l'abilità calcolatoria è ancora fondamentale, anche solo per capire gli sconti al supermercato, e chi accetta nella sostanza questa analisi e vorrebbe più applicazioni nella matematica insegnata per motivare la gente a consolidare le proprio capacità matematiche. Cerco di scoprire la mia opinione sul problema. Intanto a me i calcoli (a mente o per iscritto) sono sempre stati antipatici. Sono abituato a sbagliarli anche banalmente (forse nel test rientrerei nel famigerato 3%?) e non identifico la matematica con i numeri. In realtà li vedo solo come il modello matematico più semplice che abbiamo. Voglio tenere il conto delle mie pecore e mi arrangio usando le dita delle mani e se serve anche dei piedi. Le dita e poi dei segnetti grattati sulla parete della mia caverna sono le prime rappresentazioni del mondo, dei modelli semplicissimi che mi permettono però di sapere se devo andare a cercare dell'altro cibo o se mi sono perso qualche capo di bestiame. Però è vero anche che storicamente numeri e figure geometriche stanno alla matematica come l'alfabeto sta alla letteratura. Si potrebbe anche pensare ad una creazione poetica, epica e narrativa puramente orale, ma di fatto è con la parola scritta che nasce quell'oggetto storico che chiamiamo letteratura. E anche l'alfabeto mi è sempre stato antipatico del resto. Insomma, ci penso e ci ripenso e alla fine decido che dei numeri, mio malgrado, non possiamo proprio farne a meno. Ma che bisogna avere delle buone motivazioni per imparare ad usarli e in fondo è di questo che vi parliamo da quando abbiamo cominciato questo sito. (marzo 2010)
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Questi matti, matti, matti matematici di Roberto Natalini Ma è proprio vero che i matematici sono matti? O almeno un po' strani? Mi sono un po' stufato di questa domanda, e da qualche tempo stavo valutando la possibilità di non considerarla più in modo serio. Oramai la mia risposta tipo si stava fossilizzando intorno a una cosa del genere: “Ma non dovete guardare quei pochi casi di cui si parla tanto, la maggior parte dei matematici sono persone normalissime...”. E a me non piace ripetere sempre la stessa cosa, anche se ragionevolissima, soprattutto se ragionevolissima, perché a furia di ripeterla mi sento innaturale, ed è come se la frase perdesse di senso. E comincio a dubitare che sia vera. E così stavo esplorando delle alternative possibili, tipo sgranare gli occhi e urlare con voce in falsetto: “Matti?? E chi sarebbero i matti??!!” E poi il comitato del Premio Clay decide di assegnare, dopo svariati anni di verifiche, il famoso milione di dollari a Grigori Perelman per la dimostrazione della congettura di Poincaré. “Ehi, ma non l'avevano già assegnato e lui rifiutato quattro anni fa?” Eh, no, quella era la Medaglia Fields, non proprio la stessa cosa. E Perelman forse non è matto (non credo proprio), ma almeno un po' strano lo è sicuramente. Diciamo fuori dalla norma. E tutti quindi a parlare di questa cosa dei cavoli e degli scarafaggi e dei soldi rifiutati. E persino delle sue sopracciglia (che su questo non vedo proprio cosa ci sia da dire, eppure...). E così tra una chiacchiera e un'intervista mi sono ritrovato a riflettere su questa presunta “stranezza” dei matematici, e credo di aver trovato una spiegazione convincente che mi riprometto di usare in futuro. Secondo me non è la matematica che fa diventare matti, o strani, o isolati. Non credo nemmeno che bisogna essere un po' strani in partenza per riuscire in matematica. Conosco matematici bravissimi, alcuni geniali, che sono socievoli, normali, simpatici. Forse a volte un po' presi dalla loro passione ma, insomma, con i piedi ben piantati in questo mondo. Certo se vogliamo divertirci possiamo giocare a vedere da che lato del diagramma qui sopra ci troviamo. Ma per essere un buon matematico, credo basti essere un geek (eh sì, un po' di ossessione ci vuole), e non serve certo il “menu completo”. Però rimane un dato di fatto che, anche non considerando Nash e Perelman, la storia della matematica conta parecchie figure non esattamente tranquille come Grothendieck o Cantor, solo per fare due nomi di scienziati non certo minori. Allora, io proverei a dare una spiegazione darwiniana a questa cosa. La matematica non seleziona negativamente (cioè non estingue) le persone con problemi psichici o sociali. Se devi dirigere un grande laboratorio di biologia o di fisica, non puoi, se hai questi problemi. E la maggior parte delle professioni -- avvocato, dirigente di banca, cardio-chirurgo, architetto -- sarebbero impossibili. Ma nessuno può impedire a un matematico, con un
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carattere un po' “strano”, di lavorare e ottenere anche risultati di altissimo livello. E questi risultati saranno valutati da colleghi che difficilmente potranno non riconoscerli, anche se provenienti da qualcuno che si limita a mettere messaggi cifrati in una bottiglia (ok, esagero, diciamo più semplicemente a mettere un articolo in pdf su un sito di preprint). Se poi questa “asocialità” aiuti o meno resta un interessante interrogativo. Per Cantor mi azzarderei a dire che fu un grande matematico, “nonostante” i suoi problemi psichici. Ma quello che è sicuro è che nel mondo matematico, come forse solo in poesia e in certe altre forme di espressione artistica, possono convivere molti tipi di personalità, compreso il paranoico e lo schizofrenico. Insomma, basta non essere completamente idioti... (aprile 2010)
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Fifa World Cup? E’ matematico! di Roberto Natalini Se siete interessati ad essere aggiornati su un qualsiasi argomento, Google vi offre un servizio molto comodo che si chiama “Google Alert”. Voi inserite dei termini ((keywords) e Google vi manda una mail (io ho scelto con cadenza giornaliera) che contiene i link alle news del giorno che contengono quel termine. Da quando abbiamo cominciato questa attività di divulgazione per la SIMAI, ho creato alcuni “alert” con parole chiave come “matematica”, “mathematics” o “mathématiques”. Quelli italiani contengono quasi sempre riferimenti sportivi del tipo “la salvezza matematica”, o ultimamente riferimenti ai Test INVALSI per la scuola media. Quelli francesi sono pochi e spesso vengono da blog personali. Quelli in lingua inglese contengono quasi sempre le news più interessanti, anche se per il 50% sono dedicati al miglioramento della didattica e ai premi (numerosissimi) che esistono per insegnanti e studenti, e solo in minima parte alla ricerca vera e propria (ma a differenza dell'Italia, la percentuale di queste ultime news non è zero). Unica eccezione sono i premi scientifici, la vicenda Perelman di cui si è parlato nel mese di maggio o il Premio Abel, e la morte dei matematici famosi. Nel mese di giugno per esempio ci ha lasciato Vladimir Arnold, e noi ne parliamo con un ricordo di uno dei suoi ultimi allievi, Emmanuel Ferrand, e tutti i giornali hanno riportato la notizia. Come spesso capita, si parla di matematica quando oramai è troppo tardi. Quando uno muore, quando riceve un premio per qualche cosa che ha fatto in un passato in genere abbastanza remoto, o quando ci si accorge che per la nostra scuola non abbiamo fatto abbastanza. È per questo che non ci siamo vergognati di parlarvi dei matematici del futuro (questo mese parliamo di Gianluca Crippa): indubbiamente prendiamo dei rischi, in alcuni casi rischieremo pure di esaltare qualcuno che non manterrà le promesse (ma per tutti quelli che abbiamo intervistato fino ad ora sono disposto a mettere la mia mano sul fuoco...), ma almeno non ci diletteremo in esercizi di ricostruzione storica. In tempo di mondiali di calcio però le cose cambiano. Tutti d'accordo, la matematica serve e come, e serve subito, per predire chi sarà il vincitore della coppa del mondo. Come se non bastassero i bookmakers inglesi, che continuano a dare l'Italia a 14 (ossia 14 a 1) contro il 5 della Spagna, e l'9/2 dell'Argentina, adesso ci si mettono anche i matematici. Pare infatti che un nostro collega straniero (di cui non farò il nome, ma lo troverete facilemente googlando “mathematics” e “fifa world cup”) abbia messo a punto un programma che permette di calcolare le probabilità di vittoria di ogni squadra in base alle serie storiche e non so a quali altri fattori. E pare che Argentina, Brasile, Spagna e Germania siano tra le favorite. Insomma, non serviva un gran software matematico per arrivarci. E forse nemmeno un matematico. Ma, guarda caso, questa notizia ha fatto il giro del mondo, e, questa volta senza nessuna differenza di lingua o cultura, tutti i media del mondo si sono affannati a riprenderla. Un po' come lo scorso anno, in cui il sottoscritto fu letteralmente assediato dai giornalisti che continuavano a chiamarmi al telefono per
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sentirsi ripetere, stupendosi (sic!), che al superenalotto tutte le combinazioni hanno la stessa probabilità, e che (rivelazione!) il caso non ha memoria. Non pretendo che si parli dei Teoremi di Tate o Perelman al momento della loro pubblicazione. Non penso nemmeno che i media non facciano bene il loro mestiere, anche se basterebbe un rapido controllo su Wikipedia per scoprire che Arnold NON ha ricevuto la Fields Medal, come invece riporta il Corriere della Sera, e che si è anche occupato di Teoria delle catastrofi, ma il teorema KAM è senz'altro il suo contributo più famoso (le catastrofi fanno forse più notizia?). Però rimane il fatto che è difficile che si parli della matematica, a volte stupefacente, che viene prodotta ogni anno, perché è forse faticoso renderla comprensibile al lettore medio, e si opta quindi per soluzioni più sensazionali, ma infinitamente meno interessanti. Su questo non ho nulla in contrario, se però la finissero di rappresentare i matematici come fenomeni da baraccone, tutti sostanzialmente pronti per partecipare al format televisivo “La pupa e il secchione” (a parte il titolo ORRENDO, a nessuno viene mai in mente che la “pupa” potrebbe essere una “secchiona”, e in quel caso cosa farebbero?) e alla fine incapaci di fare i conti con la realtà. Dice il comunicato stampa sul matematico che fa previsioni sui mondiali che “con i dati raccolti il ricercatore ha poi costruito una formula matematica con la quale può pronosticare l'esito delle partite. Per elaborare la metodologia ha impiegato piu' di 20 anni. Il sistema viene messo ora alla prova con le scommesse sportive, ma **** ha ammesso di non essere ancora riuscito ad arricchirsi”. Possibile che parlando di matematica, o di calcio, o di qualsiasi altra cosa non si riesca a fare di meglio? (giugno 2010)
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La matematica dell’estate di Roberto Natalini Sarà una ricorrenza numerica o una similitudine geometrica? D'estate i numeri primi diventano forse pari (chissà, magari si dilatano un po' per il caldo...)? E quelli perfetti diventano imperfetti? Oppure la legge di evoluzione dell'area dell'ombra proiettata dal vostro ombrellone è per caso ben descritta da un'equazione differenziale? Le temperature seguono andamenti iperbolici? E qual è la probabilità che il tizio che scrive a pochi metri da voi, sì proprio voi, quelli dell'ombrellone, sia un matematico? (ehi, smettete di guardarmi, che così non riesco a lavorare!). In realtà siamo anche noi un po' colpevoli dell'inflazione dei titoli che cercano di presentare la matematica con una connessione insolita. La matematica della coppia, o quella del campionato del mondo di calcio. Il nostro articolo più letto nello scorso aggiornamento è stato quello sulla matematica dei cerchi di grano e se facessimo “La matematica del Codice Da Vinci” (che temo già esista) sono sicuro avremmo un successo clamoroso (ma non vi preoccupate, non lo faremo...). Chi fa divulgazione matematica cerca infatti di far vedere come la matematica entri più o meno in qualsiasi attività umana, a volte magari stiracchiando anche un po' il senso delle cose, ma per la maggior parte del tempo cercando solo di semplificare un argomento complesso (in questo aggiornamento si parla ad esempio del sequenziamento del genoma, della dinamica delle folle, e ancora dei meccanismi di promozione meritocratica), e sempre basandosi su qualche cosa di ben reale. Invece, per per chi fa comunicazione, il meccanismo “matematica + ...” funziona un po' diversamente. Spesso basta infatti che in una certa notizia vi sia un qualche ragionamento di tipo logico, o numerico o probabilistico, insomma, basta che vi sia un evento che anche lontanamente abbia un'intersezione non vuota con quello che la gente comunemente chiama “matematica”, e meglio se questo ragionamento porta a conclusioni paradossali (bisogna mettere un maglione rosso per parare i rigori, sotto la pioggia si bagna meno chi cammina e non corre), che subito scatta il titolo: la matematica del taglio della pizza o quella delle mucche o del del superenalotto. Insomma, c'è solo l'imbarazzo della scelta. Apro Google a caso e trovo infatti The mathematics of sexuality in cui non si parla di matematica, ma di una giornalista che è andata a letto con molti uomini, e in cui si rimanda ad un altro articolo in cui il giornalista si chiede "How many lovers is too many lovers?" (Quanti amanti fanno troppi amanti?). Ecco finalmente la matematica... Ma perché questo sembra succedere più spesso con la matematica piuttosto che con le altre scienze? D'accordo esiste la fisica dei supereroi o la chimica dell'amore, ma scorrendo le news degli ultimi anni, sembra proprio che la matematica la faccia da padrone nel collezionare connessioni improprie e a volte francamente arbitrarie (ma veramente esiste la matematica della stretta di mano?).
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Una possibile ragione potrebbe risiedere nel fatto che, se da una parte tutti siamo stati esposti per molti anni ai concetti matematici e fin dalla più tenera infanzia, dall'altra la maggior parte delle persone dichiara di ritenersi negata per questa materia. E lo dichiara portando dentro di sé un notevole senso di colpa. Proporre allora un argomento del tipo “la probabilità di un matrimonio felice” in termini matematici, può in qualche modo attenuare questo disagio, facendoci credere di stare veramente recuperando il tempo perduto, e in ogni modo entrando in contatto con qualche cosa di autorevole e di un certo spessore culturale. Oppure, sono forse gli opposti che si attirano. Per cui, se sto confezionando una notizia trash sulle previsioni del mirabolante polpo Paul, può essere una buona idea intitolarlo “la matematica del polpo”, perché in questo modo otterrò due risultati: a) nobiliterò il mio articolo trash, dando una patina scientifica ad una notizia altrimenti vuota; b) attirerò l'interesse di coloro che non si interessano al calcio, e forse nemmeno ai polpi, con qualche cosa di insolito. Poi però mi viene un dubbio. C'è una storiella attribuita al grande astronomo Arthur Eddington, su alcuni pescatori (o erano matematici?) che dopo aver lungamente pescato con una rete con le maglie larghe 5 cm, conclusero che in mare non c'erano creature di taglia inferiore a quella misura. Forse se al posto di ricevere ogni giorno le news di Google con la parola “matematica”, avessi messo come chiave di ricerca la parola “estate”, il mio punto di vista per questo articolo sarebbe potuto essere diverso... (ma sono comunque riuscito a scrivere una frase di senso compiuto contenente le parole “matematica” e “estate”, però!). (luglio 2010)
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Medaglie Fields: allez les bleus! di Roberto Natalini «La Francia terra di matematica? Non è un segreto per nessuno». La dichiarazione del matematico Cedric Villani, fresco vincitore di una Medaglia Fields 2010 (e protagonista di una videointervista che potrete trovare presto sul sito), ha in effetti un fondamento più che valido. Scorrendo l'elenco dei vincitori degli ultimi 20 anni colpisce infatti, in questa ‘competizione’ internazionale che punta a premiare capacità e giovinezza di un matematico (la Medaglia Fields è assegnata a studiosi eccellenti sotto i 40 anni di età) un grande dominio russo e francese. Anche quest’anno, durante il congresso mondiale di matematica di Hyderabad, in India, la Francia ha ben figurato aggiudicandosi, con Ngô Bau Châu (vietnamita, naturalizzato francese) e Cedric Villani, appunto, due medaglie su quattro (le altre due sono andate all’israeliano Elon Lindestrauss e al russo Stanic Smirnov). E l’Italia? Degli italiani colpisce l'assenza: una sola vittoria, nel 1974, con Enrico Bombieri. Eppure, la Francia è paese con una popolazione equivalente alla nostra e di medaglie in totale, dal 1936, ne ha avute ben 11 su 52. Il sistema francese è estremamente selettivo e meritocratico. Da noi la scuola Normale di Pisa recluta ogni anno trenta persone per l'intera classe di scienze. In Francia ci sono invece centinaia di ammessi alle varie discipline delle “Grandes Ecoles”, con un livello di preparazione molto alto anche per quelli che non faranno la carriera accademica. Quindi, per esempio, un laureato italiano in matematica sarà in media più bravo di un laureato francese al di fuori delle scuole speciali, ma se si guardano le punte, una persona dotata in Francia avrà una vita più facile che in Italia. In Francia, infatti, ai bravi ricercatori vengono offerte molte più opportunità e posizioni di responsabilità. Tornando a Cedric Villani (nella foto), di lui balza subito all’occhio che ha solo 37 anni e già da un anno dirige il prestigioso Istituto Henri Poincaré a Parigi. Anche in Italia avremmo dei bravi ricercatori in matematica, ma spesso vanno all'estero per mancanza di posizioni al loro livello e hanno pochissima influenza nella politica della ricerca. Altro nodo importante, a mio parere, è quello del rapporto fra matematica e società. Nella società e nell'industria francesi la matematica è vista molto meglio che da noi. I ricercatori in matematica al CNRS francese sono oltre il quadruplo di quelli nello stesso settore nel Cnr italiano, con un reclutamento di giovani sostanzioso e regolare, e spesso i quotidiani francesi dedicano la prima pagina proprio a scoperte matematiche. Proprio come da noi. (settembre 2010)
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Di quanta matematica abbiamo realmente bisogno? di Roberto Natalini Questa volta il titolo dell'editoriale lo rubo nientemeno che al “Washington Post”. Sì proprio quello del caso Watergate e di “Tutti gli uomini del presidente”. Nell'edizione online del 23 ottobre scorso, mi capita di leggere questo articolo: How much math do we really need? scritto dal matematico G.V. Ramanathan. L'autore dell'articolo si interroga sull'insegnamento della matematica negli Stati Uniti e sostiene che il mercato della matematica sarebbe diventato come quello dei prodotti di bellezza, facendo spendere molti soldi allo Stato nel tentativo di far credere alla gente che la matematica sia essenziale nella vita di tutti i giorni. Secondo lui, come per un prodotto di bellezza, prima si fa credere che una certa cosa (per esempio, i denti bianchi o il fisico asciutto) sia essenziale per una vita di benessere. Poi si comincia a far sentire a disagio chi non la possiede, e infine, dato che il benessere è un diritto, ognuno deve ottenerla a tutti i costi. A questo punto il Prof. Ramanathan si pone due problemi. Il primo è sull'efficacia delle azioni che sono state intraprese dall’epoca del primo report del 1983 che metteva in guardia l'amministrazione americana contro i rischi di un declino nel settore tecnologico a causa della scarsa cultura matematica. Un rischio che, secondo l'Educational Departement americano, è oggi diventato maggiore, rispetto agli anni '80. Il secondo problema è ancora più fondamentale. Abbiamo veramente bisogno di tutta questa matematica nella vita di tutti i giorni? Chiedetevelo, dice Ramanathan, e poi ponete la stessa domanda al vostro idraulico, al vostro avvocato, al pizzicagnolo, o a un meccanico. E continua: “A differenza della letteratura, della storia, della politica o della musica, la matematica ha poca importanza nella vita di tutti i giorni. (…). Tutta la matematica di cui abbiamo bisogno nella vita reale può essere imparata nei primi anni senza molto sforzo.” Ora, a differenza di alcuni lettori del Washington Post che hanno lasciato dei commenti abbastanza irriverenti, tipo che il professore si era alzato male dal letto, o era uscito di testa, vorrei cercare di rispondere seriamente a questo articolo. Perché penso che rifletta bene il pensiero che molte persone, anche in Italia, hanno sulla matematica. Partiamo dal secondo problema. Forse l'idraulico, il pizzicagnolo o l'agricoltore non hanno (ancora) molto bisogno della matematica superiore, ma in realtà siamo in una società in cui sempre meno persone fanno questi lavori (provate a cercare un idraulico...), e quasi nessuno tra quelli che hanno frequentato le scuole superiori. Al contrario, siamo in una società letteralmente saturata di applicazioni avanzate della matematica, dal telefonino che avete in tasca, al computer con cui state leggendo questo articolo, alla centralina di controllo della vostra automobile. E le statistiche, e l'ottimizzazione della produzione, e il controllo automatico della maggior parte dei processi. E qualcuno, non solo i matematici di
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professione, deve progettare, riparare, sviluppare la tecnologia che c'è dietro, e che richiede una base di conoscenze matematiche superiori e, quel che è più importante, sempre mutevoli a seconda della situazione. Da qui il rischio, già in parte attuale, che la società si divida in una piccola élite tecnologica (che magari lavora in pochi centri di ricerca all'estero) che controlla tutti gli aspetti importanti della nostra vita sociale (la comunicazione, l'innovazione) e il resto, gli utenti, che fruisce di tutto questo in modo opaco, come se fossero magie incomprensibili. In una società in cui Google, Facebook o Nokia sono sulle prime pagine dei giornali, in cui un giovane programmatore di 26 anni come Zuckerberg non solo è multimiliardario, ma anche l'oggetto di un film di successo, in cui dei "nerds" possono essere protagonisti di una sit-com popolare come "The Big Bang Theory", in cui noi, ma anche i nostri figli, appena alzati accendiamo il computer al posto della radio, non conoscere per nulla cosa ci sia dietro, e cosa sia possibile e cosa no, potrebbe essere pericoloso. Per esempio una maggiore conoscenza dei limiti della matematica avrebbe forse evitato alcune delle ultime crisi finanziarie o a una più attenta considerazione delle problematiche del clima. E inoltre questo porta ad un'altra domanda. Se pensiamo di stare spendendo troppo per la preparazione matematica delle persone (e parliamo degli Stati Uniti, dove il governo investe cifre incredibili per migliorare l'apprendimento della matematica ed esistono cose come Family Math o i Math Camps), avremo però sempre bisogno di un gruppo, non troppo piccolo viste le necessità sociali (soltanto Google o Microsoft o IBM hanno già bisogno di un'enorme quantità di personale qualificato), che sia esposto ad una formazione superiore di tipo matematico. E cosa dovremmo fare allora? Creare una società di caste tecnologiche, magari separando le persone con test attitudinali sin dalla prima infanzia? E qui arriviamo al secondo problema posto dal Prof. Ramanathan. Come mai, nonostante tutti gli sforzi, l'istruzione matematica americana non è ancora sufficiente per le esigenze della società, e in misura maggiore rispetto agli anni '80? Non lo so, ma azzardo un'ipotesi. È il bisogno di matematica ad essere cresciuto. Oggi un ingegnere o un informatico hanno bisogno di una preparazione molto più ampia rispetto al 1983. Non c'era internet, non c'erano i lettori mp3, le automobili non avevano nessun componente elettronico, i film si facevano con la cinepresa (ricordate Tron?) ed erano appena apparsi i primi personal computer. La quantità di software in giro era minima rispetto a ora. Insomma, lo sviluppo, che una volta si declinava in termini di acciaio e petrolio, è ora sempre più legato al software e alla tecnologia avanzata e non è certo un caso che l'India e la Cina continuino a sfornare persone con un notevole preparazione matematica. Per cui, caro Professor Ramanathan, alla fine io arrivo alla conclusione opposta. Mi sembra difficile ed anche pericoloso pensare ad un cittadino istruito della nostra società che non abbia una decente preparazione anche in matematica. Sicuramente non di meno, forse anche qualche cosina in più (ok, mi è scappato...), di quanto non ne sappia in letteratura, storia o musica. (novembre 2010)
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Vita da matematico
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Luca Fascione Quei Na'vi di Avatar pieni di matematica
Matematico laureato dall’Università di Roma Tor Vergata, Luca Fascione lavora oggi in Nuova Zelanda nella compagnia Weta Digital, che ha curato gli effetti speciali digitali del film Avatar… Ci racconti il tuo percorso di studi, scolastico e universitario? Sono nato a Pisa, e cresciuto a Roma, ho studiato al liceo scientifico e poi mi sono laureato in Matematica all'università di Roma Tor Vergata. E dopo l'Università? Il mio primo "impiego" è stato uno stage a Banca IMI a Milano, sul desk di trading obbligazionario. L'esperienza mi ha molto aperto gli occhi sull'ampiezza delle offerte disponibili nel "mondo del lavoro". Sei mesi nei quali ho imparato moltissimo sia sulla finanza, sia sulla vita da adulti... Come ti sei avvicinato al mondo della computer grafica? Beh, l'esperienza a Banca IMI, che di per sé mi è piaciuta moltissimo, mi ha però fatto capire che le obbligazioni e le azioni non fanno per me. Ho riflettuto molto, e ho cercato qualcosa che coniugasse le passioni della mia vita: computer, cinema e possibilmente un po' di Matematica. Da lì alla computer grafica il passo è breve. Certo riuscirci ha richiesto molta buona volontà, mia per la notevole distanza da coprire nella mia preparazione, e della mia famiglia che mi ha permesso di fare questa scommessa che di certo all'epoca era molto incerta. A quali film hai contribuito e in che modo la matematica è entrata nel tuo lavoro? I film principali con cui sono stato coinvolto direttamente sono: Valiant, The Ant Bully, King Kong e Avatar. Il mio lavoro consiste nello scrivere programmi che lo studio usa nella produzione dei vari film, i programmi su cui ho lavorato sono stati usati anche in vari altri film come Eragon, Fantastic Four - Rise of the Silver Surfer, Xmen III, The Waterhorse, The Day the Earth Stood Still, District 9 ed alcuni altri. Ho anche lavorato alla Pixar per un certo periodo, in cui ho contribuito ad un tool usato sui film Up e Toy Story 3. La matematica è parte della mia vita di ogni giorno, nell'ultimo periodo anche più direttamente del solito. Se da una parte è l'approccio rigoroso del matematico che mi ha aiutato di più, gli ultimi progetti hanno anche una componente più direttamente legata a temi di geometria differenziale e teoria delle varietà lisce. Il mio lavoro è sempre un po' un bilanciamento tra temi di informatica classica (come nuovi algoritmi di ricerca o di compressione) e questioni invece di natura geometrica, che spesso sono notevolmente complicate dall'approccio numerico che necessariamente dobbiamo mantenere in questo settore. Anche concetti relativamente semplici come la continuità, nel mondo discreto e 20
finito della computer grafica assumono un aspetto molto meno concreto (incredibile a dirsi) e i confini tra continuo e discontinuo sono spesso lasciati all'interpretazione. Se in certe branche (come per esempio l'analisi armonica e le sue evoluzioni) c'è una comprensione molto profonda di come le cose cambino passando dal continuo al discreto e dalla precisione infinita a rappresentazioni finite, in altre (come la geometria differenziale) questi passaggi sono ancora oggetto di ricerca molto attiva, il che significa che spesso la validità di teoremi anche semplici deve essere verificata, riesaminando il significato delle varie ipotesi nel contesto discreto. Per fare un esempio concreto, pochi giorni fa discutevamo l'uso dell'operatore di Laplace-Beltrami riformulato nel contesto delle nostre varietà lisce (che sono essenzialmente dei grafi bidimensionali e quindi in realtà finiscono per essere molto meno condizionate di una varietà liscia nel senso usuale). Qualche aneddoto sulla lavorazione di questi film? Beh, più che aneddoto vorrei proporre un punto di riflessione. Il fine ultimo del mio lavoro è creare immagini. Strutturalmente inseguiamo un certo senso estetico che deve essere soddisfatto, spesso tramite l'uso di strumenti basati di solito sulla matematica e la fisica. Il punto è che occasionalmente l'estetica e la fisica non vanno poi così d'accordo. Prendiamo la pelle dei Na'vi, i personaggi del film Avatar. Hanno la pelle blu e nelle loro vene scorre sangue rosso. Eccetto che la nostra pelle è rosa esattamente perché è "color sangue sbiadito"... Come mai la pelle dei Na'vi è invece blu? Per poter rappresentare un Na'vi noi abbiamo dovuto reinventare un po' la biologia del loro sistema, e trovare una soluzione a questa apparente contraddizione (la "soluzione" comincia dal fatto che la "melanina" dei Na'vi è blu e che il loro sistema vascolare ha un tipo di irrorazione diverso dal nostro), ma comunque abbiamo dovuto mettere insieme un sistema coerente, per ottenere l'alto grado di realismo del film e tutti i sottili effetti di interazione della luce con la pelle. Sono piccoli rompicapo, ma son divertenti da risolvere. Puoi parlarci del tuo impegno per il film Avatar? Che ruolo ha svolto la matematica nella "nuova" tecnologia 3D di questo film? Ho cominciato a lavorare su software usato in Avatar nel 2006, un progetto che è culminato in una delle esperienze più interessanti della mia carriera finora: con lo studio stavamo lavorando ad una nuova generazione di software per il Motion Capture, che avrebbe permesso notevoli miglioramenti nella possibilità per il regista di lavorare in tempo reale con gli attori durante le sessioni di cattura della performance (che è un po' il corrispondente della "ripresa" del Motion Capture). Una volta che il sistema ha cominciato a funzionare, lo abbiamo presentato al regista di Avatar, James Cameron, che ne è rimasto contento e ha voluto trasferirlo nei suoi studi di Los Angeles per poterlo usare sul suo film. Fin qui nulla di così eccezionale, conoscevamo una limitazione, abbiamo proposto una soluzione, è stata accettata. Ben fatto. La cosa interessante è stata che quando siamo andati a fare l'installazione e collaudo del sistema negli studi di Playa Vista, è venuto fuori che anche Steven Spielberg e Peter Jackson erano interessati al nostro sistema, e han convinto Cameron ad avere in prestito il suo studio (naturalmente con tutti i "tecnici") per tre giorni di riprese in modo da poter provare il sistema e vedere se sarebbe stato possibile usarlo per il loro nuovo progetto congiunto, Tin Tin. In questo modo noi ci siamo trovati sul set con forse i tre registi più influenti di Hollywood contemporaneamente, insieme a Jon Landau e Kathleen Kennedy, che sono forse i due produttori più importanti del momento, tutti più o meno 21
lavorando sulla stessa idea. Solo i registi nella sala totalizzavano 9 oscar vinti direttamente (e credo ben oltre i 30 considerando il totale dei loro film: solo Titanic e il terzo film della saga del Signore degli anelli ne totalizzano 22!). Il carisma di questi personaggi è assolutamente incredibile, è stata un'esperienza fortissima. Hai qualche hobby, passione, oltre alla matematica e al tuo lavoro? Mi piace molto la musica, suono la chitarra, principalmente musica di stampo sud americano. Mi diverto anche con la macchina fotografica, anche se ultimamente non ho potuto dedicarci troppo tempo. Infine mi piace moltissimo il cinema, cerco di andare il piÚ possibile, ma anche a casa ho organizzato una stanza con un proiettore in cui passo molto tempo. (marzo 2010)
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A spasso coi Rudi
Questo mese, un’intervista tripla. Perché sono tre i Rudi Mathematici, Alice, Piotr e Rudy, che la comunità degli amanti dei giochi matematici ben conosce, grazie al loro sito http://www.rudimathematici.com/ e grazie allo spazio che si sono conquistati su una rivista importante come Le Scienze Perché mai, se vi piace tanto la matematica, non avete fatto i matematici e anzi non siete nemmeno laureati in matematica? Una passione tardiva o un voluto distacco (del tipo, mi avvicino, ma non troppo per mantenere una mia identità)? R) Perchè da piccolo mi piaceva la fisica e vedevo la matematica solo come strumento; successivamente, ho continuato a vederla come strumento (per divertirmi). P) E chi ce l'avrebbe fatta a laurearsi in matematica? Con la fatica fatta per prendere una laureetta in fisica... Okay, more seriously: la fisica, a suo tempo, aveva un fascino particolare, da "ultima frontiera". Come tale, era buona sola per gli eroi veri, e non per le mezze calzette come me. La matematica ha quasi lo stesso difetto, ma in compenso ha il vantaggio che ci si può giocare, cosa che con la fisica è più difficile fare: non impossibile, no; ma più difficile sì. A) Effettivamente la facoltà di matematica era la mia prima scelta alla fine del liceo, ma mia madre (che ha una laurea in matematica e ha fatto la prof di matematica e fisica tutta la vita), ha provato a convincermi a seguire la sua strada, così sono diventata un'ingegnere. Un po' di matematica la si studia lo stesso, ma l'idea era di trovare un lavoro, cosa non facilissima per la mia generazione... Com'è nata l'idea di mettere su questo gruppo di... appassionati? Quali erano i vostri obiettivi, inizialmente? Vi sareste mai immaginati il successo che avete avuto? R) Nasce dal "Problema senza parole": tutta la storia sul sito. Inizialmente, i nostri (di Rudy, che faceva tutto) obiettivi erano di divulgare un po' di matematica ricreativa. I primi numeri sono sostanzialmente scopiazzature dei problemi di Martin Gardner. Mi aspettavo
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che la rivista durasse a lungo (sono un tizio testardo), ma mi aspettavo al più un centesimo dei lettori attuali P) Chiedere a Rudy, l'idea è stata sua, anche se inoculata da un dialogo con Alice. Obiettivi iniziali: nessuno, e credo che la cosa valga anche per lo stesso padre fondatore e per Alice. Prefigurazione del successo? Neanche lontanamente. A dirla tutta, non lo prefiguro neanche adesso che non fa più parte dell'insieme "previsioni" A) Mah, è tutta colpa di Rudy. E non gli credete quando dice che ho contribuito, è veramente solo colpa sua. E il successo forse lui se lo immaginava, io mi stupisco ancora adesso... R) Ringrazio per il volermi attribuire merito e colpe, ma senza questi due loschi figuri RM sarebbe restato un paio di paginette con una ventina di lettori e, probabilmente, una periodicità descrivibile solo come "saltuaria". Sappiamo che per vivere fate altri mestieri. Avete mai pensato di mollare tutto e fare i Rudi a tempo pieno (indipendentemente dal fatto che sia o meno possibile)? R) Se è un'offerta di lavoro, consideratela già firmata. P) Facciamo già i Rudi a tempo pieno. Gli altri mestieri sono furti continuativi perpetrati ai danni dei nostri datori di lavoro. La risposta è meno scherzosa di quel che potrebbe sembrare: del resto, la domanda non è proprio proponibile, perché è disinnescata dal contenuto delle parentesi. A) Per carità, non lo dite ai nostri datori di lavoro. Se ce ne andiamo potrebbero accorgersi che non abbiamo mai fatto veramente altro… OK, terremo il segreto. Forse lo abbiamo letto da qualche parte, ma lo abbiamo dimenticato, ma perché "Rudi"? R) Perchè i primi numeri erano scritti tutti da Rudy, che scimmiottava nel titolo i "Ludi Mathematici". All'inizio era "Rudy Mathematici", poi visto che la componente Rudy rappresentava solo un terzo della Redazione, si è optato per "Rudi Mathematici". Il che aggiunge un gioco di parole a quello già presente. P)Ragione numero uno: perché Rudy si chiama davvero Rudy, e ha chiamato la rivista egocentricamente Rudy Mathematici. Ragione numero due: perché Leon Battista Alberti ha scritto "Ludi Mathematici", e Rudy ha voluto dottamente fare un omaggio al grande saggio. Ragione numero tre: perché quando Rudy non è stato più solo, il cambio"RudyRudi" ha palesato il passaggio da singolare a plurale. Ragione numero quattro: perché la nostra maniera di trattare la matematica è decisamente un po' "rude". Ragione numero cinque: no, basta, proseguite da soli... A) Che rispondo a fare? Lo faranno già con dovizia di particolari gli altri due… 24
In effetti. E (una domanda facile, ma ci piace insistere su questi dettagliucci) da dove vengono i vostri soprannomi? Ma perché dei soprannomi? R) Il mio nasce dal fatto che mi hanno sempre chiamato Rudy (mi chiamo Rodolfo); la seconda parte nasce dal fatto che la mia risposta al "Problema senza parole", normalmente liquidata nella frase "non è un triangolo", andava avanti per tre pagine scritte fitte, peggio di un articolo di enciclopedia. E siccome d'Alembert mi era più simpatico di Diderot, la scelta era obbligata. P) Se è facile, quasi quasi non rispondo... Ok, Rudy d'Alembert si fa chiamare così da prima della nascita di RM; Alice Riddle richiama la Alice Liddell di Lewis Carroll e il gioco di parole riddle=indovinello; Silverbrahms è costruito a tavolino come gioco per i lettori: la domanda era "A quale matematico si è ispirato Piotr per la scelta del suo nome?" e la risposta era Goldbach (per modestia, l'oro di Gold era declassato in Silver, e il genio di Bach declassato a quello di Brahms). Soprannomi? Quali soprannomi? I nostri sono allonimi (e solo i migliori dizionari riportano il termine). C'era un periodo in cui ogni cosa scritta per Internet veniva scritta tramite nickname, e noi non potevamo essere fuori regola. E poi ci vergognavamo: eravamo certi che prima o poi qualcuno si sarebbe accorto di quanta poca matematica sapevamo, e temevamo che saremmo stati sepolti dalle risate di scherno. Quindi, meglio proteggersi, no? A) Anche qui, prefiguro fiumi di parole dai due ciarlieri. Quindi taccio. Plaudo alla saggezza di Alice, che mi dà il tempo di cercare ‘allonimi’ sui migliori dizionari. Chi è il vostro pubblico? Che tipi sono? Che tipi curiosi ci sono? R) Colleghi di lavoro "dall'altra parte della realtà", amici di Piero, amici di amici, gente che ci ha trovato in rete... non abbiamo mai stampato manifesti pubblicitari (se si esclude una comparsa alla Sagra del Pesce Algebrico con tre magliette a tema... ma questa è un'altra storia). P) Professori, studenti, cuochi, pensionati, normalisti, casalinghe, matti. Tanto per dire, siamo stati presentati al nostro editore - cheè il libraio più vicino alla nostra ex-facoltà - da un poeta pugliese che abita a milleduecento chilometri sia da noi che dall'editore. E salvo poche eccezioni, sono tutti più bravi di noi in matematica. A) Per fortuna i nostri lettori sono veramente di ogni tipo, e ne andiamo orgogliosi, anche se quelli che amiamo di più sono giovani, giovanissimi, studenti liceali che semplicemente e malgrado il sistema scolastico - amano la matematica. Alcuni, mentre RM cresceva, sono andati in posti che noi nemmeno ci sogniamo, come la Normale, e hanno addirittura detto in giro che li abbiamo ispirati noi. Niente male, per dei non matematici, no? Come mai, in un momento in cui la scrittura e la divulgazione tendono a un notevole minimalismo (ok, la scrittura forse non sempre), il messaggio deve essere veloce, immediato, non c'è mai tempo per approfondire, voi fate la scelta contraria di 25
scrivere senza nessuna economia di mezzi? (e qui non potete rispondere "perché appunto la scrittura e la divulgazione tendono a un notevole minimalismo, allora noi facciamo diverso". Ci piacerebbe insomma sapere qualche cosa sulla vostra filosofia di scrittura, anche se lo so che sembra come quando uno spiega una barzelletta) R) Contesto il "senza nessuna economia di mezzi": a me basta un laptop, la mia libreria e una connessione in rete (pipa e birra, OK...). A meno che con questo si intenda che quello che scriviamo non è immediato come un blog, nel qual caso sono d'accordo. Ma quando siamo nati, "blog" non significava nulla. La scelta di fare una "rivista" (elettronica, OK, ma sempre rivista) nasce dal fatto che inviandola via e-mail (tutta la rivista, non il link!) contavamo come "lettori" tutti i destinatari, senza dover consultare frustranti statistiche di download. P) Questa è davvero una bella domanda. Probabilmente la risposta non sarà altrettanto bella, ma innanzitutto meritate i complimenti per averla fatta. La verità, probabilmente, è che la scelta non è stata consapevole: gli articoli lunghi, lenti e divaganti che aprono e chiudono la rivista - per non parlare della parte più estesa di RM, le Soluzioni & Note nascono così perché così sono fatti gli autori, probabilmente, senza alcuna decisione editoriale dietro. Quello che è stato consapevole fin dall'inizio, e che probabilmente è stata la vera scelta vincente e originale (e che forse è almeno in parte in grado di rispondere indirettamente alla domanda) è stata la volontà di scrivere una "rivista". Non una mailinglist, non un newsgroup, non un forum, non un sito, e neanche un blog, anche perché nel 1999 ancora non esistevano. E anche questa è stata una decisione fortemente voluta dal padre fondatore, Rudy. A) Quello a cui tende il resto del mondo non ci riguarda veramente, noi scriviamo quello che ci piace e ci diverte, e visto che piace e diverte anche qualcun altro, va bene così. Siamo fuori moda? Va bene lo stesso. Siamo in controtendenza? Non l'abbiamo fatto apposta, veramente! R) Giusto per essere in controtendenza anche al nostro interno: non è vero, l'abbiamo fatto apposta. Una rivista ti costringe a scrivere qualcosa entro una certa data, con il blog (checché ne dica Alice, che cerca di inoculare in noi una parvenza di puntualità in merito) rimandi sempre a domani... Avete velleità narrative? E' in cantiere qualche romanzo Rude? R) Ha-Hehm... E fare qualche ricerca, prima di fare certe domande? :-) P) Se avete bisogno di domandarlo, significa che non siamo stati ancora abbastanza bravi a palesarlo. Sì, certo, narrare ci interessa e ci piace. Tutti i nostri articoli hanno una componente narrativa, in fondo, anche quelli più tecnici: e il nostro secondo libro "Rudi Ludi", è almeno per metà un romanzo.
