I TRE COLONNELLI 4

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DARIO REBOLINI

I TRE COLONNELLI parte terza


96 96 Siamo sgusciati via sul filo del rasoio, ma purtroppo abbiamo dovuto lasciare i nostri feriti, oltre alle

tre mitraglie e i mitragliatori.

La nostra battaglia finiva miseramente così.

Con una

galoppata sovrumana siamo arrivati alla Capanne di Cosola, abbiamo cercato di mangiar qualcosa, ma, non è che ce ne sia stato tanto, solo per non morir di fame.

Subito dopo, sono

arrivate notizie che avevano attaccato in forze su tutti i fronti. La Jori era impegnata con tutti gli altri distaccamenti, alla Scoffera, in Creto e a Montoggio, e anche lì, le forze che avanzavano sembravano incredibilmente migliaia, si vedevano file d alpini e automezzi armati che non finivano più. Abbiamo avuto ordine di rientrare immediatamente nella nostra zona di comando, vale a dire Casa del Romano, dove vi era il comando della brigata.

Arriviamo su e troviamo

Croce con tutto lo stato maggiore della Brigata. Stavano discutendo sulle possibilità dello sganciamento da tutti i fronti, ritirarsi sui monti più alti e contrattaccare alla nostra maniera, colpire e fuggire. D’altronde, questa era la nostra guerra, non potevamo tenere un fronte di quella portata con gli sten e le bombe a mano. Ma era anche la tattica della guerriglia, tenere impegnati più eserciti possibili,con minori perdite possibili, indebolendo sempre più le truppe al fronte e avvicinando sempre più la vittoria finale. Infatti ci dividiamo in gruppi più piccoli; quindici venti persone per gruppo, questi gruppi si sceglievano volontariamente il loro comandante, che poi doveva essere affiancato, per quanto possibile, da persone che conoscessero bene la zona. Ora io, non pretendo di raccontarvi, tutto lo svolgimento del rastrellamento del mese d’agosto 44, tutte le imboscate, fatte e subite, i vari morti e i vari feriti, e sono stati tanti, fra i quali anch’io. Cercherò però, di raccontarvi, almeno, quello che è toccato a noi in questo mese d’agosto 44. Vengono seppellite

tutte le armi pesanti, (quelle poche), si seppellisce pure tutte le

attrezzature dei comandi, delle mense; documenti e piani strategici, si portano via tutti i feriti non gravi, dall’ospedale di Livellà, nascondendogli nei vari paesi della vallata, insomma è stato un mese molto

difficile. Non vi erano mense, non avevamo soldi per comprare qualcosa da

mangiare, si dormiva all’addiaccio, ma questo era il meno, era d’agosto. Tutti i paesi, piccoli o grandi erano occupati dagli alpini. Ogni tanto s’incontrava qualche pattuglia e bisognava scorgerli per primi e attaccarli di sorpresa, se no sarebbero stati guai grossi, come, purtroppo è toccato a qualche gruppo, con bilanci tragici. Un giorno ci siamo trovati sulla cima del monte Alfeo, dovevamo tenere

sotto osservazione Zerba, che era

occupata dagli alpini dal giorno prima. Noi aspettavamo che se n’andassero per tentare di rimediare qualcosa per lo stomaco. Pochi metri più giù, dalla parte opposta verso Gorreto, ci


passava un sentiero, che proseguiva

sottocosta.

C’eravamo appena pisolati sotto un grande

faggio, nell’attesa che gli alpini se n’andassero da Zerba. Ma nel dormiveglia, mi era sembrato di sentir parlare; eravamo sottovento, forse noi sentivamo loro ma loro non sentivamo noi; cercai di svegliare gli altri nel massimo silenzio, preparammo le armi leggere che avevamo

ancora, e, in ginocchio,”gattonando”, piano, piano, ci siamo

affacciati sul sentiero per vedere che succedeva.

A quindici metri da noi, sù quel benedetto

sentiero, vi era una squadra di alpini seduti, mezzi spogliati per il caldo, mezzi stravaccati sul prato e qualcuno anche senza scarpe, e senza nè giacca, nè armi. Saranno, stati una dozzina. 97 Dato il tremendo caldo e la tranquillità di quel posto, li, non avrebbero dovuto esserci nessun pericolo, avevano abbandonato tutto per terra e stavano lì, a riposare e prendere il fresco della montagna. Noi ci siamo subito ritirati per decidere il da farsi, e per studiare il modo migliore per attaccare. Ma fra noi, non vi era nessun comandante, diciamo che l’unico un po' più responsabile, avrei dovuto essere io, in quanto dopo tanta fame, stavo per portarli a Zerba dai miei, o da qualche vicino, dove avremmo sicuramente trovato chi ci avrebbe fatto una bella polenta, o magari un bel piatto di lasagne al sugo. (fantasie a quei tempi). Eravamo lì, su quel monte, proprio, per vedere se ci fossero movimenti di truppe, o se si poteva tentare di avvicinarsi alla casa senza pericolo, dato che era l’ultima del paese ed era facile prevenirne il pericolo. Avevamo due bombe a mano ciascuno, io avevo ancora il mio mitra che avevo portato da Sacìle e che non mollavo mai, gli altri, avevamo lo sten e qualche fucile.

Il primo impeto era

stato di attaccarli con le bombe a mano e raffiche di mitra e sten, li avremmo trucidati con facilità, ma, sarebbe stata una tremenda carneficina. Fortunatamente fra noi, vi era anche un ex alpino, che aveva disertato appena erano iniziate le prime battaglie. E’ questi; ò per spirito di corpo, ò per simpatia verso i suoi ex, ci ha, un poco raffreddati, dicendoci che gli alpini non erano fascisti, che erano da combattere per la divisa che portavano, e comunque in un altro contesto, ma erano quasi tutti contadini del veneto e quindi brava gente, non si poteva trucidarli cosi.

Con il senno di poi, c’erano da fare due considerazioni. La prima, quella che, se ci

fossimo stati noi, loro come avrebbero agito?. Seconda; erano momenti cruciali, se vuoi salvarti la vita devi prima sparare e poi pensarci. Abbiamo fatto alla rovescia e andata bene per tutti. Dopo una decina di minuti, che noi stavamo sul chi vive con le armi puntate, piano, piano si sono rivestiti e in fila indiana, l’abbiamo accompagnati con lo sguardo fino all’orizzonte, verso la


strada che portava a Varni. Quando poi, più tardi, il loro battaglione si è arreso al completo al nostro comando, e sono diventati tutti partigiani al nostro fianco, sono andato a Gorreto, nel castello dove erano alloggiati, per cercarli, ho chiesto della pattuglia che quel giorno si trovava a passare per di lì, e li ho trovati. Al primo racconto non si sono emozionati più di tanto, ma quando sono ritornato con l’ex alpino, l’uomo che gli aveva salvati, e gli abbiamo spiegato bene tutto quello che avevano fatto su quel sentiero, allora hanno capito e abbiamo fatto una bella mangiata da Nando, con una bella bevuta insieme. Dopo quel fatto, abbiamo continuato l’avvicinamento a Zerba, con la speranza di poter trovare qualcosa da mangiare. A prima vista sembrava che se ne fossero andati, ma invece, quando arrivati nell’immediata vicinanza abbiamo sentito una raffica di mitraglia, che sembrava, venisse proprio da lì. Gli alpini, ma anche i tedeschi; erano avvezzi, che, quando erano in movimento, da un paese all’altro; ogni cinque o dieci minuti, sparavano una raffica di mitra, o mascingaver, (sega HItler). Non si capiva se l‘ho facessero per paura o che altro, ma in ogni modo, molte volte ci siamo salvati appena in tempo, sentendo questi spari. 98 Per noi era un avvertimento prezioso; una volta, con tutto il distaccamento, eravamo appena arrivati nella scuola di Zerba, per cercare di imbastire un piccolo pranzo, la polenta. Ma appena il tempo di cuocerla, abbiamo dovuto bruciarci le mani e scappare con la polenta in mano, avevamo sentito le raffiche un minuto prima di cadere in trappola, e ci siamo salvati. Se ti nascondevi in un burrone, che capitava spesso, e se conoscevi la zona, potevi intuire da dove arrivassero e a che distanza fossero, e intuivi anche tutta le strada che seguivano, frà una raffica e l’altra. Abbiamo atteso la sera, poi, io davanti finto disarmato e quasi in borghese, l’oro dietro per coprirmi, siamo arrivati a casa mia. Che ripeto, è la prima casa per chi arrivava da Vezzimo. Lì, abbiamo trovato la mamma che ancora tremava dalla paura, perché erano appena passati e i miei fratelli e mia sorella, erano scappati in tempo per miracolo, aveva una paura matta, che fossero ancora nei dintorni e che potessero ripassare.

Ci siamo nascosti tutti quanti nella

cantina, dove, forse, in un’emergenza, si poteva, scavalcando un piccolo muretto, scappare attraverso la campagna sottostante, verso il Boreca, dove non vi era ancora la strada attuale, ed era, una campagna abbastanza boschiva da proteggerci.


La mamma ci ha portato giù un salame, che sicuramente poi sarà, mancato alla famiglia, quattro micche di pane, ci siamo potuti levare la più grossa. E, per quella sera è passato tutto tranquillo, siamo andati, per dormire, nel vecchio rifugio delle rive, perché la mamma voleva avere il tempo di prepararci un’infornata di pane fresco da portarsi appresso.

Al mattino seguente, appena svegliati abbiamo visto una nuova colonna di

alpini che da Vezzimo arrivavano nuovamente a Zerba. Era una tattica antiguerriglia, che usavano spesso: andavano via da un paese, prima che venisse buio, che tutti li potessero vedere, per tornare subito dopo indietro appena buio, o, dunque, ne arrivava subito un’altra colonna, a modo che, chi stava ad osservare, come noi, poteva cadere in inganno e trovare brutte sorprese.

In quel rifugio non si stava male e ne abbiamo approfittato per circa una

settimana, una volta al giorno, mi avvicinavo al paese e mia sorella mi portava da mangiare, fino che poi, un giorno, abbiamo visto arrivare i nostri, in forze, e siamo rientrati nel distaccamento al completo. Nuovamente nella cascina della Gion. Nel frattempo, tutti i paesi limitrofi alla valle del Trebbia, prima i più alti, poi, piano, piano, anche quei più bassi, erano liberati, costringendo gli alpini a rientrare nel loro battaglione, il Vestone a Gorreto. Ma anche tutte le altre valli, la Borbera, l’Aveto e la Staffora, erano libere. Era rimasto il presidio di Gorreto con tre compagnie, più una che era stata mandata a Torriglia e l’altra a Bobbio.

Questo dislocamento avrebbe dovuto tenere libero il fondovalle, ma per farlo

dovevano tenere i collegamenti fra loro, e non erano facili. Noi gli eravamo alle spalle appena si muovevano, eravamo pronti a rintuzzarli. Fallo oggi, fallo domani, hanno smesso di uscire. Quelli di Torriglia stavano in Torriglia, come quelli di Bobbio,

le sue pattuglie

le avremo

attaccate una ventina di volte, e ad ogni volta, decine di alpini disertavano e venivano su nei paesi a cercare i partigiani per arruolarsi. Così non si sono più mossi. Mentre il grosso del battaglione, quello di Gorreto per intenderci, ogni tanto facevano qualche puntata nei paesini molto vicini a loro, ma neanche lì, c’era sempre qualcuno che disertava. 99 Spesse volte appena arrivavano da noi, si prestavano subito per andare a prendere le loro sentinelle, persino davanti al corpo di guardia, usando ancora la parola d’ordine che conoscevano. In questa maniera, una nostra squadra è riuscita a prelevare anche l’attendente stesso del Maggiore Paroldo, direttamente nella stanza accanto alla sua. Un certo Mavì di Bergamo. Questo fatto a destato un forte clamore, in tutta la valle, ma sopratutto sul morale del maggiore, era disposto a dare tutti i prigionieri partigiani che teneva, in cambio del suo


attendente.

I nostri comandi, sapendo questo cercavano di prenderla alla larga

e

tergiversavano. Intanto il Mavì, si era abituato a stare con noi, aveva chiesto addirittura di arruolarsi, e questa era una nostra stupenda vittoria. Il maggiore diventava sempre più impaziente, tanto che un giorno lascia andare un prigioniero del nostri, con la promessa di far chiedere a Bisagno, un colloquio per trattare lo scambio. Bisagno non va e manda lo stato maggiore della Brigata Jori al completo, l’appuntamento, è a Campi di Piscin, cinquecento metri lontano dal comando degli alpini, anche da questa parte il Maggiore non c’è, ci sono un paio d’ufficiali con un gruppo di nostri prigionieri, per lo scambio. Qui il dramma; Mavì non vuole essere scambiato, oramai è un partigiano e tale vuole rimanere. Ognuno ritorna nelle loro posizioni e passa un’altra settimana e il Maggiore non vuol credere a quel racconto, insiste per riavere un altro abboccamento perché vuol sentire con le sue orecchie il rifiuto dell’attendente; non può essere, me l’avete stregato. Si ritorna ad un altro appuntamento, sempre in quella località. Questa volta c’è il Maggiore, e quando chiede al suo attendente se è vero che non vuol più tornare, --Signor si Signor Maggiore, -gli chiede, ma perché, ti hanno stregato?. No Sig. Maggiore mi hanno aperto gli occhi, mi hanno fatto capire per chi e per cosa combatto, ai miei superiori do del tu, alla mensa siamo primi noi, poi loro, la libertà sig. Maggiore, la libertà. Il maggiore è crollato; si è alzato in piedi, ha fatto un saluto militare, ha dato ordine di lasciare liberi i prigionieri e se nè tornato al castello di Gorreto. E’ passato qualche giorno; arriva un alpino al comando della brigata Jori, con una lettera per Bisagno,

dove, il Maggiore chiedeva un incontro personalmente, con il comandante della

Divisione Cichero. Bisagno accetta e si va all’appuntamento sempre nella stessa zona, ricordo che almeno tre o quattro distaccamenti dei nostri, erano stati dispiegati nei dintorni della zona si temeva qualche trucco. Invece, il Maggiore si presenta solo, quasi in segreto, con un suo aiutante, un tenente, e stop. Vengono fatte le presentazioni, poi, si appartano in un fienile

poco distante.

Già fra noi

circolava voce che forse, il Maggiore voleva arrendersi con tutto il battaglione, ma a due condizioni; la prima era quella che, tutti i suoi uomini sarebbero stati lasciati liberi di fare quello che volevano, è questo era scontato, per noi andava benissimo, dovevano solo lasciare le armi. La seconda, era quella che, al comando della compagnia di Torriglia vi era un Capitano che non comandava, perché come vice, aveva un tenente fascista, che era tremendo. 100 Temeva che, se ne avesse avuto il minimo sentore, avrebbe portato via la compagnia, verso Genova.

Così, chiedeva il tempo per richiamare a Gorreto le due compagnie, quella di


Bobbio e quella di Torriglia, a modo che il battaglione si sarebbe arreso al completo. Ma di tutto questo non ne sapeva niente nessuno. Noi del Mandorli eravamo a Zerba, ed era già da circa un mese che, tutte le mattine, andavamo giù sulla statale, nella zona di Losso, e stavamo appostati tutto il giorno, pronti a bloccare chiunque cercava di passare.

Una volta abbiamo fatto un

ottimo bottino, abbiamo fermato un autocarro che andava, verso Genova carico di sacchi di riso e sacchi grano, una ventina di quintali, che abbiamo dirottato per Zerba, nascondendo il tutto, un po’ qui, un po’ là, nelle varie cascine, e non dovendo,continuamente chiedere l’elemosina ai contadini, ma elargire noi. Un’altra volta è toccata a due alpini che, arrivando da Bobbio, per andare a Gorreto, con un automezzo pieno di rifornimenti per il Battaglione, nessuno gli aveva detto,che potevano incontrare noi.

Gli alpini sono stati disarmati e lasciati liberi, il mezzo dirottato per la nostra

riserva come prima. A un certo momento si era sparsa la voce che la compagnia di Bobbio avrebbe dovuto rientrare nel battaglione a Gorreto, e per una settimana, abbiamo corso avanti e indietro a vuoto, in quanto; ce la segnalavano in arrivo e appena arrivati giù non arrivava più. Ripeto, dopo una settimana di falsi allarmi, quasi ce la lasciamo scappare per un pelo; eravamo rimasti tutto il giorno appostati a Losso quando verso sera arriva la notizia che non arrivano più, erano tornati indietro. Abbiamo deciso di tornare su per la cena, ma non abbiamo fatto in tempo a sedersi che abbiamo dovuto volare, nuovamente giù di corsa, vestendosi per strada. Era arrivata la notizia quasi certa, attraverso una staffetta, che ce li segnalava al ponte di Lenzino, che stavano salendo verso Gorreto. A questo punto non potevamo più, scendere dal castello e usare la passerella dell’Enel per arrivare a Losso, ci sarebbero arrivati prima loro. Abbiamo deciso di prendere la strada, con le scorciatoie per Cerreto e cercare di arrivare prima di loro a Valsigiara. Siamo arrivati sull’ultimo tornante, sopra le case, che già si sentivano cantare all’uscita di Traschio, in pratica cinquecento metri da li. Abbiamo fatto piazzare i due fucili mitragliatori un poco più in alto, che potessero battere il ponte, onde evitare che ci bloccassero la ritirata dopo lo sganciamento.

Noi, eravamo una trentina e loro duecento, noi eravamo armati solo di sten e

bombe a mano, e loro di grosse mitraglie e temibili mortai da ottant’uno, senza ignorare tutto il resto. Venivano sù a plotoni inquadrati, con zaino affardellato e cantavano; “vile, m’ai rotto il velo..., ma rotto il velo”..., al ché, il nostro vice comandante Pirri, che era vicinissimo a me, di rimando.... ancora un passo poi, io ti rompo il..c. è giù una scarica di armi automatiche e bombe a mano.

Erano, arrivati proprio sotto di noi, sotto il muro del tornante della strada per Zerba, le

bombe a mano, bastava mollarle che gli cadevano addosso da sole.

Nessuno, è stato in

grado di rispondere al fuoco, le armi le avevano in spalla e magari anche scariche. Senza né


avanguardia né retroguardia, sembravano in Corso Italia a passeggio. Dieci minuti, poi ci siamo ritirati, i primi colpi sparati da una loro mitraglia, andavano a colpire addirittura sull’altra parete, e noi, eravamo già a trecento metri in ritirata. 101 All’indomani abbiamo saputo,dalla S.A.P.di Ottone,che vi erano rimasti una decina di feriti, e sembrava, uno grave, che avevano raccolti e portati a Ottone per le prime medicazioni. Ma lo scompiglio e stato tanto, che una ventina di alpini hanno disertato. Questo, è stato l’ultimo attacco agli alpini del Vestone una quindicina di giorni dopo, il battaglione si arrendeva al completo ai partigiani della Cichero, portando tutto l’armamento, il vestiario e quasi tutti gli alpini. Erano mille uomini, mille ragazzi attorno ai vent’anni, che venendo a combattere al nostro fianco, hanno fatto in tempo, a rendersi utili per la libertà della patria e per la democrazia dell’Italia. Evviva gli ALPINI, avevano scelto la libertà.

Da questo battaglione nè sono venuti

fuori cinque, o sei distaccamenti, quasi tutti d alpini,

con parte anche dei loro ufficiali e

sottufficiali, altri sono stati mandati, a gruppi, nei vari distaccamenti sparsi per le tre valli; Borbera, Aveto e Trebbia. Nel castello di Gorreto, dove vi era il comando del Battaglione, s’installò immediatamente il comando della Divisione Cichero, con tutto lo stato maggiore, compreso l’ex Maggiore Paroldo che, per l’atto di coraggio dimostrato, passando nelle nostre fila, era stato, promosso vice comandante della Divisione, col nome di battaglia, “TREBBIA”. Da quel momento non vi era più un soldato nemico, da Bobbio, a Varzi, da Arquata, a Genova Prato, per passare per tutte le valli, arrivando alla Toscana. Nei comuni si erano già costituite le giunte, con regolari sindaci regolarmente eletti dalla popolazione. Vedi, le varie Repubbliche formatesi in qua e in là; come la repubblica di Torriglia e quella di Bobbio, dove tutto funzionava come a guerra finita. A Bobbio, per mezzo di Marzo e Bini, il commissario politico della Divisione Cichero, si pubblicava il Giornale IL PARTIGIANO che portava tutte le notizie della zona, della guerra e anche delle città più limitrofe, come Genova e Piacenza. I negozi si erano riaperti e incominciava a circolare la roba che prima non si vedeva, perché la tenevano nelle cantine e perché non nè arrivava da fuori, e in ultimo per la paura che, gli venisse sequestrata dagli invasori e dai suoi amici fascisti. Si arriva così verso l’inverno; radio Londra prevede che il fronte Italiano, subirà sicuramente un rallentamento nel periodo invernale, ci consiglia di sospendere, tutte le nostre azioni e di tornare, per questo ristretto periodo, a casa, per riprendere le ostilità nella primavera. Questo perché prevedevano che, i tedeschi,

durante questa pausa, sicuramente avrebbero dirottato


un paio di divisioni dal fronte Italiano contro di noi, perché volevano tenersi sempre libera la via del ripiegamento, e anche non volevano sentirsi questa costante, minaccia

pericolosa e

snervante alle spalle. Noi, ci fecero ridere, come si poteva pensare di tornarsene a casa, dove ogni città, ogni casa di partigiano, era setacciata come il riso dalle S.S. e dalle varie polizie fasciste?. Io, sarei potuto tornare a casa, perché abitavo in Zerba, ma i siciliani, i bergamaschi, e tutti gli altri che abitavano in città lontane come avrebbero potuto farlo?. Fu deciso dai nostri comandi di, ignorare radio Londra e prepararsi per un’eventuale difesa senza termine. 102 Intanto, con l’aumento delle forze partigiane, a seguito dell’arrivo degli alpini, e formandosi diversi nuovi distaccamenti, il Mandorli venne destinato verso l’alta val Trebbia, fra Carrega, Casa del Romano, sino alla zona di Propata, Bavastri, Bavastelli e Crocefieschi. passato qualche mese di relativa tranquillità e calma fino

a dicembre.