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A) Vergogna, non avete letto i nostri libri. Adesso ci tocca mandarvene una copia gratuita per farvela recensire... Tutti e tre abbiamo cominciato da bambini a sognare di diventare scrittori, per cui perdonateci se abbiamo avuto delle manie di grandezza. Il primo libro (Rudi Simmetrie) era quasi un gioco, ed ha vinto il Premio Peano per i giovani (?!?!), il secondo parlava di teoria dei giochi e ci ha fatto sudare talmente tanto che probabilmente non ne scriveremo mai un altro. Ma con noi non si può mai sapere, noi stessi non sappiamo quello che facciamo finché non l'abbiamo fatto. R) Comunque i due letterati qui sono Alice e Piotr. Hanno scritto un romanzo breve per conto loro, qualche anno fa. Ehm. Ma no, cosa avete capito. Li abbiamo letti, li abbiamo letti. Volevamo solo scoprire se eravate permalosi, ehm. Cambiando discorso: qual è la cosa che vi piace di più nella matematica? E di meno? R) Il meglio: "La formula di Taylor è stata creata da Dio il settimo giorno" (Prof. Sciuto, Istituto Fisico di Torino); la Teoria dei Numeri, se me la spiega Manfred Schroeder; le equazioni differenziali sono lì come la Divina Commedia: uno dice sempre che vuole rileggerla, ma non lo fa mai.- Il peggio: La trigonometria, ma solo perché me l'hanno spiegata male. P) La sua capacità di stupire. Meglio, la sua capacità di mostrare che cose apparentemente diversissime sono descrivibili dallo stesso pattern strutturale. Probabilmente questo significa che la maniera ultima, definitiva che abbiamo per capire le cose - il mondo, tutto - è matematica. La cosa che mi piace di meno della matematica è che non sono bravo in matematica. E non è falsa modestia. A) Il meglio: la matematica è bella. Non c'è molto altro da dire, è semplicemente bella, anche quando non si capisce. - Il peggio: il modo in cui è insegnata e percepita, mi fa venire veramente il nervoso. R) Questi due, piuttosto che esprimere un'opinione circostanziata, si fanno chiudere nella scatola col gatto di Schroedinger. Timothy Gowers (Fields medal) ha scritto recentemente che i matematici si dividono in due categorie: quelli che fanno teorie (Gromov) e quelli che risolvono problemi (Erdos). Anzi ha detto che ogni matematico fa l'una e l'altra cosa, ma spesso una delle due domina. Voi sembrate appartenere alla seconda categoria. Ma, secondo voi, è vera questa cosa che dice Gowers, o ci sono altri tipi di matematici? R) È una bella teoria, ma anche rispondere è un bel problema...:-). Ma costruire una teoria, non equivale a risolvere una serie di problemi uno dietro l'altro? Quindi, forse è solo una frase che non significa niente. P) E' possibile che Gowers abbia ragione, ma solo limitatamente ai matematici professionisti. Se si allarga la definizione anche a chi si limita ad apprezzare la 27
matematica, ogni suddivisione si frantuma. E' un po' come dire che i calciatori si dividono in difensori, centrocampisti e attaccanti, il che può andar bene, specialmente se si accetta anche la possibilità che un giocatore può essere un po' tutte e tre le cose assieme: ma se si cambia il termine "calciatori" con "appassionati di calcio", tutta la costruzione esplode: lì si trovano attaccanti, difensori, centrocampisti, allenatori, giornalisti, ultras, tifosi, simpatizzanti, strilloni, critici, barbieri, baristi... tutto. A) Noi non siamo matematici, per cui non apparteniamo a nessuna delle due categorie. Però diciamocelo, le categorie per le persone non esistono. La maggior parte dei matematici sono anche artisti, poeti, sognatori, e tante altre cose, oltre a semplicemente persone. E far rientrare una persona in una categoria è proprio difficile. Qual è il vostro problema preferito? E il più sorprendente? Credete che la proposizione di problemi, magari intricati, ma risolvibili senza grosse competenze matematiche, aiuti le persone ad avvicinarsi alla matematica? R) Il mio problema preferito è quello degli aeroplanini: facilissimo da statuire, ma risolverlo... Il più sorprendente (se si escludono i Q&D) quello del momento d'inerzia del Triangolo di Sierpinsky. Come fa, un coso di quel genere, ad avere un MdI???? P) Le due qualità, nel mio caso, coincidono; nel senso che un problema mi piace soprattutto se mi sorprende. Ma è difficile capire perché uno trovi "sorprendente" un problema; in molti casi, ciò che sorprende alcuni non sorprende affatto altri. Da questo punto di vista, sono sorprendenti molti problemi di probabilità, come quello di Monty Hall. Ma anche dei “non-problemi”, come il calcolare pi-greco con l’ausilio di una giornata di pioggia e di un quadrato di cartone su cui è disegnato un quarto di cerchio, non sono male. Sull’avvicinamento alla matematica tramite problemi attraenti, direi di sì, ma sotto la condizione della giovane età dei destinatari: credo che quasi tutti i matematici contemporanei siano cresciuti con Martin Gardner, ma credo anche che chi incontra per la prima volta la “matematica divertente” dopo i trenta non andrà oltre un sorriso temporaneo. A) I problemi che mi piacciono di più sono quelli che so risolvere :-) - Va beh, più seriamente, i problemi migliori sono quelli che hanno a che fare con la nostra vita di tutti i giorni (cioè praticamente tutti). Trovo particolarmente incredibile il fatto che imparare ad analizzare un problema o una situazione possa essere applicato a quasi tutte le attività che svolgiamo ogni giorno, dal fare la spesa al leggere i giornali, insomma, dal momento in cui ci svegliamo al mattino finché non torniamo a letto. R) Per quanto riguarda i problemi risolvibili "senza grosse competenze matematiche", credo di no Sembra che l'idea stessa di "pensare matematico" sia rifiutata dalle persone che vanno avvicinate alla matematica. Cosa pensate del sistema divulgazione della matematica attraverso le sue applicazioni (ossia quello che stiamo seguendo noi di Maddmaths!)? (N.B.: potete anche rispondere che non vi piace, alla peggio cassiamo la risposta... ;-) )
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R) Cercando di diffondere la matematica attraverso la sua applicazione alla ricreazione, tutto il bene possibile. A parte alcune scontate battute sulla concorrenza... P) Tutto il meglio possibile. Dovrebbe servire a mostrare la natura multiforme della matematica, la sua capacità di descrivere il mondo a prescindere dalla sottosezione del mondo preso in considerazione. E poi, diamine, visto che il maggior numero di applicazioni sono fisiche, si riesce anche a veicolare il fascino della nostra amata fisica. C'è solo un rischio: quello di intendere la matematica esclusivamente come strumento a disposizione delle altre scienze; invece io credo che la matematica abbia diritto all'esistenza anche senza il resto del mondo. Ma è un rischio assai piccolo, ampiamente compensato dai vantaggi che una simile divulgazione può portare. A) Ogni sistema di divulgazione della matematica è buono, far capire che la matematica serva a qualcosa è probabilmente utile. Anche se bisogna saperlo, che quando la si scopre la prima volta non serve proprio a niente. R) Per rifarmi a quello che dicevo alla fine della domanda precedente, credo che fornire a chi non piace la matematica delle soluzioni (trovate da altri) sia decisamente meglio che crear loro dei problemi (che devono risolversi). Per restare nel nostro orticello, credo avvicinino molto di più alla matematica rubriche come i compleanni dei matematici o le spiegazioni (in modo "rude") di concetti, che i problemi proposti. Cosa avete in serbo per il futuro? Qualche nuovo progetto dei Rudi Mathematici? R) Nuovi progetti: solo se ci accettano la domanda per le giornate di 48 ore. P) Il progetto principale è quello di rimanere vivi, nonostante gli impegni. A) Progetti? Ma siete matti? Li scrivete voi tutti gli articoli per RM e LeScienze, raccogliete le soluzioni, rispondete alle mail, impaginate gli articoli? Per il momento, il progetto più grande è di non smettere di fare quello che già facciamo... (ottobre 2010)
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Maurizio Codogno: chiamatemi .mau.
Maurizio Codogno, in arte .mau., è da tempo una piccola “celebrità” nel mondo del web. Laureato in matematica alla Normale di Pisa, e poi in informatica a Torino, wikipediano della prima ora (amministratore di wikipedia e socio fondatore di wikimedia Italia), il suo blog di divulgazione matematica, attualmente su Il Post, è uno dei più apprezzati e seguiti. Com’era .Mau. da ragazzo, quando era solo Maurizio, tredici/diciannovenne? Appassionato, incompreso, di matematica? Avevi qualche particolare, profetica, attitudine? Un segno del destino? Ero altissimo (ma solo dai quindici anni in poi, prima ero piccino), magrissimo e appassionato di matematica, ma quello già da prima di andare a scuola, se lo si vuole proprio vedere come "segno del destino". Detto questo, e aggiunto che pur con tutta la buona volontà ero una schiappa assurda nelle attività sportive, non è che si potesse dire di me "ecco, quello lì da grande farà il matematico". Ti sei descritto come “un tipo che probabilmente sta meglio da solo”. E’ in agguato lo stereotipo del matematico alienato? Ma no, sono un matematico estroverso, almeno secondo la barzelletta: quando parlo con qualcuno, guardo i "suoi" piedi, mica i miei! Diciamo che non ho problemi nelle chiacchierate alla macchinetta del caffè, e ho amici come tutti noi; però ho sempre quell'aria un po' da Zelig che cambia faccia a seconda dell'interlocutore, e che alla lunga diventa pesante. Parlaci del tuo percorso di studi. Hai dichiarato di esserti laureato alla Normale, “meglio di D’Alema”, forse perché “non tiravi molotov”. Ma se non tiravi molotov, che facevi alla Normale? Quanto ha pesato nella tua vita il fatto di essere stato normalista? Su cosa hai fatto la tesi di laurea? Cominciamo dalla parte facile: mi sono laureato con una tesi sui modelli markoviani nascosti per il riconoscimento del parlato, fatta allo Cselt (il vecchio centro studi dell'allora SIP) in maniera assolutamente indipendente dall'università. Peggio ancora, la laurea in informatica (che è stato un prosieguo del lavoro, stavolta con l'aggiunta delle reti neurali) l'ho presa senza aver mai visto la mia relatrice ufficiale, nemmeno alla discussione. In Normale studiavo - almeno per uno come me non poi così brillante l'impegno totale tra lezioni e studio raggiungeva nel primo biennio almeno le dieci ore al giorno durante la settimana - camminavo per scaricare la tensione, uscivo con gli amici non necessariamente normalisti o matematici. La Normale mi è sicuramente servita per imparare un metodo di pormi davanti ai problemi e vedere un pezzo di mondo al di là della mia Torino, ma per il resto è stata una parentesi. 30
Sei laureato in matematica e in informatica. Esiste un confine vero tra le due discipline? E, se esiste, dov'è? E tu, da che parte stai? Ho un'amica, normalista anche lei e ora ordinario universitario, che dice che non sa se io sia un informatico ma sicuramente non sono un matematico. Probabilmente ha ragione, almeno sulla seconda parte: non ho mai fatto davvero matematica. Premesso che l'informatica non è la programmazione esattamente come la matematica non è la ragioneria, l'informatica è stata una rivoluzione nelle scienze. Fino a settant'anni fa, l'unica scienza che usasse davvero la matematica come sua base era la fisica, tanto che tutti i matematici fino all'inizio del '900 erano anche dei fisici. Adesso uno può fare matematica anche partendo dall'informatica, e per uno con il mio "senso fisico" (a Fisica 2 avevo imparato che la mia intuizione fisica era sbagliata il 90% delle volte, il che mi ha chiaramente aiutato a passare l'esame - bastava facessi l'opposto di quanto immaginassi) il tutto è una manna. È anche vero che anche all'università tendevo a risolvere gli esercizi teorici partendo da esempi concreti, quindi se proprio un confine c'è io mi trovo dal lato numerico-informatico. Hai mai pensato di continuare a lavorare nel mondo accademico? Perché si? Perché no? E tornando indietro? Mi terrorizzava l'idea di dover insegnare (in genere: forse gli universitari sarebbero stati più semplici da trattare, ma la logica è la stessa). Non ci sono portato, ci ho perso quindici anni prima di riuscire a scrivere in maniera spero comprensibile. Poi in Normale fino a quando ci stavo io - poi le cose sono cambiate - non avrei avuto nessun santo in paradiso che trattasse i temi su cui forse avrei potuto fare qualcosa, analisi numerica e computer algebra; infine non volevo pesare ancora sulla mia famiglia, e quindi volevo guadagnarmi la pagnotta al più presto. Con l'esperienza di adesso le cose forse sarebbero diverse, ma tornando indietro l'esperienza non ce l'avrei comunque e quindi avrei fatto lo stesso percorso. Ci spieghi come fai a vivere? Che lavoro fai veramente? Non siamo agenti del fisco, ma ci si guadagna veramente il pane facendo blog, programmi e cose del genere? Domanda difficile. Programmi non ne faccio, in Telecom (dove sono nel gruppo di sviluppo di servizi lato rete per i gestori mobili virtuali) faccio più che altro interminabili riunioni, preparo studi di fattibilità e documentazione controllando cosa fa chi in effetti scrive il software. Il tutto serve ovviamente per avere i soldi per potermi divertire col blog; non credo nessuno ci possa guadagnare davvero qualcosa, e detto tra noi non ho nessuna voglia di farlo diventare un lavoro, o peggio un obbligo. Non per nulla il mio blog personale non ha nessun tipo di pubblicità. Ci racconti qual è lo spirito del tuo blog di divulgazione matematica su “Il Post” (http://www.ilpost.it/mauriziocodogno/)? Ti riproponi qualche specifica MISSIONE? Sul mio blog personale ho sempre scritto anche di matematica di quando in quando, pur sapendo che molti dei miei ventun lettori saltavano quei post a piè pari. Il "blog di matematica" sul Post è nato perché mi sarebbe sempre piaciuto vedere una rubrica matematica fissa su un quotidiano italiano, e ho immaginato che il Post fosse la cosa più vicina e che occorreva rimboccarsi le maniche. Così ho scritto a Sofri (quello giovane) chiedendogli uno spazio per questa MISSIONE. Chiaramente ho adeguato lo stile per un pubblico potenzialmente più ampio.
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Quali sono, in base ai riscontri che hai avuto, gli argomenti matematici che sono più apprezzati dai lettori del tuo blog? Ricordi, nello specifico, un post che ha avuto un particolare successo? In genere sono i (rari) post con i problemi che ottengono il successo maggiore, forse perché tutti vogliono cimentarsi nelle risposte. Però il post con il successo maggiore è stato quello su Win4Life e la volta in cui la decina vincente è stata 12-3-4-5-6-7-8-9-10. Sei fra gli amministratori di wikipedia. Molto spesso gli insegnanti 'diffidano' i ragazzi dal consultare wikipedia per le loro ricerche e in generale c'è un po' di scetticismo circa queste forme di 'cultura partecipativa e condivisa'. Qual è la tua opinione in merito? Premesso che le "ricerche fatte copincollando le voci di Wikipedia" sono l'equivalente degli anni '00 delle "ricerche fatte copiando a mano le pagine di un'enciclopedia" di quando ero ragazzo io, e l'unica differenza è che il copia-e-incolla non ti permette nemmeno di imparare qualcosa con la dura fatica di scrivere, il problema è a monte. Né l'enciclopedia né Wikipedia aiutano a farsi una coscienza critica per capire effettivamente se quello che è scritto è corretto; ma la colpa non è certo loro. Poi, Wikipedia è un buon punto di partenza, anche se purtroppo le voci di argomento matematico sono ancora più disuguali in qualità - e di livello troppo diverso tra loro - delle voci generali dell'enciclopedia. Dicci, a tuo parere, cinque errori da evitare quando si fa divulgazione matematica. Poi non usate la lista contro di me, vero? Il primo e più grande errore sicuramente è pensare che la matematica non possa non piacere. Non credo agli evangelizzatori, soprattutto nei fanatici: si limitano a creare una setta di adepti e lasciano fuori tutti gli altri. Il secondo errore è quasi della stessa importanza: dimostrare le cose che si raccontano. Lo so, i Rudi Mat(h)ematici lo fanno sempre, ma loro se lo possono permettere. Se uno fa divulgazione in fisica o biologia o chissà quant'altro, mica fa le dimostrazioni di tutto, no? Si limita a mostrare quante belle cose ci sono. Ecco: il divulgatore matematico deve fare lo stesso. Poi ci sarà quella persona che si incaponirà a dimostrare il tutto e sarà la nostra soddisfazione, ma accontentiamoci di lasciare le altre novantanove pecorelle apprezzare il risultato. Per il resto, più che errori da evitare parlerei di possibilità da sfruttare: bisogna parlare di matematica con un linguaggio che non sia arido, bisogna prestare enorme attenzione al feedback dei lettori, e bisogna stabilire qual è il lettore tipo che si vuol far dilettare, senza cercare di fare tutto per tutti. Noi ci occupiamo di divulgare la matematica partendo dalle applicazioni. TI sembra una buona idea? Una fesseria? Hai commenti da fare? Come ho detto io sono un "matematico pratico", qualunque cosa significhi questo ossimoro, quindi non posso che apprezzare il vostro approccio. Filosoficamente credo che la matematica sia diventata in quest'ultimo secolo la scienza che ha come campo di studio i modelli (anche di sé stessa... le strutture astratte sono modelli di modelli, se uno ci pensa su) e quindi un approccio che parta dalle applicazioni è perfetto. L'unico commento che farei è di ricordare al lettore che il modello cattura sì le parti più importanti di un fenomeno, ma non è la stessa cosa: i due piani sono sempre da distinguere.
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Oggi la situazione delle iscrizioni alle facoltà scientifiche è abbastanza critica. Te la sentiresti di consigliare a un ragazzo di studiare matematica all’università, e se sì, in che modo potresti ‘persuaderlo’? Io non persuado nessuno per principio :) A parte che mi pare che almeno per matematica la situazione sia leggermente migliorata negli ultimi dieci anni, direi al giovane che se gli piace davvero la matematica fa bene a laurearcisi: non imparerà nulla direttamente legato a al futuro lavoro, ma non imparerà nemmeno nulla di sbagliato, il che lo aiuterà molto nella ricerca di un impiego. Però per favore, per favore davvero: nessuno pensi "alla peggio faccio l'insegnante di matematica". È vero che spesso sono laureati in altre materie che prendono l'abilitazione; però gli insegnanti che non amano la matematica sono la maggior ragione per creare odio nella materia. Secondo me quasi tutti quelli che dicono "non capisco la matematica" hanno avuto un insegnante di questo tipo. Scusate lo sfogo, ma quando ci vuole ci vuole. (luglio 2010)
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Il test di Proust Alla fine del XIX secolo, l'adolescente Marcel Proust scopre in un libro in inglese della sua amica Antoinette Faure, figlia del futuro presidente della Repubblica francese Felix Faure, il test passato alla storia come “questionario di Proust�. All'epoca, questo tipo di giochi era molto in voga nelle grandi famiglie francesi: esso consisteva in una serie di domande sui gusti e sulle aspirazioni di chi vi si sottoponeva. Abbiamo modificato le domande del test 'in senso matematico', e ogni mese un letterato e un matematico risponderanno ai quesiti di questo 'test di Proust - math reloaded'.
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José Antonio Carrillo è ricercatore presso l’Institució Catalana de Recerca i Estudis Avançats (ICREA) e alla Universitat Autònoma de Barcelona (UAB). Dal 2003 si occupa di Equazioni alle Derivate Parziali, in particolare degli aspetti analitici e numerici delle equazioni cinetiche e a diffusione non-lineare e delle loro applicazioni, come il trasporto di particelle cariche nei semiconduttori, e il comportamento collettivo di complessi individuali e chemotassi. Ha svolto molte ricerche in collaborazione con matematici italiani.
1. Il tratto principale del mio essere matematico Il pensiero ‘ortogonale’, la curiosità e la costanza. 2. La qualità che desidero in un matematico Amore per la ricerca e l’originalità 3. La qualità che preferisco nella matematica Essere il linguaggio in cui è scritta la scienza 4. Quel che apprezzo di più nei miei colleghi matematici La prospettiva globale e fiduciosa nella matematica, senza pregiudizi o pensieri di parte 5. Il mio principale difetto come matematico Essere molto entusiasta e dedicarmi a molte cose diverse 6. La mia lettura matematica preferita Quando ero studente, fui impressionato dal libro del primo anno del corso di Analisi Matematica dell’Università di Granata, scritto da Aparicio e Payá e più tardi dal libro di Analisi Funzionale di Rudin. Come dottorando, sono stato conquistato dalla serie di manuali di J.L. Lions. Più di recente, i libri di Evans sulle equazioni alle derivate parziali riescono sempre a insegnarmi qualcosa. 7. Il mio sogno come matematico / Il mio incubo come matematico Che i miei dottorandi mi dicano in futuro che gli ho insgenato qualcosa di interessante / Che i miei dottorandi mi dicano che non sono stato capace di trasmettere loro l’amore per la ricerca scientifica 35
8. Qual è la principale debolezza della matematica Ne ha qualcuna? Probabilmente i matematici dovrebbero essere più attenti ai problemi concreti delle altre scienze, alla tecnoloia e alle applicazioni potenziali nella vita reale. 9. Il matematico che avrei voluto essere Eulero. Trovo che la sua eredità nella matematica applicata sia impressionante. 10. Il paese dove vorrei vivere Per un matematico professionista, il mondo intero è un parco giochi... ma le Hawai sono un posto piacevole :-) 11. L’esercizio matematico che preferisco Trovo sempre molto belle le dimostrazioni con epsilon-delta dei limiti, continuità e derivabilità. Mi fanno tornare giovane. 12. Il teorema che amo Nell’insegnamento: formule di rappresentazione per soluzioni di equazioni alle derivate parziali non lineari, le loro dimostrazioni sono così acute… Nella ricerca, l’ultimo teorema che ho prodotto, ovviamente :-) 13. L’applicazione della matematica che preferisco Molte: scienza dei materiali, semiconduttori e molte applicazioni biologiche: chemotassi, motilità cellulare, sciami. 14. I matematici che mi hanno indirizzato Giuseppe Toscani è stata una delle persone che mi ha insegnato di più come postdoc e ricercatore junior, e non solo come matematico. Il suo amore per la ricerca, il suo gusto per i problemi, la sua generosità e il suo modo di concepire il “trasferimento della conoscenza” mi hanno ispirato. A parte lui, mi piace ricordare Chi-Wang Shu, Irene Gamba, Peter Markowich, Jean Dolbeault, Yann Brenier e Benoit Perthame fra gli altri che mi hanno influenzato. 15. I matematici che mi hanno dissuaso Quelli che non agiscono per il bene della comunità ma solo per i propri riconoscimenti che lasciano il tempo che trovano. I matematici che hanno una scarsa empatia. 16. Il nome della variabile che preferisco
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Ro 17. Il tipo di calcolo che preferisco Quello del venerdì pomeriggio che continua a essere esatto anche lunedì mattina 18. Il tipo di calcolo che utilizzo di più Il calcolo differenziale 19. Il tipo di calcolo che mi annoia maggiormente Il calcolo algebrico senza nessuna intuizione alle spalle 20. I nomi che preferisco (teorema, corollario, lemma...) Corollario, perché in generale significa che hai fatto un buon teorema con qualche conseguenza e, più importante ancora, significa che sei arrivato fino a quel punto… 21. Quel che detesto più di tutto Nel mio lavoro, la stupidità della burocrazia e i report delle proposte 22. I matematici che disprezzo di più Quelli che non partecipano allo sviluppo della scienza ma perdono tempo tramando solo per i loro piccoli affarucci personali 23. L’impresa scientifica che ammiro di più L’invenzione dei computer. 24. La riforma culturale che apprezzo di più Hmmmmmm, potrei dire che internet ha permesso una grandissima riforma culturale nel nostro mondo... non so se ammirarla nel suo complesso, ma certamente sta cambiando le nostre vite. 25. Il dono di natura che vorrei avere Essere più alto e più atletico per giocare nei Lakers (una famosa squadra di basket americana, ndr) 26. Da matematico, come vorrei essere ricordato
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Come un buon mentore e/o un matematico originale 27. Stato attuale dei miei studi Appassionato all’ultimo progetto in corso. Come al solito. 28. Gli errori che mi ispirano maggiore indulgenza Per quelli che vengono fuori dal lavoro onesto. Un matematico che lavora duramente, qualche volta commette un errore a differenza di quelli che non lavorano per niente. Come suol dirsi Chi fa falla, e chi non fa sfarfalla 29. Il mio motto “I matematici non conoscono razze o confini geografici: per i matematici, il mondo culturale è un solo paese”, come disse David Hilbert (febbraio 2010)
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Carlangelo Liverani, 53 anni, è professore ordinario di Fisica Matematica, dipartimento di Matematica dell’Università di Roma Tor Vergata. Suoi programmi di ricerca hanno ricevuto i finanziamenti dello European Reasearch Council nel 2008 e nel 2009.
1. Il tratto principale del mio essere matematico: io sono un meccanico della matematica: aggiusto le cose, le faccio funzionare in maniera smooth e mi sporco le mani. 2. La qualità che desidero in un matematico: l'intuizione e l'immaginazione 3. La qualità che preferisco nella matematica: ha aspetti autistici e, allo stesso tempo, provvede un senso di comunita’. 4. Quel che apprezzo di più nei miei colleghi matematici: l'essere non solo matematici 5. Il mio principale difetto come matematico: la lentezza 6.
La mia lettura matematica preferita:
e chi legge piu' 7.
Il mio sogno come matematico:
vedere le cose chiaramente 8. Qual è la principale debolezza della matematica: l'unico significato di “debolezza” che sembra essere pertinente e' “difetto”. Non vedo difetti nella matematica per se, forse a volte nel suo uso.
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9. Il matematico che vorrei essere: ma perché dovrei essere qualcun altro? E’ stato abbastanza difficile adattarmi a quello che sono. 10. Il paese dove vorrei vivere: dove sono le persone che amo 11. L’esercizio matematico che preferisco: non e' che io vada pazzo per gli esercizi 12. Il teorema che amo: mai amato un teorema, preferisco le persone 13. L’applicazione della matematica che preferisco: quella che serve a qualcosa 14. I matematici che mi hanno indirizzato: Advisors e collaboratori 15. I matematici che mi hanno dissuaso: nessuno 16. Il nome della variabile che preferisco: i nomi delle variabili mi rimbalzano 17. Il tipo di calcolo che preferisco: quelli corti 18. Il tipo di calcolo che utilizzo di più: quelli lunghi 19. Il tipo di calcolo che mi annoia maggiormente: combinatorio, algebrico
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20. I nomi che preferisco (teorema, corollario, lemma…): sublemma e footnote 21. Quel che detesto più di tutto: vedere le cose attraverso la nebbia della confusione 22. I matematici che disprezzo di più: intellettualmente disonesti 23. L’impresa scientifica che ammiro di più: la misurazione della posizione delle stelle fisse fatta da Ipparco che ha permesso, 2000 anni dopo, di verificare che non erano tanto fisse. 24. La riforma culturale che apprezzo di più: non saprei dire cosa e' una “riforma culturale” 25. Il dono di natura che vorrei avere: memoria 26. Da matematico, come vorrei essere ricordato: vivo 27. Stato attuale dei miei studi: totalmente insoddisfacente 28. Gli errori che mi ispirano maggiore indulgenza: quelli degli indulgenti 29. Il mio motto: lasciamo perdere
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b. Luoghi comuni, curiosità et alia 1.Perché la matematica dovrebbe descrivere l’universo? Che la matematica descriva l’universo resta da vedersi. Direi che siamo troppo ignoranti per avere una opinione precisa al riguardo. 1b. Lei ha descritto l’universo? E cosa in particolare? No. Ho sviluppato alcuni modelli che sembrano essere una descrizione ragionevolmente accurata di aspetti estremamente limitati del mondo su scale molto vicine a quelle in cui viviamo. 2.Perché la ricerca matematica è uomo? Non ero al corrente che avesse un sesso. 2b. Dove sono finite le donne? Immagino dove hanno potuto, date le condizioni al contorno. 3.La matematica applicata cresce alla stessa velocità dei software matematici? No. 3b. Quale funzione potrebbe modellizzare la crescita del settore della matematica di cui si occupa? Non e’ detto che le cose debbano sempre crescere. A volte si capisce che una direzione non e’ cosi rilevante a la si lascia perdere, eppure era necessario esplorarla. 4. Quanto conta lo studio nella risoluzione di grosse questioni matematiche? Molto, non si puo’ continuare a reinventare la ruota. Tuttavia e’ meglio non esagerare. 5. Quanto conta il formalismo? E’ importante scrivere le cose chiaramente, ma senza perdersi nel formalismo. 6. Matematica e grammatica sono legate? La matematica e’ anche un linguaggio. 6b. Lei parla “matematica” correttamente?
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Quando strettamente necessario.
7. Quanto bisogna essere portati per riuscire in matematica? Per fare cosa bisogna avere meno di trenta anni? Quasi tutti possono correre i cento metri in meno di 14 secondi, se si allenano; correrli in meno di 10 e’ un’altra faccenda. Studiare. 7b. Lei è portato? E da quando? PiÚ della media. Da sempre. (marzo 2010)
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Questo mese, ‘vittima’ del nostro Test di Proust [math reloaded] è Nicola Fusco: definito a più riprese dai giornali l’ “Archimede napoletano”, Fusco è, meno folcloristicamente, professore di Analisi Matematica all’Università Federico II di Napoli. Premio Caccioppoli (1995) dell’Unione Matematica Italiana, di recente è stato eletto Socio dell’Accademia Nazionale dei Lincei ed è stato invitato (unico italiano) al Congresso Internazionale dei matematici che si è tenuto in India ad agosto, per tenere una conferenza generale.
1. Il tratto principale del mio essere matematico Curiosità e passione 2. La qualità che desidero in un matematico Intuito 3. La qualità che preferisco nella matematica La semplicità delle idee fondamentali 4. Quel che apprezzo di più nei miei colleghi matematici Fantasia 5. Il mio principale difetto come matematico Lentezza 6. La mia lettura matematica preferita Quella che mi propongo e non ho il tempo di fare 7. Il mio sogno come matematico Riuscire a dare una risposta alle domande che mi girano per la testa 8. Qual è la principale debolezza della matematica Formalismo e tecnicismo 9. Il matematico che vorrei essere Quello che rimane curioso e vivo per tutta la vita 10. Il paese dove vorrei vivere Australia 11. L’esercizio matematico che preferisco Quello che mi impegna a lungo, ma che poi riesco a risolvere
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12. Il teorema che amo Tutti quelli semplici da intuire e difficili da dimostrare 13. L’applicazione della matematica che preferisco La fisica di Newton 14. I matematici che mi hanno indirizzato Quelli più bravi di me con cui ho avuto l’occasione di collaborare o di discutere di matematica. E fortunatamente ne ho incontrati molti 15. I matematici che mi hanno dissuaso I formalisti 16. Il nome della variabile che preferisco Epsilon e delta sono le preferite 17. Il tipo di calcolo che preferisco Differenziale e integrale 18. Il tipo di calcolo che utilizzo di più Differenziale e integrale 19. Il tipo di calcolo che mi annoia maggiormente Nessuno, mi piacciono i calcoli 20. I nomi che preferisco (teorema, corollario, lemma…) Lemma; di solito è astuto 21. Quel che detesto più di tutto L’ingiustizia 22. I matematici che disprezzo di più I maneggioni 23. L’impresa scientifica che ammiro di più L’esplorazione dell’universo 24. La riforma culturale che apprezzo di più La rivoluzione scientifica del sei-settecento 25. Il dono di natura che vorrei avere Essere dotato per la musica 26. Da matematico, come vorrei essere ricordato Non credo che valga la pena ricordarmi
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27. Stato attuale dei miei studi Andante con brio 28. Gli errori che mi ispirano maggiore indulgenza Quelli fatti in buona fede 29. Il mio motto Resistere, resistere, resistere
Luoghi comuni, curiosità et alia 1. Perché la matematica dovrebbe descrivere l’universo? Perché (forse) l’universo è scritto in linguaggio matematico 1b. Lei ha descritto l’universo? e cosa in particolare? Ogni enunciato matematico descrive una verità universale, anche se infinitesima 2. Perché la ricerca matematica è uomo? Non credo che la ricerca matematica sia uomo. 2b. Dove sono finite le donne? Di solito a fare cose più concrete e più immediatamente utili della matematica 3. La matematica applicata cresce alla stessa velocità dei software matematici? I software matematici sono parte della matematica applicata 3b. Quale funzione potrebbe modellizzare la crescita del settore della matematica di cui si occupa. Una funzione lineare, ma non saprei quantificarne la pendenza. 4. Quanto conta lo studio nella risoluzione di grosse questioni matematiche? Oggi, purtroppo, molto 5. Quanto conta il formalismo? Un poco 6. Matematica e grammatica sono legate? Anche la matematica ha una sua grammatica 6b. Lei parla “matematica” correttamente? Cerco di scriverla correttamente, ma quando parlo di matematica mi esprimo alla buona
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7. Quanto bisogna essere portati per riuscire in matematica? Per fare buona matematica bisogna essere molto portati per fare cosa bisogna avere meno di trenta anni? Di solito per fare cose che richiedono fantasia e immaginazione 7b. Lei è portato? Non saprei se sono veramente portato per la matematica, ma mi piace risolvere problemi di matematica e da quando? da quando a scuola mi sono imbattuto nei libri di giochi matematici di Martin Gardner (ottobre 2010)
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Fantamatematica
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Poincaré: prodigi e arance E’ ora di rivelare al mondo i retroscena della storia della congettura di Poincaré
di Stefano Pisani
Jules Henri Poincaré (Nancy, 29 aprile 1854 – Parigi, 17 luglio 1912) è stato un matematico, un fisico teorico e un filosofo naturale francese. Fu uomo estremamente attivo, genio prodigioso e prolifico in svariati settori della scienza e della filosofia. La sua attività scientifica, veramente prodigiosa, è testimoniata da più di 30 volumi e circa 500 memorie prodigiose, sparse in tutti i periodici scientifici più prodigiosi del mondo. Versatile in modo prodigioso, non perdeva occasione di dare contributi in tutti i campi delle matematiche pure e applicate, portando ovunque concezioni nuove e feconde. La cosa rese il suo nome notissimo fra i matematici, i fisici e gli astronomi dell'epoca, che tentarono più volte di ridurlo definitivamente al silenzio, talvolta per invidia, talvolta per sopraggiunta noia. Poincaré infatti era un enciclopedico senza confini dotato di immensa creatività. Sin da ragazzetto, si segnalò per la scientificità che applicava ai vari campi della vita. Si racconta che, subito dopo la sua nascita, chiese carta, penna e calamaio, ed enunciò un ‘Teorema della nascita’, sulla base di fenomeni a cui aveva personalmente assistito (vagamente assonante a quello, contenuto nelle Figures d'équilibre d'une masse fluide, nel quale sotto certe ipotesi e in maniera prodigiosa si giustifica secondo le leggi della meccanica lo staccarsi d'un satellite dal corpo d'un pianeta). Come matematico e fisico, diede molti contributi originali alla matematica pura, alla matematica applicata, alla fisica matematica e alla meccanica celeste, e poi daccapo. Fece inoltre molte ricerche sul problema dei tre corpi, problema che gli costò non poche noie con alcuni mariti gelosi. Proprio questi ménage à trois, fecero sì che Poincaré scoprisse per primo un sistema caotico deterministico, ponendo in tal modo le basi della moderna Teoria del caos, nata da riflessioni condotte perlopiù negli armadi in cui aveva riparato. A lui si deve la formulazione della ben nota Congettura di Poincaré, uno dei più famosi problemi in matematica, che prima del suo interessamento non aveva nome. La storia della congettura di Poincaré risale ai primi del Novecento, ma affonda le sue radici molto tempo prima.
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Il piccolo Poincaré, infatti, soffriva di una rara patologia denominata “Cecità alla rotondità” , che restò inconfessata fino al letto di morte. I suoi sensi, sovente, non riuscivano a realizzare con tempestività la forma sferica, e aveva dei capogiri se posto di fronte al dilemma di quale frutto scegliere fra mela e banana, che gli sembravano esattamente identici (di fronte alla scelta fra arancia e mandarino, testimonianze dell’epoca parlano di reazioni molto prossime alla crisi di panico. Un disagio che comunque non gli impedì di inaugurare la Fisica della buccia). Ai primi del Novecento, Poincaré visse l’episodio culminante. Mentre passeggiava nel Parco delle Bagattelle di Parigi e stava fondando una Teoria delle foglie secche mulinanti, si trovò a respingere simpaticamente di testa un pallone lanciatogli da un bimbo. Il suo madornale errore fu però di non accorgersi che non si trattava di un pallone, ma di un affilatissimo proiettile affilatissimo (il bambino era invece effettivamente un bambino). Cavatosela fortunatamente con una banale escoriazione, Poincaré fu shockato dall’evento, e si rese conto che la sua piccola, infantile debolezza avrebbe potuto costargli parecchio. Nel 1904, allora, mentre fondava la topologia algebrica e stava studiando un sistema che gli consentisse di distinguere la sfera da tutte le altre varietà tridimensionali, inventò l’omologia. La sua ambizione era alta, quasi prodigiosa: dimostrare che TUTTE le forme senza buchi sono analoghe alla sfera, in tre dimensioni. In questo modo, il suo piccolo difetto sarebbe stato cancellato, perché tutto sarebbe stato riconducibile alla sfera, un’unica forma che avrebbe messo d’accordo il genere umano. L’omologia, purtroppo, non era sufficiente e allora subito dopo inventò il Gruppo Fondamentale, ma nemmeno stavolta la missione andò in porto. Poincaré non si perse d’animo, e decise di risolvere la questione affermando che «ora sono stanco, non mi va di dimostrarlo. Ma la cosa è vera lo stesso, se vi diverte provateci voi. Sono le 21, vado a letto». Era la nascita della Congettura di Poincaré: Ogni 3-varietà semplicemente connessa chiusa (ossia compatta e senza bordi) è omeomorfa a una sfera tridimensionale. Passarono circa 30 anni, e J.H.C. Whitehead azzardò una prima soluzione, ma fallì. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta molti matematici si cimentarono allora nell'impresa ma, pur ottenendo importanti risultati in campi collaterali (topologia, varietà, raccolta delle pigne) non riuscirono a dimostrare o a confutare la congettura. Col tempo la congettura acquistò la fama di essere molto, ma molto, ma molto difficile da dimostrare, pur possedendo una formulazione relativamente semplice. Per questo motivo, nel 2000 il Clay Mathematics Institute decide di includere la congettura di Poincaré tra i Problemi per il millennio (e quindi di offrire un milione di dollari a chi l’avesse dimostrata) con la motivazione: «Tanto chi vuoi che la risolva». Ma in Russia, un professore anziano dell'Istituto Matematico di Steklov di San Pietroburgo che ha sempre ritenuto la congettura di Poincaré «un frutto del troppo bere», individua in uno dei ricercatori dell’Istituto la persona adatta a quel tipo di follie: Grigorij Jakovlevic Perelman, sociopatico, noto ai suoi colleghi per le folte sopracciglia, l’aria da barbone e la tendenza a vivere in eremitaggio fra
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i boschi (ma comunque non al riparo dalle urla della vecchia madre), affronta la congettura. E ne esce vincitore1. Il matematico russo, nel 2006 riceve la medaglia Fields ma la rifiuta perché non vuol «essere uno scienziato da vetrina… e troppi soldi in Russia generano solo violenza». Non pago, si ritira anche dal suo Istituto di ricerca. Il Clay Institute ha annunciato recentemente di volergli assegnare il premio da un milione di dollari. Dopo quattro anni vissuti con la madre in una casa popolare con la sua sola pensione come sostentamento, Perelman ha fatto sapere che forse accetterà il premio. Prodigioso. (aprile 2010)
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dopo la dimostrazione di Perelman, si poté aprire la busta sigillata che Poincaré aveva lasciato alla sua morte in un cassetto, e che fu, per sua stessa volontà, tenuta chiusa fino al momento della dimostrazione della congettura. Al suo interno, un foglio su cui Poincaré scrisse, di suo pugno, «ve l’avevo detto».
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Perelman: il “no man” più famoso del mondo La (quasi) vera storia di Grigorij Perelman, l’uomo che ha dimostrato la congettura di Poincaré nutrendosi di sole rape di Stefano Pisani Grigorij Jakovlevič Perel'man nacque a San Pietroburgo il 13 giugno del 1968. Proprio in quei giorni, in Russia non accadeva un bel niente. Il suo essere schivo lo induce a nascere di notte, lontano dai clamori, tagliarsi da solo il cordone ombelicale e tornare a casa alla chetichella per rinchiudersi nella sua stanza. La nascita della sorella Elena è per Grigorij il primo di una lunga serie di traumi: ancora bambino, le sue innate capacità matematiche lo condannano infatti a rendersi conto che ora i figli in famiglia sono due, gettandolo in una cupa depressione. Una frustrazione che supererà solo facendo ghiotte scorpacciate di cavolo nero e zuppa di rape. Mentre è ancora studente di scuola superiore, nel 1982, vince una medaglia d'oro per il punteggio massimo alle Olimpiadi internazionali di matematica di Budapest. Ma P. la rifiuta pubblicamente con sdegno, creando un profondo sgomento in tutti i 12 spettatori presenti alla cerimonia. Il viaggio di ritorno verso San Pietroburgo, è per P. fonte di importanti riflessioni. Credendo che sia un altro premio per aver vinto il torneo, P. rifiuta infatti di imbarcarsi sul volo per la Russia, e preferisce fare l’autostop fino a casa. Su un camion che trasporta un carico di maiali astigmatici verso Novosibirsk, P. viene in contatto con la “Teoria delle foglie secche mulinanti” di Poincaré (v. Poincaré: prodigi e arance) di cui si parla su una rivista che uno dei maiali sta faticosamente leggendo. Per P. è l’illuminazione. Giunto a San Pietroburgo, comunica con gioia incontenibile alla madre la sua intenzione di approfondire gli studi sul grande scienziato francese e la madre, insegnante di matematica, risponde al suo entusiasmo chiedendogli quando fosse uscito di casa. P. si laurea alla facoltà di Matematica e meccanica dell'Università di San Pietroburgo e inizia a lavorare nel dipartimento di San Pietroburgo dell'Istituto Steklov di Matematica. Fargli accettare la laurea è un bel grattacapo, perché P. si rifiuta categoricamente perfino di prendere parte alla cerimonia di conferimento della pergamena. Gli sarà consegnata durante una festa a sorpresa per il suo compleanno resa ancora più imprevedibile dal fatto che non fosse il suo compleanno. Alla fine degli anni Ottanta e nei primi anni Novanta, P. ha modo di accumulare esperienze internazionali lavorando presso varie università degli Stati Uniti, tra cui il Massachusetts Institute of Technology. Ritornato in Russia nel 1995, o forse nel 1996 (era molto schivo, nessuno riusciva a seguire i suoi spostamenti), da allora lavora senza far parlare di sé all'Istituto Steklov. L’unica cosa per cui lo ricordano i colleghi sono alcuni studi in geometria comparativa e il fatto che addestrasse scarafaggi a rispondere alle e-mail. Intanto, P. continua anche gli studi sulla congettura di Poincaré, diventata ormai per lui un
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chiodo fisso paragonabile solo alla sua passione per il gioco del ping pong e le sonate con il violino (attività che amava condurre in contemporanea): può una forma senza buchi essere topologicamente equivalente alla sfera, in dimensione tre? E, se sì, questo vale anche di domenica? Oppure, come scritto nella memoria originale della prima formulazione Perelmaniana “Può una rapa essere equivalente al cavolo nero?”. Nel novembre 2002, P. pubblica sul sito web arXiv il primo di una serie di saggi con i quali intendeva dimostrare la Congettura di geometrizzazione di Thurston, risultato che comprende come caso particolare la Congettura di Poincaré. La strategia di attacco di P. consiste soprattutto nel modificare il programma di geometrizzazione di Richard Hamilton attraverso il flusso di Ricci e appare a tutti particolarmente promettente rispetto ai programmi più diretti di stampo topologico (in particolare gli approcci diversi di W.P. Thurston, J.W. Cannon e D. Gabai) che quasi nessuno era mai riuscito a capire. Nell'agosto del 2006 i matematici che hanno seguito il suo lavoro stendono una documentazione di sole 1000 pagine in cui si spiega passo per passo la dimostrazione completa della congettura di Poincaré con il metodo di P. La conclusione a cui arrivano gli scienziati è, testualmente, “è giusto, ora per favore ridateci alle nostre famiglie”. Per P. si aprono le porte della fama e della ricchezza: prima Medaglia Fields e poi premio di un milione di dollari offerto dal Clay Institute. Ma P. sorprendendo tutti tranne la madre rifiuta questi riconoscimenti e, anzi, lascia il suo lavoro nell’Istituto di matematica e va a vivere da solo con la madre, ormai vedova e pensionata, in una casa popolare alla periferia della città. Attualmente, Grigorij rifiuta ogni contatto umano, veste come un barbone eremita, risponde alle e-mail in modo sconclusionato (sembra quasi che a scrivere sia uno scarafaggio), ha murato le sue finestre e si rifiuta di parlare con chiunque. Secondo Veronica Klinovitskaya, portavoce del Kprf, che sarebbe il Gtrn del Tgyh russo, non si può “lasciare un milione di dollari in Occidente, dove il denaro potrebbe andare alla ricerca militare, per creare bombe”. Il governo russo quindi ha esercitato pressioni su P. per fargli cambiare idea, ma Grigorij ha sempre resistito, e l’avvelenamento da plutonio non lo ha fatto mai desistere dal proclamare che “il denaro porta solo violenza”. All’inizio di luglio è arrivato il no definitivo di P., che ha rifiutato con una telefonata proprio mentre una spia russa del KGB camuffata da barbone stava ritirando il milione di dollari al posto suo. Secondo la sua vicina Vera Petrovna, attualmente P. vive in condizioni incredibili. “Una volta sono stata nel suo appartamento, rimanendo shockata. C’è solo un tavolo, una sedia e un letto con un materasso sporco, lasciato dai precedenti proprietari alcolizzati, che gli hanno venduto l’appartamento . Stiamo cercando nel palazzo di sbarazzarci degli scarafaggi, ma non è possibile, perché sono nascosti tutti nel suo appartamento. La cosa peggiore è che non c’era nemmeno un dollaro!”. Qualcuno riferisce di aver visto spesso P. prendere la metropolitana. Vestito da barbone, con giacche sbrindellate, jeans sporchi, scarpe da basket sformate e barba alla Rasputin, P. cambia spesso vagone, fa su e giù per tutta la rete di Mosca: dipinta sul volto, l’inconfondibile beatitudine di un uomo che ha scoperto come sfuggire ai giornalisti (e alla madre). (luglio 2010)
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Fields: non solo una medaglia Anche le medaglie hanno un'anima. Persino una medaglia matematica.
di Stefano Pisani La medaglia Fields è la massima onorificenza conferita a matematici di età inferiore ai quarant’anni che sembrino più giovani dell’Archimede che è raffigurato sul Premio. Dopo la medaglia Fields sono stati istituiti il Premio Abel, il Premio Gödel, il Premio Nevanlinna, il Premio Shock, il Premio Steele, il Premio Turino, il Premio Wolf… ma, niente. La medaglia Fields è rimasta la massima onorificenza. Viene assegnata a due, tre o quattro matematici – a seconda di quante riescono a coniarne durante il quadriennale International Congress of Mathematicians dall'International Mathematical Union. Secondo Wikipedia, il premio è stato “istituito nel 1936 su iniziativa del matematico canadese John Charles Fields”. Un’impresa davvero memorabile, considerato che Fields aveva trovato la morte quattro anni prima (sempre secondo Wikipedia). Non dev’essere stato facile sbrigare tutte quelle pratiche, spicciare tutti quei documenti quando non hai nemmeno un corpo. Tende a caderti continuamente tutto di mano. Fields , d’altronde, è ricordato come un sublime matematico. Sempre dalla fantastica Wikipedia, infatti, leggiamo che “nel 1906 pubblicò un testo in cui il Teorema di RiemannRoch, il Teorema di Weierstrass Gap, il teorema di Hurwitz e i teoremi di Brill e Max Noether.” Non mi sono sbagliato, la frase finisce proprio così. Il che ci fa chiaramente comprendere che Fields prese quei teoremi, li pubblicò in un testo e poi si accorse che non c’era il suo nome in nessuno di quelli: «Mmm… eppure… erano così tanti teoremi che la probabilità che ci fosse il mio nome era altissima. Bah!». Purtroppo ormai era tardi per correre ai ripari e il tipografo era allergico alle gomme da cancellare – da qui, la nota puntuale di Wikipedia. Ma sono proprio queste leggendarie origini che spiegano la caratteristica più celebre della medaglia: probabilmente il fantasma, accortosi di quanto fosse fugace la vita e di come l’avesse sostanzialmente sprecata, con la creazione della Medaglia che poi portò il suo nome intese rovinare la giovinezza agli studenti migliori, spingendoli a passare ore e ore sui libri per guadagnarsi quel prezioso riconoscimento, salvo poi accorgersi che ormai non possedevano più alcun elemento di attrazione fisica nei confronti delle donne canadesi (sì, solo canadesi). La medaglia Fields, infatti, è anche sadicamente capace di fungere da specchio e i matematici che la vincono solo in quel momento si accorgono di quanto si sono sciupati. Nel 1994 venne assegnato a Andrew Wiles un premio speciale per aver dimostrato l'ultimo 55
teorema di Fermat. Non gli venne assegnata la medaglia vera e propria perché al momento della dimostrazione aveva già compiuto 40 anni. D’altronde, Wiles aveva già fornito una prima dimostrazione a 39 anni, ispirandosi alla “Teoria delle foglie secche mulinanti” di Poincaré (v. Poincaré: prodigi e arance). Cosa importa che fosse completamente sbagliata. La medaglia Fields riceve anche una nomination all’oscar (Miglior Medaglia Non Protagonista) per il film Will Hunting, del 1997. Nel film, la medaglia interpreta il ruolo di sé stessa conferita a a Gerald Lambeau, un matematico combinatorio che, nella finzione, si è appunto aggiudicato la Medaglia Fields una decina di anni prima. Lambeau non riesce però a raggiungere la creatività del giovane e rissoso genio Will Hunting e la medaglia cercherà, in una girandola di colpi di scena e corse mozzafiato, di scappare dalla teca di Lambeau in cui è prigioniera e finire nelle più degne tasche di Will (non vi sveliamo il finale, vi diciamo solo che il ragazzo, nei contenuti speciali del DVD, sarà arrestato per furto di medaglia - sebbene si dichiarasse, coi pugni, totalmente estraneo al fatto). L’Italia vince una sola volta la medaglia Fields, con Enrico Bombieri, nel 1974. Bombieri aveva 17 anni quando ha pubblicato il primo articolo scientifico, 34 anni quando ha vinto la Medaglia Fields e 57 quando fece lo scherzo migliore della sua vita. Il 1° aprile nel 1997 (a 57 anni), Bombieri mandò infatti per scherzo un’e-mail a tutti i matematici del mondo comunicando che un giovane fisico aveva dimostrato l’ipotesi di Riemann (uno dei sette problemi del millennio). La Medaglia Fields impedì che fosse lapidato dai colleghi. In quella occasione, la medaglia rise tantissimo e gli diede il cinque. Nel 2006, G. Perelman si aggiudica la Medaglia Fields, ma la rifiuta. La medaglia cade allora in un profondo stato di depressione e, come spesso capita, finisce in una clinica per disintossicarsi dai barbiturici verso i quali aveva sviluppato dipendenza. «Non si lucida più… tiene il nastro tutto stropicciato… la barba di Archimede è così… così incolta» riferiscono un Premio Viareggio 2006 e una Coppa Volpi 1989, due dei suoi più intimi amici. Nemmeno la psicoterapia sembra produrre effetti, ma il suo analista - mentre la medaglia sdraiata su un panno di velluto rosso, gli parla della sua giovinezza, di quando era solo un metallo che attendeva di essere forgiato e si godeva la sua fonderia piena di gioia e sogni - ha una intuizione geniale: la Medaglia Fields soffre in realtà di saudade. Come nel suo fondatore Fields, la nostalgia del Canada si è fatta a un certo punto asfissiante. E cosa c’è di più simile al Canada, della Francia? Due Medaglie Fields su quattro si dirigono allora dritte dritte in Francia, passando per l’ultimo congresso Internazionale di Matematici che si è tenuto in India lo scorso agosto. Tutto è bene quel che finisce bene. (ottobre 2010)
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Focus
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Matematica e astronomia Maya: 2012… and beyond di Giulio Magli* I Maya furono una delle grandi civiltà precolombiane. Il periodo della loro maggior fioritura artistica, politica ed economica e’ quello detto “classico” - tra il terzo e il nono secolo d.C. - con lo sviluppo delle grandi città-stato situate negli odierni Messico sud-occidentale, Guatemala e Honduras. Il periodo classico finisce repentinamente tra l'ottavo e il nono secolo d.C.: il tracollo, a tutt’oggi non spiegato in modo soddisfacente, avviene comunque in modo drammatico, tanto che in ogni singola città si è potuta rintracciare l'ultima data che venne registrata sulle iscrizioni prima che la popolazione si disperdesse nelle campagne. Al momento della conquista spagnola nel sedicesimo secolo, la civiltà dei Maya era dunque già svanita, come dissolta, da moltissimi anni; i Maya non erano certo scomparsi, ma vivevano in piccoli villaggi, come del resto accade ancora oggi. Le città stato maya furono una realtà politicamente molto complessa. Erano infatti autonome ma legate da articolate alleanze e odi reciproci, che le portavano ad essere spesso in guerra tra loro. Questa realtà comincia solo da alcuni decenni ad essere lentamente districata grazie alla decifrazione della scrittura, resa possibile inizialmente da una geniale intuizione di Tatiana Prouskianoff . Si deve infatti considerare che fino agli anni cinquanta vigeva uno scellerato dogma archeologico che vedeva nei Maya una specie di "popolo di figli dei fiori". Malgrado basti dare un'occhiata all'arte maya – piena di scene cruente - per convincersi di quanto sia assurda questa convinzione, si credeva veramente che i Maya fossero un tranquillo e pacifico popolo di mansueti agricoltori. Il dogma veniva ovviamente applicato anche alle iscrizioni, tanto che si pensava che “il tema fondamentale della civiltà Maya era il passaggio del tempo” come diceva, ancora nel 1954, l’autorevole studioso J. Eric Thompson. Di fatto invece i glifi, cioè i disegni, presenti nelle stele e disposti fra una data e l'altra sono registrazioni di eventi reali. Questa scoperta ha permesso di aprire gli archivi della storiografia maya, che erano rimasti muti, anche se sotto gli occhi di tutti, a segnare il passaggio del nostro tempo e della nostra scellerata miopia, fin dalla riscoperta di questa meravigliosa civiltà. Il mondo e la vita dei maya erano inestricabilmente legati sia alla natura – erano infatti agricoltori formidabili, dotati di raffinate tecniche di terrazzamento e irrigazione - che alla sua “controparte” sovrannaturale, rappresentata da un insieme di divinità estremamente complesso. Il cosmo maya era infatti strutturato su tre “livelli”, o “mondi”, uno sotterraneo, *
Professore Ordinario di Meccanica Razionale al Politecnico di Milano
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uno terrestre ed uno “celeste”. Spesso si afferma di conseguenza che i Maya consideravano la terra – cioè il “livello dell'uomo” come una superficie piatta. Per quanto mi riguarda, ho forti dubbi che un astronomo maya potesse credere ad una simile sciocchezza; di fatto, dubito fortemente che qualunque astronomo degno di questo nome nel passato abbia potuto non accorgersi della “rotondità” della terra studiando le eclissi di luna, e della sfericità della terra stessa studiando lo svolgersi di fenomeni all'orizzonte. Il mondo sotterraneo maya, lo Xibalbá, era diviso in nove livelli, ognuno abitato da divinità associate alla morte, mentre il mondo “celeste” era popolato da divinità associate ai fenomeni naturali, in particolare Chac, Dio della Pioggia, fortemente collegato a Venere. Il ciclo di questo pianeta – e più in generale i cicli celesti - avevano dunque grande importanza. La registrazione dei movimenti degli astri avveniva tramite un sistema numerico in base venti che utilizzava tre simboli, una conchiglia per lo zero, un punto per l'unità e una sbarra per le cinque unità. I numeri venivano scritti in verticale e, esattamente come nel nostro sistema, i multipli della base erano individuati dalle posizioni (spesso si dice, di conseguenza, che i numerali Maya erano più comodi dei numerali romani - privi dello zero - ancora in uso in Europa alla stessa epoca dei Maya, tuttavia la “comodità” è soprattutto questione di abitudine). Le osservazioni astronomiche venivano registrate su quaderni di fogli di corteccia, oggi detti codici. Purtroppo, la maggior parte dei codici maya fu distrutta dopo la conquista. Si salvarono quattro volumi (e forse altri che devono ancora essere ritrovati). Sono i codici di Dresda, Parigi, Madrid (dai nomi delle biblioteche dove sono conservati) e il codice Grollier. È impresa ardua spiegare che cosa realmente è un codice maya. Forse la definizione migliore è "manuale": vi si trovano infatti registrazioni astronomiche associate a pagine di descrizioni di rituali e "predizioni" da trarre dagli eventi celesti. Il più studiato e compreso dei codici è senza dubbio il Codice di Dresda. Lungo 3.5 metri e diviso in 39 fogli di 8.5 x 20.5 centimetri, il suo contenuto riguarda la previsione delle eclissi e i cicli di Venere, Marte e Mercurio. La precisione degli astronomi che compilarono il Codice e’ accuratissima: contiene ad esempio osservazioni delle fasi lunari nell'arco di 11960 giorni, cioè circa 32 anni. Vennero osservate 405 lune nuove, il che significa che il Codice di Dresda contiene la seguente stima del ciclo delle fasi: 11960/405 = 29.53086 giorni, una stima ottima, migliore tra l'altro di quella data da Tolomeo. Poiché lo studio degli eventi celesti era legato alle loro presunte influenze sulla vita umana, cioè a ciò che oggi chiameremmo “Astrologia”, gli scienziati Maya sono spesso etichettati con la dicitura "astrologi e non astronomi". Si tratta tuttavia di uno schema privo di senso perché, a differenza della insulsa “astrologia” di oggi, quella Maya era fondata su una osservazione puntuale e meticolosa del cielo. Basata sull’incastro armonico di cicli differenti e molto complessi era, ad esempio, la struttura stessa del calendario Maya. I Maya avevano infatti tre “computi” del tempo: uno di 260 giorni, lo Tzolkin, uno “civile” di 365 giorni, chiamato Haab, e infine un calendario di lungo periodo dato dal minimo comune multiplo tra gli "anni" degli altri due calendari. Il minimo comune multiplo fra 260 e 365 è 18980 giorni; tale periodo costituiva per i Maya un "grande anno", in un certo senso un terzo calendario in cui "un anno" durava circa 52 anni solari.
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Lo Tzolkin assegnava ad ogni giorno un numero da 1 a 13 ed un nome tra venti possibili (13 x 20 =260). Non e’ sicuro il motivo per cui fu scelto proprio un periodo di 260 giorni; tuttavia, e' molto probabile che esso abbia una origine astronomica, e corrisponda al tempo che intercorre tra i due passaggi del sole allo zenit alla latitudine della grande città maya di Copan, nell’Honduras. Il passaggio allo zenit e’ un fenomeno piuttosto impressionante – il sole di mezzogiorno passa infatti esattamente sulla verticale dell’osservatore - che noi non possiamo sperimentare dall'Europa, perché avviene solo nella fascia dei tropici. In tale fascia esso avviene due volte all'anno, in due date simmetriche rispetto al solstizio d'estate (le date ovviamente dipendono dalla latitudine). La prova che il ciclo del sole fosse seguito dai Maya con la stessa attenzione di quello della Luna e di Venere ci viene dalla Archeoastronomia, cioè la disciplina scientifica che studia il modo in cui le conoscenze astronomiche furono incorporate nei progetti dei grandi monumenti dell'antichità'. Ad esempio, a Copan precisi allineamenti tra stele monumentali in pietra segnano il sorgere e il tramontare del sole in giorni significativi; tuttavia, l’esempio più spettacolare si trova a Chicen Itzá, nello Yucatan. Nel centro monumentale di questa città si trova una grande piramide a gradoni dedicata al Serpente Piumato, una divinità di origine centro-americana, la cui testa in pietra spicca alla base delle scalinate. Il monumento funziona da enorme calendario di pietra, segnalando i passaggi del sole allo zenit e gli equinozi. Per legare il progetto ai passaggi allo zenit, una diagonale del quadrato di base fu orientata a nord dell’est verso il punto di levata del Sole in tali giorni. Di conseguenza, le due facce della piramide rimangono completamente in ombra finché il Sole non passa per la verticale dell’edificio. Il modo scelto per segnalare gli equinozi e’, se possibile, ancora più spettacolare. Se si osserva il profilo degli spigoli della piramide ci si rende infatti conto che è lievemente smussato, sinuoso. Il motivo per cui fu realizzato in questo modo è che, di conseguenza, anche la sua ombra è sinuosa. Abitualmente questa ombra si “perde” nel fianco della piramide. Tuttavia le dimensioni della scalinata e quelle della sagomatura degli spigoli furono accuratamente progettate in modo tale che, circa mezz’ora prima del tramonto nei giorni di sole a cavallo degli equinozi, l’ombra si proiettasse a metà del basamento della scalinata. Il risultato è una spettacolare ierofania cioè una manifestazione del sacro che avviene tramite un legame tra l'architettura e i cicli celesti: l’ombra infatti “disegna” il corpo di un gigantesco serpente, che si connette idealmente con la testa in pietra posta alla base della scalinata. La struttura del calendario solare Maya, lo Haab, era di 18 mesi di 20 giorni ciascuno, più 5 giorni considerati "infausti", per un totale di 365 giorni. Le date venivano espresse con gruppi di cinque numeri così composti: kin (giorno) unial (20 giorni) tun (18 unial = 360 giorni) katun (20 tun = 7200 giorni) baktun (20 katun = 144000 giorni) proprio come le nostre date sono espresse da tre numeri, giorno, mese, anno. La nostra convenzione non è, chiaramente, ne più bella né più brutta di quella Maya. Esiste però una fondamentale differenza, sulla quale è importante insistere per evitare le infinite sciocchezze che si continuano a sentir dire sul tempo dei Maya. Per noi, i giorni vanno da 1 a 31, i mesi da 1 a 12, mentre gli anni crescono indefinitamente. Per i Maya, i kin, i tun e i katun andavano da 0 a 19, gli unial andavano da 0 a 17 e i baktun da 1 a 13. Dunque, il calendario Maya aveva un numero finito di date possibili. Pertanto la misura del tempo 60
aveva natura ricorsiva (preferisco “ricorsivo” a “ciclico”, perché ovviamente è la data che si ripeteva). Ogni periodo terminava a 13.0.0.0.0 che corrisponde a (circa) 5125 anni solari. Per sapere a quale data corrisponde la data iniziale e' necessario ancorare la cronologia maya con la nostra, cioè identificare almeno un giorno con il corrispondente gregoriano. Si tratta di fatto di una operazione fondamentale per tutta la storiografia maya; solo così, infatti, è possibile tradurre la cronologia degli eventi storici riportati nelle iscrizioni nel nostro sistema di datazione, e sapere quindi quando si sono verificati. Non entrerò nei dettagli di questo complesso problema la cui soluzione si basa sulle fonti e sull'individuazione di eventi astronomici databili con sicurezza e registrati dai Maya, quali le eclissi . È comunque estremamente probabile che la data di partenza del periodo che i Maya stavano vivendo sia il nostro 13 agosto 3114 a.C. e quella conclusiva quindi cada il 21 dicembre 2012. Il 13 di Agosto e' una delle due date in cui il Sole passa allo zenit sul parallelo di Copan, un fortissimo indizio dunque della validità di questa cronologia. La ricorsività del calendario ha dato purtroppo adito alle più balzane teorie, in particolare quella che i Maya abbiano previsto la fine del mondo, o comunque gravi cataclismi naturali, per il Dicembre 2012. In realtà vaghi accenni di questo tipo compaiono solo nei Libri di Chilam Balam, manoscritti vergati nel 17-18 secolo, dunque molto dopo la conquista, in lingua maya-yucateco ma in caratteri latini, che contengono intricati grovigli di testi magici, storici e religiosi nei quali tradizioni e influenze occidentali sono praticamente inestricabili. La confusione e’ aumentata dal fatto che i “catastrofisti” spesso confondono i Maya con le popolazioni successive; ad esempio, quando si parla di 2012 e’ facile incontrare l’immagine della così detta “pietra del sole”; una scultura a forma di disco con incisioni calendariali che presenta immagini abbastanza minacciose (comunque di difficile interpretazione) riferite alla fine di cicli astronomici. Tuttavia, questo monolite e’ stato scolpito dagli Aztechi, quasi 600 anni dopo la fine della civiltà Maya. È di fatto probabile che la fine del ciclo dei Baktun non sarebbe stata vissuta dai Maya in modo molto diverso da come noi abbiamo vissuto il capodanno del 2000. Naturalmente, il problema di capire perché il loro calendario era ricorsivo rimane; tuttavia, è anche vero che gli astronomi Maya avrebbero dovuto porsi il problema, nel caso avessero potuto studiare la nostra civiltà, di capire perché il nostro calendario non lo e'. (febbraio 2010)
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Storia di una congettura di Carlo Sinestrari* Lo scorso 18 marzo 2010 si è compiuto un importante atto di una storia che negli ultimi anni ha appassionato la comunità matematica. L'istituto Clay di Boston ha deciso di attribuire al matematico russo Grigory Perelman il premio di un milione di dollari per la dimostrazione della congettura di Poincaré, un fondamentale problema di topologia proposto nel 1904 e rimasto aperto da allora. La congettura di Poincaré dice che "ogni varietà tridimensionale compatta e semplicemente connessa è omeomorfa a una sfera tridimensionale". Per comprendere esattamente l'enunciato servono alcune conoscenze specialistiche. Intuitivamente, possiamo dire che questa riguarda un tipo di problemi che si presenta spesso in matematica quando si vogliono descrivere le possibili forme di un oggetto geometrico. In questo ambito, si cerca di classificare tutti i possibili oggetti che hanno determinate proprietà, dimostrando che devono necessariamente essere di un certo tipo noto. Nel caso in questione, si vogliono trovare proprietà di uno spazio tridimensionale sufficienti ad assicurare che lo spazio abbia la stessa forma di una sfera tridimensionale (cioè l'analogo della sfera consueta, ma in uno spazio di dimensione quattro). La congettura di Poincaré dice che è sufficiente richiedere che lo spazio sia semplicemente connesso, cioè che ogni curva chiusa contenuta nello spazio possa essere deformata gradualmente fino a diventare un punto. Negli anni '80 W. Thurston formulò una congettura più ampia, detta "di geometrizzazione", che include quella di Poincaré. Egli descrisse otto tipi fondamentali di oggetti geometrici, e ipotizzò che ogni spazio tridimensionale si potesse ottenere come unione di componenti di questo tipo. Thurston dimostrò questo risultato per ampie classi di spazi, ma alcuniimportanti casi rimanevano aperti. In particolare la congettura di Poincaré, nonostante decenni di sforzi da parte di diversi matematici, continuava ad essere insoluta. All'inizio degli anni ‘90, R. Hamilton suggerì una strategia di dimostrazione di queste congetture completamente diversa da quelle tentate fino ad allora. Nel suo approccio, si considera una varietà tridimensionale e si fa evolvere la sua metrica secondo un’equazione differenziale detta flusso di Ricci. Hamilton congetturò che mediante questa evoluzione la metrica si avvicinasse sempre di più a un limite, che corrispondeva a uno dei modelli descritti da Thurston. Una complicazione del procedimento stava nel fatto che l’evoluzione può incontrare delle singolarità, e va dimostrato che queste possono essere rimosse senza alterare la struttura della varietà. Hamilton dimostrò importanti *
Professore Ordinario di Analisi Matematica all’Università di Roma “Tor Vergata”.