Lì abbiamo

In questo mese

incominciano ad arrivare notizie, non tanto gioiose. Si sa di grossi concentramenti di truppe, tutt’intorno alla nostra zona, s’incomincia a sentire di puntate che facevano un po' dappertutto. Erano tutte truppe da montagna, avevano incorporato un mucchio d’ex soldati Mongoli, i quali addestrati adeguatamente erano diventati il terrore delle nostre montagne, dove arrivavano loro facevano terra bruciata. Erano oltretutto pericolosi per le donne, gli davano la massima libertà e quindi, i saccheggi e le violenze erano frequenti; quante donne furono state violentate da gruppi interi, e quante di queste sono anche morte. I tedeschi li lasciavano fare. Dopo pochi giorni da queste notizie, veniamo investiti in pieno, ci attaccano su tutti i fronti; da Varzi e da Piacenza sono stati i primi a cedere, tutta la divisione Giustizia e Libertà di Fausto, che operava

nella bassa val Trebbia, ha ceduto in blocco, ritirandosi nella nostra zona al

completo, e creandoci dei grossi problemi anche logistici. Durante tutta l’estate, operando vicino alle grandi vie di comunicazione, avevano avuto la possibilità di sequestrare grandi quantità di materiale logistico, e immagazzinarlo nei loro depositi intorno a Bobbio, e non hanno mai accettato, gli ordini e i consigli del comando della Sesta Zona Operativa, che consigliava, con ragione, di creare queste scorte più in alto, e quindi più facile da difendere in caso di un attacco nemico. Cosi oltre, gli attacchi tedeschi che ci arrivavano dalla zona Ligure, avevamo anche quel problema, cinque o seicento uomini sbandati nei vari paesi, affamati e senza sapere come sfamarli, con i loro magazzini pieni, in mano a Mongoli. E qui sono successi anche, vari e incresciosi episodi d’espropri, da parte di questi partigiani, che non erano stile.

proprio nel nostro


Si combatteva oramai in tutte le zone, dagli Appennini Tosco Emiliani. Tutta la Liguria e sino alla Francia, nel Piemonte e in tutte le valli a nord della Padana. La Jori era impegnata sulla Scoffera, verso la zona di Montoggio-Crocefieschi. La Caio, nell’alta val D’aveto, e le altre brigate, come l’Arzani e l’Oreste in valle Scrivia e Borbera. Eravamo, molto più bene armati e organizzati che in agosto, nel rastrellamento degli alpini, però, al decimo giorno di combattimenti feroci, senza un attimo di pausa, qualcuno incominciava a cedere. Come dicevo prima. Da Piacenza, i tedeschi con i mongoli stavano avanzando velocemente, arrivavano notizie del pericolo di averli alle spalle in pochi giorni. Per ora, si sapeva che, Bisagno con Trebbia, avevano radunato un paio di distaccamenti a Ponte Lenzino, tentando di fermarli in quella zona. Altre notizie arrivavano da Barba Gelata, dove le brigate Caio dell’Istriano e Berto di Banfi, stavano per cedere,

per mancanza

di munizioni e per la forze preponderanti che

avevano di fronte. La stessa situazione era in valle Borbera e Scrivia, dove l’Oreste e L’arzani, erano all’estremo delle forze, erano le due Brigate che avevano perso più uomini di tutti, avevano dovuto sostenere gli attacchi più micidiali, contro carri armati e cannoni di grosso calibro, con le oramai famose battaglie di Pertuso, Rocchetta, Cantalupo ecc. 103 Erano da dieci giorni nell’infermo più assoluto, i morti e i feriti non si riuscivano più a recuperare, stava per saltare tutta la linea di difesa. Per noi, sul nostro fronte, la cosa era ancora abbastanza gestibile, ma da queste notizie così preoccupanti, Croce, il Comandante della Jori, stava attentamente valutando tutta la situazione per un eventuale sganciamento, mettendo in pratica il piano precedentemente

studiato e

concordato, con tutto il comando dalla sesta Zona Operativa. Sapendo che io ero nato in zona e conoscevo molto bene la strada, mi mandò a Ponte Lenzino con un biglietto per Bisagno, nel quale c’era scritto: siamo in procinto di mollare su

tutta la zona, pronti per il piano di

sganciamento previsto, l’attueremo da domani notte, in bocca al lupo. Croce. Eravamo sulle alture di Laccio, partii, col mio mitra e la mia berretta, e, arrivato nel primo paese, forse Marsano, ma, non ricordo bene, ho sequestrato, con la armi in pugno una bicicletta. Il contadino, mi ha pregato di lasciargli almeno una ricevuta, cosa che feci tranquillamente, era l’unico modo per fargli recuperare qualcosa alla fine della guerra, ma appena l’ha avuta in mano, la infilata in tasca e mi ha gridato, ti farò fucilare da Croce. Arrivato a Ponte Lenzino sul tardi pomeriggio, ho trovato Bisagno e il maggiore Trebbia, che malgrado fossimo sotto lo zero, erano tutti e due dietro altrettante mitraglie, in manica di camicia,


intenti a far fuoco sul ponte, dove si vedevano a occhio nudo, i mongoli che avanzavano in disordine e cadevano come le mosche sotto le pallottole, e altri, gli passavano sopra e venivano avanti. Gli diedi il biglietto con qualche difficoltà, perché, non riusciva a staccarsi da quella mitraglia, letto finalmente il messaggio, mi disse di tornare e riferire che sta bene così, che anche loro stavano per cedere, per mancanza di munizioni. Feci, dietro front per tornare al più presto possibile perché avevo timore di non trovare più nessuno, ma fatti pochi metri, una staffetta mi dice di tornare in dietro perché, stava arrivando una colonna di tedeschi e mongoli, che da Varzi avevano risalito il monte Lesima e scendendo, attraverso Zerba e Cerreto, ci stavano piombando a dosso.

Lasciai la bicicletta a questa

staffetta, e mi arrampicai su per la montagna in direzione di Cerignale. Salivo con la lingua in bocca, a trecento metri da me c’era un inferno di fuoco, ogni tanto sentivo qualche raffica che colpiva la cima della piante sopra la mia testa e mi faceva cadere o dosso la corteccia.

Dopo

cinque o seicento metri di corsa, mi fermai un attimo per respirare, mi trovavo su di una costa con il burrone dalle due parti, e mi era sembrato di sentire un lamento provenire da uno di questi burroni. Infatti, c’era qualcuno che si lamentava. Con molta attenzione e tolta la sicura al mitra mi sono avvicinato. Era un ragazzo molto giovane vestito Kaki, da partigiano, coricato per terra che chiedeva aiuto. Ho cercato di capirne di più, ma è stata una grande fatica, parlava solo il francese con qualche miscuglio di dialetto Piacentino, io non capivo nulla.

Aveva il fondo dei

pantaloni e le scarpe piene di sangue, una gamba non la muoveva più, ho cercato di rigirarlo sulla schiena e ho notato che il sangue iniziava da lì. Ho cercato con una forza sovrumana, di portarlo sulla costa, dove vi era un sentiero che saliva verso l’interno e quindi verso la salvezza. In questi dieci o quindici minuti di tragedia, sono riuscito a capire che era della Brigata Caio, che avevano avuto un scontro con il Mongoli, e che i suoi si erano ritirati, credendolo morto. Giù a Ponte Lenzino, non sparavano più, se non qualche raffica isolata, segno che anche i nostri si erano sganciati. 104 Si stava facendo buio, e se non fosse stato proprio perché ero nato a Zerba, avrei senz’altro perso l’orizzonte e non avrei più saputo dove andare. Mi ero portato appresso una tavoletta di cioccolato dei lanci, gli ne feci mangiare un paio di quadretti e piano, piano si riprese un pò. Con una mano al mio collo e l’altra sulla canna dello sten a mo di bastone, ci siamo messi in cammino sù per questo sentiero, che, dopo un chilometro circa, aveva sbocco su di una stradina piana che portava ad un piccolo gruppo di case.

Qualcuno ci ha visti, ancora prima


che arrivassimo lì, un gruppetto di donne si sono offerte di provare una prima medicazione, ci fecero entrare in una stanzetta e lo fecero sdraiare su di una panca di legno, mentre una è andata a cercare medicinali.

Intanto io pensavo al mio ritorno veloce per trovare ancora i miei

compagni, gli dissi che non sapevo chi era, che lo trovato così, ferito, ma che io avevo una missione urgente e che non potevo portarmelo dietro.

Pregai se potevano nasconderlo da

qualche parte in attesa che fosse finito il rastrellamento, mi hanno risposto che lo avevano già fatto altre volte e di andare tranquillo. Di questo fatto non ne ho saputo più nulla e l’avevo quasi dimenticato; se nonché, dopo un paio d’anni o anche più, vivevo a Genova, già sposato e con un figlio, arriva un signore a casa mia, ancora adesso non so capire come avesse fatto a trovarmi.

Chiede a mia moglie che

voleva salutarmi, dicendogli che avevamo fatto la guerra insieme e che io gli avevo salvata la vita e per questo voleva ringraziarmi. Mia moglie gli risponde che sono al lavoro e che prima delle diciassette non sarei tornato, lui gli dice che sarebbe andato a fare un giretto per Genova e che poi sarebbe ripassato a quell’ora.

Non l’abbiamo mai più visto; ho fatto ricerche presso

tutte le associazioni partigiani, ma da nessuno ho avuto risposte positive. Solo un signore dell’A.N.P.I., le sembrava di aver conosciuto un personaggio simile nella Brigata Caio, in val D’Aveto, sempre per quel suo fatto che parlava il Piacentino-Francese e spesse volte non riusciva a farsi capire e diventava anche comico.

Si, disse, è sicuramente lui.

La cosa è finita lì; abbiamo pensato...tornerà, forse era proprio un Francese, che magari, per qualche ragione si trovava a passare da Genova, ma che poi, ha dovuto ripartire senza poter aspettare che tornassi. Ripresi la mia corsa verso l’alta val Trebbia, cercando di camminare su strade secondarie, non avendo avuto più notizie dal fronte Ligure, temevo, qualche brutto incontro.

Verso

mezzogiorno, dopo aver anche pisolato per qualche ora in un fienile, arrivavo a Garaventa, paese alle spalle di Torriglia, lì trovai un grosso gruppo di partigiani della mia brigata, compreso, il comandante Croce e altri dello stato maggiore. Riferivo quello che mi aveva detto Bisagno e poi cercai di mangiare qualcosa. Stavano procedendo allo smantellamento della Brigata, nel senso che; come in agosto, dovevamo manovra

dividersi in piccoli gruppi per avere più facilità di

e sfuggire con più facilità ai tedeschi, durante il rastrellamento che, si prevedeva

durissimo ma non tanto lungo. Croce mi dice di prendere una decina d’uomini e portarli in salvamento, chiesi a tre o quattro che conoscevo se volevano venire, e con qualche altro amico di questi abbiamo fatto una dozzina. Mi ha dato la lista di tutti i rifugi disponibili in zona, da bruciare appena a memoria, e, siamo partiti. In ricordo dell'altro rastrellamento, questa volta avevamo preparato molti rifugi con rifornimenti, che ci si poteva attingere in caso di bisogno.


105 Per una settimana abbiamo dovuto fare come la lepre, sempre con le orecchie tese e con un occhio aperto.

Era nevicato, ti vedevano da una valle all’altra, lasciavi le tracce quando ti

spostavi, un freddo cane, ma non potersi accendere fuochi per via del fumo, solo qualche volta di notte quando il rifugio era ben nascosto da non vedere la fiamma dall’esterno, ma il problema più grosso è sempre stata la fame. Avevamo seppellito, in qua e in là, dei sacchetti confezionati dai lanci degli americani, ma non erano molti, e, sono finiti subito nei primi giorni. Tutti i paesi, come nel rastrellamento d’agosto erano, presidiati dai tedeschi, si ripeteva la tattica già usata dagli alpini in agosto; (andar via verso sera per poi tornare quando buio). Noi non ci siamo mai fatti sorprendere, ma altri, invece ci sono caduti in parecchi, come quell’ufficiale pilota Italo americano, che con un paio di binocoli aveva visto andar via i tedeschi da Zerba, ma appena entrato nel paese, i primi a trovare sono stati loro. Gli hanno chiesto i documenti, che potevano essere anche in regola, perché rilasciati da un Comune della valle. Ma, sono stati i binocoli americani che l’anno tradito. Doveva andare da don Barattini, il parroco di Zerba che era un suo lontano parente, hanno fatto finta di crederci, ma l’anno tenuto d’occhio per tutti i tre giorni che durò il presidio. Poi quando hanno deciso di spostarsi, sono andati a prenderlo e se lo sono portato appresso ma, nelle rive, lo hanno fatto sedere sù di una grossa pietra per interrogarlo, mentre tutta la colonna ci passava davanti, verso Vezzimo, intervallata dai contadini di Zerba con i suoi buoi e le benne. Si facevano portare la refurtiva che, avevano razziato un po’ dappertutto, e in più erano tranquilli che i partigiani non li avrebbero mai attaccati.

Quando alla sera, tornarono in dietro,

hanno visto per terra una massa di sangue e cervella; l’avevano finito col classico colpo alla nuca, che nè erano specialisti e l’avevano buttato giù nel burrone della valle Grande. La zona che più frequentemente noi bazzicavamo, era quella che conoscevo meglio, e cioè, monte Alfeo e tutte le sue rocce nella parte boschiva a nord, il monte Lesima, che anche lì, si andava dal rifugio delle rive, ad altri rifugi che erano sul versante della val Trebbia, da dove si potevano seguire tutti i movimenti che avvenivano giù, sulla statale. Poi la zona, del monte Carmo, monte Alfeo, nel rifugio più sicuro, perché era in un posto che di notte era inaccessibile a chiunque, e di giorno bisognava essere dei scoiattoli e conoscere bene il passaggio.

In quel

rifugio, dicevo; ci siamo trovati, un giorno, con il nostro capo di stato maggiore Leonzio e con un suo amico del C.L.N. Alta Italia, che aveva dovuto scappare da Genova perché ricercato. É stato un bellissimo incontro, Leonzio oltre che essere un buon comandante era anche una cara persona, io già prima lo consideravo un amico, quindi quest’incontro è stato per me un po’, come


se avessimo trovata una tavola imbandita, anche se invece loro erano più affamati di noi. Erano lì da tre giorni, senza che arrivasse qualcuno, stavano già pensando di tentare qualche puntata in qualche paese, per racimolare, qualche fetta di polenta, o qualche manciata di castagne calde. Ci siamo scambiati le notizie che ognuno poteva avere ma, erano scarse. Loro erano rimasti sempre nascosti in un rifugio scavato dietro una cascina di un suo amico, giù a Barchi, coperto da una catasta di fascine di legna. 106 Ora però, qualche spia deve aver fatto il suo bieco lavoro, perché da tre giorni, i tedeschi non facevano che perquisire il paese, cosi hanno dovuto fuggire. Abbiamo sempre cercato di schivare le puntate nemiche, nascondendosi, delle volte, anche all’ultimo istante, come quella volta che, avendo una fame da non resistere, abbiamo deciso di fare una puntatina alla Casa del Romano. Leonzio si ricordava che quando c’era stato il Comando Brigata, gli sembrava di ricordare una specie di nascondiglio, scavato nel terreno della cantina, e forse chissà?.

Provare, non ci

costava niente, almeno sembrava a prima vista. Il mattino seguente, “dopo aver fatto docce, bagni caldi e una ricca colazione al bar di fronte”, partiamo. Era una giornata piovigginosa, bene da una parte perché non c’era il pericolo di essere visti da lontano, male perché ad ogni curva te li potevi trovare davanti.

In ogni modo

abbiamo preso il sentiero che passava quasi tutto in costa, proprio per non fare brutti incontri; uno camminava a trenta metri più avanti per avvertire l’eventuale pericolo,

siamo arrivati

senza pericolo sul posto e dopo aver data una occhiata in giro, siamo scesi in cantina dove Leonzio

ricordava il rifugio.

Vi era, una stanza

quasi totalmente piena di fascine di

legna,l’ultima speranza che dietro ci fosse quel rifugio, e c’era. Abbiamo messo di guardia un paio di sentinelle e abbiamo incominciato a spostare fascine, dopo poco siamo arrivati alla porta, mimetizzata con della terra,

abbiamo trovato un mucchio di coperte ammuffite, e in

mezzo a queste, abbiamo trovato due sten con una decina di caricatori che, non erano male in quel frangente, ma cibo niente. Abbiamo continuato a cercare in tutte le camere, in tutti i piani abbiamo messo sotto sopra, ogni armadio o credenza ma, vi era rimasto solo l’odore del cibo. Sfiniti dalla stanchezza, ma, sopratutto dalla fame, ci siamo rimessi sulla via del ritorno. Eravamo scioccati, quasi incapaci di connettere, si aspettava che qualcuno dicesse qualcosa ma, nessuno aveva un’idea. Appena fuori della casa, ma ancora sulla piazzetta davanti alla costruzione, uno di noi che era un poco più in là, si butta per terra, imbraccia lo sten e ci fa segno che arriva qualcuno.

Facciamo altrettanto noi, e cosi appostati, nella nebbiolina che


offuscava un poco la vista, vediamo sfilare

sul sentiero a pochi passi sotto di noi, una

compagnia di tedeschi che, in fila indiana e con la armi spianate, andavano verso l’Antola. Potete anche non credermi, ma, la fame mi era passata completamente, e dopo che sono passati, e noi senza respiro, qualcuno si è fatto anche il segno della croce, per lo scampato pericolo. C’e, la siamo svignata dalla parte opposta.

Dovevamo tornare verso Zerba dove

oramai potevamo avere le ultime speranze, di non morire di fame. Passiamo vicini alle capanne di Carrega, e dall’alto del monte, sembrava tutto tranquillo, facciamo un poco d’avvicinamento, ma non si vedeva nessuno, finalmente in mezzo alla nebbia che aumentava sempre di più, si scorge una figura umana che non sembrava un tedesco. Facciamo un fischio, e quello si blocca e si guarda in giro, un secondo fischio e lui grida via libera. Era il Driulin, titolare del rifugio, ed era stato anche, il cuoco del comando della Divisione Cichero, quando il comando era a Carrega.

Siamo entrati e subito ci ha messo in tavola una

casseruola di stufato che è sparito in un attimo. Era poco, per quattordici persone affamate come noi, allora ha detto che aveva un mezzo manzo seppellito nella neve, ma che aveva bisogno d’aiuto per poterlo dissotterrare. 107 Due partigiani, si sono messi a disposizione, mentre altri due, gli abbiamo messi di guardia sulle due strade, poco lontane. Ma lui, ci tranquillizzò dicendoci che era una settimana che non si vedevano tedeschi. A messo a bollire un quarto di questo bue, e lo abbiamo divorato tutto. Subito, si vedeva il mondo con altri colori, sembrava tutto più facile e risolutivo. Quando ripartiamo, per tornare nel rifugio dell’Alfeo, che era il più vicino e anche il più sicuro, era notte fonda, si era girata la tramontana e la nebbia era sparita, sulla neve cosi bianca, con la luna quasi piena, ma sopratutto con la pancia piena. Era persino bello, si vedevano le montagne dell’Aveto tutte imbiancate che brillavano come l’albero di Natale, il silenzio più assoluto che vi era intorno, ci distoglieva dalle nostre guerre e ci si lasciava andare ai pensieri più belli e ai sogni più felici e al Natale, che era prossimo. Arriviamo al rifugio e accendiamo un grosso fuoco per scaldarci e per fare molta brace, da usarla anche il mattino seguente, senza far vedere il fumo. Mi, sono svegliato a mezzogiorno, con le campane del campanile di Zerba, gli altri dormivano ancora tutti, un po' per la fame, un po' per il “chi va là”, erano giorni che non si dormiva cosi bene.

Abbiamo chiacchierato molto su quello che si sarebbe dovuto fare, raggrupparsi

nuovamente e ripetere le azioni di disturbo, che avevamo fatto con gli alpini, attaccandoli di sorpresa e fuggire.


Avendo con noi il capo di stato maggiore della Brigata, ci dava anche, oltre che, l’importanza, anche molta fiducia, era una persona, ripeto squisita, sapeva infonderti coraggio e tranquillità, aveva la personalità di Bisagno, sapeva sempre come uscire indenne da qualsiasi situazione di pericolo o di panico. Infatti, nei giorni seguenti, dall’alto dell’Alfeo si incominciava a vedere gruppi di partigiani che si spostavano da una parte all’altra, si incominciava

a sentire qualche raffica di sten, che

conoscevamo bene. Arrivavano, staffette dai vari comandi e piano, piano, in pochi giorni, si riformarono i vecchi distaccamenti e si era nuovamente pronti a dare filo da torcere all’invasore e ai suoi accoliti. Il Mandorli era quasi al completo, nella zona di Bavastri e dintorni, non si poteva gran che stare fermi, perché le spie erano in forte attività dovunque. Nella stessa zona, vi era il comando della Brigata e quello della Divisione, ogni giorno si attaccavano presidi nei vari paesi, e qualche volta si rintuzzava anche, qualche tentativo del nemico di fare puntate nel nostro territorio. A Natale, la valle Trebbia si poteva dire liberata totalmente, l’unico presidio rimaneva quello di Torriglia e dall’altra parte, per poco tempo, quello di Bobbio. A Torriglia, vi erano rimasti, dai quattrocento ai cinquecento uomini, si erano barricati nella colonia estiva di Torriglietta, erano super armati e accerchiati da campi

minati anti uomo.

Avevano il compito di tener libera, a qualsiasi costo, la valle del Bisagno e la statale che collegava la Fontanabuona con l’autostrada di Busalla.

La Brigata Jori era tutta dispiegata, a

semicerchio, sui monti alle spalle di Torriglia, e appena uscivano, tentando puntate contro di noi, ritornavano, quasi sempre mal conci, tanto che a un certo momento non uscivano più. Eravamo noi che, dalla galleria Buffalora li attaccavamo con mitraglie, direttamente nella colonia, ed erano costretti a rispondere, solo con le cannonate che andavano sempre a vuoto. C’è stato un periodo che, avevano dei cavalli che pascolavano nel prato, e, dovevano tenerli chiusi di giorno, perché li usavamo come tiro al bersaglio. 108 Un giorno

arriva al mio distaccamento Leonzio, mi chiede che, avevano bisogno

di un

istruttore, da mandare al distaccamento reclute, in aiuto al tenente Manucci, ex alpino e specialista nel conoscere le armi. Si andava velocemente verso la disfatta dell’impero tedesco, il C.L.N. ci aveva segnalato un grosso flusso di giovani che, dalle università chiedevano di poter venire in montagna, ma, anche se, molto esperti in politica, non sapevano niente di armi. II distaccamento si trovava a Vegni, un paesino dell’alta val Borbera, si trovava in fondo ad una valle, talmente chiusa che, quando pioveva, bastava aprire l’ombrello per tenere all’asciutto tutto


il paese.