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risultati in questa direzione, ma si arrestò di fronte a delle difficoltà che non era in grado di risolvere. Del tutto inaspettatamente, tra il 2002 e il 2003, Perelman pubblicò sul web tre articoli in cui dimostrava la congettura di Thurston(quindi in particolare quella di Poincaré) secondo l’approccio di Hamilton. Perelman era già noto per alcuni importanti risultati di geometria riemanniana, ma non aveva lavorato prima di allora sul flusso di Ricci. I tre articoli contengono alcune cruciali innovazioni nel procedimento: tra queste l’introduzione di una quantità geometrica, chiamata entropia, che nel corso dell’evoluzione è crescente. Questo consentì a Perelman di escludere la formazione di certi tipi di singolarità, perché questi implicherebbero una diminuzione dell’entropia. Nello studio delle singolarità vengono anche utilizzati risultati sulla geometria degli spazi a curvatura positiva e su un tipo di oggetti geometrici non regolari, detti spazi di Alexandrov. Il procedimento di Perelman è una geniale combinazione di tecniche analitiche e geometriche, e mostra un'abilità nello studio del flusso di Ricci che supera quella degli esperti del settore fino a quel momento. I lavori di Perelman sono scritti in forma molto concisa e sono di difficile lettura anche per gli specialisti. Dopo uno studio di alcuni anni da parte di vari gruppi di matematici, si è arrivati alla conclusione che la dimostrazione di Perelman è completa e corretta, e ne sono state scritte versioni più dettagliate. Nel frattempo, il comportamento di Perelman è stato insolitamente riservato e teso ad evitare la popolarità che i suoi risultati gli hanno conferito. Non ha voluto pubblicare su rivista i suoi lavori messi sul web. Dopo aver tenuto nel 2003 alcune conferenze in Europa e negli Stati Uniti, è tornato in Russia isolandosi completamente dalla comunità matematica. Nel 2006 ha suscitato grande clamore il suo rifiuto della medaglia Fields. Non ci sono ancora notizie ufficiali sulla sua reazione alla recente assegnazione del premio dell’istituto Clay, ma sembra probabile un ulteriore rifiuto. Gli istitutori del premio di un milione di dollari probabilmente non immaginavano un esito così peculiare della loro iniziativa. (luglio 2010)
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P assomiglia a NP? di Giovanni Felici* Come non rimpiangere i bei tempi in cui durante il torrido agosto si andava in ferie e si prendeva il sole ? La globalizzazione scientifica ha invece tenuto occupati i giorni (e le notti, certamente) agostani per molti preziosi cervelli di tutto il mondo. L’argomento? un’altra “dimostrazione” (le virgolette sono d’obbligo) della famosa congettura di Cook P=NP (1971), di cui già si disse in queste pagine pochi mesi fa. Il problema è molto semplice: esistono problemi per i quali è facile stabilire se una certa risposta è quella giusta, ma per i quali però è molto difficile trovare questa risposta? Se si, P è diverso da NP, altrimenti è uguale. Facile e difficile, in questo caso, si riferiscono alla velocità con cui il tempo necessario alla soluzione di questi problemi cresce al crescere della dimensione dei dati che li descrivono. Dall’ultima volta che ne abbiamo parlato, nessuno si è ancora aggiudicato il premio di 1 milione di dollari messo in palio dal Clay Mathematical Institute. Ci ha provato, il 9 agosto scorso, Vinoy Deolalikar, Principal Research Scientist degli HP Labs, che ha reso pubblica una dimostrazione di circa 100 pagine dove si dimostrerebbe che P è diverso da NP. Il Dottor Deolalikar è un fine logico matematico, con ottime competenze in statistica e algoritmi randomizzati, e la sua dimostrazione impiega diversi strumenti, fra cui le strutture dei problemi random k-SAT e risultati della Finite Model Theory. Insomma, un prodotto scientifico di altissimo livello. Dopo la sua uscita pubblica si è alzato però sul web un fuoco incrociato decisamente poco paragonabile alle procedure di referaggio usate solitamente dalle riviste scientifiche blasonate: comunicazioni rapide, scambi di email con l’autore del lavoro per suggerire correzioni o aggiustamenti in alcuni punti critici della dimostrazione… e, a voler giudicare da alcuni illustri pareri, ci sono un paio di passaggi che proprio non vanno: sembra infatti che il P cui Vinoy si riferisce nella dimostrazione sia ad esempio un po’ diverso da come dovrebbe essere per la completa dimostrazione del teorema, e che, inoltre, egli assuma che i problemi facili hanno spazi delle soluzioni facili, assunzione con cui molti non sono d’accordo (ma gli aggiornamenti in tempo reale sulla questione li trovate nel blog di Dick Lipton). Del resto, volendo usare anche noi un approccio statistico (lo stesso che usa Deolalikar in alcuni passaggi della sua dimostrazione) possiamo andare a guardare il sito The_P_versus-NP_page per scoprire che, dal 1996 ad oggi, sono stati proposti 30 lavori scientifici che dimostrano che P = NP, e 24 che dimostrano, ovviamente, il contrario. Nessuna di queste dimostrazioni è stata accettata come valida dalla comunità scientifica dopo più o meno ponderosi peer reviews. Auguriamo quindi a Vinoy di avere colto nel segno – finalmente – e di incassare il lauto premio, sempre che non debba dividerlo con tutti quelli che gli hanno inviato suggerimenti e correzioni sul web (nel qual caso, gli basterebbero appena per una pizza). Al momento, la strada per la fama eterna per il geniale scienziato aziendale appare abbastanza ripida... tenendo infine presente che
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Ricercatore presso l’ Istituto di Analisi dei Sistemi ed Informatica (IASI) del Consiglio Nazionale delle Ricerche
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l’eventuale dimostrazione di P diverso da NP avrebbe quasi un sapore di restaurazione rispetto al più rivoluzionario effetto che avrebbe la dimostrazione della identità dei due insiemi. Nel primo caso, infatti, gli scienziati potranno continuare a cercare le soluzioni ai problemi difficili accontentandosi di trovare qualcosa che funziona abbastanza bene. Ma non è così che gira il mondo? (ottobre 2010)
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Novità sulla congettura "P=NP"? Non molte di Giovanni Felici L'articolo di copertina della rivista ACM di settembre ha registrato un notevole successo – tanto da meritarsi l’attenzione del New York Times dello scorso 7 ottobre. Ma c’è poco da stupirsi, quando viene dibattuta l’identità tra le classi di problemi denominate “P” e “NP”, un argomento alla cui soluzione sono interessati in molti. Il blasonato quotidiano già nel 1988 raccontava ai suoi lettori dei nuovi strumenti di calcolo sviluppati alla AT&T per la soluzione del classico problema del commesso viaggiatore, riprendendo l’argomento nel 1991 in una estesa survey sugli avanzamenti della scienza sull’argomento. La congettura in questione –“P è uguale a NP ?”– sintetizza un problema fondamentale della informatica e della teoria della complessità. Ma quali problemi compongono le classi NP e P? Alla prima appartengono quei problemi per i quali si può verificare in un tempo “ragionevole” la correttezza di una soluzione data. La seconda contiene i problemi della prima classe per i quali è anche possibile trovare una soluzione corretta in un tempo “ragionevole”. Nessuno finora ha saputo dimostrare se le due classi coincidano o meno: se esistono, cioè, problemi facili da verificare ma difficili da risolvere. Si hanno molti esempi di problemi che sembrerebbero avere queste caratteristiche, come quello citato del commesso viaggiatore, ma il fatto che per questi non si siano trovati metodi rapidi di soluzione non dimostra che tali metodi non esistano. Problemi di questo tipo sono frequenti in molti altri settori di forte interesse economico e sociale – fra cui logistica, distribuzione, crittografia. La dimostrazione della congettura avrebbe conseguenze sensazionali per la scienza, ma anche ricadute immediate nel mondo della tecnologia e della produzione, rendendo possibile sapere se una soluzione di un certo problema è veramente la migliore tra tutte le possibili o se ha senso spendere tempo a cercarne un’altra.Un bel dilemma, visto che dal 1971 nessuno è riuscito ancora a dare una risposta. A chi ancora dubitasse delle motivazione dei ricercatori a risolvere questo innocente rompicapo, ricordiamo che questo è annoverato tra i “Problemi del Millennio” (tra cui, fino al 1995, ha goduto della compagnia del forse più letterario ultimo teorema di Fermat) e che sono in palio ben un milione di dollari per il suo risolutore. Lance Fortnow, autore dell’articolo, ci conferma però che non si vede ancora luce in fondo al tunnel, ed indica altri non ancora utilizzati strumenti della matematica (ad esempio, la geometria algebrica) come candidati a fornire la soluzione della congettura. Ma come sanno i veri viaggiatori, più della meta conta il viaggio stesso: il percorso della ricerca verso la dimostrazione della congettura ha infatti consentito di scoprire nuovi metodi di calcolo e algoritmi sempre più efficaci per aggirare la difficoltà dei problemi in NP. A volte, usando le parole del più recente e geniale personaggio di Woody Allen, anche perseguendo il “basta che funzioni”. (novembre 2010)
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L'Angolo arguto
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Alla ricerca del teorema nascosto….in Futurama! di Alice Sepe e Cristiana Di Russo Warning Spoiler: Si avvisano i lettori che il contenuto del seguente articolo contiene anticipazioni relative al decimo episodio della nuova serie di Futurama. Le autrici declinano quindi ogni responsabilità dal mancato effetto sorpresa, che potrebbe verificarsi in seguito alla lettura di questo articolo durante la visione della suddetta puntata. Dopo le dovute premesse…siete sicuri di volerci leggere? Sembrerebbe proprio di si, quindi iniziamo! Per chi non lo sapesse Futurama è una serie tv di fantascienza a cartoni animati ideata da Matt Groening, lo stesso creatore dei forse più noti Simpsons, ed ambientata nel 3000 a New “New” York. Il protagonista della serie è Philip J. Fry, fattorino di una pizzeria che il 31 dicembre del 1999 finisce accidentalmente in una capsula per il sonno criogenico e si risveglia mille anni dopo, iniziando a lavorare come fattorino spaziale per la ditta di spedizioni di un suo discendente, il vecchissimo Professor Farnsworth. Molti episodi della serie sono legati alla scienza grazie alle diverse invenzioni, quasi sempre improbabili, proprio del Professor Farnsworth. Ma nel decimo episodio della sesta serie, attualmente in onda negli Stati Uniti, gli sceneggiatori si sono spinti oltre scegliendo come protagonista “nascosta” della puntata la matematica. Infatti l’ingarbugliata situazione creata durante l’episodio “The prisoner of Benda” si risolve grazie ad un vero teorema che Ken Keeler, sceneggiatore della serie, ha dimostrato nella sua tesi di dottorato in matematica applicata all’Università di Harvard. Nella storia, Amy e il Professor Farnsworth decidono di testare la nuova invenzione del Professore, ovvero un dispositivo che consente di scambiare i cervelli di due persone. Lo scambio funziona perfettamente ma, come prevedibile, dopo poco i due personaggi vogliono ritornare come prima. Purtroppo l’esperimento inverso non funziona poiché il cervello diventa immune al processo appena effettuato rendendo impossibile lo scambio contrario. Bisogna coinvolgere quindi altre persone per riportare la situazione allo stato iniziale, ma quante? La risposta un po’ allarmata del Professore è la seguente: “Non sono sicuro, ma temo che avremo bisogno di usare…LA MATEMATICA!”. Il tutto si complica ulteriormente a causa di un rocambolesco scambio di cervelli, che porta a situazioni inverosimili e divertenti (che non stiamo qui a raccontare per non rovinarvi completamente la visione della puntata). Il problema da risolvere a questo punto della storia è ben più complesso. Supponiamo che gli scambi abbiamo coinvolto k persone, quante altre persone devono essere coinvolte nell’ esperimento affinché tutto ritorni nel giusto ordine? La risposta viene data dal giocatore di basket ed esperto in calcolo “Sweet” Clyde Dixon, che dimostra che è sufficiente aggiungere solo due persone per riportate tutto alla normalità. Per capire come procedere, supponiamo che l’unico scambio effettuato sia stato quello tra Amy e il Professore….situazione sicuramente meno
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divertente rispetto a quella della puntata. In questo caso per riportarli allo stato iniziale sarebbe bastato coinvolgere due persone, diciamo Leela e Hermes.
1) Iniziamo scambiando il cervello del Professore (nel corpo di Amy) con quello di Leela.
2) A questo punto scambiamo il cervello di Amy (nel corpo del Professore) con quello di Hermes.
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3) Sostituiamo il cervello di Hermes (nel corpo del Professore) con quello del Professore (nel corpo di Leela). A questo punto il Professore è “ricomposto”!
4) Scambiando il cervello di Leela (nel corpo di Amy) con il cervello di Amy (nel corpo di Hermes), anche Amy è completa.
5) A questo punto basta scambiare il cervello di Hermes (nel corpo di Leela) con il suo opposto ed è fatta! E se questo non vi basta e volete una dimostrazione più rigorosa del teorema, ecco quella riportata nell’episodio sulla lavagna-ologramma del Professor Farnsworth.
(ottobre 2010)
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Più produco e più guadagno? Una storia di rette e di parabole di Gian Italo Bischi*
Più produco e più guadagno. Un'affermazione che sembra sensata, ma un'analisi un po' più approfondita può riservare delle sorprese. A prima vista sembra addirittura banale ottenere un'elegante dimostrazione di quella affermazione, utilizzando il seguente modello. Sia q la quantità prodotta, sia c il costo unitario (cioè il costo per unità di quantità prodotta) e sia p il prezzo di vendita unitario (ovvero, il prezzo che mi viene pagato per una quantità unitaria). Fin dalle scuole elementari abbiamo imparato a calcolare il ricavo come quantità per prezzo, R=pq, e il profitto come differenza fra ricavo e costo totale, dove il costo totale si ottiene, in modo analogo, come prodotto fra costo unitario e quantità prodotta, C=cq, da cui Profitto= R - C = pq-cq = (p-c)q. Da questo ragionamento otteniamo il seguente Teorema: Se il prezzo di vendita è maggiore del costo unitario di produzione, in simboli se p>c, allora più è elevata la produzione q e più è elevato il profitto. Proprio quello che si voleva dimostrare. Ma se così fosse ogni produttore tenderebbe a produrre sempre di più e avremmo il pianeta ricoperto di fabbriche. Cosa non va in questo modello? In effetti c'è un'ipotesi poco realistica, che consiste nell'assumere che tutto quello che si produce poi si vende, indipendentemente dalla quantità prodotta. Un'ipotesi sicuramente da rivedere.
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Docente di Metodi matematici per l'Economia e la Finanza presso l'Università di Urbino
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In altre parole, nel modello proposto è stato trascurato il ruolo dei consumatori. Non sempre i consumatori sono disposti ad acquistare tutta la produzione immessa nel mercato al prezzo preteso dal produttore. Allora questo, pur di non rimanere con merce invenduta, abbasserà i prezzi. Ma se la produzione è davvero eccessiva i consumatori non vorranno saperne di acquistare tutto quello che si produce, nemmeno se la merce venisse regalata, cioè nemmeno con p=0. In definitiva, il prezzo non è indipendente dalla quantità, nella realtà risulta essere una funzione decrescente della quantità. Il caso più semplice di funzione decrescente è la funzione lineare, il cui grafico è una retta, come in figura 1, la cui espressione si può scrivere come p = a -bq, dove a e b sono coefficienti che esprimono, rispettivamente, l'intercetta della retta con l'asse dei prezzi (quello indicato nel grafico come massimo prezzo che i consumatori sono disposti a pagare quando la merce è molto rara, di più non possono per gli usuali vincoli di bilancio, ovvero perché non bastano i soldi) e la pendenza della retta.
Fig.
1
Con questa ipotesi, che rende più realistico il modello economico, cambia anche l'espressione dei profitti in funzione della quantità prodotta, e di conseguenza cambierà anche il teorema. Ora il ricavo, tenendo conto del legame fra prezzo e quantità, diventa R=pq=(a-bq)q, e di conseguenza avremo Profitto = R-C = (a-bq)q -cq = – b q2 + (a – c) q il cui grafico è una curva ben nota a ogni studente dei primi anni delle scuole medie superiori: una parabola. Si tratta di una parabola concava, come quella della figura 2, caratterizzata da un bel punto di massimo, il centro della gobba. Non è difficile rendersi conto che in questo nuovo modello i profitti sono nulli non solo quando produco q=0 (ovviamente se non produco con guadagno) ma anche quando produco troppo, ovvero per q³(a-c)/b. E a metà fra questi due valori sta la produzione che mi dà il massimo guadagno.
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Il
teorema
va
quindi
riformulato
come
segue:
Se la mia produzione è minore di (a-c)/2b allora aumentando la produzione guadagno di più; se invece è uguale o superiore a quel valore … allora se aumento la produzione sono un cretino. Anzi, se ho per caso prodotto di più mi conviene distruggere o nascondere la produzione in eccesso, perché il massimo profitto lo ottengo solo con produzione pari a (a-c)/2b.
Fig. 2 Questo teorema, che potremmo chiamare il teorema del monopolista, ci spiega perché, in assenza di concorrenza, cercare di rendere massimi i profitti porta a limitare la produzione per mantenere sufficientemente elevati i prezzi. È ben noto che si arriva persino a distruggere i propri prodotti, come nel caso di certe produzioni agricole, se la produzione è stata eccessiva. Certo che il consumatore, invece, preferirebbe averli a prezzo minore... Ma per un monopolista l'obiettivo è chiaro e la soluzione semplice: se vuole rendere massimo il guadagno non deve produrre troppo poco, ma nemmeno eccedere. Ma cosa succede se i produttori sono due, ovvero se invece di un monopolio abbiamo un duopolio? È facile modificare il modello economico. Indichiamo le due imprese che producono lo stesso bene come impresa 1 e impresa 2, e denotiamo con c1 e c2 i rispettivi costi unitari (in genere saranno diversi se usano diverse tecnologie per produrre, o pagano salari diversi ai lavoratori ecc.), e siano q1 e q2 le quantità prodotte dall'impresa 1 e 2 rispettivamente. Il prezzo corrente del bene prodotto da entrambi sarà come al solito una funzione 73
decrescente della quantità totale immessa nel mercato, solo che ora sono due le imprese ad arricchire il mercato del prodotto considerato e quindi la quantità totale q sarà la somma di q1 e q2, ossia q = q1+q2. In altre parole il prezzo sarà p = a – b q = a – b ( q1 + q2)
Detto ciò, possiamo facilmente calcolare i rispettivi profitti: Profitto produttore 1 = Ricavo1 - Costo1= pq1 – c1q1 = [ a – b ( q1 + q2 )]q1 – c1q1= Profitto produttore 2 = Ricavo2 - Costo2= pq2 – c2q2 = [ a – b ( q1 + q2 )]q2 – c2q2 Le cose si sono un po' complicate. Infatti ora il profitto del produttore 1 non dipende solo dalla sua produzione q1, che è quello su cui può decidere (la sua variabile decisionale), ma dipende anche dalla produzione del suo concorrente, cioè q2, variabile sulla quale non ha alcun controllo. Anzi il produttore 1 nemmeno sa quanto il suo concorrente ha intenzione di produrre. Se lo sapesse potrebbe regolarsi di conseguenza in quanto, una volta nota q2 il produttore 1 può disegnare la ben nota parabola Profitto produttore 1 = – bq12 + (a – c1 –bq2 )q1 che in questo caso raggiunge il valore massimo in un punto che dipende dal valore di q2, essendo dato da: q1max=0.5(a-c1-bq2)/b Poco male, penserà il produttore 1, vorrà dire che mi conviene aspettare per vedere quanto decide di produrre il mio concorrente e poi mi regolerò di conseguenza producendo la quantità q1max che ho appena calcolato. Ma il vero problema è che anche il produttore 2 si trova esattamente nella stessa situazione, e anche lui penserà che gli conviene attendere la decisione del produttore 1 per prendere la propria decisione ottimale che gli darà il massimo profitto in funzione della produzione dell'altro. Un tipico circolo vizioso: il produttore 1 aspetta la decisione del produttore 2 per poter decidere, e analogamente il produttore 2 aspetta la decisione del produttore 1 per prendere la propria decisione. Non se ne esce, un tipico problema senza soluzione. Ma dove i ragionamenti sembrano troppo complicati ci vuole un po' di matematica per schematizzare le cose, ed è proprio quello che è accaduto nel 1838 quando il matematico francese Antoine Augustin Cournot, nel suo trattato dal titolo Récherches sur les principes matématiques de la théorie de la richesse, affrontò il problema in questi termini. Se il produttore 1 calcola, per ogni possibile produzione q2 del suo concorrente, la propria produzione ottimale in base alla relazione q1max=0.5(a-c1-bq2)/b ottiene come grafico una retta (infatti è una funzione di primo grado in q2) che rappresenta il luogo delle sue produzioni ottimali al variare della produzione del concorrente. 74
Analogamente, il produttore 2 può calcolare, per ogni possibile produzione q1 del suo concorrente, la propria produzione ottimale in base alla relazione q2max=0.5(a-c2-bq1)/b, ottenendo quindi anche lui come grafico una retta che rappresenta il luogo delle sue produzioni ottimali al variare della produzione del concorrente. Bene, disse Cournot, se riportiamo le due rette sullo stesso piano, come in fig, 3, si vede in modo evidente, chiaro come il Sole, che esiste un solo punto che è ottimale per entrambi: il punto di intersezione. Come calcolarlo? Semplicissimo per un matematico: basta risolvere il seguente sistema lineare di due equazioni in due incognite q1 e q2: 2bq1+bq2=a-c1 bq1+2bq2=a-c2 calcolo che qualunque studente di primo anno si scuole medie superiori è in grado si fare.
Ebbene, questa brillante soluzione, proposta da Cournot nel 1838, costituisce un primo esempio di Equilibrio di Nash, introdotto in modo più generale nel 1950 dal matematico John Nash (proprio quello del film "A beautiful mind") e che da allora diventò uno dei concetti centrali della teoria dei giochi che si è sviluppata a partire dagli anni '30. Tra l'altro per questi studi John Nash ha addirittura vinto il premio Nobel per l'Economia nel 1994. Se vi sembra poco...
Fig. 3
(febbraio 2010)
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The dark side of Mercury di Alessandra Celletti* “The dark side of the Moon” è il titolo di un album dei Pink Floyd, la famosa rock band britannica che dagli anni ’60 agli anni ‘90 ha prodotto celebri brani musicali. Tuttavia il titolo, astronomicamente parlando, può generare confusione, perché non esiste un lato oscuro della Luna (Figura 1); un titolo più appropriato sarebbe stato “The hidden side of the Moon” (“Il lato nascosto della Luna”). Infatti la Luna orbita attorno alla Terra, la quale, a sua volta, si muove attorno al Sole. Così come ogni parte della Terra viene illuminata dal Sole, anche tutta la superficie della Luna viene irraggiata dalla nostra stella. Dunque non esiste un lato oscuro della Luna, semmai ne esiste uno nascosto alla nostra vista. In effetti dalla Terra possiamo vedere solamente una metà della Luna, a causa di un effetto combinato tra i movimenti di rotazione e di rivoluzione del nostro satellite: la Luna ruota attorno a se stessa e allo stesso tempo il suo baricentro si muove attorno alla Terra. Il periodo di rotazione della Luna attorno a se stessa coincide con il periodo di rivoluzione della Luna attorno alla Terra e di conseguenza il nostro satellite ci rivolge sempre lo stesso emisfero. Si tratta di un fenomeno noto in Meccanica Celeste con il nome di risonanza mareale sincrona. In generale si parla di risonanza mareale [2] quando il rapporto tra il periodo di rivoluzione e quello di rotazione è pari ad un numero razionale di grado basso, cioè con numeratore e denominatore inferiori alla decina. Ben lungi dall’essere un fenomeno isolato, la risonanza sincrona rappresenta la norma piuttosto che l’eccezione tra i principali satelliti del sistema solare. Gli esempi sono tantissimi: i due satelliti di Marte, i satelliti galileiani di Giove, i maggiori satelliti di Saturno, Urano, Nettuno e Plutone (Figura 2). L’unico corpo celeste che si trova in risonanza mareale, ma non sincrona, è Mercurio (Figura 1): il doppio del suo periodo di rivoluzione attorno al Sole è pari al triplo del periodo di rotazione attorno a se stesso. Si parla in tal caso di risonanza mareale di ordine 3:2 e vuol dire che dopo 2 rivoluzioni attorno al Sole, Mercurio ha compiuto esattamente 3 rotazioni attorno a se stesso. Alla luce di ciò che accade agli altri oggetti celesti viene spontaneo domandarsi come mai Mercurio si comporti diversamente. Quali sono i fattori che lo rendono differente dagli altri? Di sicuro una delle caratteristiche di Mercurio è l’eccentricità della sua orbita: mentre tutti gli altri pianeti ruotano su orbite quasi circolari, Mercurio si muove su un’ellisse piuttosto allungata. Tra i satelliti che si trovano in risonanza sincrona, non se ne osserva nessuno con un’eccentricità paragonabile a quella di Mercurio. Anche le forze mareali giocano un ruolo importante nella selezione delle risonanze; infatti gli oggetti celesti non sono perfettamente rigidi e quindi sono soggetti ad una deformazione mareale. Sulla Terra si
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Professore associato di Fisica Matematica – Meccanica celeste al Dipartimento di Matematica dell’Università di Roma Tor Vergata
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tratta di un fenomeno ben visibile, grazie al periodico cambiamento di livello degli oceani, che arriva a una ventina di metri a causa dall’attrazione combinata di Luna e Sole. Seppure di entità inferiore, anche la crosta terrestre si deforma per effetto della sollecitazione causata dall’attrazione lunisolare. Per i nostri scopi è importante sottolineare che le maree provocano un attrito interno, che determina una dissipazione dell’energia meccanica del corpo celeste. Abbiamo quindi trovato alcuni indizi, l’eccentricità o le maree, che possono contribuire a spiegare come mai Mercurio sia sfuggito alla risonanza mareale sincrona. Adesso bisogna intervenire con una teoria matematica che metta insieme tutti gli ingredienti per spiegare il comportamento anomalo di Mercurio. A questo scopo dobbiamo introdurre un modello matematico che descriva una buona approssimazione della realtà fisica. Cominciamo dall’orbita di Mercurio e supponiamo che sia un’ellisse perfetta – approssimazione usata da Keplero, valida nel modello semplificato in cui si considera solamente l’attrazione gravitazionale esercitata dal Sole. Per quanto riguarda la rotazione, assumiamo che Mercurio sia schematizzato come un ellissoide triassiale che ruota attorno ad un asse esattamente perpendicolare al piano dell’orbita. Infine, ipotizziamo che la dissipazione coincida con una forza che dipende linearmente dalla velocità di rotazione. Questo sistema dinamico è descritto da un’equazione differenziale del secondo ordine relativamente semplice. Nel caso di Mercurio il contributo della dissipazione è molto piccolo. Inoltre, il pianeta si discosta leggermente da una forma esattamente sferica e questo significa che il corrispondente modello matematico rientra nella classe dei sistemi dinamici quasi-integrabili con debole dissipazione. Infatti, l’attrito mareale causato dalla non completa rigidità del pianeta è molto debole; se lo trascuriamo otteniamo un sistema in cui si conserva l’energia meccanica. Se poi il pianeta fosse esattamente sferico, allora le equazioni differenziali che governano la sua dinamica sarebbero risolubili esattamente e si direbbe che il sistema dinamico èintegrabile. Se invece consideriamo che Mercurio si discosta poco da una sfera, allora otteniamo un sistema quasi-integrabile, cioè non risolubile esattamente, ma molto vicino ad un sistema integrabile. I sistemi dinamici quasi-integrabili con debole dissipazione mostrano diversi tipi di traiettorie; anzi, è più appropriato parlare di attrattori, ovvero di insiemi verso i quali evolvono alcune soluzioni del sistema dinamico dopo un tempo sufficientemente lungo. Nel nostro modello gli attrattori possono essere periodici, quasi-periodici o strani. Gli attrattori periodici si ripetono uguali a se stessi dopo un fissato intervallo di tempo, dettoperiodo. Invece, sulle traiettorie quasi-periodiche si ritorna indefinitamente vicino alla posizione di partenza ad intervalli regolari di tempo, sebbene non si torni mai esattamente sulla posizione iniziale. Infine, gli attrattori strani sono caratterizzati da una dinamica caotica e da una struttura frattale [5]. Nel caso delle risonanze mareali, un modo semplice per visualizzare la dinamica consiste nel disegnare la sezione di Poincaré. Si tratta di calcolare la soluzione del sistema di equazioni che governa il modello e di prendere le intersezioni con un piano fissato arbitrariamente. In questo modo possiamo visualizzare le traiettorie su un piano, che chiameremo sezione di Poincaré. Vediamo così che le traiettorie periodiche sono costituite da un numero finito di punti, gli attrattori quasiperiodici sono delle curve e gli attrattori strani sono degli oggetti piuttosto irregolari (Figura 3). Gli attrattori quasi-periodici sono molto utili, perché forniscono una fondamentale 77
proprietà di stabilità, giacché dividono la sezione di Poincaré in due parti che non possono comunicare tra loro. Infatti, non è possibile attraversare un attrattore quasi-periodico, perché si tratta di un insieme invariante attrattivo e se ci capitiamo sopra, ci rimaniamo per sempre. L’esistenza degli attrattori quasi-periodici può essere dimostrata tramite un importante risultato matematico, noto come teorema KAM [1], laddove l’acronimo proviene dal nome dei tre matematici (Figura 4) che hanno dimostrato il teorema: A.N. Kolmogorov (19031987), V.I. Arnold (1937-) e J. Moser (1928-1999). Il teorema venne enunciato originariamente per il caso in cui non si considera l’effetto della dissipazione, ma il risultato è stato esteso in [3] al problema delle risonanze mareali con dissipazione. Il teorema afferma che esiste un attrattore quasi-periodico per opportuni valori dei parametri, in particolare dell’eccentricità orbitale, dello schiacciamento dell’ellissoide e della taglia della dissipazione. Cosa c’entra Mercurio con gli attrattori quasi-periodici? Variando l’eccentricità si ottengono diversi attrattori; l’eccentricità attuale di Mercurio, e=0.2, è compatibile con l’esistenza di un attrattore al quale corrisponde un rapporto tra i periodi di rivoluzione e di rotazione pari a 1.26. In altre parole, la versione dissipativa del teorema KAM consente di dimostrare matematicamente l’esistenza di attrattore quasi-periodico con rapporto tra i periodi pari a 1.26. Siccome abbiamo imparato che l’attrattore quasi-periodico non si può attraversare, nel nostro modello Mercurio non potrà evolvere verso la risonanza sincrona, la quale corrisponde ad un rapporto tra i periodi di rivoluzione e di rotazione uguale ad 1. La risonanza mareale di ordine 3:2 corrisponde invece ad un’eccentricità più elevata, precisamente pari a e=0.28. Questo valore è compatibile con la storia evolutiva di Mercurio [4], che ha portato a notevoli escursioni dell’eccentricità orbitale a causa delle perturbazioni gravitazionali generate dagli altri pianeti. In conclusione, grazie al teorema KAM e agli attrattori quasi-periodici abbiamo una valida spiegazione del motivo per cui Mercurio non sia evoluto verso la risonanza sincrona, ma rimane ancora un lato oscuro della faccenda, vale a dire come mai Mercurio è rimasto intrappolato proprio nella risonanza 3:2. Forse un titolo veramente appropriato sarebbe stato: “The dark side of Mercury”. [1] Vladimir I. Arnold (editor), “Encyclopaedia of Mathematical Sciences”, Dynamical Systems III, Springer-Verlag 3 (1988) [2] Alessandra Celletti, “Stability and Chaos in Celestial Mechanics”, SpringerPraxis XVI (2010) [3] Alessandra Celletti, Luigi Chierchia, “Quasi-periodic attractors in Celestial Mechanics”, Arch. Rat. Mech. Anal. 191: 311-345 (2009) [4] Alexander C.M. Correia, Jacques Laskar, “Mercury’s capture into the 3/2 spin-orbit resonance as a result of its chaotic dynamics”, Nature 429: 848-850 (2004) [5] David Ruelle, Floris Takens, “On the nature of turbulence”, Comm. Math. Phys. 23: 343-344(1971)
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FIGURA 1: Luna (cortesia NASA) e Mercurio (cortesia NASA/Johns Hopkins University Applied Physics Laboratory/Carnegie Institution of Washington).
FIGURA 2: Phobos, satellite di Marte, Giove e i satelliti galileiani, Saturno e alcuni suoi satelliti (cortesia NASA).
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FIGURA 3: Attrattori periodici, quasi-periodici e strani.
FIGURA 4: A.N. Kolmogorov, V.I. Arnold, J. Moser. (marzo 2010)
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L'Alfabeto
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M come Modelli Differenziali: un oroscopo scientifico di Corrado Mascia* Il legame tra la realtà che ci circonda e alcuni modelli matematici è analogo: in matematica si creano modelli, cioè mappe della realtà, nella speranza di non perdersi e di poter prevedere quello che accadrà. Esistono tanti tipi di modelli matematici e ognuno è libero scegliere il suo: i migliori vengono poi valutati, caso per caso, base ai successi ottenuti. Tra questi, si distinguono i modelli tipo “differenziale”, che si traducono in un certo numero cosiddette “equazioni differenziali".
di in di di
Studiando un fenomeno, la prima cosa da fare è individuare le quantità che appaiono significative per descriverlo. Se si vuol studiare il moto dei pianeti, ad esempio, quello che interessa principalmente è la loro posizione, la loro velocità, magari anche la loro forma o la velocità di rotazione di ognuno intorno al proprio asse. Se si vogliono fare le previsioni meteorologiche, interesserà invece conoscere temperatura, pressione e velocità di propagazione di una certa perturbazione. Si è parlato di “equazioni” perché il secondo passo che si compie è stabilire il legame che intercorre tra varie quantità: studiando le equazioni differenziali si studiano dunque le relazioni che legano queste quantità, il cui significato concreto dipende dal fenomeno che si sta cercando di comprendere con la malcelata speranza di poter sapere in anticipo quello che succederà poi. Il termine “differenziale" somiglia tanto, giustamente, a “differenza". Infatti, delle quantità che si studiano interessano le variazioni, cioè le differenze (appunto!) tra lo stato iniziale e quello finale. Quindi un'equazione differenziale non è altro che un legame tra certe quantità e le loro variazioni. L'idea di fondo è realizzare un'istantanea che contenga tutte le informazioni utili in un certo momento e poi, conoscendo le variazioni delle quantità, essere in grado di prevedere il fenomeno osservato da qui all'eternità. Differenziale, quindi, è riferito al fatto che abbiamo la possibilità di conoscere il valore di una certa quantità se sappiamo il suo valore in un istante iniziale (condizioni iniziali) e se ne conosciamo il suo modo di variare - in rapporto al tempo, ad esempio. Non è, infatti, molto interessante sapere che un albero sia cresciuto di 10 metri, se non sappiamo quanto tempo ha impiegato a farlo. Quindi, quello che alla fine interessa sono le variazioni in rapporto alle variazioni di altre quantità (l'altezza rispetto al tempo, nel caso dell'albero).
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Professore Associato in Analisi Matematica all’Università di Roma “Sapienza”
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Quale valore ha uno studio di questo genere? Due risposte: una pratica ed una filosofica. Per quanto riguarda la prima, la bontà di un modello differenziale sta nella precisione delle sue previsioni. Ad esempio, il modello classico (dovuto a Newton) che descrive il moto dei pianeti funziona molto bene. Ed è la comprensione di questo modello che, fra le altre cose, permette di fare in modo che i satelliti orbitino intorno alla Terra (senza cadere o scappare verso altre galassie...). Una seconda risposta è in realtà una nuova domanda: che legame c'è tra realtà e modello? La domanda se la pone anche Calvino, sempre richiamando Eudossia. Parlando della città e del tappeto, scrive infatti “un oracolo ha detto che uno dei due è opera divina e l'altro ne è un approssimativo riflesso, come ogni opera umana”. Ma quale dei due sia l'uno e quale l'altro, rimane una domanda aperta... (giugno 2010)
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L come linearizzazione di Corrado Mascia Per molto tempo si è pensato che la Terra fosse piatta e questa idea, a differenza di quel che può sembrare, non è poi così ingenua. Al giorno d'oggi, chiunque paragonerebbe il nostro pianeta ad una palla da tennis o ad una arancia, piuttosto che ad una tavola da gioco degli scacchi, semplicemente perché libri ed internet traboccano di fotografie, prese dallo spazio, del pianeta Terra. Un vantaggio non da poco: si procede per Cape Canaveral e si prende il primo Shuttle in partenza per lo spazio e da lì... click!... una bella foto. Ma cosa avremmo concluso, se avessimo avuto a disposizione solo la nostra esperienza concreta (pensate ad esempio ad una lunga corsa su un campo di atletica)? Senza dubbio avremmo concluso che la Terra è piatta. E tutto questo semplicemente perché noi siamo“piccoli” rispetto alla dimensione del pianeta: 2 metri di altezza (nel migliore dei casi...) contro più di 6.000 km di raggio. Linearizzare consiste in un procedimento di questo genere: scambiare un oggetto curvo con un altro piatto, semplicemente perché le dimensioni in considerazione sono piccole rispetto alle grandezze dell'oggetto nella sua interezza. Facciamo una fotografia ad un'arancia: prima intera, e poi, utilizzando uno zoom, concentriamoci su una sua parte e poi su una parte della parte e così via... Aumentando l'ingrandimento, sembrerà piatta e sempre più piatta fino a diventare tale e quale ad una tavola (trascurando le asperità della scorza...). L'elemento base della linearizzazione è proprio questo: le strutture curve possono assomigliare, vicino a un loro punto, a strutture piane. “Linearizzare” significa, quindi, sostituire a un oggetto curvo una sua approssimazione piatta. Nella sostituzione, si paga evidentemente un prezzo: l'errore dell'approssimazione. Poco grave se l'errore è piccolo rispetto alle quantità considerate: approssimare un campo di calcio sulla Terra (e quindi curvo) con uno piatto si traduce in un errore minore di un millimetro. Poco grave anche quando si hanno le capacità balistiche di Maradona... E cosa si guadagna? Il fatto che la struttura del problema è più semplice, perché le strutture “piatte”, o, come si dice in matematica, “lineari” hanno molte proprietà che le rendono più gestibili di quelle che non lo sono. Ad esempio, in una retta, non esiste piccolo o grande: un piccolo pezzo di retta è indistinguibile da uno grande. Non ci sono punti di riferimento e si perde, proprio come in grotta, il senso della dimensione. Un tipico approccio dei matematici (ma non solo) consiste nel prendere un problema non lineare (cioè “curvo”) e approssimarlo con un problema lineare (cioè “piatto”). Il punto di vista che si acquisisce in questo modo è estremamente potente perché il concetto di lineare è generalizzabile a tante situazioni diverse che vanno ben oltre l'intuizione geometrica. Ad esempio, l'amplificatore dello stereo, se usato in maniera moderata, può essere considerato come 84
un oggetto lineare: girando la manopola del volume non si fa altro che amplificare il segnale che però resta sostanzialmente sempre lo stesso. Se si esagera in decibel, c'è il rischio che subentrino effetti nonlineari e che la musica che si ascolta non sia esattamente la stessa ideata dal compositore. Quando funziona meglio l'approssimazione lineare? Grosso modo se il fenomeno in osservazione resta localizzato vicino al punto dell'approssimazione. Se si comincia ad andare lontano, ci si rende conto della differenza, e l'errore di approssimazione può farsi sempre più evidente, fino a diventare sempre più significativo e costringere ad una rappresentazione delle cose di tipo diverso. Come ci si è resi conto che la Terra non è piatta? Proprio perché alcune persone, come Cristoforo Colombo, hanno cominciato a guardare lontano... (luglio 2010)
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C come continuità: il mondo che viviamo di Corrado Mascia Per capire meglio questo concetto, proviamo ad immaginare un modo diverso, che sia nient'affatto graduale. Mi alzo la mattina, vado in bagno e apro l'acqua per lavarmi. Tutto bene al principio: l'acqua scorre dal rubinetto alla temperatura che più mi piace e che mi permette di passare dallo stato di torpore a quello di veglia senza particolari traumi. Ma, improvvisamente, senza che nulla lo lasciasse presagire, la temperatura dell'acqua diviene gelida. Non faccio a tempo a riprendermi dallo shock, che diventa bollente. Allontano le mani di scatto, ma il getto (che prima andava regolarmente verso il basso), senza nessun preavviso, comincia a cambiare direzione senza alcun preavviso: verso l'alto, verso lo specchio, verso di me, poi di nuovo verso il basso e così via, senza nessun criterio apparente. Dopo è il turno delle mattonelle: fino a ieri si consumavano, ma poco alla volta e ora, in un istante, si polverizzano. L'asciugamano scompare dal bagno e appare in salotto. Al suo posto appare la tovaglia. E così via. Tutto appare come frantumato, come in un quadro futurista, in cui l'immagine è spezzata in tanti frammenti. Si tratta evidentemente di una giornata storta... Cos’è, quindi, la continuità? E' l'opposto di quello che ho descritto. E' un mondo in cui due istantanee di ciò che ci circonda scattate ad istanti “vicini", si “somigliano". Le transizioni e le trasformazioni possono avvenire, ma non in maniera drastica, immediata. I cambiamenti possono avvenire, ma sempre passando per una sequenza di stati intermedi dallo stato di partenza a quello di arrivo. Ovviamente il concetto andrebbe precisato ed è in questa fase che l'uso del linguaggio matematico mostra tutta la sua potenza e duttilità. Qui, vorrei limitarmi a sottolineare due ingredienti fondamentali. Il primo riguarda la “somiglianza delle foto". Per parlare di continuità si deve introdurre un concetto di “vicinanza" che, in generale, dipende da contesto a contesto. A seconda del problema che si studia, due oggetti possono sembrare molto simili o molto diversi. Il secondo aspetto da precisare è quello di “istanti vicini". Anche qui, bisogna dare un significato al concetto di “vicinanza" degli istanti. La continuità è una proprietà che collega la somiglianza delle foto alla vicinanza degli istanti. Tutto, comunque, si può precisare tramite il formalismo matematico in maniera estremamente elegante e generale. Da quanto detto finora si deduce un fatto importante: l' ”essere continuo” non è una proprietà assoluta! A seconda degli “occhiali” con cui guardiamo un fenomeno questo può essere continuo o non esserlo. Spesso è il problema stesso che suggerisce la maniera con cui essere guardato e spesso questa maniera si traduce in una proprietà di continuità. La comprensione dei concetti naturali di “vicinanza", spesso, permette la comprensione profonda del problema stesso. (agosto 2010)
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Giovani matematici crescono
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Alessio Figalli intervista raccolta da Roberto Natalini A soli 25 anni (e mezzo) Alessio Figalli ha già una carriera accademica di tutto rispetto. A 22 anni, nel 2006, si laurea in Matematica presso la scuola Normale di Pisa. L'anno dopo diventa Ricercatore del CNRS francese. Diventa poi professore all'École Polytechnique a Parigi e da settembre di quest'anno è Professore Associato presso l'University of Texas a Austin (USA). Ha pubblicato già una ventina di lavori e un'altra decina stanno per uscire.
Q.: Ehm, speriamo che questa cosa di skype recording funzioni, mi sa che sono un po' impedito. Come va? Tutto bene? A.: Sì, sono reduce dalla cena di Thanksgiving di ieri. Q.: Ti hanno fatto mangiare il tacchino? A.: Sì un tacchino enorme, eravamo a casa di Caffarelli... tipo 40 persone. Q.: Bene, dai cominciamo. Prima domanda, molto scontata: come ti senti ad essere professore a soli 25 anni in Texas? A.: Beh, sicuramente è una soddisfazione, ma allo stesso tempo è anche una grande responsabilità. Perché se mi trovo qui è perché la gente ha creduto in me e pensa a quello che potrò fare nei prossimi anni. E questo ti mette della pressione. Ma insomma, una pressione costruttiva: ti dici “hanno avuto fiducia, ora cerchiamo di ricompensarla lavorando bene, nel modo giusto”. Insomma, è una soddisfazione, e anche un'esperienza di vita interessante quella di vivere adesso negli Stati Uniti. Ed è stata una scelta non facile. È un grande cambiamento rispetto a vivere in Europa. Però era un'ottima occasione lavorativa, specie per la presenza di Caffarelli, e mi sono detto che se non partivo ora non ci sarei poi più andato, quando uno ha famiglia e tutto il resto. Q.: A livello umano come ti sei trovato negli Stati Uniti? A.: Beh, a livello lavorativo molto bene. Qui nel dipartimento sono tutti molto simpatici, anche se di americani veri non ce ne sono molti... Diciamo che predomina la componente sud-americana. Anche la città è molto simpatica, verde, siamo in Texas, ma non è il deserto.
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Q.: Beh, ma rispetto a Parigi c'è stato un certo salto. A.: Mah, Parigi è una bellissima città, tutti ti invidiano, però ha anche i contro. È una città carissima con affitti stratosferici, muoversi è difficile, e anche con i trasporti pubblici eccellenti, io perdevo un paio d'ore al giorno sulla R.E.R.. Qui invece vivo a dieci minuti a piedi dal Dipartimento in una zona molto carina. E lo trovo molto più piacevole. Q.: Ok, dai, passiamo a parlare di matematica. Quando hai cominciato a pensare di fare il matematico? Abbastanza tardi. Per esempio quando ho finito il Liceo, ho fatto il classico, ero ancora indeciso tra matematica, fisica e ingegneria per esempio. Non avevo nessuna motivazione particolare. Alla fine è stato un po' un caso, molto legato al fatto di essere entrato in Normale, e mi sono detto “ah, però, fico!”. Insomma, la matematica mi divertiva, ma non sapevo se avrei potuto farne un lavoro. Avevo conosciuto le Olimpiadi della Matematica gli ultimi due anni di Liceo, insomma abbastanza tardi. E facendo le Olimpiadi mi divertivo. Era un mio sfizio, mi ci mettevo ogni tanto la domenica pomeriggio, ma mi ci dedicavo non più di due ore a settimana. Per il resto me ne andavo in palestra o uscivo. Mi riuscivano gli esercizi di matematica, ma nulla di particolare. Inoltre facevo il Classico e il programma era abbastanza facile. Con le Olimpiadi ho avuto uno stimolo a fare qualche cosa di più. Ma ancora non ero sicuro. Q.: Però per il concorso di ammissione in Normale avrai studiato... A.: Sì, quello si! Certo il fatto di essermi preparato alle Olimpiadi di Matematica mi ha aiutato molto. Ci tenevo a provare, ma non sapevo bene come sarebbe andata. Insomma, non sono stato il ragazzino prodigio che a dieci anni faceva chissà che cosa. A dieci anni andavo a giocare a pallone... Q.: E quando hai scoperto la tua vocazione? A.: Beh, una volta entrato in Normale ho scoperto tante cose che prima non conoscevo: analisi, algebra... E sostanzialmente, non lo so, sapevo che mi divertivo, avevo piacere di imparare. Non era più come al liceo. Imparavo finalmente delle cose nuove che mi interessavano veramente. E poi le cose mi riuscivano, e quindi avevo delle soddisfazioni. La cosa che mi aveva più impressionato in positivo è che finalmente non stavo più a guardare l'orologio ogni tre secondi per sapere quando finiva la lezione. Q.: Bene. Ora prova a dirmi di cosa ti occupi. Insomma, in generale... A.: Ci sono vari problemi che mi interessano. Il mio dominio è l'analisi. Un problema su cui ho lavorato molto è il trasporto ottimale. Uno ha degli oggetti da trasportare, per esempio deve portare del pane dalla produzione alla distribuzione. Se uno ha più centri di produzione, allora può porsi il problema di come ottimizzare la distribuzione, ossia da quale sito partire per portarlo in un certo posto. Il problema è stato formulato all'inizio da Monge per trasportare dei detriti per costruire delle fortificazioni. E l'idea di fondo è che 89
trasportare costa e uno vuole trovare il modo di minimizzare i costi. Il problema è di natura economica, e a livello matematico produce moltissime domande interessanti. Intanto ci si chiede se esiste un modo ottimale di fare le cose. Se poi questo trasporto ottimale esiste, allora uno ne studia le proprietà. E ci sono tanti problemi in cui questo problema riappare. In problemi di natura geometrica, ma anche in metereologia. Per esempio hanno scoperto che questo influenza l'evoluzione delle nuvole: se una nuvola deve spostarsi, le particelle che compongono la nuvola seguiranno nel tempo un trasporto ottimale. Q.: Sono intelligenti! A.: eh si, ottimizzano... :-D. Questo è stato il mio tema principale di ricerca nella Tesi di dottorato. Poi per esempio ci sono i problemi isoperimetrici. Ossia quando ho un insieme di volume fissato e voglio sapere qual è la forma che minimizza la superficie esterna. Un problema che in due dimensioni è il classico problema di Didone: data una corda di lunghezza data, trovare l'area maggiore racchiusa dalla corda. Se non abbiamo ostacoli allora abbiamo un cerchio, ma il problema si può complicare in molti modi. Ci hanno lavorato molti matematici e c'è ancora tanto da fare. Q.: Qual è il lavoro singolo in cui credi di aver dato il tuo contributo più importante? Insomma, quello che ti ha dato più soddisfazione. A.: Beh, almeno due. Uno con Francesco Maggi e Aldo Pratelli, in cui studiamo appunto questi problemi isoperimetrici e dimostriamo che se abbiamo una corda “quasi-ottimale”, allora questa corda è “quasi” un cerchio, e questo vale anche in dimensione più alta, dove diventa molto più complicato. E poi un altro problema che mi ha divertito molto di trasporto ottimale parziale. Ossia, ho dei detriti da una parte e li voglio portare da un'altra. Ma questa volta ho più detriti di quanti me ne servano. Esiste allora un modo ottimale di trasportare solo una parte dei detriti? Ci sono allora due scelte. Innanzitutto la solita scelta “chi va dove”, ma poi anche decidere “chi deve essere mosso”. E questo l'ho risolto circa un anno e mezzo fa. Q.: E cosa ti piacerebbe dimostrare? Hai un tuo “dream problem”? A.: Non è facile. Ho sempre in testa dei problemi che secondo me sono molto belli e che sarebbero interessante capire. Per problemi da un milione di dollari come Navier-Stokes non penso di avere ancora abbastanza “feeling” per fare una cosa del genere. O la regolarità di correnti minime, o le singolarità di superfici minime in alte dimensioni. Ecco, mi piace avere questi problemi sempre in background. Non mi sento in grado di stare come Andrew Wiles per 8 anni su un problema. Preferisco dei problemi difficili, ma fattibili, che mi permettono di imparare nuove cose. E poi c'è anche un fattore fortuna in certe cose: trovarsi al momento giusto con una buona idea. Insomma ci sono tanti problemi che mi interessano, che vanno dalla teoria geometrica della misura, oppure adesso, stando qui, ai problemi di frontiera libera... Q.: eh, sei nel paradiso della frontiera libera!
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A.: Esatto, sto lavorando con Luis (n.d.r.: Caffarelli) e bisogna approfittarne. E ci sono tanti problemi poco chiari, difficili, ma fattibili. Insomma, per ora non ho “un” problema. Li scelgo spesso solo perché mi divertono, però devono anche essere non banali... Insomma, tengo presente tante cose, cerco di imparare nuove cose, e se poi mi viene l'idea... Q.: Come lo vedi il rapporto tra matematica e applicazioni? Ti senti “puro” o “applicato”? A.: Beh, personalmente mi sento “puro”. So che i problemi su cui lavoro, come il trasporto ottimale o quelli di frontiera libera, hanno un'origine fisica, economica, non saltano fuori dal nulla. Però la scelta del problema in sé, per me e forse per la maggior parte dei matematici, è piuttosto un problema estetico. Conta che il problema sia bello, divertente. È interessante sapere che c'è una motivazione applicativa e che ci sia qualcuno che faccia da tramite con le vere applicazioni. Però non credo che, almeno per il momento, sia il mio ruolo. Di solito quando arrivo l'equazione è già là. Q.: Ok, passiamo a domande più leggere. Cosa fai quando non fai matematica? Leggi? Dormi? A.: Beh, dormire è fondamentale, sono un gran dormiglione! Per il resto, quello che ha caratterizzato la mia vita negli ultimi anni è che ho cambiato sempre luogo e dunque ho viaggiato tantissimo. Quindi le mie attività extra, che essenzialmente si concentrano sul week-end, dipendono da dove sto. Quando ero a Los Angeles mi piaceva andava al mare e fare un po' di sport. Qui in Texas non ho ancora avuto molto tempo, ma è ottimo per fare escursioni, il clima è buono, si può giocare a pallone e poi vorrei approfittarne da gennaio per imparare lo spagnolo. Quando stavo a Parigi mi piaceva farmi una passeggiata a Boulevard Saint Michel o un Brunch con gli amici. Q.: Ma dimmi, hai problemi a mantenere le tue amicizie, viaggiando, cambiando sempre di paese? A.: Sono sempre stato in contatto con le persone che ho incontrato. Più che difficoltà a fare amicizie, per me è un po' triste quando me ne vado, che mi tocca sempre ricominciare da capo. La parte negativa è più nel non poter contare su rapporti stabili. A Roma però ci sono sempre i miei amici del tempo del liceo e li vedo sempre quando torno per le vacanze. Q.: E come vivete la differenza delle vostre vite? A.: Beh, fa un po' strano. Ho una vita molto diversa dalla loro. Loro vivono a casa, con i loro genitori. Per il resto, alla fine si ricomincia a parlare del più e del meno, le solite chiacchiere, e poi le partitine a poker, specie sotto Natale, che è una vecchia tradizione dal liceo. Q.: Per finire due domande difficili. La prima. Che faresti se fossi il Ministro dell'Università e della ricerca in Italia? Che provvedimenti prenderesti?
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A.: Intanto c'è da capire perché in Italia le cose non funzionano. La prima cosa che salta agli occhi è l'instabilità. In Italia non si sa mai cosa succederà: quando ci saranno i fondi per i progetti o quando ci sarà un nuovo posto. Questo crea una situazione deprimente. Per esempio in Francia la situazione è molto più stabile e si sa bene quando e come sono assegnate le risorse. Poi c'è un problema di mentalità. Per esempio negli Stati Uniti, tutti controllano tutti. Un sistema di equilibrio di poteri in cui se sbagli e qualche cosa va male non hai una seconda possibilità. Però questo sistema difficilmente potrebbe funzionare in Italia, perché difficilmente accettiamo di essere troppo controllati e giudicati dai colleghi anche nel merito del nostro lavoro. Il sistema francese è più simile al nostro, e però funziona meglio. Forse, ma potrei sbagliarmi, questo dipende da una maggiore centralizzazione del potere nella gestione dei soldi e delle risorse. I laboratori che non si comportano bene sono rimessi in riga dall'alto. Forse in Italia si dovrebbe tornare un po' indietro sull'autonomia. Magari anche con delle commissioni scientifiche di alto livello a rappresentanza maggioritaria straniera che valutino la produzione dei vari Dipartimenti nei vari settori. Q.: Allora per finire: uno spot per invitare i giovani a iscriversi a Matematica. A.: Intanto penso che c'è già tanta gente a cui la matematica non piace. Per cui, più che convincere la gente, bisognerebbe fare in modo che la gente a cui piace non scappi. C'è gente che si chiede: “Che possibilità di lavoro ho? A cosa serve? Poi finisco ad insegnare al liceo?”. E questo è un peccato. Penso che se una cosa piace è giusto essere incoraggiati e avere la possibilità di provare. Per esempio succede che ci siano persone a cui piace la matematica ma decidano di iscriversi a Ingegneria pensando di trovare lavoro più facilmente. Ecco, io la penso diversamente. La vita è una, se abbiamo una cosa che ci piace, ci diverte, non dobbiamo scoraggiarci nel cercare di farla. Certo, ci sarà anche un fattore di fortuna, ma questo c'è sempre in ogni attività umana. In realtà poi attualmente i matematici sono molto richiesti, per cui alla fine, anche a livello pratico, è un buon momento per fare matematica. Insomma, io inviterei quelli a cui piace, e che non sono pochi, a non esitare a provarci. Sapendo sempre che le soddisfazioni verranno non tanto a livello sociale, dato che se incontri delle persone puoi parlare per cinque minuti che fai matematica ma poi a nessuno gliene frega niente, quanto dal divertimento nelle cose che fai e dal riconoscimento dei colleghi. (febbraio 2010)
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Annalisa Buffa intervista raccolta da Roberto Natalini
Si è laureata in Ingegneria e poi ha deciso di dedicarsi alla matematica. Lavora presso l'IMATI di Pavia ed è la più giovane dirigente di Ricerca del CNR (il 14 febbraio compirà 37 anni). Nel 2007 ha vinto l'ERC Starting Independent Research Grant. Oggi parliamo con Annalisa Buffa.
Q: Com'è che hai deciso di fare matematica? A: Beh, io ho studiato ingegneria innanzitutto e ho fatto solo la tesi di Laurea in Matematica. Q: E con chi l'hai fatta? A: Con Franco Brezzi e Luigi Ambrosio. Ho studiato matematica perché era un po' il mio pallino. In realtà ho studiato Ingegneria un po' per il volere dei miei genitori e poi quando si è trattato di scegliere la tesi di Laurea sapevo che c'era Franco (n.d.r.: Brezzi) come relatore che mi conosceva perché avevo fatto varie domande per borse di studio e mi ha accettato in tesi nonostante abbia poi dovuto insegnarmi un sacco di cose. E a quel punto è diventato naturale continuare come matematico. Q: Ho capito. Quindi ha fatto una tesi proprio in matematica. A: Si, mi sono laureata con una tesi sui moti per curvatura media, esistenza e unicità, quindi proprio una tesi di Analisi Matematica (neanche analisi numerica). Q: E quando hai capito che eri portata per la ricerca? A: Beh, la matematica, ripeto, mi ha sempre incuriosito e prima di me aveva incuriosito mia madre e ho deciso di provare… Q: E quando hai capito che le cose funzionavano? A: Io direi ben tardi, perché ho cominciato il dottorato dicendo “vado in Francia ad imparare il francese, negli Stati Uniti ad imparare l'inglese e poi vedremo”. L'idea non era di rimanere nell'accademia, insomma. Poi ho cominciato ad avere dei riconoscimenti, il mio posto fisso e insomma ho deciso che forse era la mia strada e che non era il caso di andare a fare il programmatore in azienda. Q: Ma hai deciso prima o dopo aver finito il dottorato? 93
A: Diciamo a metà ho deciso che ci avrei scommesso, che avrei lavorato in questa direzione per vedere cosa succedeva. Q: Ok. Allora vediamo un po'. Di cosa ti occupi? A: Mi occupo di interazione tra sistemi di analisi, quindi algoritmi per la risoluzione di sistemi alle derivate parziali e il CAD, il Computer Aided Design. Sono due mondi molto separati che devono interagire per forza, ma che per ora lo fanno molto male. Per risolvere un'equazione differenziale devo prendere il dominio dal CAD. Si basano su concetti diversi. E noi cerchiamo di modificare la nostra impostazione analitica per avvicinarci alle specifiche del CAD e sfruttare le sue potenzialità sia come strumento per la rappresentazione della geometria che come strumento per la rappresentazione delle soluzioni. Q: Che cosa fate esattamente con questo CAD? A: Il CAD costruisce determinate geometrie di calcolo basate su spline e generalizzazioni. Gli oggetti che consideriamo sono quelli dell'industria manufatturiera e il loro design viene fatto sul CAD, siano essi automobili, motori, trasformatori. L'idea è di dire che il CAD dà una mesh, particolare, e noi vogliamo usare la sua, senza passare da un meshatore. Per cui diventa necessario modificare tutta l'analisi, invece di usare dei polinomi a pezzi su dei tetraedri, devo partire dalla mesh del CAD, metterla a posto e farci i conti con gli stessi strumenti del CAD, ossia le spline, riscoprendo così la vecchia analisi numerica - ma forse, speriamo, in modo un po' più flessibile. Q: E quali sono I risultati più importanti che pensi di aver ottenuto finora nella tua carriera? Quelli che vorresti raccontare ai tuoi nipotini? A: Beh, per i nipotini ci penseremo. Come matematica credo che le cose che abbiano avuto più successo siano risultati di analisi, e non di analisi numerica. La teoria delle tracce in alcuni spazi funzionali di tipo Sobolev, in teoria dell'elettromagnetismo, in cui io ho sviluppato tutta una teoria matematica che ha poi consentito la soluzione di equazioni formulate sui domini esterni. Dunque per esempio le antenne dei cellulari posizionate sui tetti emettono dei campi elettromagnetici intorno a loro e il problema è di calcolarli in modo efficace. Per fare questo servono delle formulazioni sui bordi che richiedono una teoria di Sobolev abbastanza complessa. L'incipit è stato da un mio lavoro in collaborazione con Patrick Ciarlet su queste tracce, e poi ho lavorato a lungo sulle equazioni dell'elettromagnetismo in domini esterni. Q: In pratica si tratta di decomposizioni di Hodge raffinate. A: Si infatti utilizzavamo una decomposizione di Hodge , ma su bordi di domini non regolari, in cui magari già la definizione della tangente e di operatori differenziali su campi tangenti era un problema. Q: Comunque sempre con una grande attenzione a problemi di natura applicativa. A: Sì, il tutto è partito da problemi di analisi numerica che poi sono stati sviluppati sulla scia dei risultati ottenuti. Per esempio recentemente abbiamo proposto un
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recondizionatore estremamente efficace per la risoluzione di campi elettromagnetici esterni che è già molto utilizzato. Q: Ma tu riesci a interagire con la parte industriale, o c'è qualcun altro che lo fa al posto tuo? A: Putroppo c'è qualcun altro, ahimé, perché a me piacerebbe avere un'interazione diretta. Però per questo servirebbe avere molta forza lavoro, se non altro sul piano informatico, avere dei buoni “coder” ed essere in grado di fornire buoni risultati. Cosa che non sono in grado di fare. Ossia adesso ho un enorme progetto in corso che mi sta aiutando, ma fino a poco tempo fa ero sostanzialmente da sola. Q: Parliamo del progetto allora. So che sei stata finanziata da un ERC starting grant , quelli per i giovani. Come è andata? Come hai fatto ad ottenerlo? A: Beh, ci sono state le call, e noi giovani abbiamo deciso di partecipare, vista la carenza strutturale di fondi del CNR, a volte abbiamo anche problemi a pagare il riscaldamento. Eravamo un gruppo di tre persone e abbiamo scritto un progetto comune. Poi io ho fatto da Principal investigator perché sono giovane, perché sono donna e perché ho un buon curriculum, diciamo... Queste era l'idea... Q: non sono cattive ragioni però... A: eh forse... Comunque abbiamo scritto questo progetto con grande attenzione e grande fatica e alla fine è andata molto bene. Le valutazioni sono state ottime e il progetto è stato finanziato subito. Ed è lì che sono cominciati i guai. Nel senso che i soldi sono arrivati a Pavia e ho dovuto cercare dei buoni Post-doc, e questo non è stato facile. E l'inizio della ricerca non è stato facile. A cui si sono sommati i soliti problemi italiani con una gran fatica nella gestione dei soldi e delle risorse. Q: E come sta andando adesso il progetto sul piano dei risultati? Magari però intanto dicci bene quale sia l'argomento che in realtà non lo so... A: L'argomento è la costruzione di schemi numerici stabili e compatibili per le spline. Insomma l'argomento di cui abbiamo parlato prima. Dal punto di vista applicativo stiamo producendo un grosso codice tridimensionale per la risoluzione di problemi elettromagnetici su certe famiglie di splines e poi, ultimamente, mi sono lanciata sui fluidi. Q: e cosa fate? A: Beh, visto che abbiamo degli oggetti che non sono più soltanto polinomi, ma molto più generali e flessibili, stiamo facendo nuovo algoritmi per la risoluzione di Stokes, NavierStokes, Boussinesque. Insomma ci piacerebbe avere un buon risolutore per Navier-Stokes per poi fare dell'ottimizzazione di forma. C'è adesso un nuovo post-doc con grande esperienza nel coding e nell'ottimizzazione di forma per cui credo che andremo in questa direzione. Q: Ma quanta gente lavora con te adesso? Quali sono le dimensioni del tuo gruppo? A: Ci sono i due colleghi con cui ho fatto il progetto, che sono Giancarlo Sangalli e Alessandro Reali, e poi ci sono quattro post-docs e due dottorandi. Q: Insomma un bel gruppo. 95
A: Beh, si sono molto contenta. Certo questo comporta un carico di lavoro su di me abbastanza grosso, però insomma è giusto così, è il momento di farlo. Q: Va bene. E per il futuro cosa pensi di fare? Hai qualche progetto in mente? Cosa sogni di fare da grande? A: Io sono già grande, no? Q: beh, insomma :-D. Scusa quanti anni hai? A: 36. Q: Vedi? Sei nel fiore degli anni... A: Cercare di mantenere il mio gruppo di ricerca, conservare la mia autonomia scientifica. Q: Va bene, ma che problemi vorresti cercare di affrontare? Hai un dream problem? A: No, direi di no. Lavoro in un settore in cui i “dream problem” sono un po' strani. In analisi numerica devi vedere cosa succede, quali sono le necessità. E questo cambia molto rapidamente, rispetto per esempio all'analisi matematica. In questo momento spero nell'arco dei prossimi dieci anni di vedere un sistema CAD con un applet che faccia l'analisi come stiamo cercando di farla noi. Q: Ma pensi che l'industria un giorno utilizzerà questi nuovi strumenti? A: È possibile. Magari non io direttamente. Ma la ragione per cui l'Europa ha dieciso di finanziare questo progetto è che ci sono molte persone che stanno lavorando in questa direzione con grande successo. Alcuni gruppi negli Stati Uniti lo stanno già facendo. Il nostro vantaggio è di essere I primi in Europa a sviluppare queste tecniche e soprattutto I primi matematici a farlo. E quindi con la nostra di matematica possiamo arrivare a scrivere algoritmi interessanti che non verrebbero in mente ad un ingegnere. Q: Che rapporto vedi tra matematica e applicazione? Ti piace veramente la matematica applicata? Che cosa è secondo te? A: La matematica applicata è una cosa molto vasta. Io sono un'analista numerica e non proprio una matematica applicata. E quando ho cercato di avvicniarmi alla matematica applicata, anche solo nel senso di modelli differenziali, analisi asintotica etc..., ho avuto molta difficoltà, nel senso che io forse da ingegnere ho difficoltà a leggere libri di altre discipline. Per esempio tu mi dai un libro di meccanica statistica e io non ci capisco niente e mi scontro con questa incompresione che trovo molto frustrante. E per questo non mi sento un matematico applicato, che secondo me deve essere in grado di aprire un libro di biologia e di leggerlo. Io non sono in grado... E invece molto più volentieri e maggior capacità riesco ad aprire un libro di matematica pura e leggerlo. Pur essendo un ingegnere di formazione, riesco a prendere un libro di geometria differenziale e a usarne veramente le idee anche sofisticate. Perché la matematica mi diverte di più. Però spero in futuro di riuscire ad interagire maggiormente, per esempio con gli ingegneri sperimentali. Q: Ancora un'altra domanda di matematica. Chi sono I matematici che ti hanno più formato?
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A: Io mi sono presentata come Ingegnere. Sicuramente Franco Brezzi è stato al tavolo con me ad insegnarmi tutto perché io potessi preparare un concorso di dottorato e insieme a lui Gianni Gilardi. Mi hanno aiutato tantissimo a formarmi delle basi solide su cui poi ho costruito tutto. E non finirò mai di ringraziarli entrambi. Dopodiché un'altra persona che mi ha influenzato molto è Jean-Claud Nédélec, è l'inventore degli elementi finiti che tutti usano per I problemi di elettromagnetismo. Ed è anche un vecchio saggio, un vieux sage. E lui ama aiutare le persone giovani a farsi un'idea, a farsi strada. Presenta problemi sempre complicati e aiuta le persone giovani a scomporli. E poi boh basta. Q: Ok, basta con la matematica. Cosa fai quando non fai matematica? A: Sto con Elia, che è mio figlio e che oggi compie due anni. Q: Quindi se non c'è la matematica, c'è il figlio... A: Eh si, occupa un sacco di tempo. Tra figlio e progetto europeo, che sono arrivati pure insieme... E poi ci sono attività collaterali. Q: Per esempio? A: Beh, io sono un navigatore. Vado in barca a vela da quando sono molto piccola. Amo navigare e andare sott'acqua e non ho mai perso l'occasione di farlo prima che nascesse Elia. Ancora non viene sott'acqua con me, ma lo farà presto. Ah, e partecipo a un gruppo di acquisto solidale. Q: E I viaggi? A: Tanti, ho sempre viaggiato molto. Sono stata quattro anni a Parigi, due a Zurigo, un anno negli Stati Uniti. Sono stata in giro parecchi, adesso ancora mi muovo molto, ma insomma, toccata e fuga. Q: Eh capisco... A: Adesso per esempio sono in partenza per il Cile, ahimé... Q: Brava! E il tuo compagno non si scoccia di rimanere solo con il bambino? A: Eh, diciamo che abbiamo un'organizzazione familiare molto flessibile. Chiaramente è scontento, ma sa che se devo andare vado. Esattamente come lui. In realtà timbriamo il cartellino, lui è appena tornato dalla Cina e io parto per il Cile, siamo sempre con la valigia. Q: È complicato mettere insieme famiglia e lavoro? A: Beh, diciamo che basta sacrificare un po' il lavoro? Q: Ma, nella tua esperienza, è più complicato per una donna o per un uomo? A: Beh, nella mia esperienza... Forse è uguale. Forse un po' più difficile per la donna perché è più difficile stare lontane dalla famiglia. Ci si sente più in colpa. Insomma, io lascio mio figlio e mi sento che dovrei stare con lui, mentre per il mio compagno mi sembra che sia un sentimento meno forte. Quindi solo per quello. Q: Beh, dipende anche dalla disponibilità del compagno. A: Sì, ma nel mio caso è solo una questione mia intima. 97
Q: Ma allora qual è la vera difficoltà delle donne nella carriera scientifica? Perché ci sono poche donne nei posti chiave? A: Probabilmente le cose stanno anche cambiando. Da una parte io sono molto avvantaggiata dal fatto di essere donna. CI sono tutti questi problemi di gender balance, di parità etc... che fanno sì che io vengo invitata ovunque, a convegni, panel di valutazione, committee, probabilmente perché non sono male, ma anche perché sono una donna e nella lista degli Invited speakers è bene che ci siano un po' di donne. Quando sono tutti uomini si nota.... Q: Quindi mi dici che questa politica del gender balance funziona. A: Sì un po' funziona e direi che è giusto così. Certo, poi per quello che riguarda i ruoli chiave, quelli decisionali, quella è un'altra questione. A quel livello la politica del gender balance non funziona più molto. Q: Ma nel concorso per scegliere il direttore del tuo Istituto eri nella terna finale. A: Sì, anzi eravamo due donne e un uomo. Comunque in generale c'è una questione di disponibilità perché per esempio fare il Direttore di un istituto CNR richiede tantissima energia, e non è detto che una donna con famiglia voglia metterla sul lavoro. Perché forse in questo momento preferisco saltare sul lettone con mio figlio piuttosto che avere questa responsabilità, e questo è il sentimento di molte donne. Che alla fine si tirano indietro loro, perché avere dei ruoli chiave vuol dire comunque essere esposti. E non è detto che sia sempre la scelta ottimale per una donna. Q: Ma in matematica si sente più o meno questa differenza tra uomini e donne, rispetto ad altre discipline? A: In Italia mi pare che non si senta molto questa differenza. O forse sono io che ho i paraocchi e non m accorgo di nulla. In altri paesi, tipo la Germania, la differenza è grandissima. Non ci sono donne che fanno matematica. Mi sono trovata ad una conferenza a Oberwolfach dove ero l'unica donna. C'era da aver paura.... Q: E secondo te la matematica fa paura alle donne? A: Noooo, non di più che agli uomini. La matematica fa paura a quasi tutti tranne che ai matematici. Q: Allora ancora un paio di domande e poi ti lascio lavorare. Altre attività che ti piace fare nel tempo libero, libri, film, musica... A: Leggo tantissimi fumetti, sono una fan di Hugo Pratt e anche di Dylan Dog. In realtà è il mio compagno che mi ha passato questa passione: i Dylan Dog li abbiamo dal numero uno. Sono una pessima cuoca, e in casa cucina l'uomo. E poi leggo molto. È una passione che mi è venuta come reazione alla troppa matematica. Da giovane facevo solo sport e leggevo solo fumetti. Invece oggi leggo tanto. Q: E chi sono i tuoi autori preferiti? A: Evolvono nel tempo. Posso solo dirti che l'ultima passione è Fred Vargas. E sono un'orfana di Varga, perché scrive solo un libro all'anno e dovrebbe scriverne dieci. Tra
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l'altro Fred Vargas è lo pseudonimo di una ricercatrice di storia del CNRS francese che scrive romanzi nei suoi 53 giorni annuali di ferie. Q: Come vedi la situazine della ricerca in Italia. È così grave? Cosa faresti per cambiare le cose? A: Beh, io sono una pessimista. Forse vivo in un ambiente che è stato molto penalizzato negli ultimi anni. Sono entrata nel CNR nel 2000 pensando di trovare un ambiente stimolante per fare ricerca e l'ho visto precipitare. L'ottimismo non è tanto. Ma ahimé non la vedo molto positiva per il futuro. Sono in Italia solo perché abbiamo deciso di tornare. È stata una decisione sofferta, e adesso sarebbe anche peggio gettare la spugna e andarsene. Però la tentazione è tanta e le proposte anche. Q: ma perché le cose non funzionano? Mancano i soldi o la struttura non funziona? A: Credo che il problema sia che le persone sono poche. C'è poco personale permanente e nemmeno tutti lavorano come dovrebbero. Non ci sono veri controlli e non si capisce nemmeno perché bisognerebbe lavorare. Le persone come me lavorano solo per una specie di missione, non perché ci sia uno stimolo. Mancano stimoli ai ricercatori. E mancano anche agli amministrativi, che fanno molta fatica per tenersi aggiornati e la loro carriera è l'ultimo dei pensieri di chiunque. E di fatto perdono stimoli, con il risultato che il ricercatore non ha più il supporto che deve avere e questo complica l'esistenza. Q: E se fossi il ministro cosa faresti? A. Sono contenta di non esserlo... Q: Beh, ha l'età tua. A: Certo, ha proprio la mia età. Che farei? Forse cercherei di mettere insieme un meccanismo virtuoso, ispirandomi a esperienze vicine. Per esempio la Francia che è un contesto scientifico che funziona incomparabilmente meglio del nostro, e forse a pari risorse. Anche se hanno più risorse umane, hanno pochissime risorse finanziarie dal Ministero. Però non sono solo le risorse umane. È anche il modo di utilizzarle. Hanno più mobilità tra CNRS e università, più flessibilità. I laboratori fanno le valutazioni e ci tengono a farla. E servono a distribuire le risorse. Da noi tutto questo manca. Si fanno le call per i progetti e non si capisce bene come vengano fatte le valutazioni. Ecco, sarebbe ora di distribuire i pochi soldi con maggior criterio. (marzo 2010)
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Camillo de Lellis intervista raccolta da Roberto Natalini
A soli 29 anni, è diventato professore ordinario all’Università di Zurigo. Oggi parliamo con Camillo De Lellis Q.: Ciao Camillo, puoi presentarti brevemente? Cosa fai, chi sei? A.: Cosa faccio? Mi diverto, tanto. Cosa faccio matematicamente, intendi? Sono Camillo, sono all'università di Zurigo, studio analisi, in particolare equazioni alle derivate parziali con collegamenti alla geometria e alla fisica matematica, qua e là. Q.: Quando hai cominciato a capire che eri bravo in matematica? A.: Da piccolo ho sempre avuto un certo talento per la matematica, ma era molto meno chiaro che volessi fare il matematico. È venuto fuori molto più tardi, diciamo verso i quindici o sedici anni. Diciamo che ero abbastanza convinto che volessi fare lo scienziato e poi al Liceo ho capito che volevo fare il matematico. Q.: C'è qualcuno che ti ha guidato in questa tua vocazione? A.: No, ho cominciato leggendo. Ovviamente mio padre ha una certa inclinazione per la scienza, ma più per quella sperimentale che per quella teorica. A casa c'erano tanti libri di matematica, ma anche di fisica. Mio padre tra l'altro fa l'insegnante di Inglese alle scuole medie come mia madre, per cui non è che ci sia... Mio zio fa l'insegnante di matematica alle superiori, ma fino al momento in cui ho palesato questo interesse non ne avevamo mai parlato. Q.: E qual è il libro che più ti ha ispirato? A.: Un libro specifico? Beh, una cosa che mi ha incoraggiato molto è che mio padre aveva studiato un po' di analisi, era interessato alla matematica come a tante altre cose e, una volta, quando avevo credo quattordici anni, mi disse che non era mai riuscito a capire il 100
teorema fondamentale del calcolo. E mi aveva allungato un libro (non mi ricordo in realtà quale fosse) e mi aveva in un certo senso sfidato a capire questa cosa qua, che io in realtà dopo un po' di mesi ho capito. Non come lo chiederesti a uno studente all'università, ma insomma avevo abbastanza capito perché l'integrale è il contrario della derivata. Q.: E poi hai provato a spiegarlo a tuo padre? A.: A dir la verità non c'ho nemmeno provato. Molto spesso quando provo a spiegare qualche cosa di matematica a mio padre o ai miei familiari va a finire abbastanza male. Per qualche motivo sono impaziente se ho un legame affettivo con la persona. Spero non succeda anche con mio figlio. In realtà quello che mi succede è che mi spazientisco se la persona non capisce subito. E se la persona è emotivamente vicina a me lo percepisce immediatamente. Mentre con gli studenti sono emotivamente più distaccato, per cui anche se non capiscono, pazienza. Con le persone che mi sono vicine tendo a essere più emotivo, forse perché ho la sensazione che sono io a non essere chiaro. Insomma con mio padre se entriamo un po' nel dettaglio, rischia che litighiamo... Q.: E i tuoi genitori ti hanno incoraggiato verso la professione di Matematico? A.: Mia madre era fortemente contraria e voleva farmi fare Ingegneria, come tutte le madri d'Italia, credo. Mio padre non era contrario, ma fortemente dubbioso. Mia madre temeva che io finissi a insegnare in un Liceo o una scuola Media. Mio padre non è che abbia tentato di influenzarmi, ma era preoccupato che questa storia di fare il matematico non finisse bene. Q.: E tu cosa hai fatto? A.: Beh, a mia madre ho detto chiaro e tondo che avrei fatto matematica sia se fossi entrato in Scuola Normale, sia in caso contrario. È chiaro che poi, quando ho vinto il concorso a Pisa la situazione è un pochino cambiata. Q.: E hanno cambiato parere? A.: Mia madre dice tuttora che se avessi fatto Ingegneria avrei fatto sicuramente bene e probabilmente starei meglio di adesso come matematico. Q.: E tu quando hai capito che eri tagliato per questo mestiere?
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A.: Quando ho capito che avrei combinato qualcosa di buono? Ah, beh, non credo di essermi mai posto una domanda di questo tipo. Forse da un punto di vista molto egoistico, ho pensato che questa era una cosa che mi piaceva proprio fare. E l'unico problema che mi sono posto è se sarei riuscito a sopravviverci. Quando ho capito che il problema non c'era mi sono tranquillizzato. Però non mi sono mai chiesto cosa io potevo dare alla matematica. Casomai il contrario. Q.: E quando hai capito che eri proprio bravo? A.: Mah, non credo di averlo mai capito. Non so se ne sono tuttora così convinto. Di certo che mi dessero un posto di ordinario a 29 anni a Zurigo... Insomma questo problema del tipo ‘quando divento professore’ non me lo sono mai posto. Nel momento in cui mi sono addottorato ho fatto domande da Post-doc e da ricercatore e poi, strada facendo ho fatto domande per i posti più in là. Non mi sono mai posto il problema di quando ci sarei riuscito. È venuto tutto molto naturale. In generale, nel corso dei miei studi, non c'è stato mai un momento in cui mi sono detto: ‘ah, ma allora sono più bravo di quanto pensassi’. La mia opinione su di me è abbastanza costante. Q.: Però ci saranno stati dei successi che ti hanno incoraggiato. A.: Certo ci sono stati dei momenti in cui ho avuto delle soddisfazioni. In alcuni momenti ho risolto dei problemi interessanti, che erano anche abbastanza difficili. Ecco. Però quei momenti li ho vissuti dicendo: ‘però, accidenti, questo mi è riuscito’. Q.: Il risultato che hai ottenuto che ti soddisfa di più? A.: Se ne devo sceglierne uno è sicuramente il lavoro sulle equazioni di Eulero Incomprimibile. Quello che ho fatto due o tre anni fa con LászlóSzékelyhidi. In questo lavoro diamo una spiegazione abbastanza efficace per alcuni esempi di non unicità di Eulero incomprimibile. E abbiamo collegato questo a esempi in geometria differenziale e anche a esempi come la mal positura delle soluzioni di entropia per le leggi di conservazione in dimensione maggiore di due. Q.: E in che dimensione avete lavorato? A.: Mah, le cose valgono sia in dimensione due che superiore.