Sapeva della mia precedente guerra nei Balcani, e sapeva anche che con le armi ci

sapevo fare, mi chiese se, per qualche mese ero disposto a trasferirmi laggiù, a dare una mano a questo tenente. Accettai con piacere; era una cosa nuova ed ero curioso di provare. Arrivato lì, incominciammo subito la scuola, avevamo un paio di mitraglie e qualche fucile mitragliatore, diversi sten e mitra italiani e tedeschi. Sono rimasto in quel distaccamento per poco più di un mese, e in quel periodo, il Mandorli aveva subito un’imboscata tedesca a Crocefieschi, ed era morto il suo commissario Cialacche, un giovane universitario Genovese e vi erano rimanti tre o quattro feriti, qualcuno anche grave, come lex alpino Valter, un milanese. Per questo non si chiamava più Mandorli ma Cialacche, avendo preso il nome, del suo commissario caduto. Era tornata in piena distribuzione la stampa partigiana, arrivava, un giorno si, e l’altro no, il partigiano di Marzo, che vantava tutte le prodezze che la Jori stava facendo sul fronte di Torriglia. Cominciavo a scalpitare, volevo tornare nel mio distaccamento che si trovava in prima linea, e che si stava facendo onore. Un giorno chiesi a Manucci se mi lasciava andare, mi rispose che, per lui non vi era nessun problema, bisognava però, mandare una richiesta scritta al comando della Jori che era alla casa del Romano. Decisi di andarci di persona, trovai Croce, gli spiegai la mia situazione, mi disse che doveva prima vedere, ed esaminare le piantine del personale dei vari distaccamenti, poi, mi avrebbe dato una risposta.

La risposta è arrivata dopo qualche giorno, e, non era per il mio ex

distaccamento, Mandorli-Cialacche, ma per il Bellucci, che si trovava, pure lui in zona difensiva al Porto di Torriglia, (dove ora ci arriva il Brugneto).

Il mattino seguente, dopo la sveglia, il

tenente Mannucci mi prega di portare con me, al Bellucci una recluta che gli hanno mandato qualche tempo prima, per istruirlo e insegnargli a usare le armi. Ora gli sembrava pronto da tornare al suo distaccamento.

Arriviamo, al Porto nel primo

pomeriggio e ci offrono la merenda con pane e formaggio, poi un lungo interrogatorio con il comandante e i due Commissari. Il comandante era Gino; era un uomo senza età, fra la barba nera, i cappelli lunghi e i peli delle ciglia, tu non vedevi più niente. Aveva un mascin pistola tedesco sempre lucidissimo e sempre a tracolla, due bombe a mano sui fianchi, sembrava Panciovilla, anche se pancia non ne aveva proprio, se non nella schiena; viveva e dormiva sempre così, non ho mai saputo di dove fosse, ma sicuramente dall’accento era Emiliano.

I commissari; uno era un giovane studente di Genova, si chiamava Gregorio,

l’altro un milanese che, non ricordo più il nome.

Mi presentano un po' al distaccamento, mi

dicono che il vice comandante si chiama Negus, ma ora si trova all’ospedale di Livellà perché malato.


109 Ci dicono anche che siamo arrivati a tempo per partecipare, la sera stessa, ad un pattuglione sul versante di Torriglia, dove vi era il presidio tedesco nella Colonia. Alla sera, verso la mezzanotte, ci chiamano a raduno per formare la squadra, dovevamo non essere più di una dozzina ma tutti volevano venire. In generale si usava mandare sempre quelli che, non erano andati l’altra volta, quindi, noi due eravamo dentro di diritto perché nuovi, ma per gli altri, dato che volevano venir tutti, é stata data la facoltà al comandante della pattuglia, che era un ex caporale maggiore degli alpini e si chiamava Fortuna, di scegliere. Era d’uso anche che, non essendo ancora tutti dotati d’armi automatiche personali, quelli che nè erano in possesso, dovevano cederle in prestito a quelli che andavano di pattuglia, meno quelle del comandante.

Eravamo dodici e avevamo dodici mitra o sten, con tre caricatori a

testa da quaranta colpi, due bombe a mano ciascuno e molti avevano la pistola personale. Non avevamo nessun attrezzo per l’illuminazione, né pile né nessun’altra lampada; si sceglieva normalmente quelle notti di mezzo chiarore, tanto da non rompersi il collo sui sentieri. Siamo partiti in fila indiana, tenendosi sempre a ridosso della strada, e arrivati, a un certo punto, il capo squadra allarga una mano lateralmente che significava l’alt,

da, un

chi va là, e si sente

scarpinare davanti a noi come se qualcuno ci venisse contro, o scappasse, un altro alto là ò sparo, ma niente, e in quell’attimo spara una raffica, colpisce qualcuno mentre si butta giù, dalla strada verso il burrone e scappa, gli indirizza ancora un paio di raffiche e tutto finisce li. Appena buio vi era il coprifuoco assoluto, sia da parte nostra che dai tedeschi, chiunque circolava rischiava la vita, e cosi è successo quella sera. Avevamo ucciso un uomo, un giovane sui trent’anni con la testa fuori posto, che viveva con i genitori in una piccola casetta nei dintorni, e aveva lo sfizio di girare di notte intorno alle nostre formazioni, perché,

diceva, doveva

avvertire i soldati e dirgli dove eravamo nascosti, ma poi non lo faceva, non era mai andato da solo,una volta a Torriglia. Anche questa è la guerra. Abbiamo continuato ancora per un po', andando verso la galleria di Garaventa, poi abbiamo deviato per un sentiero in discesa, che ci doveva portare in fondo a un canalone, per poi risalire il versante opposto, arrivando alla galleria di Buffalora e quindi tornare. Anche lì in fila indiana, io ero l’ultimo, siamo entrati in una specie di camminamento il sentiero era interrato da due sponde più alte delle nostre teste, e in fondo vi era un argine scosceso che si scendeva nel canalone. Arrivati quasi in fondo, ho notato appena la mano del capo squadra che si allargava, e subito una lunghissima raffica di mitra che non finiva più. Io da dietro agli altri non potevo sparare, sono allora salito su questo argine e mi sono accovacciato dietro una ginestra, ho


atteso qualche attimo per capire qualcosa, poi mi sono messo a sparare nella direzione che sparavano i nostri, ma sopra e di fianco alle loro teste in modo da non colpire nessuno. Dopo qualche minuto, silenzio assoluto, io pure avevo finito la munizioni e mi rimanevano solo le bombe e la pistola. Non ho sentito nessun ordine di ritirata e sono rimasto lì con le orecchie tese per capire qualche segnale, ma niente; si sentivano solo ordini in tedesco, giù nel canalone, ma poi anche questi si sono zittiti e io non sapevo cosa fare. Sarò rimasto lì ancora per qualche tempo, non si sentiva anima viva, che fossero tutti morti?. 110 Impossibile, qualche ferito si sarebbe dovuto lamentare, poi, adagio, adagio, sono sceso in quel camminamento, che essendo fra quei due muri vi era molto più buio che sopra. Quando ti trovi al buio, ti accorgi che piano, piano, riesci a vedere qualcosa, e io facendo tutto il percorso di questo camminamento non sono riuscito a trovare nessuno, né morti né vivi né feriti. Mi sono messo in cammino verso da dove, mi sembrava, eravamo arrivati, ma dopo un centinaio di metri

mi sono dovuto fermare. Non essendo mai stato da quelle parti, non

conoscendo nemmeno da dove nascesse il sole, non sapevo proprio dove dirigermi, senza pericolo di finire in braccio a qualche pattuglia tedesca.

Ho deciso di aspettare il mattino, e

quando è spuntata l’alba ho potuto notare subito le cime delle montagne, sia a destra, che a sinistra, che alle mie spalle, e ho pensato che sicuramente alle mie spalle, era la strada che avrei dovuto fare.

Adagio, con circospezione mi sono messo a risalire per questa sponda, non

molto ripida, ma che mi allontanava almeno, da quella zona bassa che doveva essere Torriglia. Quando stavo per arrivare in cima, mi sono sentito il sangue ghiacciare; una voce nascosta mi da un secco alto là, parola d’ordine, chi sei, e dove vai.

Un poco di tentennamento, e questi

ripete, alto là, sei sordo?. Mi viene in mente che nel periodo del rastrellamento, per riconoscersi dovevamo usare la parola d’ordine Vittoria, ma era poi, stata abbandonata e sostituita con altre, via, via sempre cambiate a secondo le situazioni, ma io ci provai, era l’unica che mi è venuta in mente in quell’attimo, quella del Bellucci non la sapevo ancora, si erano dimenticati di darmela.

A fatto

effetto; ma da dove vieni con quella parola?. Non nè so altra, vengo dal distaccamento Bellucci e mi sono perso.

Vieni avanti con le mani alzate e fermati sul sentiero.

Erano del

distaccamento Guerra di Scalabrino, erano di pattuglia, ed erano due ore che mi tenevano sotto osservazione. Raccontato la mia avventura, mi dissero che il Bellucci era da tutt’altra parte e che era il caso di andare con loro a Garaventa, per raccontare questo fatto al comandante, e,intanto avrei mangiato qualcosa.


Infatti,arrivati che era quasi mezzogiorno, mi hanno fatto mangiare

con loro, e finii di

raccontare un po’ tutta la mia avventura al comandante, che però non si sapeva ancora, come era finita, con i miei compagni di quella squadra. Nel primo pomeriggio, un’altra pattuglia dei loro, mi accompagna verso la zona del mio distaccamento, arrivato nella villetta dove eravamo alloggiati ed è stato un urlo di tutti i presenti. Per farla breve, mi consideravano un resuscitato, mi avevano considerato morto in quello scontro. Arriva il comandante Gino, mi abbraccia e mi dice; primo, sono contento che sei vivo, secondo, siediti a racconta. Gli racconto quello che sapete già, e lui si rallegra con me, mi dice che la missione non è andata troppo bene, ma ora che sei qui, e quindi non abbiamo perso nessuno, e nemmeno un ferito. L’unica macchia era quel compagno che avevo portato, su da Vegni, si era comportato malissimo. Appena sentito le prime raffiche, ha mollato tutto ed è fuggito, arrivando in distaccamento un’ora prima degli altri, dicendo che erano tutti morti, solo lui si era salvato, e dopo aver sparato tutti i colpi, è dovuto scappare ed era qui per miracolo.

Gino continua, quando poi sono arrivati

tutti sani, e, mancavi solo tu, siamo andati a fare un sopralluogo, e abbiamo trovato uno stivale tedesco pieno di sangue e con cinque o sei fori di pallottole, e molto altro sangue sul sentiero. 111 Questo, ci ha fatto pensare, poteva essere il tuo, ma, ora sappiamo, con piacere, che non lo era. Abbiamo anche trovato, trenta metri più in alto, lo sten con i tre caricatori ancora intatti e le due bombe a mano, che aveva abbandonato nella fuga.

Quindi mi dispiace ma, domani lo

manderemo al comando di Brigata, con la richiesta di; o rimandarlo al distaccamento reclute, ò espellerlo dalla zona partigiana. Un giorno arriva notizia che, al comando della S.I.P. cercavano un volontario, da mandare a Genova per una missione segreta. Cercavano un esperto d’armi, ma che non dimostrasse d’essere maggiorenne, io lì per lì, in cuor mio ci avevo fatto anche un pensierino, ero uno sbarbatello, senza ne peli né barba, ma più ancora avevo una carta d’identità del comune di Zerba che mi faceva nascere nel 1928, vale a dire, quattro anni più giovane, l’avevo ottenuta quando ai primi tempi della chiamata alle armi dalla repubblica sociale di Salò, avevamo occupato il comune e bruciato i registri della leva, dal 1920 a 1926, e c’eravamo dotati di questi documenti falsi, però era un pensiero che non era andato oltre la mia fantasia. Passano ancora un po’ di giorni, che, non me lo ricordavo quasi più, arriva in distaccamento Leonzio, mi dice che aveva voglia di rivedermi per salutarmi, in ricordo di quel mezzo bue che, avevamo mangiato alle Capanne di Carrega.


Parliamo, per un paio d’ore, parliamo di tante cose, compreso questa missione della S.I.P, gli dico che ero quasi tentato, ma poi non nè ho avuto i coraggio di espormi pubblicamente.

Mi

spiega il significato e il bersaglio da colpire; si doveva formare una squadra con la S.A.P. di città e attentare al prefetto Basile, che era stato condannato a morte dal C.L.N. per atti di ferocia contro i partigiani prigionieri alla casa dello Studente. Il mio compito più che altro, doveva, essere quello di legalizzare l’atto d’approvazione, del comando della Sesta Zona Operativa. Gli dissi che ci sarei andato volentieri, mi rispose che mi avrebbe fatto sapere. Due giorni dopo arriva una staffetta dal Comando e mi dice di seguirlo a Propata, dove dovevo essere informato sulla missione, arriviamo al comando, mi fanno attendere in una saletta per dieci minuti, poi mi fanno passare in una stanza più grande, dove ad un tavolo seduti, vi erano un mucchio di comandanti e commissari: Conoscevo già Leonzio e Croce molto bene, poi o saputo chi erano gli altri; uno era Attilio, comandante della S.I.P. Un altro era Banfi, comandante della Berto, poi Scrivia della Arzani, infine Maranzana che era il capo di stato maggiore della Cichero. M’interrogano sulle mie esperienze militari, mi spiegano bene come doveva avvenire quest’attentato, poi mi mandano via dicendomi di attendere in distaccamento e acqua in bocca. Appena fuori, per tornare al Porto, incontro Bisagno, mi saluta ma non mi riconosce, gli lascio fare qualche passo e poi mi presento, mi guarda un poco, poi mi abbraccia e mi dice come mai sono da quelle parti. Gli racconto un poco della mia storia dopo quella notte di Bogli, ed è contento che sia al Bellucci, dove lui ha molti amici e passerà a trovarci. Ancora qualche giorno, arriva l’ordine di partenza, dovevo lasciare al distaccamento tutte la mie armi, vestire, non Kaki come oramai eravamo quasi tutti, ma in borghese, tipo contadino del posto. 112 Arrivato a Propata, mi, introducono nella solita stanza, ma questa volta c’è solo Attilio, mi fa sedere e in quel momento entra un altro giovane, molto più giovane di me, sembrava un bambino. Me lo presenta come mio compagno di missione, ci spiega bene il tragitto che dovevamo fare, ci da un biglietto con l’indirizzo che dovevamo cercare,d’imparare a memoria poi distruggere, avremmo avute le notizie specifiche, dal gruppo di Genova.

Quando stavo per uscire mi dice

che c’è Bisagno che mi deve parlare, mi accompagna in un’altra sala e mi lascia lì solo. Arriva Bisagno, mi saluta e poi mi di dice che ha bisogno di un favore, altroché. gli rispondo io, mi dice che ha saputo della missione e mi fa il suo in bocca al lupo, e siccome dove vado io è abbastanza vicino alla sua casa, avrei dovuto portare un biglietto a sua madre.

Mi ripete,

approfitto di tè perchè ho avuto modo di conoscerti e sono sicuro di potermi fidare. Mi da una


busta chiusa, senza indirizzo, mi da un foglietto a parte, dove vi era scritto l’indirizzo e mi prega di stracciarlo appena memorizzato, e partiamo. Camminiamo tranquillamente sulla statale, senza incontrare nessun posto di blocco, l’unico era a Prato, che, l’abbiamo aggirato e abbiamo preso il “dodici” alla Doria per Caricamento. Abbiamo trovato il posto, che era un barbiere, sotto i portici, ci ha sistemato, attraverso il retrobottega, in un magazzino di mobili. Avevamo qualche soldo e siamo andati a comprare da mangiare, quindi ci ha chiuso dentro, in attesa di avvenimenti.

Il giorno dopo arriva con uno, che dice di essere il responsabile della

missione, parliamo un po' per conoscerci e quindi ci saluta con l’appuntamento per il giorno dopo. Intanto che noi chiacchieriamo, della nostra guerra e della nostra vita, scopro che il mio compagno, è di Gorreto, e che è il figlio del falegname, che io conoscevo di fama. e che si chiama Armando. Era un ragazzo simpaticissimo, anche se aveva qualche rotella che girava troppo, era impaziente, voleva fare e strafare, andavamo un po' in giro e appena vedeva una prostituta, gli chiedeva, se sapeva dove poteva comprare una pistola, era, come si dice, uno spericolato.

Il giorno dopo, arrivano in tre, altre presentazioni, altro studio della zona, e poi un

sopraluogo sul posto. Era nella zona di Piazza Corvetto, all’inizio della prima galleria, chiesi al capo se mi sapeva dire dove fosse via Palleocopa, mi rispose che non era tanto lontana da qui Gli chiesi se, prima di rientrare mi lasciava andare a fare una commissione in quella strada, mi rispose se ero sicuro di saper ritornare senza guasti, e, visto che non lo ero, si offrì di accompagnarmi. Ricordo che era una strada i salita, verso i monti, non era mai stato prima a Genova, ma mi piaceva, con queste strade in salita, con queste case, una sopra l’altra a gradino, ti davano l’impressione di respirare, come nei miei paesi. Cerchiamo il numero dodici e suono, suono ancora ma non arriva nessuno, mi avvicino alla porta, dico, sono amico di Aldo, niente, cercavo una cassetta ma non ne trovavo, poi una signora con voce flebile, che non mi ero neanche accorto da quale porta fosse uscita, mi chiese, chi cerca?. La signora Gastaldi... sono io, che cosa ha bisogno?.

Vengo dalla montagna e devo

consegnarle una lettera di suo figlio. Ha incominciato a guardarsi in giro e tremare, sih... me la dia, eh, come sta? Eh, dov’è?. Signora sta benissimo, ma non posso dirle altro, ma lei quando l’ha visto? Tre giorni fa è gli posso garantire che stava molto bene e la saluta. Mentre mi giro, e me ne vado, sento che, dalla porta mezza aperta, sussurrava; poveri figlioli, Che dio vi protegga. 113 Torniamo al nostro nascondiglio e aspettiamo le armi e l’ordine di intervenire, ma anche il giorno dopo non succede niente, il barbiere non sa nulla, noi incominciamo a preoccuparsi, fino


che, il giorno seguente verso le nove del mattino, arriva quello che doveva essere il capo, e dice che è tutto rimandato, che non se ne fa più niente e anzi, noi dobbiamo andare via subito perchè c’era il pericolo che i fascisti avessero già il nostro indirizzo.

Era successo che uno dei

sappisti che doveva far parte della nostra squadra, appena avuto le armi per l’attentato, era andato a fare lo stupido in Piazza Palermo, minacciando un ufficiale che stava rientrando in caserma davanti al corpo di guardia. L’ufficiale ha fatto finta di arrendersi, ma non essendo stupido come lui, ha reagito con un colpo di lotta e gli ha fatto cadere la pistola, mentre dal corpo di guardia, la sentinella avendo assistito a tutto, gli sparò un colpo di moschetto ed è caduto per terra ferito. Queste erano le ultime notizie, non si sapeva se era morto o ferito e in quest’ultimo caso, eravamo in pericolo tutti. Dopo dieci minuti, eravamo già sul “dodici” per prato, stavamo in piedi nell’ultima carrozza, dietro il piantone del manovratore. Alla fermata della questura, è salito un giovane allievo ufficiale della Vermak, si è fermato proprio davanti a noi, appoggiato con la schiena contro la plancia di manovra. Questo Armando mi da una ginocchiata e intanto punta il pollice, con forza nella schiena a questi malcapitato, e con l’altra mano gli toglie la pistola dalla fondina, leva la sicura e la passa a me, dicendomi, se si muove spara. Lui era lì con le mani alzate, girato verso l’interno del tram, nella sinistra aveva una borsa porta carte, che la teneva con le mani alzate, glie la presa di mano e dentro vi erano, altre due pistole con caricatori, una bellissima Walter e una Mauser, nè ha preso una, ha guardato se è carica. Intanto il tram era arrivato a Staglieno, nessuno se n’era accorto, vi era poca gente ed erano nella carrozza davanti. Si apre la porta dietro, lo facciamo scendere con la minaccia che se si fosse voltato prima di arrivare al muro del camposanto avremmo sparato.

Poi mi dice, vieni con me, si avvia verso il manovratore

nell’altra carrozza, gli punta a sua volta la pistola alla schiena, gli dice di mettere l’otto e di non fermarsi più fino alla Doria. Perchè a Prato si ricordava del posto di blocco. Ho imparato allora, cosa voleva dire dare l’otto, incoscienti come la gran parte dei giovani abbiamo rischiato la vita per quasi nulla, in più, da Staglieno alla Doria, ci vorrà almeno un quarto d’ora di tempo, se questi avesse telefonato, avremmo potuto trovare la sorpresa durante il tragitto. Da lì abbiamo preso per Creto, per la valle poco prima di Laccio, e ci siamo trovati sul monte Moro, alle spalle di Torriglia. In sostanza eravamo fuori pericolo, siamo scesi alla galleria di Garaventa e costeggiando siamo arrivati al Porto. Abbiamo raccontato un pò la nostra storia, e io lì, ho avuta la seconda sorpresa, Armando, era conosciutissimo nel mio distaccamento, ma anche in tutta la Brigata, ne aveva già fatto di tutti i colori, ma lui non raccontava, non diceva mai niente.

Il giorno dopo siamo andati al comando della Jori per riferire, e Croce si è fregato

subito la bellissima Walter, che io ci avevo già fatto un pensierino era la prassi che le armi erano di chi le prendeva ai tedeschi, ma questa volta abbiamo derogato.

Poi, da Bisagno, per


riferire che tutto era andato bene, che, avevo visto la sua mamma e che, mi è sembrato stesse bene. 114 E lì, al comando divisione, è rimasto Armando, mentre io, sono tornato al Bellucci e vi sono rimasto fino alla liberazione Di Genova. La vita nel Bellucci, è diventata frenetica, ogni giorno, si andava sulla galleria a rompere la tranquillità ai tedeschi, ogni tanto loro facevano altrettanto con noi. Nei tre mesi, circa, che, siamo stati alloggiati al Porto, avevamo approntato, alle nostre spalle, sulla prima collinetta, una specie di linea di difesa; avevamo scavato qualche piccola trincea, sistemandoci dentro le grosse mitraglie, i cannoncini da 45, i mortai da 81, e varie munizioni e vettovagliamento, tanto da poter resistere per qualche giorno.

In faccia, sulla costa davanti a noi, verso il nemico, a

cinquecento o seicento metri avevamo fatto, anche lì, una specie di postazione scavata nel prato, e anche lì, vi era una mitraglia leggera e tre uomini fissi, giorno e notte a guardia.

Da lì

si vedeva tutta la zona a monte della galleria Buffalora, e quindi qualsiasi movimento di truppe non poteva sfuggire, e spesse volte abbiamo avuti degli allarmi, che ci facevano correre a prendere posto sulla linea di difesa alle nostre spalle, ma non si era mai sparato, se non per prova.

Un pomeriggio di sole primaverile, verso le quindici, mentre eravamo tutti tranquilli,

sentiamo, ancora prima degli spari, le pallottole che fischiavano sopra le nostre teste e si spiaccicavano nei muri della casa.

Subito il panico, non si capiva cosa fosse successo,

guardando la costa dove dovevano esserci le nostre sentinelle, vedevamo solo le scintille delle armi

che sparavano.