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Q.: A cosa stai lavorando adesso? A.: In questo momento ho un paio di progetti piuttosto a lungo termine. In uno di questi sto cercando di dare una dimostrazione semplice dei risultati di regolarità per le correnti minime in codimensione maggiore uguale di due. Q.: Di che si tratta? A.: Diciamo che c'è questo risultato storico sulla regolarità delle superfici che minimizzano l'area in ogni codimension dimostrato una trentina di anni fa da Almgren, e che stampato faceva oltre 1000 pagine (il manoscritto era di oltre 1800 pagine!). Una delle mie aspirazioni sarebbe di trovare una dimostrazione “umana” di questa cosa qui. E una buona parte della teoria l'abbiamo già semplificata trovando delle dimostrazioni più eleganti dei risultati fondamentali. E questo servirebbe a sbloccare in un certo senso un'intera area di ricerca, perché ci sarebbero cose interessanti da fare, ma che sono bloccate da questo “Moloch”. Ci tengo a dire che questa ricerca la sto conducendo con un mio dottorando che si chiama Emauele Spadaro che discuterà la sua tesi tra pochi giorni. Q.: Quali persone sono state importanti per la tua formazione? A.: Sono debitore in realtà a moltissime persone. Se devo identificare tre persone da cui ho imparato molto, beh, devo molto a Luigi Ambrosio (il mio relatore), Felix Otto e Tobias Colding. Q.: Quali sono i settori della matematica che vedi come maggiormente promettenti? A.: Mah, non saprei, diciamo che c'è questa interazione tra analisi e geometria che mi sembra sia molto interessante negli ultimi venti-trent'anni. La soluzione della congettura di Poincaré ne è un esempio lampante. Da questo mi aspetto che escano ancora cose molto interessanti. È un ambito della matematica che a me interessa molto e che trovo estremamente moderno, promettente. Ma è molto ampio, poi è difficile circoscrivere cosa poi risulterà più interessante. Q.: Quali sono i tuoi “dream problems”? A.: Ce ne sono tanti. E alcuni anche estremamente ambiziosi. Ma me li tengo lì, ci lavoro attorno, magari non esattamente a quei problemi lì, o magari non al 100%. Ma faccio anche altre cose, altrimenti non combinerei nulla. In realtà la maggior parte di queste cose 103
le tentano in molti, ma le risolvono uno o due, no? E insomma, ho un approccio abbastanza pragmatico. E poi quando studio un problema mi piace anche capire cosa ci sia intorno. Q.: Ma pensi mai di chiuderti in casa come Wiles o Perelman a lavorare initerrottamente su un problema super-importante? A.: Beh, sì, a volte mi chiudo in casa e lavoro solo su queste cose, ma, a differenza di Wiles, non mi riescono... Insomma, non so se Wiles o Perelman facevano solo quello, io faccio anche altro... Q.: Che rapporti hai con le applicazioni? A.: Io credo che ci siano cose molto interessanti. Io, più che cose applicate, magari ho cercato di dare basi teoriche a persone che facevano matematica applicata, soprattutto all'inizio della mia carriera. E la trovo una cosa estremamente interessante, fruttuosa e appassionante. In realtà io sono un matematico piuttosto teorico e non mi sento portato per farlo io in prima linea. Però se uno venisse da me con una domanda precisa su di un problema di matematica applicata, sarei ben contento di interessarmene. Se poi il problema esteticamente mi piacesse, potrei mettermici a lavorare, ma sempre da matematico puro. Q.: Secondo te per fare applicazioni bisogna interagire direttamente con chi lavora sul campo o basta avere un problema ben precisato? A.: Io credo che ci sia bisogno di interazione con chi il problema lo fa, forse non con una sola persona, può anche essere fatto in team, ma credo che un contatto ci debba essere altrimenti mi verrebbe da dire che più che matematica applicata stai facendo fisicamatematica, che è un'altra cosa. Q.: Hai interagito con non matematici a livello scientifico? A.: Sì in alcuni c'è stato un contatto e credo che sia possibile avere uno scambio di informazioni anche fruttuoso. Solo che ho investito molto più tempo nella matematica pura che in quella applicata. Q.: Va bene, passiamo a parlare d'altro. Cosa fai quando non fai matematica?
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A.: Quando non faccio matematica faccio parecchie cose. Faccio sport, sono appassionato di cinema, di musica classica, gioco con mio figlio, che adesso ha tre anni, e leggo molto. Q.: E cosa leggi? A.: Leggo veramente di tutto. Per esempio mi piace molto James Ellroy, ma mi piace molto anche Roberto Musil, per cui sono abbastanza disparate le cose che mi piacciono. Per esempio nel 2010 ho letto due o tre libri di legal thriller di Carofiglio che mi sono piaciuti, poi un saggio di Enzensberger su Hammerstein, un generale tedesco tra la prima e la seconda guerra mondiale oppositore di Hitler e poi l'ultimo romanzo dei Wu-Ming (N.d.r.: presumibilmente Altai). E poi ho cominciato a leggere in tedesco “I Buddenbrook”. Ho letto un capitolo, ma lo trovo molto arduo. Q.: Parli bene tedesco? A.: Riesco a esprimermi, correntemente. Che poi lo parli bene non ne sono sicuro. Però faccio lezione in tedesco. Q.: Che rapporto hai con i tuoi coetanei che a volte sono ancora alla ricerca di un lavoro e spesso abitano con i loro genitori? Che pensano della tua carriera di matematico? A.: In realtà stando all'estero questo fenomeno di persone della mia età che stiano a casa con i genitori non esiste, per cui non saprei. In generale la gente è interessata, e trovo delle reazioni più di curiosità che di terrore. Q.: Non ti sembrano intimiditi? A.: No, non mi sembra... Q.: Ma non ti chiedono dettagli su quello che fai? A.: Questo mi viene domandato piuttosto spesso. Io do sempre delle risposte provocatorie del tipo “Mi diverto un sacco”. In genere do questa risposta provocatoria per vedere se l'interlocutore è realmente interessato a sapere cosa faccio. E funziona da barriera, così che escludo i casi in cui la persona vuole semplicemente conversazione, e poi invece ci 105
sono le persone che sono veramente interessate e allora mi piace cercare di spiegare cosa fa un matematico. Q.: Cosa ne pensi della divulgazione della matematica? A.: Da ragazzo ho letto parecchi libri di divulgazione che mi hanno molto stimolato. Poi però, dopo i 15 o 16 anni ho cominciato a trovarli molto superficiali, per cui ho cominciato ad approfondire di più. La divulgazione è importante ed è difficile da fare, specialmente in matematica. Però una cosa che non mi piace, ed è una tendenza che io vedo in tanti libri di divulgazione, è la tendenza a renderla una cosa astrusa o magica. Come quando dicono “il fisico X ha detto che viviamo in uno spazio a 17 dimensioni”, insomma queste cose che vengono fatte per impressionare la gente. Che è la filosofia esattamente contraria a quella della scienza. Cioè quello che mi è sempre piaciuto nella scienza è che si cerca di avere una spiegazione semplice di un fenomeno complesso. Ci sono invece articoli di divulgazione scientifica in cui si fa l'esatto contrario. A volte leggo articoli sui giornali che trattano la matematica come l'astrologia. Cosa che francamente mi irrita. Q.: Che ne pensi dei film che parlano di matematica? A.: Beh sui film non saprei. Credo di aver visto solo “Morte di un matematico napoletano” e non so quanto corrisponda alla vita di Caccioppoli. A me il film è piaciuto, e Cecchi era magnifico. Non sono andato a vedere “A beautiful mind”. Poi un amico mi ha fatto vedere una puntata del tizio di “Numb3rs”. E io lo trovo nello stesso filone di cui parlavamo prima. Questo tizio è una specie di mago che sta lì e risolve tutto. Può essere divertente guardarlo, ma insomma... Q.: Torniamo a parlare di cose serie. Visto da fuori, cosa non funziona nella ricerca italiana? A.: Tante cose non funzionano in Italia. Intanto che rispetto allo sforzo che ti costa, la carriera accademica non è così soddisfacente. Vuol dire fare un sacco di sacrifici senza avere uno status sociale soddisfacente. E questo vale per tutta l'educazione statale, dove le persone non sono pagate come dovrebbero. Questo è un problema grosso. Per esempio quando cominci la carriera accademica, all'estero hai uno stipendio che ti permette, se vuoi, di spostare la tua famiglia. In Italia no. Poi i meccanismi di selezione che non sono molto trasparenti. E i finanziamenti per la ricerca sono molto pochi. E queste sono cose che tutti dicono. Ma c'è una cosa che non sento dire quasi mai, e che pure mi rende molto perplesso e sconfortato quando cerco di paragonare l'Italia all'estero. Se, in media, io entro in un Dipartimento di matematica in Italia - e mi limito alla realtà che conosco - trovo che c'è una discreta percentuale di professori ordinari che non fanno nulla,
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non fanno ricerca, essenzialmente non fanno didattica, non hanno studenti di dottorato, insomma, non producono nulla. Ma nulla di nulla. Non vorrei però essere frainteso: la dimensione del fenomeno è shockante solo se confrontata alla situazione in tanti altri paesi di cui ho esperienza.C’è da dire infatti che, in valore assoluto, c'è una grossa fetta di docenti dei dipartimenti italiani che lavora moltissimo, compensando per i nullafacenti. E'insomma, a parer mio, un gioco a somma nulla: molti fanno il lavoro al posto degli altri. Chiaramente persone di questo tipo che lavorano poco ci sono ovunque, anche all'estero. Però quando prendi un buon dipartimento di matematica all'estero, ne trovi alcuni, pochi, una percentuale piuttosto bassa. Una cosa per me mostruosa è che nei dipartimenti di matematica in Italia ne trovi una percentuale molto più alta! Q.: Ma la didattica la fanno un po' tutti... A.: No, no, non bene. Fanno didattica a distruggere. E questo lo trovi in quasi tutti i dipartimenti di matematica. E non so perché sia così. E una cosa collegata è che c'è gente giovane e brava a cui di conseguenza vengono appioppate tonnellate di impegni didattici, spesso soffocandoli. Mentre questo all'estero normalmente non succede. Certo non è uguale dappertutto, ma non come nel nostro paese. La mia impressione è che questo succeda specialmente nella vecchia generazione. I giovani entrano freschi e pieni di entusiasmo. Certo, ognuno al suo livello. Mica devono tutti essere dei Gromov. Però si richiede che ciascuno faccia il suo onesto lavoro. E poi non so cosa succede, perché non vivo direttamente la realtà italiana, e se magari fossi inserito in quel contesto sarei uno di quelli che non fa nulla, magari si scoraggiano, ma insomma vedi molti che dopo i quarant'anni sono lì e non fanno più nulla. Sono delle osservazioni che mi porto dietro da quando sono studente... Q.: Cosa diresti per motivare un giovane a fare matematica? A.: Direi che è bello. È bello. È bello. È bello fare matematica. È interessante. Si capiscono le cose. Non so come dirlo, ma il piacere che provo quando capisco una cosa è proprio la soddisfazione di averla capita. È impagabile. E ovviamente è anche una cosa utile. Certo, a un ragazzo di 18 o 19 anni, se lo vuoi incoraggiare a fare matematica o più in generale a fare scienza, gli puoi spiegare che ci sono le applicazioni. Ma insomma, alla fine se sono queste che veramente lo interessano, allora potrebbe anche andare a fare l'ingegnere. Invece secondo me uno deve battere sul chiodo del genuino interesse estetico nel fare matematica. Uno fa cose belle. E in questo invidio i miei colleghi che fanno scienze umanistiche che non devono mai giustificare il motivo per studiare le loro materie. Studi italiano o storia dell'arte perché sono belle. E così dovrebbe essere per la matematica. Perché la matematica è bella e divertente, più di quanto uno non pensi. (marzo 2010)
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Francesco Maggi intervista raccolta da Roberto Natalini
Palline di carta accartocciate, cristalli perturbati, bolle che si uniscono, queste sono solo alcune delle cose che studia Francesco Maggi, un giovane matematico fiorentino con una grande passione per Bob Dylan... Q.: Chi sei, cosa fai, quanti anni hai? A.: Di anni ne ho 32, questo è l'unico dato certo direi, che ti posso fornire. Faccio il ricercatore presso il Dipartimento di matematica dell'Università di Firenze e mi occupo di Calcolo delle Variazioni. Problemi variazionali di tipo geometrico, disuguaglianze isoperimetriche, superficie minime, disuguaglianze funzionali. Come interessi di ricerca, mi sono occupato delle applicazioni alla meccanica dei continui, quando ho lavorato in Germania, prima di venire qui. Q.: Con chi hai lavorato in Germania? A.: Allora, sono stato a Lipsia e ho lavorato con Sergio Conti e poi anche a Duisburg. Con lui ho fatto un lavoro che allora ci divertì molto. Cioè il problema di prendere un foglio di carta e appallottolarlo e capire quanta energia elastica spendi in relazione allo spessore del foglio. E qui c'è una legge curiosa, congetturata da dei fisici ed ingegneri, che postula che l'energia elastica che spendi sia proporzionale allo spessore del foglio alla potenza 5/3. Q.: Ah, e perché 5/3? A.: È una cosa un po' curiosa. C'è una competizione tra il fatto che un foglio elastico sottile un po' spende per piegarsi, ma quando tu fai veramente una pallina di carta hai delle zone in cui si piega in maniera gentile, e va quindi come lo spessore al quadrato, che è il raggio di curvatura di un cilindro infinitesimo, mentre poi ci sono delle zone interessanti dove vengono formati dei vertici. In particolare, veramente interessanti sono le coppie di vertici. In corrispondenza delle coppie di vertici la curvatura diventa altissima vicino al vertice, e piano piano si allarga, la curvatura, e contemporaneamente c'è una tensione che si muove lungo il vertice. Il foglio viene da una parte stirato, vicino ad un vertice, per cui non è più solo energia di piegamento, ma è la competizione tra un piegamento, di passo variabile, e una tensione lungo la linea della piega. E questo produce questo esponenete 5/3 per lo spessore (N.d.R.: ossia serve un'energia molto più grande di quella che uno si
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aspetterebbe). E noi abbiamo dimostrato un Teorema in cui si vede che puoi sempre fare questo confinamento spendendo questo quanto di energia. Q.: Ho capito. E come applicazione, cosa si cercava di dedurre da questo tipo di legge? A.: Non lo so realmente. (Ride). Ora l'ho spiegato con il foglio di carta che non è un esempio buono perché non è perfettamente elastico. D’altra parte anche la lamiera di una macchina dovrebbe avere un comportamento simile se è sottoposta a forze abbastanza intense. Più in generale questo tipo di risultato riguarda la meccanica degli oggetti sottili in una delle dimensioni, che è un tema ingegneristico molto importante. E questo è un fenomeno non lineare, che si spiega fino ad un certo punto linearizzando brutalmente, e che richiede di capire della matematica interessante. Infatti dietro alle cose che abbiamo studiato ci sono anche dei problemi puramente matematici non risolti. Ci sono dei teoremi di geometria differenziale, ci sono costruzioni esplicite in cui puoi avere veramente l'intuizione fisica di quello che stai facendo. Q.: Più in generale, tu ti occupi di disugaglianze isoperimetriche. Prova a spiegare rapidamente di che si tratta. A.: È un campo affascinante perché i problemi sono semplicissimi. Il problema isoperimetrico euclideo richiede di minimizzare il perimetro a volume fissato. Quindi uno cerca una regione dello spazio che racchiuda un certo volume, usando per fare questo una superficie minima. E la soluzione, lo sanno oramai tutti da duemila anni, è la palla. Chiaramente questo problema si può complicare in vari modi. Quello di cui mi sono occupato io è questo. Nella realtà non si vede mai una palla esatta. La soluzione è sempre perturbata, e ci sono degli effetti di sottofondo che rendono la cosa diversa. Allora mi sono interessato a questioni di stabilità. Vorresti dire che la tua bolla di sapone sta minimizzando il perimetro a volume fissato, ma poi hai un po' di gravità o altre forze esterne, e allora cosa succede? In che senso osservo ancora una bolla? Sono domande classiche. Che ricalcano il canone del problema ben posto: esistenza, unicità e stabilità delle soluzioni. E quello che abbiamo fatto con Nicola Fusco, Aldo Pratelli e Alessio Figalli, in una serie di lavori in cui si studiano questi problemi, e in cui abbiamo stabilito dei risultati nuovi di stabilità, in cui quantifichiamo in termini dell'energia del sistema quanto l'oggetto che osservi sotto una perturbazione è lontano dall'essere una palla. E questo lo abbiamo fatto sia per questo principio euclideo che ti dà la sfera, sia per il principio di minimo che genera i cristalli. Un cristallo in prima battuta si forma con lo stesso principio, solo che al posto di minimizzare il perimetro, che è un oggetto isotropo, ossia non c'è una direzione previlegiata, il cristallo ha una struttura atomica particolare che previlegia delle direzioni, per cui se macroscopicamente devi attaccare delle facce di cristallo, vi sono delle direzioni preferite. E noi abbiamo fatto un teorema per il principio variazionale che sta dietro a questa questione. Anche se il problema è simile, le dimostrazioni sono in realtà molto lontane, basate su idee geometriche diverse. In pratica c'era un risultato parziale non ottimale di Fusco, Esposito e Trombetti, che siamo riusciti a migliorare rendendolo ottimale. E la cosa più interessante per i matematici è stata la tecnica utilizzata, che si
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basa sul trasporto ottimale di Yann Brenier. Che in questo caso ha una marcia in più rispetto alle mappe di trasporto standard che sono non ottimali. Q.: E di cosa ti stai occupando più recentemente? A.: Allora, quando leggeranno questa intervista le persone si metteranno a ridere. Per uno che ha fatto una bolla e un cristallo, qual'è il problema successivo? … Due bolle! (ride). Seriamente, questa è una questione che mi sta a cuore. Quando uno fa le bolle di sapone spesso vede che le bolle si attaccano. E una ventina di anni fa Frank Morgan e alcuni suoi allievi si sono resi conto che nessuno si era mai preso la briga di dimostrare che, se tu vuoi separare due volumi, due zone dello spazio, il modo migliore di farlo è di attaccare tre calotte sferiche con opportune curvature. Per cui se devi racchiudere due volumi esattamente identici nello spazio, attaccherai due calotte sferiche con un'interfaccia piatta. Se i volumi sono diversi, una delle due pallette si deve stringere e devi fare un'interfaccia tonda che si attacca a 120 gradi all'altra sfera. Questo è il teorema della doppia bolla standard che è stato dimostrato in nel 2002 in tre dimensioni da Morgan e altri su Annals of Mathematics, un risultato di grandissimo rilievo, ed è poi stato dimostrato in tutte le dimensioni. E questo è un problema “ganzissimo” perché, insomma, per dimostrare un teorema di stabilità si parte di solito dal fatto che quell'oggetto che perturbi è ottimale e cerchi di perturbarlo. Quindi tanto più la dimostrazione di ottimalità è efficiente e tanto più sarà facile dimostrarne la stabilità. Nel caso della doppia bolla questa dimostrazione di ottimalità è nota per la sua bellezza, ma anche per la sua complessità ed è praticamente impossibile utilizzarla per provare la stabilità. Ora, recentemente, Marco Cicalese e Gian Paolo Leonardi hanno trovato una dimostrazione alternativa al teorema della bolla semplice, che utilizza delle idee completamente nuove e che mi ha molto affascinato. Parlandone con loro abbiamo discusso sulla possibilità di estenderla al caso della doppia bolla e lavorandoci un po' ci siamo accorti che la situazione con due bolle è veramente diversa e pone una sfida veramente interessante. Ci stiamo lavorando e abbiamo per ora un'idea del percorso che intendiamo seguire, ma ci sono delle grosse difficoltà poste dalle singolarità presenti nelle regioni di attacco. Q.: Ok, beh, in bocca al lupo. Ora però cambiamo argomento. Perché hai cominciato a fare matematica? A.: Ho cominciato per caso. Ero iscritto a Architettura e bocciai il test del numero chiuso. Ero il terzo degli esclusi e speravo mi avrebbero richiamato, per cui, dovendo iscrivermi per poi fare in seguito il passaggio, presi la guida dello studente e mi incuriosì molto il corso di Laurea in Matematica. Sembrava filosofia a leggere i programmi. E poi era vicino casa e c'era lezione solo la mattina. Insomma era come continuare il liceo, solo più vicino a casa. E così, comincia a frequentare e scoprii che, oltre ad essere comodo, era anche molto interessante, e insomma … sono rimasto. Q.: Quand'è che hai capito che potevi fare della ricerca di alto livello? A.: (ride). 110
Q.: Vabbè, forse non lo hai ancora capito..., ma insomma quando hai sentito che quello che facevi aveva un senso? A.: Mah, non lo so francamente. Sicuramente una cosa che mi piace moltissimo è l'interazione con le persone. Che discutendo si tira fuori gli uni dagli altri molto più di quello che da soli sapremmo fare. Sicuramente il lavoro fatto con Figalli e Pratelli sulle disuguaglianze dei cristalli mi ha dato una grossa soddisfazione, perché mi ha permesso di mettere insieme delle cose che avevo fatto prima, con la mia passione per il trasporto di massa. Ma insomma in generale, mi è piaciuto lavorare con queste persone, tutti molto bravi, e poi inoltre con Nicola Fusco, Cedric Villani, Sergio Conti, che mi hanno insegnato tanto. E quindi, piano piano, più che in un singolo momento, ho acquisito maggiore fiducia in me stesso. Passano gli anni e e sei sempre lì che fai i teoremi. Insomma, non c'è stata l'epifania, ma più un processo continuo di invischiamento nella cosa. Q.: Ho capito. Senti, e com'è che ancora non sei andato all'estero? A.: Ci sono stato e avevo anche un contratto per 6 anni in Germania, quando ho vinto il posto da ricercatore in Italia. Q.: Va bene, ma perché, potendo stare all'estero, hai scelto di ritornare in Italia A.: Beh, al livello economico e scientifico non ci sarebbe stato motivo. Hanno politiche molto serie per l'Università per loro fortuna. Piuttosto per ragioni personali. Per stare nel mio Paese, dove comunque vivo meglio. Uno non lavora e basta, ha anche voglia di stare con gli amici. Non è solo una questione di legami personali. È proprio una questione di respirare l'aria del proprio paese. Certo, c'è chi si innamora di un altro paese. Conosco gente che si è sono molto ben integrata in Germania, per esempio. Ma insomma a livello peronale non mi posso troppo lamentare. Partecipo a due progetti europei, uno di Fusco e uno di Pratelli, per cui problemi di fondi per ora non ne ho avuti. Certo a volte uno si chiede quale sia la possibilità di fare carriera, perché da ricercatore a volte vivi la situazione dell'università in modo un po' scoraggiante. Sei confinato alla didattica e di più non dimandare. Invece sarebbe utile se a prendere le decisioni fossero le persone che in qualche modo tirano scientificamente. Invece l'unica cosa chiara della riforma in atto è che per contribuire al processo decisionale devi avere il titolo di Professore Ordinario, anche se fosse solo per comprare una penna. Mentre è chiaro che a tutti i livelli ci sono persone valide che potrebbero contribuire. Insomma, c'è anche questo nel restare in Italia, e per ora uno lo pondera piano piano. Magari un giorno cambierò idea e deciderò di trasferire baracca e burattini da un'altra parte, ma insomma non per ora. Q.: E cosa pensi di fare scientificamente nel futuro. Pensi di continuare a fare sempre quello che stai facendo, o a un certo punto ti lancerai in qualche cosa di nuovo, in cui avrai la piena autonomia?
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A.: In realtà la piena autonomia l'ho sempre avuta, anche quando ero in Dottorato. Ho sempre scelto di fare cose che mi interessavano, interagendo con chi condivideva questi interessi. Chiaramente, una cosa che mi piacerebbe fare sempre di più sarebbe quella di allargare i miei interessi, cercando di fare ricerca su cose nuove. Però è chiaro che una certa pressione a produrre c'è, per cui non penso di mettermi domani a fare geometria algebrica, senza scrivere una riga per dieci anni. Questa cosa la fai andando su problemi contigui e lavorando con persone nuove. Però è importante continuare a spostarsi. Q.: Muoviamoci ora al di fuori dell'ambito matematico. Quali sono i tuoi interessi personali a parte la famiglia? A.: Sicuramente la musica è una cosa che mi prende molto. Io suono la chitarra. E mi piace molto suonare per gli altri. Mi piace suonare per la famiglia, mia mamma ne sa qualcosa, mi ha sentito imparare tutto il repertorio di Bob Dylan in cucina, cantando e suonando l'armonica. (ride). E quindi suonare con altri musicisti., anche se nell'ultimo periodo ho avuto meno possibilità di farlo. Mi piace anche conoscere musica nuova, studiarla. Se mi piace un gruppo, ascolto tutto quello che ha fatto. E mi piace scoprire generi nuovi. A volte c'è gente che apprezza un genere che se tu lo ascolti la prima volta ti sembra sia inascoltabile. In questi casi cerco di capire cosa c'è dietro e si scoprono cose interessanti. Q.: Con Cedric Villani avete parlato di musica? Lui è un bravissimo pianista... A.: Beh, una volta a un convegno mi ha chiesto di suonare “Oxford Town” di Bob Dylan. Ma insomma lui è più appassionato al classico, mentre io mi dedico maggiormente al repertorio Rock-Blues-Folk. Q.: Ho capito. E hai altri hobby? A.: Sì, i fumetti sicuramente, principalmente le graphic novels e questo genere di cose. Per me sono piacevolissimi e hanno un coinvolgimento emotivo particolare, forse perché ci sono le figure (ride). Q.: E chi sono i tuoi autori preferiti? A.: Beh, ci sono gli straclassici come Alan Moore o Frank Miller o anche Eisner, ovviamente. E poi cerco di leggere anche altri autori. Recentemente mi è piaciuto molto “Black Hole” di Charles Burns, “Persepolis” di Marjane Satrapi e poi anche i manga di Jiro Taniguchi. Insomma, una vera passione. Nell'ultimo trasloco ho dovuto vendere 850 fumetti al negozio di fumetti locale, non ci stavano più in casa... (novembre 2010)
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I Luoghi della matematica
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We are Penn State! di Carlotta Donadello* L'11 Aprile 2006 ho messo piede per la prima volta sul suolo americano. Lo scopo del viaggio era incontrare il mio relatore, che si era trasferito alla Penn State l'anno prima e che non vedevo da circa sei mesi. Non avevo raccolto informazioni dettagliate sul posto, sapevo solo che ero arrivata in una cittadina molto piccola che non compare in nessuna guida italiana dell' east coast. In effetti State College (home della Penn State University) non ha interesse turistico se non come esempio perfetto di college town (ma proprio per questo vale la pena visitarla se si è nei paraggi). A fronte di oltre 44.000 iscritti all'università, la popolazione residente di State College è di appena 35.000 unità. Da Googlemap è facile accorgersi della sproporzione tra l'area residenziale della città e il campus. Scoprire a 26 anni di essere ben oltre l'età media della popolazione è stato un po' un trauma e capisco che molti dei miei amici che hanno fatto il dottorato lì si siano sentiti prigionieri di questo “paradiso per undergraduate”. Tuttavia, la qualità della ricerca scientifica, l'eccellente amministrazione e la tranquillità del luogo fanno di Penn State una meta perfetta per una visita di qualche mese. In fondo New York e Philadelphia sono a poche ore di macchina! Alcuni edifici nel campus, tra cui il dipartimento di matematica, sono stati costruiti poco dopo la fondazione dell'università (1855), mentre altri sono recentissimi, come la sede della nuova Scuola di Legge (2008). L'insieme tuttavia non è troppo disarmonico anche perché tra un edificio e l'altro vi sono grandi spazi verdi progettati e mantenuti con grandissima cura (la varietà di fiori e arbusti locali è molto interessante di per sé). Quasi tutte le case vicino al campus sono villette di legno circondate da un giardinetto e si vedono ovunque scoiattoli e chipmunk (puzzole e orsetti lavatori sono più rari). Il mio primo viaggio negli States non avrebbe potuto portarmi in un luogo più vicino a Paperopoli (almeno per come me la immagino io) e ne sono stata subito affascinata. Il dipartimento di matematica si trova nel MacAllister Building, un edificio massiccio su quattro piani, costruito nel 1905 per ospitare una residenza universitaria. Nel seminterrato si trova il Pritchard Fluid Mechanics Laboratory, uno dei pochissimi laboratori sperimentali interamente gestiti da un dipartimento di matematica. Nel sito web del laboratorio sono disponibili alcune immagini interessanti sulla propagazione di wave patterns in una e due dimensioni spaziali. Al piano terra, al posto d'onore davanti all'ingresso principale, è esposta una grande scultura d'acciaio, l'octacube, ideata da Adrian Ocneanu. L'octacube è, per quanto ne so,
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BOAS Assistant Professor presso la Northwestern University
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l'unica scultura al mondo studiata per rappresentare un oggetto a quattro dimensioni spaziali. Il dipartimento conta una settantina di membri permanenti e c'è una grande varietà di temi di ricerca sia in matematica pura che matematica applicata. Ci sono sempre moltissimi visitatori e l'ambiente è molto aperto e vivace. L'esperienza positiva alla Penn mi ha incoraggiato a cercare un post-doc negli Stati Uniti, e adesso ho un posizione di tre anni alla Northwestern University (Chicago). I miei colleghi americani coltivano un grande attaccamento per l'università in cui hanno studiato e visto che per loro Padova e Trieste erano posti lontani e poco familiari, hanno preferito che io venissi dalla Penn. Devo ammettere che nel tempo anch’io mi sono convinta di questa scelta, cosa provata anche dal fatto che nella mia ultima visita (dicembre 2009) ho comprato il copri-divano con i colori ufficiali della locale squadra di football. Familiari e amici sono rimasti inorriditi, ma la squadra di football, i Nittany Lions, è veramente fortissima, conosciuta e amata in tutti gli Stati Uniti. Molti italiani che visitano Penn State tornano a casa dicendo che lo stadio dell'università è più grande di San Siro e poi, intimiditi dagli sguardi scettici degli amici, aggiungono che “così hanno sentito dire”. La verità è che il Beaver Stadium è il terzo stadio più grande del mondo, secondo solo a quelli di Pyonyang in Corea del Nord e di Kolkata in India, e ha 107.282 posti. Trovo questi numeri talmente sconcertanti da meritare un copri-divano e forse anche un posto in una guida turistica, dopo tutto. (marzo 2010)
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Cesenatico di Roberto Natalini Sono sempre stato negato per i giochi matematici, come anche per gli scacchi o altre situazioni in cui si debba pensare intensamente, ma in modo facoltativo. La vocazione per la matematica, questa attività perversa che ti porta tuo malgrado a confrontarti con problemi più grandi di te, e dalla difficoltà spesso imprevedibile, e che alla fine capisci solo in minima parte, è nata per me molto dopo, con la fisica, la filosofia e altri sogni del genere. E non sono mai stato portato in modo particolare. Forse è per questo che mentre il treno mi porta verso Cesenatico, dove come tutti gli anni si svolgeranno le finali nazionali delle Olimpiadi di Matematica, organizzate dall'Unione Matematica Italiana, dove mi è stato chiesto di tenere una conferenza “culturale-didattico-divulgativa” per i ragazzi partecipanti e i loro insegnanti, provo un crescente disagio. Non è che mi faranno qualche domanda a cui non so rispondere? Ma sono proprio io la persona giusta per parlare a questi giovani geni della matematica? Mi rilasso un po' arrivando sul posto. Gli organizzatori li conosco quasi tutti, alcuni era giovani dottorandi qualche anno fa, altri sono colleghi che conosco da tempo, alcuni da oltre vent'anni. Gianni Gilardi è il mio mentore, è lui che organizza le conferenze “culturali etc...” per conto dell'UMI, e mi introduce con grande sicurezza, tra l'altro, ai misteri della fila del tavolo degli antipasti. Strettamente parlando non so bene cosa si aspettino esattamente da me. I ragazzi mi sembrano già stramotivati verso la matematica, capaci di risolvere problemi che potrebbero rivelarsi delle vere trappole se solo provassi ad affrontarli, cosa che mi guardo bene dal fare. E quindi, cosa gli posso raccontare che già non sappiano? A questo punto devo forse aggiungere di essere sempre stato prevenuto verso i giochi matematici. La mia posizione, alimentata sicuramente dalla mia incapacità a risolverli, è stata finora, in grande sintesi: “Non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore”. Però questi ragazzi hanno dalla loro alcuni grandi matematici come Grigori Perelman o Terence Tao (le due ultime Fields medals. Tao è forse il più geniale matematico vivente, e ha vinto la medaglia d'oro alle Olimpiadi internazionali a soli 13 anni!) e che argomenti avrei contro queste evidenze? Certo, quelli di loro che diventeranno dei veri matematici, e ce ne saranno, scopriranno presto la differenza tra un problema matematico per le olimpiadi e un vero problema. Un vero problema è infido e bastardo. Non sai mai come si risolve e nemmeno se è facile o difficile. A un certo punto diventa brutto e ingombrante e non vorresti più averci a che fare. È la differenza che c'è tra fare degli slalom tra i birilli sul campo della scuola calcio e provare a scartare un vero giocatore. Che non si muove come pensi tu, che non sai cosa farà, e contro il quale spesso finirai per schiantarti. Forse dovrei dire, nella mia conferenza, che la matematica vera è difficile, che tutti partiamo con grandi speranze e i pochi che 116
riescono raccolgono forse un decimo di quello che avevano sperato, e a volte nemmeno la parte più interessante. Che una buona parte del tempo si passa a non saper risolvere i problemi e a sentirsi scemi. Anzi, quasi sempre ci si sente scemi, la prima volta fa male, ma poi ci si abitua... A Cesenatico è nato il poeta Marino Moretti, che fu amico di Gozzano e Corazzini, ma che poi visse così a lungo da non ricordare più il suo passato crepuscolare. “Piove. È mercoledì. Sono a Cesena”, è proprio un bell'endecasillabo. Qui invece c'è il sole, è sabato e sono a Cesenatico, e la mia conferenza è appena finita. I ragazzi e i professori sembrano essersi divertiti, forse sono meno nerd di come me li immaginavo, e qualche cosa del mestiere del matematico applicato mi sembra di averlo trasmesso. Ho invece rinunciato ad istillare dubbi, quelli tanto verranno da sé. Subito prima di parlare ho assistito alla premiazione della gara a squadre e il tifo (e il senso di collettività) era a livello calcistico. Cesenatico è anche il paese di Marco Pantani, che qui è sepolto a poca distanza dal poeta Moretti. Mentre sto per riprendere il treno, mi accorgo che c'è un piccolo museo Pantani vicino alla stazione. Accanto alle belle foto delle sue gare, vedo le pubblicità di gite di gruppo sulle strade del “Pirata”. Mi sono sempre chiesto perché Cesenatico sia la sede delle finali nazionali delle Olimpiadi di matematica. La prima risposta, quella vera, è nell'organizzazione veramente eccellente, che raramente si trova in altri parti d'Italia: non è banale gestire, con tranquillità, più di mille persone tra studenti e gente al seguito, per quattro giorni e a costi ragionevoli. Però, a questa realtà mi piace aggiungerci un pizzico del fattore Pantani. La matematica è stata paragonata all'andare in montagna per sentieri inesplorati. Si vedono le cime in lontananza, e poi si va tutti insieme per le stradine di mezza costa, con qualcuno che ogni tanto cerca di staccare tutti. Come nel ciclismo, ci sono matematici di tutti i tipi: i leader, i gregari, quelli che fanno tanto rumore per nulla, i cannibali, quelli che gli piace andare in gruppo, quelli che sanno tutto della bicicletta e non sanno pedalare, quelli che pedalano male, sono sgraziati e vincono, quelli dallo scatto prodigioso che non finiscono le corse a tappe. E la matematica non è solo un gioco, ma anche sofferenza e solitudine e rischio del fallimento. E mi accorgo di aver cambiato idea: queste olimpiadi servono e come, come serve la scuola calcio con i suoi birilli. E auguro un gran futuro da matematico al campione di questa edizione, Luca Ghidelli del liceo scientifico Amaldi di Alzano, e a tutte le altre medaglie d'oro. Ma penso anche che non si debba deprimere chi non ha vinto nulla o anche chi non ha nemmeno partecipato. Non siamo tutti uguali, nella vita succedono tante cose, ed è nelle salite che vengono fuori i grandi campioni. « Marco, perché vai così forte in salita?» «Per abbreviare la mia agonia. » (Marco Pantani a Gianni Mura) (luglio 2010)
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Noi e Image des MathĂŠmatiques
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Il Principio di Peter, ovvero: perché il tuo capo è incompetente di Jean-Paul Allouche*
Alla fine degli anni '60, lo psicologo canadese Laurence J. Peter enunciò il seguente principio paradossale (chiamato da allora Principio di Peter): «Ogni membro di un'organizzazione gerarchica sale nei livelli della gerarchia sino a raggiungere il suo massimo livello di incompetenza». L'idea che c'è dietro è che le promozioni siano date ai «migliori», ma che la competenza richiesta a ogni livello sia essenzialmente indipendente (o almeno molto diversa) da quella richiesta al livello precedente. Un articolo apparso nel 20092 propone uno studio computazionale di questo principio, mostrandone non solo la validità, ma anche che una delle sue conseguenze sarebbe una diminuzione dell'efficenza globale (che gli autori definiscono) della struttura. Più precisamente gli autori studiano due modelli di trasmissione della competenza: • l'ipotesi del senso comune in cui un membro dell'organizzazione mantiene la sua competenza al livello precedente con una varazione casuale (al più del 10%); • l’ipotesi di Peter in cui la competenza dell'individuo è calcolata in maniera casuale ed è indipendente dalla sua competenza al livello gerarchico occupato prima della promozione. In modo non sorprendente, nel caso dell'ipotesi del senso comune, l'efficenza media aumenta in modo significativo se si promuovono sempre i «migliori». Viceversa, diminuisce in modo significativo se ci si mette nel caso dell'ipotesi di Peter. Il passo successivo nel ragionamento è molto interessante: in una struttura reale non sappiamo a priori quale delle due ipotesi si applichi. Qual è allora la migliore strategia di promozione? Viene fuori dallo studio che non è necessariamente quella che consiste nel promuovere i «migliori». Gli autori studiano per prima cosa la promozione sistematica dei «peggiori», poi la strategia della promozione casuale. La migliore strategia a livello di *
Directeur de Recherche au CNRS, Université Paris-Sud, Orsay
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A. Pluchino, A. Rapisarda, C. Garofalo, The Peter principle revisited: a computational study, Physica A 389 (2009) 467-472
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efficacia globale (e se non si sa in quale delle due ipotesi ci si trovi) è una strategia mista in cui si promuovono alternativamente i migliori o i peggiori con una certa percentuale p tra 0 e 1, la scelta migliore essendo p=0,47. In conclusione, gli autori dimostrano la validità del principio di Peter, nel caso in cui l'ipotesi di Peter sia verificata, ma anche una specie di principio simmetrico, ossia che se si combina questo principio e la promozione dei peggiori, ognuno finisce per raggiungere il suo livello di competenza massimale! Inoltre le promozioni casuali garantiscono la conservazione della competenza degli individui nelle due ipotesi. I lettori avranno osservato che dare una visione quantitativa di ciò che è la competenza è pericolosamente vicino alle valutazioni quantitative molto di moda attualmente. I lettori potranno anche chiedersi in quale misura questi risultati si applichino al mondo accademico (o alla struttura gerarchica che conoscono meglio). Per seminare un po' più (?) di dubbi, vorrei ricordare che le promozioni attuali nel mondo accademico (ma anche in altre strutture) dal livello n al livello n+1, dipendono fortemente dal fatto che l'individuo al livello n spenda già o meno gran parte della sua attività in compiti o responsabilità che — stricto sensu — sono normalmente esercitate soltanto al livello n+1... (luglio 2010)
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Soffitto di cristallo di Michelle Schatzman** C'è ancora un soffitto di cristallo per le donne in matematica, e questo si vede nella diminuzione della frazione di donne presenti a mano a mano che si sale nella gerarchia. Ci sono molti studi sull'argomento. Riportiamo un' immagine europea e pluridisciplinare del fenomeno e un'immagine del CNRS francese. Vi consiglio di guardare a p. 12 del dossier CNRS da scaricare: ci sono delle cifre recenti sui ricercatori in matematica al CNRS. Viceversa non ho dati per quanto riguarda gli insegnanti universitari. L'osservazione delle cifre pone dei problemi difficili che cercherò di chiarire, ricordando innazitutto il mio punto di vista personale, allo scopo di eliminare da subito i possibili sospetti. Faccio parte di coloro che non vogliono né le quote-rosa, né qualsiasi forma di compensazione attribuita ciecamente alle povere donne, poiché credo che non sia niente di peggio per minare la credibilità delle donne in matematica. Non sono nemmeno particolarmente motivata dal femminismo linguistico, che considera come un obiettivo importante di mettere al femminile i nomi dei mestieri, con lo scopo di abituare le menti a pensare che una donna può fare questo o quel mestiere, poiché la denominazione di quel mestiere è femminilizzabile. Mi sembra sia utile invece analizzare i diversi interessi in gioco in questo problema. Se si pensa che la società francese (tanto per precisare la mia analisi) ha bisogno di scienziati, e nello specifico di scienziati che facciano matematica, è meglio che siano le persone più motivate e con più talento che si impegnino in questa direzione. L'interesse della società non può essere dunque quello di privilegiare questo o quel sotto-gruppo di matematici basandosi su criteri non professionali. Se A è un miglior matematico di B, l'interesse generale della società è di reclutare o di promuovere A piuttosto che B. Ora, per reclutare dei matematici, è necessario affidare il lavoro agli stessi matematici, per banali ragioni di competenza. Un altro attore appare allora nell'analisi degli interessi: i componenti della comunità matematica suscettibili di influenzare i reclutamenti o le promozioni. Ci sono sicuramente i componenti delle commissioni che si occupano del reclutamento e delle carriere dei matematici. Ma ci sono anche le persone la cui opinione può essere sollecitata, francesi o stranieri, in un quadro formale e informale. Qui si trova un notevole mosaico di interessi. Ci sono in primo luogo le motivazioni umane: si vorrà promuovere le persone della propria disciplina o i propri amici, ed questa è una tendenza naturale dell'essere umano, anche se non particolarmente gloriosa, o conforme ai principi repubblicani...