Un ordine secco del comandante Gino, ci avvertiva di correre nelle

postazioni; mi ricordo che è stata una, delle poche volte, che sono stato preso dal panico. La stradina che dovevamo percorrere per andare in postazione era tutta in salita e ciottolata di pietre, io, ma anche gli altri, correvo su per questa strada, con la lingua fuori, prima di sentire la raffica vedevo le fiammate che facevano le pallottole su quei sassi, mi spettavo da un attimo all’altro quella buona. Sono arrivato in cima uno dei primi, mi sono buttato letteralmente nella prima postazione a tuffo, mi sono messo alla mitraglia e ho cominciato a far fuoco, su quella costa dov’era il nemico, altri hanno fatto come me, compreso qualche cannonata e qualche colpo di mortaio. Tenevamo sotto tiro la costa, dove si vedevano le scintille delle loro armi, ad occhio nudo non si vedeva nessun soldato, avendo occupato la nostra postazione rimanevano coperti.

Gino mi

disse di dare a lui la mitraglia, e sapendo che ero uno sfegatato del mortaio 81, di andare a vedere se si poteva centrare, con qualche colpo la postazione.


Detto, fatto, prendo i binocoli, faccio sparare un colpo e vedo dove cade, salto giù nel buco e regolo l’alzo una decina di metri più avanti, il secondo colpo cade proprio dov’era la nostra postazione che conoscevo a memoria, subito il silenzio delle l’oro armi. Ancora un paio d’altri colpi e stop, sono scappati velocemente.

Era successo che i nostri tre di guardia, si erano

addormentati sull’erba fuori della postazione, e quando hanno scorto il plotone tedesco a dieci metri, hanno avuto appena il tempo di buttarsi a rotolo, giù per la scarpata senza avere il tempo di segnalarci il pericolo, abbandonando armi e munizioni e uno, anche le scarpe. Sono stati messi al palo, sino all’arrivo delle autorità dal comando, è stato imbastito un regolare processo, che durò oltre la mezzanotte, gli è stata salvata la vita, solo perchè avevano già un ottimo curriculum, ma sono stati condannati all’espulsione da tutta la zona partigiana della Sesta Zona Operativa, pena la fucilazione, dopo tre giorni, se non avessero ubbidito, e si fossero fatti trovare ancora in zona. 115 Un altro fatto importante che merita di essere ricordato è questo: fra la galleria, la statale e noi, vi era un paesino che non riesco più a ricordare il nome, un giorno ricevano un’intimazione dai tedeschi di Torriglia, di mettere a disposizione una certa quantità di cibo, che sarebbero passati a ritirare, pena la perquisizione di tutte le case e le cantine del paese. Non ricordo come, sia andata, che, la notizia sia arrivata in distaccamento.

Era un paesino, che, lo

vedevamo ogni giorno passando per andare alla galleria di Buffalora, ma non c’eravamo mai entrati.

Quel giorno, Gino raduna tutto il distaccamento e spiega cosa dovevamo fare, ci

dovevamo appostare nei dintorni e dare una lezione a quei signori, che si permettevano, non solo di razziare, ma anche di farsi servire. E’ stata un’azione meravigliosa, li abbiamo fatti avvicinare al paese, per l’unica stradina che, partendo dalla galleria arrivava fin lì. Gli abbiamo stretti in mezzo al fuoco che veniva da due parti, mezzo distaccamento davanti e mezzo dietro, non sapevano più da che parte scappare, hanno tentato una lieve difesa ma poi, si sono buttati giù nel Trebbia scappando come lepri, abbandonando, tre feriti e un paio di muli con carro per portar via la merce. Era una delle prime volte che non eravamo noi a scappare, sempre per la faccenda della mancanza di munizioni.

Abbiamo caricato i feriti sul carro e li abbiamo accompagnati appena

fuori della galleria, per farglieli recuperare. AL distaccamento, si era euforici, si pensava già agli elogi dei comandi, si aspettava l’arrivo del giornale che, sicuramente avremmo avuto molto spazio.


Ma, dopo un paio di giorni, un nostro informatore ci fa sapere che sono pronti per attaccare in forze e bruciare il paese.

Gino manda una staffetta al comando Brigata per chieder lumi, il

comando risponde che li aspetteremo al varco, come si dice, con tre distaccamenti; il Guerra di Scalabrino che, mi pare fosse nella zona Donnetta, il Cialacche che si trovava a BavastriGaraventa e il Bellucci. La notizia dei tedeschi che avrebbero bruciato tutto, era arrivata anche alla gente del paese, che avevano abbandonato le loro case, portandosi sulle alture circostanti. Nella notte ci siamo appostati in silenzio, tutt’intorno aspettando. Noi del Bellucci ci siamo messi dietro le prime case, con un paio di mitraglie che puntavano sulla strada, e abbiamo assistito all’evacuazione della gente dal paese. Ed è stato per noi un fatto positivo, ci si levava di dosso la responsabilità di qualche disgrazia sui civili.

Gli altri due

distaccamenti, uno il Guerra si era piazzato sulla statale 45, con le armi puntate anch’egli sulla stessa strada, l’altro, il Cialacche,

si era nascosto nel canalone

Buffalora, da dove dovevano spuntare i tedeschi.

Infatti,

a ridosso della

galleria

appena dopo l’alba arrivano,

arrivano con tre grossi autocarri, si fermano su di uno slargo che vi era appena fuori la galleria, saltano velocemente per terra e imboccano la solita stradina. Erano, sicuramente almeno due plotoni, da dietro gli angoli delle case, osserviamo tutto questo movimento, li vediamo spuntare sulla prima curva, e continuano venire in avanti con le armi spianate, si aspettava che qualcuno desse ordine di sparare, ma niente, tutto silenzio. Quando, superata l’ultima curva e ce li siamo trovati, il primo gruppo a trenta metri, Gino spara la prima raffica,

è stata una prima valanga di fuoco, si sono buttati per terra e cercavano di

trovare un qualche nascondiglio per ripararsi, ma non vi era granché. 116 Sentiamo, dirimpetto, sulla statale, cantare le mitragliere del Guerra, ed era una musica tranquillizzante.

Hanno incominciato ad indietreggiare, per tornare verso la galleria, è in

questo momento è entrato in azione il Cialacche, l’accerchiamento.

che uscendo dal canalone

completava

Li abbiamo tenuti in questa situazione un paio d’ore. Ogni volta che si

sentiva o si vedeva qualche movimento, erano raffiche da tutte e due le parti, si sentivano i feriti a lamentarsi, ma nessuno aveva il coraggio di andarli a soccorrere, temevano la nostra reazione.

A un certo momento abbiamo visto due tedeschi con un drappo bianco, che salendo

sulla stradina, facevano cenno di non sparare, per recuperare i feriti caduti davanti al nostro primo attacco. Questi due soldati nè hanno preso uno e hanno chiesto aiuto ad altri sodati, che, sempre disarmati gli hanno aiutati a portarli via tutti.


Ma, è successa un’altra cosa; in questi minuti di pausa, tutti i non feriti, attraverso i cespugli del Trebbia se l’erano svignata.

Abbiamo atteso che partono

i tre automezzi con i feriti,

abbiamo fatto un giro per raccogliere la armi che avevano abbandonato, e ci siamo ritirati nei nostri distaccamenti. E ora, avviene la cosa più bella: all’indomani arrivano al Porto, due rappresentanti di quel paese, per ringraziarci e per dire che eravamo tutti invitati a mangiare le torte che le donne si erano impegnate a fare per noi, e che abbiamo accettato volentieri. Forse era la prima volta, che un paese tutto intero si affidava completamente ad un distaccamento di partigiani, era il più alto riconoscimento che avremmo mai sperato. Era già il domani, la nuova nazione, la democrazia e la libertà. Era il raccolto di tanti sacrifici e tanti morti, era la nostra medaglia d’oro al valore, era la nostra vittoria. Continuando la nostra movimentata guerra, dove ogni giorno, avveniva qualche scontro; un giorno, appostati sempre dalla galleria, sentiamo nella parte alta di Torriglia, un paio di raffiche di mitra, poi sentiamo una motocicletta che arriva verso di noi. Ci, prepariamo a riceverla con le armi puntate all’uscita

dell’ultima curva e c’è mancato un pelo che aprissimo il fuoco; era

Bisagno, che con la sua Mas 175, era sceso in paese a motore spento, aveva incontrato una pattuglia e aveva fatto fuoco. Bisagno; due parole su Bisagno. Noi eravamo una Divisione Garibaldina, che significava, come per la maggior parte delle altre formazioni Garibaldine, essere appartenenti al partito comunista. La nostra era, una Divisione anomala, non portavamo il fazzoletto rosso al collo e neanche le mostrine rosse come portavano le altre Divisioni Garibaldine. Noi, per volere di Bisagno primo partigiano d’Italia e medaglia d’oro alla memoria e comandante della Cichero, portavamo il fazzoletto

tricolore al collo e la stella, sempre tricolore sul petto, con, al centro il viso barbuto

di Garibaldi. La nostra era Garibaldina solo di nome, in onore al gran condottiero, per il resto, eravamo combattenti per la libertà e basta, non si doveva fare politica. Si, certo, i Commissari politici, erano, per la maggior parte comunisti, e non perdevano occasione per pubblicizzarlo. Ma il resto dei partigiani, e, soprattutto, i Comandanti non erano comunisti, erano quasi tutti ex ufficiali del vecchio esercito Reggio, molti carabinieri, ma sopratutto Bisagno, che forse era democristiano, combattenti.

non voleva si facesse politica, proprio per non creare, astii e divisione fra i


117 Ogni tanto circolavano voci, che, ci fossero degli attriti e incomprensioni al comando Zona, frà il Comandante Miro, che era stato nominato dal Partito Comunista e che era un Croato, e il vice comandate Bisagno, che non la pensavano allo stesso modo. Una sera, arrivano al nostro distaccamento due ordini contrapposti, uno era di Croce, che ci ordinava di correre immediatamente alla galleria Buffalora, con tutto il distaccamento,

per

fermare in tedeschi che, sembrava fossero partiti per la val Trebbia. Era successo che il distaccamento Alpino, comandato da Santo, aveva abbandonato il posto strategico di Loco, per correre a Fascia, dove era in corso una riunione a livello Zonale, e dove, secondo questo distaccamento, ma sopratutto secondo il suo comandante, c’era il pericolo e le voci, che avessero intenzione di arrestare Bisagno e mandarlo in un’altra zona, perchè qui, secondo Santo, dava fastidio per le sue idee contrarie a quelle di Miro, e a quelle del partito Comunista. L’altro invito era proprio dell’Alpino, che ci chiedeva di correre, in aiuto, a Fascia dove, diceva, era in corso l’arresto di Bisagno.

Naturalmente, noi siamo corsi alla galleria, perchè non

essendoci più l’Alpino a Loco, cera veramente il pericolo, che i tedeschi, senza nessuna fatica sarebbero arrivati a Livellà, mettendo in pericolo il comando della

sesta Zona, l’ospedale

partigiano, con un mucchio di feriti, il campo di concentramento e infine, la missione Alleata. Fortunatamente non è successo niente, i tedeschi non si sono visti, Bisagno non è stato arrestato, ma questo fatto suscitò un enorme scalpore in tutta la Divisione e la Brigata Jori. Croce, arrivato poco dopo a Fascia, ha dato ordine di arrestare tutto il distaccamento Alpino e mandarlo sotto processo, per aver abbandonato un posto strategico, che doveva assolutamente tenere, e a detta di Croce, quel distaccamento, era avvezzo a non ubbidire al comando Brigata e fare di testa sua, quindi non era più affidabile. Il comandante, un certo Santo, che io non ho mai conosciuto, faceva spesso parlare di sè, è stato uno dei distaccamenti che ha avuto più scontri col nemico, creandogli sempre dei seri problemi. Si diceva che era anche un fanatico anticomunista, non voleva commissari nel distaccamento, se non era sicuro che fossero di fede cattolica. Dicevano che era anche amico personale di Bisagno, perchè, cresciuti sugli stessi banchi di scuola. La cosa finiva che; Croce non ha più voluto quel distaccamento nella Brigata Jori e il comando Divisione, ha dovuto trasferirlo nella Brigata Berto di Banfi, che operava in val d’Aveto. Dopo questa pagina, non troppo bella per la Cichero, si ritorna, pur con molte discussioni, alla vita di prima.