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Michelle Schatzman (1949-2010), Directeur de Recherche CNRS, Université Claude Bernard Lyon
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Una commissione universitaria in scienze umane ha così dato, a giugno del 2009, le tre uniche promozioni alla classe eccezionale dei professori universitari (n.d.t.: il livello più alto dell'ordinamento francese) disponibili per quella disciplina ad alltrattanti membri della stessa commissione. Questa storia continua ancora a fare rumore, o forse soltanto dei rumoretti, e ad imbarazzare il ministro dell'università e della ricerca. È forse un esempio estremo di conflitto di interessi: se non è probito ad un membro di commissione di presentare la sua candidatura ad una promozione, perché non bisogna che l'interdizione causata dal conflitto di interessi funzioni al contrario, riservare tutte le promozioni di un certo tipo ai membri della stessa commissione fa pensare che la sola nozione di servizio compresa dai promossi sia il self-service. Non trascuriamo però il conflitto di interessi che funziona al contrario: un individuo virtuoso si rifiuta di sostenere A, a cui è legato da qualche interesse, ma parteciperà tuttavia alla discussione. Ora, la sola posizione equa in questi casi è di non partecipare al dibattito: non sostenere A in una discussione, equivale ipso facto a sostenere tutti i concorrenti di A. Purtroppo però la situazione diventa rapidamente inestricabile: in un ambiente piccolo come quello della matematica, si possono realmente evitare tutti i conflitti di interessi solo affidando la gestione delle carriere a persone poco competenti. In effetti, per i candidati ai livelli più elevati, si ritiene che debbano avere una grande influenza scientifica, e non è forse proprio questa una situazione da conflitto di interessi? Vorrei allora collocare il problema del soffitto di cristallo in questo insieme di riflessioni. Innanzitutto, si parla spesso di numeri molto piccoli: l'inchiesta del CNRS segnalata prima registra 57 uomini chargés de recherche di seconda classe (CR2, la fascia iniziale) e 9 donne, 121 uomini in prima classe (CR1) e 28 donne, e 6 dirigenti di ricerca di classe eccezionale (DRCE) e una sola donna, che d'altronde nel frattempo è andata in pensione. Statisticamente, come sappiamo che queste cifre mostrano l'effetto soffitto di cristallo? Non ci sarebbero forse delle fluttuazioni che potrebbero spiegare che la differenza tra le frazioni di donne in CR2 (14%), CR1 (19%) e DRCE (14%)? E perché ci sono in proporzione molte meno donne in CR2 che in CR1 in matematica? Posso proporre diverse spiegazioni, ma la principale è la seguente: nel sistema francese come lo conosciamo, meno posti ci sono e meno il processo di selezione è affidabile (n.d.t.: non parliamo dell'Italia...). Se ci sono in proporzione meno giovani donne CR2 che CR1, è soltanto perché ci sono stati meno posti a concorso negli ultimi anni. Ma come funziona questo processo di selezione? In generale, la commissione di mette d'accordo abbastanza rapidamente per eliminare i candidati che non sono al livello desiderato. Se si tratta di un posto o di una promozione che attira molti candidati rispetto alla disponibilità, la commissione potrà mettersi d'accordo su di una lista corta con il doppio o il triplo di nomi rispetto al necessario. Ma poi bisogna decidere la lista finale, eliminando qualche nome e facendo una graduatoria di quelli che restano. Tipicamente, non c'è nessun algoritmo per farlo, e dubito che si possa pubblicamente enunciare una politica di scelta. La lista corta conterrà persone di grande qualità, con profili e personalità diversi, e che difficilmente si possono ordinare gli uni rispetto agli altri. Allora si dicono delle cose, più o meno valide, a volte su di un piano molto emotivo. Secondo me, è il momento in cui l'inconscio lavora a pieno ritmo. E non solo l'inconscio, ma anche tutte le influenze che hanno subito i membri di commissione, in positivo e in 122
negativo: le lettere ricevute, le discussioni al bar, le discussioni a quattr'occhi con qualche personaggio importante, gli impegni presi a cui non si sa rinunciare, anche quando sono diventati idioti. La graduatoria finale è contrassegnata da questa impronta, per il gran danno di coloro che non sono nella buona rete di influenze. A questo si aggiunge la difficoltà di agire su qualche cosa che potrebbe sembrare solo una fluttuazione, e qui, posso tornare al mio obiettivo iniziale relativo al soffitto di cristallo. Si può mettere in evidenza il soffitto di cristallo per le donne solo su tempi lunghi, e questo a maggior ragione perché le principali interessate non sempre se ne rendono conto. Il soffitto di cristallo, è una statistica, e anche un'esperienza vissuta. Ricorderò allora un uomo celebre e influente che aveva l'abitudine di mandare ai suoi allievi, quando erano sul punto di passare la Tesi di Stato (che corrispondeva all'attuale abilitazione a dirigere le ricerche, l'equivalente francese dell'idoneità) una lettera per darsi del tu, che cominciava così: «Mio caro Tizio, da ora ci diamo del tu. Stai per passare la tua Tesi di Stato, etc...». Ma, nonostante questo grande matematico avesse avuto anche qualche allieva, queste passarono la Tesi di Stato senza mai riceve la loro lettera per darsi del tu. Non credo che questa differenza di trattamento tra uomini e donne abbia fatto bene a quest'ultime. Vorrei sapere a quanti piacerebbe che il loro inserimento sociale nel mondo professionale fosse così dipendente da un carattere genetico. Ecco il mio femminismo, che rientra in un atteggiamento generale di evoluzione verso una maggiore giustizia: bisogna essere capaci di valutare i lavori scientifici delle matematiche (che sono soltanto dei matematici come gli altri) con i criteri più oggettivi possibile, e in funzione di una politica di interesse generale. Bisogna quindi che i membri delle varie commissioni di leggano i lavori delle persone che devono giudicare. Che non si contentino di fare affidamento alla reputazione, alla lista dei premi, o a quello che ha detto Tizio. Che esigano di poter avere il tempo materiale per leggere i lavori. Che domandino sistematicamente aiuto ad un esperto esterno se non posseggono personalmente le competenze necessarie. Che discriminino tra l'effetto ambientale e la vera competenza. Che si diano una deontologia coerente per quanto riguarda il conflitto di interessi. E siccome lo so che l'obiettività non esiste in realtà, penso sia importante ricordare che l'errore è umano. Ma se l'errore va sempre nello stesso senso, allora diventa un effetto ideologico o sociale, non una pur disdicevole fluttuazione. Ragioniamo su di un'intera carriera: per attirare le giovani matematiche alla ricerca, forse bisognerà convincerle che non si impegneranno in una strada senza uscita, in cui i loro meriti non saranno riconosciuti a causa di qualche vecchio pregiudizio sessista che aleggia nella testa di molti. E di quali informazioni disporranno per giudicare? Del trattamento ricevuto da coloro che sono già avanti con la carriera. Come si dice in matematica: CVD. (settembre 2010)
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Recensioni
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Good Will Hunting di Roberto Natalini Il bello di una recensione a freddo di un film, a ben 13 anni dall'uscita in sala, è che posso supporre che tutti lo abbiano visto[1]. Intanto partiamo dal titolo. Will Hunting è il nome del protagonista, un giovane con un'infanzia difficile, ma dotato di un'incredibile capacità matematica. Il sottotitolo italiano, “genio ribelle”, è invece particolarmente fastidioso, perché tende a travisare le intenzioni degli autori[2], sovrapponendo loro il solito stereotipo del “matematico matto”. Insomma, il bagaglio retorico che viene spesso utilizzato nei film hollywoodiani per spettacolarizzare cose altrimenti considerate noiose come la matematica o l'arte[3]. In inglese il titolo era invece “Good Will Hunting”, con un gioco di parole per una volta significativo. Da una parte abbiamo infatti “Hunting for good will”, che vuol dire in cerca di una giusta causa, di un sentimento di approvazione e supporto, di una positiva condivisione. E c'è anche “Will”, il potere della mente di controllare le proprie azioni. Dall'altra abbiamo il fatto che solo lo psicologo (Robin Williams) e (forse) gli amici capiscono, che al di là del talento e dell'impressionante forza mentale di Will, c'è una brava persona, “a good kid[4]” che cerca di essere capito e amato. Will è forse un genio, e a prima vista sembra anche abbastanza ribelle, anzi rabbioso, irrequieto, insoddisfatto, e così è etichettato da tutti, dai professori, dagli amici, dalla polizia, sicuramente dai titolisti italiani. Ma per lui il suo talento è una cosa naturale e sono gli altri a non essere capaci di “vedere” ciò che vede lui. È come avere gli occhi azzurri o essere alti 1.90 m: non sente nemmeno un merito particolare da parte sua. E non è casuale che lui scelga di fare il bidello presso il MIT, sperando che qualche occasione si presenti: vuole provare a mettere a frutto questa sua capacità, ma principalmente perché ha bisogno di trovare una sistemazione economica. E il motivo della sua insoddisfazione è che dentro di sé Will si sente uno sfigato. È stato adottato, ha subito abusi da bambino, e intorno a sé vede dei personaggi vuoti, patetici, ma pronti ad esibirsi con una maschera per prevalere davanti agli altri. Il tizio con il codino che cerca di impressionare le ragazze in un bar facendo passare per sue le idee imparate frettolosamente sui libri; il servile assistente universitario che lo vede sfrecciare davanti a lui; il professore di cui ferisce la vanità accademica (scena con il retro-proiettore). Il famoso matematico Gerald Lambeau (Stellan Skarsgård), Field's medal, che non resiste a gigioneggiare con le giovani studentesse. Il film è organizzato per scene simboliche. Will è il bidello che, come se fossimo nella “Spada nella roccia”, risolve facilmente alcuni problemi che per gli studenti del MIT risultavano praticamente impossibili. Will si batte per strada con gli amici fidati per 125
riaffermare la sua dignità e sfogare la sua rabbia. Will mette in imbarazzo alcuni famosi luminari della psichiatria. Will stupisce la suddetta Field's medal, risolvendo facilmente un problema che a lui non riusciva[5], e brucia davanti a lui il foglietto con la soluzione. E vedendo questo dio della della matematica gettarsi in ginocchio per recuperare il pezzo di carta in fiamme, con quella soluzione che a lui sembrava così evidente, capisce che non sarà certo quest'uomo a salvarlo[6]. E soprattutto sono simboliche(=non realistiche) le scene degli incontri con lo psicologo, che per primo vede in lui, al di là di tanta genialità, una persona. Un ragazzo che va aiutato e assolto, e protetto dal mondo. E che deve imparare a sentirsi un “good kid”, ossia adeguato, capace e meritevole. Quanto alla matematica, dice Gus Van Sant[7] che all'inizio gli autori avevano pensato alla fisica teorica, ma poi, pensando che Will dovesse avere la possibilità di essere interessante sul mercato lavorativo, per esempio per i militari, avevano cambiato specialità, immaginandolo come un matematico combinatorio, qualche cosa con i codici segreti insomma. Inoltre, la sceneggiatura all'inizio non specificava cosa ci fosse scritto sulla lavagna o sui fogli nelle varie scene[8], per cui chiesero a un professore di Fisica dell'Università di Toronto (Pat O'Donnel) di aiutarli a trovare dei problemi matematici credibili. E questo è uno dei primi film che io ricordi dove la matematica scritta abbia una parte così importante. Poi ci sarebbe stato “A beautiful mind”, e la scrittura sui vetri[9], e Numb3rs e Proof. Ma qui abbiamo delle belle serie di Fourier, delle strutture ad albero, insomma roba credibile, che potremmo vedere veramente su di una lavagna (e non le solite radici quadrate del teorema di Pitagora...). Ma un altro aspetto viene mostrato bene nel film, e di cui non è facile parlare senza cadere nella banalità. Will è dotato di una capacità matematica superiore. Certo, molte cose sono esagerate, per renderle appetibili ad un pubblico cinematografico. Per esempio è abbastanza improbabile che coesistano il talento matematico e la memoria fotografica, credo che serva solo per esemplificare, in un'epoca pre-Numb3rs, la potenza mentale di Will senza entrare in dettagli tecnici. Oppure, anche solo per problemi di comprensione delle definizioni, che Will sia subito a suo agio, senza una preparazione specifica, con problemi difficili per una Field's medal. Ma non è questo il punto. Il cinema è per sua natura sintetico quando deve raccontare cose che avvengono in un lungo arco di tempo. Quello che cerco di dire è che il film cerca, tra le altre cose, di rappresentare in modo credibile il fatto che esistono alcune (poche) persone con un talento enorme, una capacità di comprensione assolutamente al di sopra della media che dipende poco dal percorso formativo seguito, e che si potrebbe chiamare “visione”. In un certo senso quasi tutti ne abbiamo un po', ed è il motivo per cui nei libri di matematica non serve scrivere tutto, perché alcune cose si capiscono da sole[10]. Ed è anche il motivo per cui chi non capisce nulla e non ha alcuna visione, non riesce nemmeno a capire che cosa non capisce, come i pazzi che si aggirano per la rete dicendo di aver dimostrato il Teorema di Fermat in sei (6!) pagine o la congettura di Goldbach[11]. Ma quelli (pochi) che hanno veramente la capacità di “vedere” esistono veramente, e non per questo sono meno umani e fallibili e tristi come tutti noi altri. Non necessariamente matti, ma forse incasinati, e a volte anche, ma non sempre, ostacolati da questo loro talento. E se parlate con uno di loro, lo capirete in due minuti con chi avete a che fare, per quanto confusionario o disorganizzato possa essere. E che una cosa che contraddistingue un bravo matematico, e forse non è 126
altrettanto comune in altre discipline, è quella di ammirare le persone che hanno questa capacità di visione, i cosiddetti geni, siano o no ribelli, e darsi da fare per valorizzarle. Anche se poi, come per il Prof. Lambeau del film, dopo averle incontrate non ci dormiranno la notte... [1] E in caso contrario, se siete di quelli che non vogliono sapere nulla di un film prima di averlo visto, fermatevi qui, vedetelo e poi continuate a leggere. [2] Per la cronaca gli allora sconosciuti Matt Demon e Ben Affleck, che grazie a questa sceneggiatura, non solo vinsero l'Oscar nel 1998, ma ne ricavarono anche uno straordinario lancio nel mondo del cinema. Che in seguito Affleck minacciò seriamente di compromettere interpretando Daredevil. [3] Pensate ad “Amadeus”. Mozart era un genio della musica, ma una sua biografia sarebbe stata forse noiosa per il pubblico medio. Se invece ci mettiamo un po' di dissolutezza, una genialità misteriosa e forse di origine divina e l'invidia di di Salieri, allora abbiamo anche la possibilità di guadagnarci qualche Oscar (e poi le musiche non erano nemmeno tanto male...). [4] Dice lo psicologo (R.W.) al Prof. Lambeau: “You mathematical dick! It's about the boy! He's a good kid! And I won't see you fuck him up”. [5] Una piccola goffagine della sceneggiatura, quando il professore commenta “Vedo che qui hai usato MacLaurin”. Sic! [6] Will a Lambeau: “Do you have any fuckin' idea how easy this is? This is a fuckin' joke.” [7] A FUN THING THEY'LL NEVER DO AGAIN, Gus Van Sant meets David Foster Wallace, Dazed & Confused, May 1998. http://www.badgerinternet.com/~bobkat/dazed.html, tradotto in: http://www.minimumfax.com/speciale.asp?specialeID=20&ns=4 [8] La sceneggiatura si limitava a dire cose del tipo. “Will osserva il problema sulla lavagna e scrive una risposta” e basta... [9] Matt Demon scrive alcune formule su di uno specchio, Russel Crowe sui vetri della finestra, David Krumholtz (a.k.a. Charlie Eppes) usa sempre lavagne trasparenti. Io però in vita mia non ho mai visto scrivere su vetri o specchi, e voi? [10] Ed in questo senso la comunicazione matematica più efficace a volte risulta non completamente rigorosa, perché molto spesso basta un disegno o un gesto delle mani per far capire una dimostrazione a una persona ragionevolmente dotata. [11] È un fenomeno inquietante e per verificarlo basta fare una ricerca con Google per vedere quanti pretendano di aver dimostrato questi risultati e di essere incompresi da quei tristi minorati mentali che sono i matematici “accademici”. (febbraio 2010)
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Matematica in cucina di Maurizio Vianello* Sabato 27 marzo è stata la Giornata Mondiale del Teatro, e io ero a Venezia, al convegno su "Matematica e Cultura" che Michele Emmer organizza ogni anno. Un fine settimana di solito passato assistendo (affascinati, stupiti o sbalorditi) a presentazioni dove si illustrano le più strane, imprevedibili e a volte improbabili connessioni fra il mondo della matematica e qualsivoglia altro ambito dell'attività umana: ricordo ancora, in anni passati, "Matematica e Fumetti" e un insuperabile "Matematica e Psicoanalisi". Ma quel sabato era proprio la giornata del teatro e, non so se la cosa sia stata casuale o accortamente pianificata, all'Auditorium di Campo Santa Margherita si è visto un curioso spettacolo tratto da "La matematica in cucina", un libro di Enrico Giusti, su adattamento di Angelo Savelli per il Teatro Stabile di Rifredi. Dirò subito di non aver letto il libro, del quale per la verità non conoscevo nemmeno l'esistenza e confesserò anzi di avere una certa diffidenza per l'uso della matematica "fuori contesto", che mi appare a volte un po' artificioso e poco convincente. Lo spettacolo è invece ben costruito intorno a una coppia di protagonisti che, in modo esplicito, si rifà al tradizionale dualismo fra un intelligente e forse un po' saccente "Gianni" e un arguto "Pinotto", nel classico ruolo di "spalla" ironica e ostentatamente irriverente. Il richiamo che i due attori, Andrea Bruno Savelli e Andrea Muzzi, fanno alla coppia di comici americani del dopoguerra è dichiarato in un prologo che introduce lo spettacolo, attraverso una associazione forse un po' ingenua (Giovanni/Gianni e Giuseppe/Pino/Pinotto) che porta dai nomi dei personaggi a quelli dei due (dimenticati?) protagonisti di film comici degli anni '40. Una "strana coppia" di giovani coinquilini che deve semplicemente prepararsi un pranzo (e qui sta tutta la storia) ma (e qui sta per noi l'interesse) dove Gianni ha un contratto di ricerca in Matematica all'Università. Ora, diciamo la verità, uno che cerca subito di spiegarvi perché il flusso dell'acqua dal rubinetto produce un getto che si restringe man mano che scende verso il basso forse non è il miglior commensale che vorreste avere, ma se gli mettete a fianco un ragazzo toscano dalla battuta pronta, che soffre un po' la superiorità dell'altro, e lo prende in giro, ecco che allora la situazione si capovolge, e si evita, fortunatamente, il peggior rischio sempre in agguato quando si voglia introdurre una spiegazione scientifica in un meccanismo
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Professore Ordinario di Fisica Matematica alla Facoltà di Architettura Civile del Dipartimento di Matematica “F. Brioschi” del Politecnico di Milano
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narrativo: il didascalismo scolastico, nemico di ogni divulgazione. Ancora una volta l'ironia e la presenza di un personaggio che cerca di prendere poco sul serio quello che gli viene spiegato, costruendoci sopra giochi di parole, paragoni e metafore paradossali, funziona e permette di far passare il messaggio "serio" in modo naturale e, possiamo dirlo, divertente. L'azione si svolge su un palcoscenico dove è ricostruita in modo abbastanza realistico una cucina, alle spalle degli attori. Dovrebbe esserci anche l'acqua che esce dal rubinetto, ma a Venezia per qualche motivo questa è mancata. C'è anche, come si dice, un tormentone, e cioè un riferimento comico che torna in continuazione: una fantomatica "Frittata del Picchi", intorno alla quale i protagonisti favoleggiano spiritosamente. E di cosa si parla, in questa "cucina matematica"? Di flussi d'acqua e della legge di Bernoulli, di bilance e di equilibrio, di patate da pelare e di superfici minime che racchiudono volumi assegnati, di scaldabagni, radiatori e flussi di calore, di insalate da condire (sapete qual è l'ordine migliore per aggiungere sale, olio e aceto, e perché?) e di bagni di mare, di centrifughe da cucina e di forze centrifughe, di mucchietti di sale e zucchero e degli attriti interni nei materiali granulari, con divagazioni sulla statica delle piramidi (a voler essere un po' faziosi viene anche da dire che questa è piuttosto la "fisica matematica" in cucina). Nella finzione scenica il matematico (Gianni) sembra sentimentalmente il più fortunato dei due (sarà proprio così anche nella realtà?) e negli sviluppi di questo tema torna fuori la storia del Premio Nobel negato ai Matematici perché la moglie di Nobel avrebbe avuto una tresca con Mittag-Leffler. Per dire la verità, però, io sapevo che si trattava di una leggenda metropolitana (Nobel non era sposato, e in questa storia sembra esserci poco o nulla di vero). Qualcuno ha mai controllato? Lo spettacolo dura poco più di un'ora e, a sentire l'autore dell'adattamento, fratello di uno degli attori, è stato portato in giro per l'Italia con un buon successo. Se lo merita. (aprile 2010)
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Ehi, voi, traducete la stella di Ratner! di Roberto Natalini Quest'estate, seguendo il consiglio di un mio amico inglese, studioso di letteratura moderna, ho deciso di leggere un romanzo dello scrittore americano Don DeLillo (quello di “Underworld” e “Rumore bianco”, per intenderci), che si intitola “Ratner's star”, la stella di Ratner, appunto1. Così ho scoperto, con un certo disappunto, che questo romanzo del 1976, a differenza di qualsiasi altra cosa sia stata scritta da DeLillo, non è mai stato tradotto in italiano. All'inizio ho pensato che fosse perché proprio non ne valeva la pena. Poi, incoraggiato da tante recensioni positive trovate sul web (addirittura, secondo il critico americano Tom LeClair, DeLillo stesso lo considerava il migliore dei suoi libri prima di “Rumore bianco”), mi sono deciso ad ordinarlo. AVVENTURE Campo Esperimento Numero uno 1 Substrato Il piccolo Billy Twillig salì a bordo di un Sony 747 in partenza per una terra lontana. Tutto questo si sa con certezza. Montò sull'aereo. L'aereo era un Sony 747, così contrassegnato, ed era previsto che arrivasse in un punto designato esattamente un certo numero di ore dopo il decollo. Tutto questo è soggetto a verifica, scolpito su pietra (khalix, calculus), reale come il numero uno. Ma davanti c'era l'orizzonte sonnolento, tremolante di polvere e vapori, un'invenzione i cui limiti erano determinati dalla prospettiva personale, non diversamente da quelle quantità immaginarie (la radice quadrata di meno uno, per esempio) che ci guidano a nuove dimensioni. Direi che dopo un simile inizio, bilanciato perfettamente tra precisione e indeterminatezza, non si poteva non continuare (Sony 747? la radice di meno uno? Khalix?). Billy ha 14 anni ed è un famoso matematico, anzi ha appena vinto il Premio Nobel, che eccezionalmente è stato assegnato alla matematica (sic!), per le sue ricerche sugli “zorg” e sul “twilligon stellato”2. Siamo in un prossimo futuro (rispetto all'anno di uscita del libro. In realtà la storia si svolge nel 19793), e il mondo è turbato da misteriose crisi politiche. Billy raggiunge un laboratorio, un edificio a cinque piani a forma di cicloide situato nell'Asia centrale, dove sono riuniti molti altri scienziati, ognuno specialista di una diversa disciplina. E così Billy scopre che tutti si aspettano da lui grandi cose, e più precisamente che decifri un messaggio arrivato dallo spazio, proveniente appunto dalle vicinanze della stella scoperta anni prima da un certo Ratner.
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Il romanzo è diviso in due parti abbastanza distinte. La prima è caratterizzata da uno stile esoterico e allusivo, con una caratterizzazione dei personaggi volutamente fumettistica, e a sua volta si articola in 12 sottosezioni da nomi del tipo: substrato, flusso, forme espansione, dicotomia. In ognuna di queste sezioni, parzialmente ispirate nella struttura ad “Alice nel Paese delle Meraviglie”, Billy, come Alice, fa degli strani incontri con personaggi dai nomi improbabili, come U.F.O. Schartwz, che pesa 140 Kg. e rivela a Billy lo scopo della sua missione, o Othmar Poebbles, che cerca di riflettere sulla dicotomia discreto/continuo che in qualche modo si ritrova in tutto il romanzo4, e ancora il misterioso matematico Timur Nüt, scopritore delle superfici Nüteane, che cerca di mettere in difficoltà Billy con domande insidiose nella loro semplicità. A questi incontri si alternano brevi ricordi dell'infanzia di Billy, come la gita in metropolitana, dove lavora il padre, alla fine della quale hanno uno scontro contro un treno fermo. “Ci fu allora un momento di calma superlunare. In questo intervallo, appena prima di cominciare a piangere, capì che c'è sempre almeno un numero primo tra un numero dato e il suo doppio5.” A un certo punto Billy incontra il più importante matematico vivente, Henrik Endor (And/Or), che indossa una catenina intorno al collo con appeso il pentragramma stellato dei pitagorici, e ha deciso di vivere in un buco scavato nel terreno, cibandosi di acqua piovana e vermi estratti da un secondo buco praticato all'interno del primo. Apparentemente, questa scelta è motivata dal suo fallimento nella decifrazione del codice ratneriano, ma la sua fede nella matematica rimane salda: “La matematica è la sola avanguardia rimanente nell'intera provincia delle arti. È arte pura, ragazzo. Arte e scienza. Arte, scienza e linguaggio. Arte allo stesso livello dell'arte che un tempo chiamavamo arte. Perse le sue ali dopo la scomparsa dei babilonesi. Ma emerse di nuovo con i greci. Andò giù nell'età oscura. Musulmani e indù la fecero andare avanti. E ora è tornata più luminosa che mai.” Poi le cose si complicano e la seconda parte, circa un terzo del romanzo, ha una struttura molto meno organizzata e maggiormente soggettiva, quasi fossimo entrati in un romanzo di Virginia Woolf. Un gruppo di scienziati, tra cui Billy, guidati da Robet Softly, il suo mentore affetto da nanismo e dalla pelle innaturalmente bianca, decide di inoltrarsi nel sottosuolo, dove esiste una struttura interrata 131
speculare al laboratorio e ancora a forma di cicloide. Vi sono grotte, tunnel e pipistrelli. C'è la ricerca di un linguaggio logico che permetterebbe di rispondere ai ratneriani. Come il twilligon stellato immaginato/scoperto da Billy, il romanzo prende una piega del tutto nuova e soprattutto scopriamo che l'approccio scientifico non sempre è infallibile, fino ad un finale di grande intensità che evito in tutti i modi di descrivirvi DeLillo racconta in un'intervista che, dopo aver scritto i suoi primi tre libri, cominciò a studiare matematica: “Volevo avere un punto di vista nuovo sul mondo. Volevo immergermi in qualche cosa che fosse il più lontano possibile dai miei interessi e dal mio lavoro. E rimasi affascinato e finii per scrivere un romanzo e poi un lavoro teatrale sui matematici.” Alla fine viene fuori che il romanzo contiene un romanzo parallelo, in realtà soltanto adombrato sotto forma di allusioni, che ripercorre tutta la storia della matematica, come fosse la storia di una setta segreta capace di parlare un linguaggio misterioso, ma potente (e forse qualche cosa di vero c'è...). I matematici e le loro idee vengono solo evocati senza mai nominarliesplicitamente, ma queste idee sono usate per dare una forma propria al racconto. Alcune frasi assumono addirittura un significato diverso se lette come flusso di coscienza di Billy o invece come riflessioni matematiche. Per esempio, a un certo punto della seconda parte leggiamo (p. 370): NON SONO SOLO QUESTO C'è un vita all'interno di questa vita. Un riempirsi di interstizi. C'è qualcosa tra gli spazi. Sono diverso da questo. Non sono solo questo, ma di più. C'è qualcos'altro che appartiene al resto di me. Non so come chiamarlo o come raggiungerlo. Ma c'è. Sono di più di quello che sapete. Ma lo spazio è troppo strano da attraversare. Non posso arrivarci ma so che è lì che bisogna arrivare. Dall'altra parte è tutto libero. Se solo potessi ricordare com'era la luce nello spazio prima che avessi occhi per vederla. Quando avevo una poltiglia al posto degli occhi. Quando ero tessuto umido. C'è qualcosa nello spazio tra ciò che conosco e ciò che sono e quello che riempie questo spazio è qualcosa per cui io so che non ci sono parole.
È un brano bellissimo, quasi un poema in prosa indipendente dal resto, ma ci chiediamo se si sta parlando dei sentimenti di Billy, che non si sente solo come una macchina matematica, o della nostra percezione della realtà, o ancora di un'immagine che si riferisce in qualche modo al Teorema di incompletezza di Godel, richiamato due volte nelle pagine appena successive.
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Alla fine, in questi strani anelli che caratterizzano tutto il romanzo, la matematica avveniristica, e accuratamente non descritta, di Billy, si incontra con il lontano passato. Se guardate meglio le Figure 1 e 2, scoprirete che il twilligon scoperto da Billy, è contenuto nel pentagramma pitagorico, ed è un fratello minore del triangolo aureo6, ma anche un boomerang che non si stanca di tornare indietro, per quanto lontano lo si voglia lanciare.
1 “Ratner's Star” by Don DeLillo, Knopf, 1976, 438 pagine. 2 Sembrerebbe improbabile, ma dagli archivi del centro Ransom ad Austin (Texas), risulta che DeLillo si sia ispirato al vero matematico Charles Fefferman che scrisse il suo primo articolo a 15 anni, diventando poi Full Professor a 22, e vincendo la Medaglia Fields due anni dopo la pubblicazione del romanzo. 3 Non casualmente, esattamente 100 anni dopo la nascita di Einstein e la pubblicazione del saggio di Frege sui linguaggi formali. 4 "È come se Weierstrass avesse voluto fare cose come la continuità e il limite basandosi sugli interi.”(p. 313) e ancora “Strano, pensò, come gli interi, che sono discreti, e il nostro tentativo di tracciare il tempo, che è continuo, possano combinarsi in modo opportuno per darci un'area comune di riferimento con gli extraterrestri.” (p. 318). 5 Che incidentalmente è vero, ma non si dimostra in modo banale. Qui e altrove DeLillo propone, di solito in modo non enfatico, riferimenti corretti a proprietà matematiche non immediate. 6 Il triangolo isoscele in cui il terzo lato è in rapporto aureo con gli altri due.
(ottobre 2010)
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Speciali
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Intervista a Cedric Villani Da qualche settimana il matematico Cedric Villani, nato 37 anni fa a Brive-La-Gaillarde, nella regione del Limousin, è balzato all'attenzione di giornali e televisioni (non solo francesi) per essere uno dei vincitori della medaglia Fields 2010. Per chi lo conosce non è una sorpresa: da anni non finisce di stupire con il suo eclettismo che gli permette di ottenere risultati di grande spessore in settori a cavallo di varie specialità matematiche, dalla meccanica statistica, all'analisi, alla geometria differenziale, alla probabilità. Ma oltre alla bravura, quello che ha impressionato molto l'opinione pubblica è stata la grande estrosità e fantasia di questo normalista, diventato Professore a Lione a 27 anni e già da un anno Direttore dell'Istituto Henri Poincaré a Parigi. Lo abbiamo incontrato a Roma qualche giorno fa, in occasione di un convegno organizzato presso l'INdAM. Raccolta da Roberto Natalini. R..: Buongiorno Cedric e grazie di aver accettato... C.: Buongiorno Roberto R: Puoi spiegare in poche parole i risultati che ti hanno fatto ottenere la medaglia Fields? C.: Allora, quello che è stato premiato dal comitato sono soprattuto i miei lavori in teorie cinetiche. Le teorie cinetiche si interessano a descrivere in termini matematici l'evoluzione dei gas e dei plasmi, come l'aria intorno a noi è composta da milioni e milioni di molecole che rimbalzano le une contro le altre, urtandosi. È impossibile seguire la posizione e la velocità di tutte queste particelle. Ma quello che si può seguire è l'evoluzione del profilo statistico delle velocità. Un po' come in un sondaggio ci si interessa alla proporzione delle persone che votano per un candidato o per un altro, qui ci si interessa alla proporzione delle particelle che sono in questo o quell'altra posizione dello spazio o questa o quell'altra velocità. E questo profilo statistico evolve seguendo delle equazioni che sono le equazioni di Boltzmann o le equazioni di Vlasov che sono una delle mie specialità. R.: E qual è stato il tuo contributo principale? Cosa hai ottenuto di nuovo?
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C.: Il risultato guida di Bolztmann è che l'entropia, che sarebbe una misura del disordine, in un gas aumenta spontaneamente. Ma non si sa di quanto aumenta. Con alcuni collaboratori abbiamo trovato degli strumenti che permettono di valutare il meccanismo attraverso cui l'entropia aumenta e di capire di quanto aumenta. Poi, più recentemente, ci siamo interessati ad un problema sorprendente e spesso considerato paradossale, che si chiama lo smorzamento Landau (dal nome del fisico sovietico) che dice che anche in assenza di collisioni, e quindi in assenza dell'aumento dell'entropia, si può avere il rilassamento, ossia lo smorzamento naturale delle fluttuazioni in un plasma. Quindi, con un mio collaboratore, abbiamo dimostrato che questo era vero in modo rigoroso per tempi infinitamente lunghi, il che era un problema aperto. R.: Grazie. Allora, in effetti uno dei grandi soggetti della fisica matematica è la contrapposizione tra l'approccio discreto, in cui si considerano oggetti discreti, e il continuo. Quindi, secondo te, le teorie cinetiche sono uno strumento importante per mettere insieme queste due parti. C.: Sì, le equazioni cinetiche sono il punto di vista continuo e il problema di passare dalle leggi discrete, con gli atomi, fino alle leggi continue, è un problema ancora in gran parte aperto. Ci sono dei risultati guida, come il teorema di Landford negli anni ‘70, e dei buoni risultati di matematici italiani: la scuola italiana d'altra parte è molto approfondita su questo problema del passaggio discreto-continuo, ma i punti che ci piacerebbe dimostrare sono ancora lontani. L'equazione di base della fisica dei plasmi o della fisica delle galassie, dell'evoluzione delle stelle, si chiama equazione di Vlasov-Poisson: Vlasov è un altro fisico sovietico, e si trova già nelle prime pagine di un qualsiasi trattato di fisica. Si tratta di equazioni continue e nessuno è capace di giustificarle a partire dal punto di vista discreto, per lo meno con delle interazioni realistiche. È un problema veramente difficile, importante, fondamentale su cui i fisici sono bloccati... R.: Possiamo dire allora che le teorie cinetiche potrebbero creare un ponte tra discreto e continuo, però... C.: Le teorie cinetiche, si. Ed è proprio da parte dei matematici che potrebbe arrivare un contributo, proprio da parte degli esperti di teorie cinetiche. R.: Qual è il settore che vedi emergere in equazioni alle derivate parziali in futuro? Qualcosa che viene dalle teorie cinetiche o altro? C.: Nelle equazioni alle derivate parziali, in questo momento, direi quello che è più attivo sono forse le equazioni di tipo dispersivo, le equazioni non lineari del tipo Schrodinger, le equazioni che intervengono nei problemi di meccanica quantistica e di interazione. Questo
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comincia adesso ad essere un argomento abbastanza ben digerito. Scommetterei per il futuro sui progressi nel campo della meccanica dei gas comprimibili. È un dominio che per ora non ha fatto molti progressi. Anzi sono anni che non ci sono stati progressi, e non so perché. Sento che presto succederà qualcosa… ad ogni modo, si tratta di problemi molto importanti. R.: E più in generale, in matematica, cosa vedi come una buona direzione per i giovani, per esempio? C.: Allora. La probabilità è in piena espansione. La probabilità vive un boom da parecchio tempo, e penso che continuerà. E poi c'è l'informatica teorica che apre delle parti nuove della matematica: problemi di reti, problemi combinatori, dei problemi appassionanti. E poi mi piacciono molto, e se ne parla in questo convegno, dei teoremi di transizione di fase, i problemi che mescolano le teorie cinetiche, la fisica statistica, e molte altre cose. Bisogna, sapere, ne abbiamo parlato poco fa, che succede quando facciamo bollire l'acqua? Scaldiamo l'acqua e si trasforma in vapore e lì c'è un problema matematico che nessuno sa risolvere. Un giorno, bisognerà progredire in quella direzione. R.: Diventerà un problema caldo... C.: Eh si, diventerà caldo..., e poi chiaramente c'è tutta la parte dell'analisi geometrica che si è sbloccata in seguito ai lavori di Perelman, da cui possiamo attenderci un bel po' di cose. Adesso, per esempio, nel mio campo sono a cavallo tra geometria, probabilità e analisi. C'è il problema del trasporto ottimale, un problema che viene dall'ingegneria e che consiste nello spostare dei materiali economizzando al massimo l'energia. Recentemente si sono trovati dei legami tra questo e la dimostrazione di Perelman e per lo sfruttamento di questi legami ci vorrà del tempo, ma ci sono sicuramente delle cose interessanti da scoprire. R.: Va bene, allora, passiamo a parlare della politica matematica. La Francia ha avuto recentemente dei premi, e non soltanto le medaglie Fields, ma dei riconoscimenti sul piano internazionale. Qual è la ragione della forza della Francia in matematica? C: Il problema è delicato, ma in ogni modo ci sono dei fattori che esistono nel sistema francese che sono abbastanza particolari e concorrono a questa riuscita. In primo luogo c'è il sistema delle classi preparatorie dopo la maturità che è estremamente efficace. È un sistema in cui i giovani apprendono in modo intensivo, imparano molti concetti nuovi e si esercitano duramente. È molto efficace. E poi c'è il sistema delle Grandi Scuole, e soprattutto le scuole normali superiori per la matematica, dove le persone sono insieme in modo concentrato, lavorano insieme, c'è uno spirito, un'emulazione che dà risultati
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eccellenti. E poi c'è l'ottima alleanza del CNRS con le università: è nelle università che viene effettuata la ricerca, ma con il sostegno del CNRS che è un'unità nazionale, un'entità nazionale che nutre le università, in modo formidabilmente efficace. Questi sono degli ingredienti specifici della Francia, che insieme contribuiscono a questa forza. R.: Ma sono ingredienti centralizzati. Pensi che mantenere un controllo centralizzato per la matematica, sia una cosa che funziona, alla fin fine? C.: Si. Le università sono istituzioni decentrate in questo momento, specialmente dopo la nuova riforma in Francia... R.: Ma fino ad ora erano molto centralizzate C.: Sì, finora erano molto centralizzate. Ma credo che una buona alleanza tra le università autonome e il CNRS che mantiene la coesione nazionale dia un buon equilibrio. R.: Va bene, ma questo dà delle idee per gli altri paesi: credi che sia un modello esportabile, per esempio in Italia, o è veramente un modello tipicamente francese? C.: Non vedo perché non possa essere esportabile. Ci sono delle cose tipicamente francesi. Prima non ne ho parlato, ma c'è uno spirito astratto francese che funziona bene. I francesi amano l'astrazione e sono a loro agio, e nella matematica c'è per forza una buona dose di astrazione. Ci sono stati degli abusi d'altronde in passato in Francia, ma ora abbiamo una tendenza positiva, siamo tornati ad avere un po' meno astrazione, ma il gusto francese resta in ogni modo astratto, che è una cosa molto utile in matematica. In Italia, c'è un gusto più concreto di solito, anche se ci sono delle cose molto astratte sviluppate in Italia in teoria dei numeri. E poi in Francia abbiamo un sistema un po' giacobino: tutto deve essere controllato, amiamo quello che è centralizzato. Forse non è così in Italia. Ma, a parte queste differenze, certamente ci si può ispirare ad un sistema che funziona. R.: In effetti voi avete un sistema a due livelli. Avete una scuola di eccellenza e un'università per tutti. C.: Infatti,
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R.: Questo comporta un prezzo da pagare? Per esempio le università sono meno buone o questo produce meno studenti a livello medio, ossia la media delle persone ha ancora una buona preparazione? Insomma, è compatibile con il sistema delle Grandi Scuole? C.: È chiaro che c'è un prezzo da pagare, E paghiamo un prezzo pesante. Il fatto che i migliori studenti vadano nelle Grandi Scuole impoverisce le università e il fatto che non ci sia nessuna selezione in entrata all'università è un altro fattore in gioco. È dunque un sistema molto duro che è molto buono per i migliori, e meno buono per il grosso della truppa. Forse si potrebbe migliorare il sistema in Francia… forse lo si potrebbe migliorare. Ma per il momento è impossibile modificare l'assenza di selezione all'entrata dell'Università, per vari problemi. Ma introdurre una piccola dose di elitarismo a livello delle università sicuramente aiuterebbe molto. R.: Tu conosci molto bene l'Italia, e hai collaborato con molti italiani. Che consiglio potresti dare alla politica italiana per migliorare il livello della matematica italiana? C.: Per prima cosa devo dire che effettivamente ho collaborato con molti italiani. Apprezzo molto in Italia specialmente l'alleanza tra la fisica e la matematica. Le persone non cercano di definirsi. In Francia si chiede sempre ai matematici chi sono, qual è la loro specialità, mentre in Italia è molto meno chiaro, uno è un matematico o un fisico, un analista o un probabilista, non ci si pone troppo il problema. Mi piace questo modo di fare, che comincia a progredire anche in Francia. Penso però che l'esempio italiano sia il controesempio per l'autonomia. È un sistema in cui l'autonomia universitaria si è realizzata male. E c'è da trovare una procedura virtuosa d'insieme che è stata trovata in Francia, ma che rimane da trovare in Italia, su un insieme di regole della comunità perché tutto funzioni bene. Le regole siano fatte in modo tale che le persone più brillanti abbiano un posto, per adesso i più brillanti non hanno posti e ce li ritroviamo tutti in Francia, che va benissimo per il sistema francese, ma non va affatto bene per voi. E poi delle regole di buona condotta reciproca. Evitare il reclutamento locale per esempio. Questo è praticato dalla comunità matematica, in Francia non si viene mai assunti all'interno della propria università. Bisogna che le persone partano. Questa regola viene applicata da tutti e produce un rimescolamento che evita la sclerosi del sistema. Dunque un insieme di regole di buona condotta che vengano applicate da tutta la comunità e che una volta accettate potranno fare in modo che la competizione tra le università possa farsi in modo sano. Nel frattempo mi sembra che la competizione tra le università sia abbastanza produttiva in Francia e non troppo in Italia. R.: Per finire, vorrei terminare con una domanda personale. Ho letto che sei appassionato dai Manga. Non abbiamo parlato di altre cose. Si parla molto del tuo modo di vestirti etc, ma questo lo lascerei ai giornali. Visto che sei appassionato dei Manga vorrei chiederti: io sgrido sempre mio figlio che sta tutto il tempo a leggere i Manga, potresti spiegarmi perché è importante leggere i Manga? 139
C.: Ok, allora, i Manga sono una forma di espressione che mi parla molto. In primo luogo c'è sempre molto ritmo nei Manga. Nei Manga, trovo commovente il fatto che si vedano spesso invecchiare i personaggi, un concetto abbastanza raro nei fumetti franco-belgi. Spesso nei Manga si vedono i personaggi che cominciano da piccoli, li vediamo crescere, si vede che la vita scorre in un Manga. I Manga sono pieni zeppi di sentimenti, in modo completamento diretto. Parla direttamente al cuore, è molto forte, nei Manga c'e il ritmo e ci sono pulsioni. E poi c'è una buona visione della realtà, che non è assolutamente manichea. I problemi del bene e del male agitano da sempre la società giapponese, hanno sofferto tantissimo dopo la guerra, e poi si sono fatti molte domande sulla loro natura. Nei Manga i problemi del bene e del male si pongono sempre, i problemi di identità, i problemi di doppia natura. E i personaggi non sono mai completamente buoni e completamente cattivi. La visione del mondo nei Manga non è mai semplificata. Sono maturati molto più velocemente dei fumetti occidentali a cui siamo abituati sotto questo punto di vista. Apprezzo un sacco di cose che si trovano da questo punto di vista nei Manga. R.: Allora posso lasciare mio figlio leggere i suoi Manga tranquillamente. C.: Si, certo ci sono i Manga belli e quelli brutti, come c'è della buona e della cattiva matematica, ma sì certo puoi lasciare che tuo figlio legga i Manga. R.: Allora, grazie Cedric del tuo tempo e per l'intervista. C.: Grazie Roberto! (ottobre 2010)
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John Torrence Tate, premio Abel 2010 intervistato per MADDMATHS da Maria Gualdani Il 24 marzo scorso è stato annunciato che il Premio Abel 2010 è stato assegnato al matematico americano John Tate dell'università del Texas a Austin, per il suo vasto e duraturo impatto dei suoi lavori in teoria dei numeri. Il premio Abel, promosso a partire dal 2003 dall'Accademia norvegese delle Scienze e delle Lettere, consiste in una cifra di 730.000€ e sarà consegnato a Tate il 25 maggio prossimo dal re Harald V di Norvegia. Maria Gualdani* lo ha intevistato per Maddmaths!
M.G.: La prima domanda che vorrei farle è che ci spieghi in poche parole qual'è stato secondo lei il suo maggiore contributo alla teoria dei numeri, quello che le ha preso un tempo maggiore ad ottenerlo. J.T.: Beh, prenderò in prestito qualche cosa che ho letto, che fu detto dal primo vincitore di questo premio quando gli fu posta la stessa domanda. Disse: “chiedereste a una madre quale dei suoi figli sia il suo preferito, o il migliore? M.G.: Va bene, spesso si hanno figli preferiti, quello con cui c'è maggiore intesa... J.T.: Credo sia vero. Oddio! … Insomma... M.G.: Allora forse quello che le ha preso un tempo maggiore J.T.: Un tempo maggiore. Non mi hanno mai preso molto tempo perché non ho mai... Va bene, uno dei miei preferiti è certamente il mio Teorema sulle isogenie di varietà abeliane (ndr.: nel video dice curve Ellittiche, corretto in seguito da J.T.) su campi finiti, e l'enunciato ha senso sopra ogni campo. Avevo l'impressione che dovesse essere vero su di un qualsiasi campo numerico di un campo finitamente generato. Ero capace di dimostrarlo sopra i campi finiti, e provai, provai e provai sui campi numerici. E non ci riuscii mai. Ma ci riuscì Faltings nel 1983. Riuscì a dimostrare la mia congettura, insieme con quelle di Shafarevich e Mordell. Tutte insieme. Un pacchetto unico. Fu un grandissimo risultato. M.G.: C'è una congettura di di Tate?
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Research Assistant Professor all'University of Texas at Austin
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J.T.: Sì. È stato ciò che ha fatto Faltings... Quello che avevo fatto io era solo un caso particolare e Faltings fece un caso più generale. M.G.: Va bene, ma c'è un congettura di Tate che ancora non è stata risolta? J.T.: Certamente c'è. M.G.: Quanto ritiene probabile di vederla risolta? J.T.: Beh, sono abbastanza vecchio. Non credo ci siano molte probabilità. M.G.: Di che si tratta? J.T.: Un filone di studio è che certi gruppi sono finiti, ossia hanno un numero finito: il gruppo di Brauer di forme più generali, direi. Dato il gruppo di Brauer di un campo numerico, quali sono le condizioni tali che un buono schema …. uno schema proprio su “Spec Z” sia finito? C'è anche una congettura di Tate più generale sugli Jacobiani intermedi o su cose come i cicli. Invece di semplici divisori di cicli di codimensione uno, anche cicli di dimensione più alta, ma su questo sono meno fiducioso. M.G.: Ok, e sempre sui grandi problemi aperti, qual'è la sua opinione in generale, qual'è il problema aperto che per lei è il più importante, e su cui i matematici dovrebbero lavorare e concentrarsi? J.T.: Non sono sicuro che quello più importante sia lo stesso di quello su cui uno si dovrebbe concentrare. Ma posso dire con certezza che qualcuno come un giovane che vuole diventare un matematico non dovrebbe lavorare sull'Ipotesi di Riemann... M.G.: Non dovrebbe... J.T.: si, non dovrebbe, poiché le possibilità di riuscita sono molto poche, molti ci hanno lavorato per 150 anni, i migliori, i più grandi matematici al mondo... M.G.: senza successo... J.T.: si, e per me è il più importante problema aperto. M.G.: E lei ci ha lavorato? J.T.: No, non molto. M.G.: Come ha scoperto la sua passione per la matematica quando era ragazzo? Forse i suoi genitori erano già in ambito universitario? 142
J.T.: Mio padre era un fisico sperimentale. Mia madre conosceva i classici, niente a che fare con le cose scientifiche. Ma io ho sempre amato la matematica a scuola e la trovavo molto facile. Mi ricordo ancora, non ricordo che età avessi, ma è interessante che lo ricordi ancora: un'improvvisa comprensione, dovevo avere quattro o cinque anni, che 25 volte 40 è uguale a mille. Non so con cosa avessi a che fare, un biglietto da 10 dollari in quarti di dollaro... M.G.: Forse mille era un numero troppo grande, e voleva ridurlo a numeri più piccoli... J.T.: E poi mi ricordo che capitai su questo libro quando ero un adolescente, “Gli uomini della matematica” di E.T. Bell, non proprio un titolo politicamente corretto, gli uomini della matematica... M.G.: sì, ma a quel tempo... J.T.: e mi piacque molto, era sui grandi della storia, ogni capitolo conteneva la vita di uno dei più grandi matematici della storia: Archimede, Gauss, Newton. Lessi questo libro e fui affascinato, ma decisi che io non ero come queste persone, in nessun modo avrei fatto matematica. Ma anche, è perché io … Penso che lei abbia una domanda su cosa mi abbia affascinato di più quando ero giovane: fu una cosa che imparai in quel libro, nel capitolo su Gauss, ed era la reciprocità quadratica, e ne fui molto impressionato. Provai a dimostrarla, un enunciato così semplice. Certo, a Gauss erano stati necessari uno o due anni per dimostrarla. E io pensai che non sarei mai stato capace di farlo. Ma il miracolo fu che, quando finii il college, decisi che avrei fatto un dottorato in Fisica. Potevo essere un fisico e mi piaceva la fisica. Mio padre o chiunque altro poteva essere un fisico. Pensavo che nessuno potesse essere un matematico. Abbastanza stupido, non so dove avessi preso questa idea... M.G.: Forse in quel periodo in America essere un fisico era più alla moda... J.T.: No, non era un problema di moda. Pensavo proprio di non avere la capacità di dimostrare nuove cose in matematica. E così mi iscrissi alla Graduate School di Fisica di Princeton, e dopo un semestre non potei resistere e cercai di passare a matematica e di tutte le cose, chi trovai nel dipartimento di matematica? Si chiamava Emil Artin (ndr.: uno dei più grandi studiosi della teoria dei numeri dell'epoca, che poi sarebbe diventato il suo direttore di Tesi e co-autore di un libro e di numerosi articoli) ed era proprio lui che aveva fatto la grande generalizzazione finale del lavoro sulla reciprocità quadratica, la cosa che mi aveva colpito di più quando ero un ragazzino. Diventai suo studente. Non avrei potuto avere un migliore inizio per la mia vita matematica. Mi diede l'idea per la mia Tesi. M.G.: E così ha cominciato. J.T.: Si, ho iniziato così... M.G.: E ottenne il dottorato a Princeton e andò a Harvard subito dopo? 143
J.T.: Rimasi a Princeton. Avevamo un seminario sulla teoria dei campi delle classi. Ero un Post-doc. Così rimasi per altri tre anni e quindi un anno alla Columbia University e poi ad Harvard. M.G.: E rimase lì per 30 anni. J.T.: 35! M.G.: E quindi venne qui giù nel Texas! J.T.: E venni in Texas. Ed è stato veramente un gran previlegio per me passare i successivi vent'anni qui. Ci piacque moltissimo, molto collegiale, tutti erano molto amichevoli. M.G.: Ha avuto molti studenti? Le piaceva anche la parte di insegnamento del suo lavoro? J.T.: Mi piace insegnare e ho avuto molti studenti. M.G.: Ed è ancora in contatto con loro, immagino... J.T.: Con alcuni di loro, molti di loro. M.G.: Ha altre passioni importanti nella sua vita a parte la matematica? J.T.: Non so quanto siano importanti. Mi piace camminare, ma ora ho una caviglia malandata. Ma principalmente la matematica. Non sono un uomo del rinascimento in nessun senso. La matematica è la mia più grande passione. M.G.: Qual è il consiglio che darebbe a un giovane matematico o a un giovane che volesse iniziare una carriera accademica? Se dovesse dare un solo consiglio, in qualsiasi campo: matematica applicata, numerica, teoria dei numeri... J.T.: Non dovrebbero non fare matematica a meno che non ne possano fare a meno, a meno di non esserne fortemente attratti. M.G.: Così, uno deve avere un passione molto forte... J.T.: Non so, è solo un mio parere. M.G.: Al giorno d'oggi, con la crisi economica, molti devono lasciare l'università dove invece vorrebbero stare.
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J.T: Uno non dovrebbe fare matematica se pensa di non trovare un buon lavoro o un lavoro facile. M.G: La separazione tra matematica pura e applicata. Può fare un commento su questo? J.T.: Spesso è difficile da dire. Quando avevo la sua età non avevo proprio idea che la teoria dei numeri potesse servire a qualche cosa, ma ora, con i computer super veloci, è diventata utilissima. Conservare informazioni, codificarle e decodificarle, tutto il mondo commerciale è basato su queste cose. Per cui, è molto pratico. Ma non è la ragione per cui l'ho fatto. Non pensavo che sarebbe mai stata usata. Non saprei dire cosa è matematica applicata e cosa non lo è. Ma ancora la faccio (ndr.: matematica applicata), principalmente facendo alcune consulenze in criptologia. Ma il mio cuore è per matematica pure, nella sua bellezza. Penso però che tutte e due le cose siano importanti. Hanno diversi criteri: la matematica pura deve dimostrare, quela applicata deve funzonare, non ha bisogno di dimostrare. Commento del Prof. Felipe Voloch sul premio: Molto meritato. È un grande onore per l'Università del Texa a Austin, non ci poteva essere una scelta migliore. Domanda dal Prof. Richard Tsai : La ragione per fare ciò che ha fatto è stato solo perché le piaceva e nient'altro? JT: Giusto! Esatto. Come dirlo? Per la gloria dello spirito umano... MG: Ha mai avuto qualche intuizione che la sua ricerca sarebbe stata fondamentale a scopi pratici? JT: Veramente no. A Princeton, a quell'epoca, Von Neumann stava costruendo un computer veloce, con valvole al posto dei transistor. Riempiva uno spazio enorme a causa del calore generato dalle valvole. Lo conoscevo bene, ma non fui abbastanza sveglio da capire che avrebbe rivoluzionato il commercio e le comunicazioni. Non fui capace di pensare così a lungo raggio. (aprile 2010)
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E diceva di non essere un matematico! Recentemente, ci ha lasciati Martin Gardner. Un ricordo di Pino Rosolini* Compravo Scientific American/Le Scienze solo per leggere la sua rubrica di Giochi Matematici. Smisi di comperarla due numeri dopo che quella rubrica venne sostitutita con Temi Metamagici (Metamagical Themas in inglese, anagramma del titolo originale Mathematical Games), arrabbiato come una bestia. Era stato amore a prima vista: l'articolo sugli esaflexagoni mi colpì dritto. Ricordo ancora la fatica per costruire il primo esemplare, e la delusione ogni volta che l'esagono di carta si tagliava dopo poche torsioni. (Ora ho imparato a farli con il cartoncino.) Aspettavo che la rivista uscisse allo stesso modo di come aspettavoLinus, rivista di fumetti--di quella leggevo ogni pagina, però. Fu leggendo quelle rubriche che capii che la matematica era una cosa completamente diversa da quella che mi insegnavano a scuola. Quasi ogni numero proponeva una storia, all'apparenza personale, e proponeva chiaramente problemi. Ma questi non si inquadravano mai in nessuna delle materie che stavo imparando: era matematica quella? In poche pagine, riusciva a far immaginare al lettore una teoria, partendo da esempi concreti per farli diventare strutture (matematiche?!?), proponendo problemi (certamente matematici, allora anche la struttura astratta lo era!) lungo il percorso narrativo. Giocavamo insieme, mio padre ed io, o meglio uno contro l'altro. Leggevamo ciascuno Giochi Matematici e lasciavamo i problemi a frullarci nella testa. Quando uno li risolveva, comunicava all'altro di esserci riuscito. Lui era nettamente migliore: sperimentava soluzioni su carta, si distraeva dal problema (cioè andava a lavorare), tornava a provare, trovava la soluzione. Io ero incostante, oggi giudicherei il metodo con cui ottenevo le soluzioni, quando le ottenevo, "casuale". Spesso, aspettando che io giungessi alla soluzione, mio padre modificava i problemi, cercava strade risolutive diverse, me le raccontava: fu la mia prima esperienza di matematica attiva. L'autore della rubrica Giochi Matematici era Martin Gardner, dichiarava di non essere un buon matematico: come si sbagliano, a volte, le persone! Per finire, vorrei proporre un problema, che forse sarebbe piaciuto a Martin Gardner, sui sillogismi, parola forse complicata, che Aristotele usava per descrivere le regole del ragionamento. Un sillogismo coinvolge due premesse e una conclusione. Molto spesso, al giorno d'oggi, si traggono conclusioni sbagliate da premesse accettabili perché si usano forme errate di sillogismo.
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Professore ordinario di Logica, Università di Genova
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Le affermazioni coinvolte in un sillogismo possono essere di quattro tipi: * universali affermative ("Ogni A è B") * universali negative ("Nessun A è B") * particolari affermative ("Qualche A è B") * particolari negative ("Qualche A non è B"). Un esempio di sillogismo corretto è: I mammiferi allattano i piccoli. Qualche mammifero vive in mare. DUNQUE, qualche animale che vive in mare allatta i piccoli. Codifichiamo i quattro tipi di affermazioni usando segni grafici così: * universali affermative: A → B * universali negative: A → @ ← B * particolari affermative: A ← @ → B * particolari negative: A ← @ → @ ← B L'esempio di prima diventa mammifero → allatta i piccoli mammifero ← @ → vive in mare Seguendo il cammino delle due frecce che si inseguono troviamo che vive in mare ← @ → allatta i piccoli che è la rappresentazione grafica della conclusione che avevano già trovato: qualche animale che vive in mare allatta i piccoli. Sillogismi errati producono trascrizioni grafiche inconcludenti: ad esempio, Tutti gli uccelli depongono uova. Qualche mammifero depone uova. DUNQUE, qualche uccello è mammifero. Graficamente si scrive: uccello → depone uova mammifero ← @ → depone uova ma non ci sono cammini da seguire da uccello a mammifero o al segno @, anzi non c'è proprio nulla da seguire: uccello → depone uova ← @ → mammifero Il problema che voglio proporvi è il seguente: quali sono i sillogismi corretti che non si riescono a calcolare usando il metodo grafico schematizzato sopra? (luglio 2010)
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L'Infinito e il limite Martedì 11 maggio 2010 si è svolto, presso la Biblioteca Centrale del CNR, un dialogo su "infinite e limite". La prospettiva matematica e quella letteraria sono state rappresentate rispettivamente dal matematico Roberto Natalini del Cnr e dallo scrittore Erri De Luca, narratore, autore di teatro, poesia, traduttore di testi sacri. Ecco, di seguito, gli appunti (unilaterali) di Natalini per il dialogo con De Luca. Appunti per l'incontro con Erri De Luca al CNR 11 maggio 2010 di Roberto Natalini "Discreto e continuo, finito e infinito, sono due poli opposti del nostro modo di conoscere il mondo fisico. Spesso capaci di invertire la loro posizione, e a volte di fondersi l'uno nell'altro. Ci piacerebbe che tutto fosse limitato e contabile e sotto il nostro diretto controllo. Eppure la nostra matematica, e quindi in ultima analisi una buona parte della scienza moderna, si basa sull'idea e prima ancora sull'uso dell'infinito. Un infinito controllato, forse un po' addomesticato, ma non per questo diventato finito." a) Da una parte ci piacerebbe che tutto fosse finito, discreto, contabile (questi termini non sono tecnicamente equivalenti, ma ok...). Che potessimo mettere tutto in un grande computer (che notoriamente puo' solo avere a che fare con un numero finito – grande, ma finito -- di oggetti, insomma è sempre una specie di grande pallottoliere) e calcolare. In fondo la matematica nasce storicamente dal contare: 10 dita, 100 pecore, 1000 guerrieri, 80 miliardi di galassie, 10^23 stelle, 10^80 atomi. Chi ha bisogno di numeri più grossi?? b) Poi però c'è il teorema di Pitagora. E come sapevano i pitagorici e ci racconta anche Platone nel Menone, si scopre che se prendiamo un quadrato con il lato lungo un metro, la lunghezza della diagonale è uguale alla radice di 2. E che non possiamo mai trovare una frazione che esprima questa lunghezza. Insomma i numeri naturali non bastano, e nemmeno le frazioni. E non bastano nemmeno a calcolare il rapporto tra circonferenza e diametro di un cerchio, ossia la famosa quadratura del cerchio. Ok, per Chuck Norris, pi greco=3, ma non per un matematico, e nemmeno per un ingegnere che deve progettare una ruota (o la fusoliera di un aereo). E questi numeri, radice di due, pi greco, e (il numero di Eulero, ossia la base dei logaritmi naturali), servono sempre, anche se sono difficili (erano difficili per Pitagora...) e spesso non sono capiti fino in fondo. Se vogliamo calcolare un angolo o una distanza o fare una moltiplicazione appena più complessa (I logaritmi di Napier nascono nel 1614 proprio per fare rapidamente le moltiplicazioni), per non parlare di fare della fisica seria (equazioni dell'elettromagnetismo, relatività, fisica quantistica), troviamo l'infinito, infinitamente piccolo e infinitamente grande. Insomma dobbiamo 148
passare al limite. Limite nel senso matematico, nel senso di compiere infinite operazioni con una sola operazione. Perché quando vado al limite, ho bisogno dell'infinito, perché passo sempre attraverso un'infinità di punti per raggiungerlo. E posso quindi riuscire per esempio a risolvere il paradosso di Zenone. Cerchi di attraversare la strada, ma per arrivare dall'altra parte devi raggiungere la metà del percorso. E poi i 3/4, e poi i 7/8 e i 15/16. Ossia per traversare un intervallo devi attraversare prima infiniti sottointervalli sempre più corti e per fare un numero infinito di cose ci vuole un tempo infinito. Giusto? Insomma. C'è qualche cosa che non torna, no? Di solito la strada riusciamo a traversarla. Forse la somma di cose sempre più piccole (anche se in numero infinito) alla fine può essere finita. Ma fino alla definizione delle serie numeriche, come limite delle somme parziali e soprattutto alla sistemazione rigorosa della nozione di convergenza e di numeri reali (con Weierstrass e Dedekind dopo la metà del XIX secolo), questo paradosso ha messo in imbarazzo tutta la filosofia. Non vogliamo spiegare come si risolve, solo cercare di far capire i problemi che possono nascere dal non sapere gestire l'infinito[1]. d) Poi però con Cantor scopriamo che di infinito non ce n'è uno solo, anzi vi sono un sacco di tipi di infinito (infiniti tipi di infinito, sic!). Ma prima vediamo il più semplice paradosso sull'infinito, già osservato da Galileo. Dato che possiamo fare il quadrato di ogni numero, i numeri quadrati (1,4,9,16,25...) sono tanti quanti tutti i numeri. Questo risultato sembra paradossale. Il tutto dovrebbe essere sempre maggiore di una sua parte propria. Cantor ci dice che questo non è più vero quando lavoriamo con insiemi infiniti. Anzi, è proprio la sua (e la nostra) definizione di infinito: un insieme è infinito se puo' essere messo in corrispondenza uno a uno con una sua parte propria. I numeri naturali sembrano essere “di più” dei numeri quadrati, ma invece sono “equipotenti”. E torniamo ai vari tipi di infinito. Le frazioni sono infinite. se prendo due frazioni ne posso sempre trovare una in mezzo. Ma con le frazioni non posso fare la radice di due. Insomma se voglio avere un metro senza buchi, in cui possa misurare la diagonale del quadrato o la circonferenza di un cerchio, devo aggiungere questi numeri "irrazionali". E quando li aggiungo ottengo i numeri “reali” e mi accorgo (Cantor si accorse) che formano un infinito di livello superiore. La differenza tra un metro bucherellato e un metro "pieno". I razionali, ossia le frazioni, occupano una parte trascurabile del nostro metro. Se avendo una matita dalla punta affilitassima, mi divertissi a segnare dei punti a caso su una retta, avrei una probabilità nulla di scegliere un numero frazionario. e) A questo punto, per capire che veramente non possiamo fare a meno dell'infinito (e del limite, e del continuo, e delle derivate etc...) bisogna chiarire che cosa è un modello matematico. Un modello è una forma di rappresentazione che permette di ragionare con alcuni fatti reali, cercando di trovare i meccanismi basilari della loro interazione. E ci serve a prevedere il futuro con una ragionevole approssimazione. Il primo modello matematico sono forse state le nostre dita. Per ogni pecora che entrava in una grotta mi tocco una falange e cosi almeno fino a 15 per mano ci arrivo. Poi comincio a fare dei segnetti per terra o sulle pareti della mia grotta. Insomma rappresento in modo semplice (una falange) qualche cosa di complesso (una pecora). Pero' ogni cosa puo' essere vista in molti modi. Non esiste il modello perfetto. Prendiamo un gas o un liquido. Certo, sono molecole e 149
potremmo pensarle come palline (e ancora, non sempre si comportano come tali...), ma sono proprio tante ed è difficile calcolare cosa fanno. Una soluzione, molto prima che si parlasse di atomi, fu proposta da Eulero nel '700. Considerare un gas o un liquido come una sostanza "continua", con comportamenti macroscopici, con grandezze che possiamo misurare alla nostra scala: pressione, temperatura, densità. E questi sono i fluidi che vediamo veramente: il vento intorno alla vostra auto, l'aria che sostiene le ali di un aereo, le nuvole nel cielo e l'acqua nel mare[2]. Quando si guida la macchina o semplicemente si guarda la nostra pelle racchiudere le cose che vi sono al suo interno, e a cui teniamo moltissimo, stiamo facendo un limite. Se tiro una palla di gomma, non devo seguire tutte le molecole che la compongono, ma solo il loro baricentro (o poco più). f) In realtà ogni livello di scala della nostra rappresentazione del mondo ha i suoi modelli. Possiamo partire dagli atomi, ma se vogliamo costruire un tavolo o una casa, dobbiamo passare al limite e vedere la materia come un continuo. Non dimenticando dei vari livelli, ma tenendo in memoria i livelli piu' piccoli, oppure utilizzando modelli diversi in regioni diverse. Posso ricordami che la corrente elettrica è fatta di elettroni, ma poi devo passare la limite per misurare la corrente macroscopica che passa nella lampadina. Insomma, il continuo è ovunque, ed è pre- tecnologico: una corda, un tavolo, un sasso, una strada, un muro, il mondo che vediamo, siamo naturalmente portati a pensarli come continui. In un occhio ci sono 6 milioni di coni e 120 milioni di bastoncelli, quello che vediamo sembra continuo, ma è solo un approssimazione (oppure è l'occhio che approssima la continuità del mondo?). Forse l'idea di continuità e di infinito sono solo delle metafore, concetti umani che non corrisponde al mondo esterno. Ma funzionano benissimo, e difficilmente verranno sostituiti. g) In realtà il primo modello di continuo è dato dalla nostra autocoscienza. La nostra percezione del tempo, il fluire degli avvenimenti. La nostra percezione di noi stessi. Questi tuffi improvvisi che ci fanno precipitare dentro di noi in momenti di infinita intensità. O anche questi istanti dilatati intorno a cui si (ri)costruiscono i nostri ricordi. Una sorta di infinita concentrazione, senza scatti (al limite salti, posso svenire e risvegliarmi) che è poi quella che ci fa immaginare di poter avere una percezione infinita e un'anima immortale, Perché in fondo è questo che tutti vogliamo sapere, come ben sapeva l'indovino che ai barboni di Miracolo a Milano, per 100 lire, diceva sempre la stessa cosa: "Lei non finisce qui! No no... Chissà dove finirà lei, con quello sguardo. Diventerà una grande persona... Lei non finisce qui!". Domanda mia a De Luca: • La matematica crea delle strutture immaginarie condivise (anche se da una ristretta cerchia di persone appropriatamente educate, sempre parecchie migliaia in tutto mondo pero'), una conoscenza che cerca di essere veramente globale, e l'infinito fa parte di queste strutture. I concetti matematici hanno una specie di permanenza indipendente dalle singole persone. L'intenzione dell'autore, ciò che lo ha portato a trovare quella cosa, non ha più importanza, e resta un oggetto che posso prendere 150
e manipolare a piacere. Una volta introdotta una nuova idea, chiunque la puo' fare propria e usare. E' vero per l'infinito, per i gruppi finiti o per gli spazi di Banach. Quando uno "impara" a vedere l'infinito, non puo' piu' fare a meno di vederlo. E per questo la matematica cresce e possiamo pensarla come infinita. Si puo' dire lo stesso dell'immaginario della letteratura? Esiste una cosa al di là della semplice istanza contingente di una certa opera letteraria? La cosa che resiste alle cattive traduzioni, ai cambiamenti culturali e di costume, alle diverse filosofie, alle riduzioni cinematografiche, ai cattivi lettori? È la letteratura, in questo senso, infinita?
[1] Come dice David Foster Wallace in “Everything&More”: “La confusione centrale della Dicotomia [nel paradosso di Zenone] è ora eliminata: muoversi dal punto A al punto B non richiede un numero infinito di mosse, ma piuttosto una singola mossa di lunghezza [B-A], che può essere approssimata da una serie convergente”, E&M, p. 195. [2] Ed è in questi fluidi che nasce la turbolenza. ne parlo perché fa capire bene come questa specie di "finzione" di avere un tessuto continuo, permetta di spiegare cose che sarebbe impossibile capire a livello molecolare. Prendete un fluido e fatelo girare, per esempio mischiate dell'acqua con un cucchiaio. Se girate piano non succede nulla. Poi piano piano appaiono dei vortici e se girate ancora più forte, vedrete apparire sempre più vortici, tanti mulinelli, e altri piccoli che vengono in qualche modo attivati da quelli grandi. Ed ecco da dove viene la storia della farfalla che batte le ali in Cina e fa nascere un uragano in America. Ecco da dove viene l'instabilità delle previsioni del tempo. E insomma, quando abbiamo a che fare con questi fluidi su scale cosi grandi, non riusciamo a vederli come un materiale fatto di tante particelle, ma, anche se poi in realtà le simulazioni numeriche che produciamo sono sempre fatte su un numero finito di valori, ci ostiniamo a vederli come continui. Come se esistessero veramente e la realtà fosse solo una buona approssimazione di questa realtà "continua" più profonda .
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