La politica: come ho già accennato sopra, la politica era ufficialmente proibita, ma la politica eravamo noi, la nostra guerra era politica, il nostro domani era politico, eravamo lì per la politica, come si faceva a non parlarne?. Io, ma penso molti, non sapevo nulla di politica, in casa mia avevo sentito qualche parola di socialismo, di un Giolitti un po' fumoso, gli Italiani, sotto i quarant’anni, non nè sapevano niente, se non quelli che l’avevano studiata. 118 Nei distaccamenti, di sera, nei pomeriggi di quiete, mentre si passeggiava di pattuglia, si discuteva, quasi sempre di questo. C’era sempre qualcuno, che già sapeva il fatto suo, e allora si ascoltava sempre volentieri e qualche volta a bocca aperta. Mi ricordo i lunghi racconti di Marzo, il commissario della divisione Chichero, che faceva parte del primo gruppo di partigiani, al casone di Cichero, con Bisagno, Lesta, Bini e pochi altri;

ci

parlava per delle serate intere, ci spiegava della Sua guerra di Spagna, di tutta la sua storia antifascista, di quando era all’isola di Ponza con Pertini e che sono fuggiti in Francia, e dove per tirare avanti facevano il

muratore.

Ci parlava moltissimo del domani; di cosa sarebbe

successo, del nuovo governo eletto dal

popolo, della democrazia e della giustizia, che

dovevano essere autonome dal potere legislativo, se no, non sarebbero servite a niente. Bini; un altro politico che la sapeva lunga, ed era molto convincente, si stava a sentirlo con piacere, anche lui quando, qualche volta arrivava in distaccamento si facevano le ore piccole. Ci parlavano delle Democrazie del Nord, che avevano, già allora, governi democratici, che quando non andavano bene si potevano cambiare, votando con una maggioranza. Questo per noi non era soltanto pane, ma era anche companatico.

I più tanti di noi, eravamo sopratutto

antifascisti, gente che pur, non conoscendo e non aver nessuna idea di che cos’era la democrazia, aveva resistito magari anche vent’anni, contro i soprusi e le ingiustizie

del

fascismo. Una volta è arrivato su Taviani, che era un membro del C.L.N. per il partito d’Azione, anche lui ha tenuto una specie di conferenza, sempre sul tema del dopo guerra, era un discorso molto convincente, mi sembrava la pensava come me. Intanto si andava verso la primavera, si sentiva che l’aria della liberazione era vicina, si voleva avvicinarsi sempre più a Genova, perché volevamo essere i primi a scendere in città, almeno prima degli Alleati, volevamo, dopo tanti sacrifici, aver l’onore di liberarla noi. Ci, siamo trasferiti nella periferia alta di Torriglia, avevamo una villetta con parco, proprio in faccia alla Colonia.

Avevamo piazzato due grosse mitraglie nel giardino davanti a casa, di


giorno non permettevamo che uscissero dalla casa, perchè la mitraglia era sempre pronta a far fuoco. I tedeschi della Colonia, non uscivano quasi più, un giorno ci siamo avvicinati talmente, da sparare con gli sten e i mitra direttamente sulle finestre, dove loro rispondevano al fuoco, io mi trovavo inginocchiato, dietro un platano che avrà avuto un metro di diametro, sparavo con il mio mitra ed ero sicuro che non mi avrebbero mai colpito dietro quest’enorme pianta.

Ma mi

sbagliavo, sentivo il sibilo delle pallottole sopra la mia testa, sentivo la corteccia della pianta cadermi addosso, in un primo momento pensavo che l’avessero colpita di striscio o di fianco, ma quando, ho guardato in su e ho visto, sono rimasto scioccato. Le pallottole del mascin gaver, bucavano questa pianta come se fosse stata di burro, il sibilo continuava anche dopo averla forata. Era una cosa mai vista in tutte le armi che avevo conosciute. 119 Se sparavi contro un albero, e la muovevi adagio lateralmente segava l’albero, tanto era potente e veloce. Intanto gli alleati si avvicinavano sempre più, noi volevamo a tutti i costi scendere, più vicini a Genova, perchè la Jori, la nostra Brigata, era nei piani del comando Divisione, preposta alla liberazione e occupazione della Città. C’era però quell’inghippo, di quei quattrocento tedeschi nella Colonia, che non si riusciva a cacciarli;

non uscivano più, ma avevano minato tutto il prato intorno, fino al ciglio della strada.

Un giorno si è deciso di bazzuca;

attaccarli in forze, con mortai 81, cannoncini da 47 e sopratutto

è successo un finimondo, ogni colpo di mortaio o bazzuca che cadeva dentro il

recinto, sembrava una bomba atomica, nel giro di una decina di metri, per simpatia, saltavano anche tutte le mine, quando ci siamo ritirati il prato non esisteva più, sembrava una trincea del Carso. Dopo qualche giorno da questo fatto, un pomeriggio abbiamo visto arrivare una colonna d’autocarri coperti con teloni, abbiamo pensato a molti rinforzi, ed eravamo preoccupati, invece era una trappola e ci siamo caduti. (e anche qui, quelli della Matteotti in val Bisagno dov’erano?) Al mattino seguente, dopo un’ora di scrutamento con binocoli e non, e anche con qualche raffica di mitraglia, ci siamo accorti che ci avevano beffato, non c’era più nessuno, se ne erano andati nella notte con quei automezzi. Siamo corsi appresso, ma arrivati sulle coste sopra Laccio, abbiamo sentito un fragoroso combattimento in corso sulla Scoffera, erano, la Brigata Severino e la Matteotti, che li avevano bloccati e accerchiati e stavano per arrendersi, volevano solo trattare le migliori condizioni.


Da lì, abbiamo iniziato l’avvicinamento a Genova; tutti i distaccamenti della Jori sono scesi a Torriglia e tutti insieme, abbiamo iniziato l’avvicinamento. La prima tappa doveva essere Creto, poi da lì, prendere le varie diramazioni per arrivare in città, con il punto prefissato per ogni distaccamento. Il nostro, per esempio doveva scendere dal Righi, il Lagaccio, e puntare sul porto, cercando di salvarlo dalle mine tedesche. Un altro a Staglieno e via via, sino a Nervi, e a ponente fino Sampierdarena. Mentre più a ponente, Pontedeccimo, Borzoli e Pegli doveva, essere la Brigata volante Balilla, di Battista, che già da qualche tempo operava nei dintorni.

Non ricordo la data precisa, forse il 21, o il 22 aprile,

stavamo marciando in colonna, fra il ponte di Laccio, che avevamo fatto saltare tempo prima, e Montoggio.

Abbiamo sentito il rombo degli aerei e si siamo buttati per terra, credendo fossero

tedeschi, ma poi vedendo, la stella bianca e quindi Alleati, ma è stata un’altra fregatura delle più dure e più assurde. La brigata Matteotti, che erano Badogliani, avevano chiesto, per radio, l’intervento degli aerei alleati per bombardare la ritirata dei tedeschi. Quindi la prima colonna che hanno visto, eravamo noi, hanno incominciato a picchiare, è non c’è stato verso per fargli cambiare idea. I nostri, radiotelegrafisti, martellavano la portaerei davanti a Genova, con messaggi in tutte le lingue, ma niente da fare, quelli, un’ondata dopo l’altra ci hanno accompagnato fino a Creto. Inutile dire che ci sono stati molti feriti, compreso i vice comandante della nostra Brigata, Fontana, che essendo in motocicletta non aveva sentito gli aerei, ed è stato colpito al primo raid, con diverse pallottole sulle gambe e le ginocchia. La strada, da Laccio a Creto era tutta solcata dalle mitragliere, sembrava un campo arato. 120 Ma la truffa finale è stata che, a Creto, dopo un‘ora che ci stavamo leccando, come si suole dire, le ferite:

tornano a volo radente, e in mezzo,

alle nostre maledizioni e bestemmie,

riempiono il prato di manifestini di scuse. Ora a distanza di tanti anni, quando sento che gli Americani, bombardano chirurgicamente, senza colpire gli innocenti: beh, so cosa vuol dire. Una sera, e qui nelle date non sono poi tanto sicuro, partiamo per Genova, attraverso dei sentieri e seguendo un camminamento dell’acquedotto, arriviamo sui binari del trenino per Casella, in prossimità del Righi. E mentre Croce e i suoi aiutanti, sono intenti a dare le ultime direttive, per scendere in città. Arriva la solita motocicletta con Bisogno, era una presenza che ci tonificava, quando c’era lui ci


sentivamo invulnerabili, ma questa volta ci ha lì per lì deluso.

A dato l’ordine assoluto di

ritornare indietro, ritornare a Creto in attesa di avvenimenti, era ancora troppo pericoloso. Il C.L.N. aveva avuto l’ordine dagli Alleati, di non attaccare per non creare, morti e distruzioni inutili ma, attendere quando loro erano più vicini. Cosi frà il mugugno e la delusione, il mattino, allo spuntar del sole, eravamo nuovamente a Creto.

E’ stata una giornata di forti discussioni e proteste, si era convinti che, gli Alleati non

volevano che fossimo noi a liberare la nostra città. Intanto continuavano ad arrivare notizie da Genova, la Severino, (brigata di manovra), che ha sempre operato nella bassa val Bisagno, era già in città. Aveva occupato San Martino e Albaro e chiedeva lumi. La Balilla, l’altra Brigata di manovra comandata da Battista, che operava al ponente della città frà Busalletta, Montoggio e la valle del Polcevera, aveva già occupato Borzoli e stava per entrare a Sestri Ponente.

Croce dichiarava che, in queste condizioni, la sera saremmo scesi

anche noi. Bisagno era a Genova e non si faceva sentire.

Nel tardo pomeriggio, quando

fremevano già i preparativi per la discesa, arriva con la sua motocicletta, raduna tutto lo stato maggiore della brigata e dice che si parte.

A questa decisione diceva di esserci arrivato, per

due ragioni; una non gli era ben chiaro, chi fossero quelli che cercavano di ritardare la nostra discesa, se, gli Alleati o il C.L.N..

Seconda, che si combatteva già in tutta la città e quindi

diventava urgente la nostra presenza. Poco dopo la mezzanotte, eravamo nuovamente sui binari del trenino di Casella, nella prossimità del Righi, abbiamo attesa l’alba per identificare le eventuali resistenze tedesche e poi via. Il Bellucci aveva il compito specifico di occupare, il forte di San Simone e il Castellaccio al Righi, poi scendere al porto. Ci presentiamo alle porte del primo forte, un paio di raffiche e qualche colpo di bazzuca, esce la bandiera bianca; entriamo, li disarmiamo, accatastando le armi in una stanza e lasciamo una squadra di guardia. Tentiamo, la stessa sorte per il secondo, ma quì, non và tutto liscio. Prima si arrendono, poi, quando siamo, già dentro il cortile allo scoperto, si affaccia uno da una finestra e si mette a sparare con il mascin pistola e ferisce un paio di nostri compagni. Fortunatamente c’era, qualcuno dei nostri in allerta e con un paio di raffiche lo tira giù secco. Ma si complica anche la faccenda della resa precedente decisa,

qualcuno dei nostri spara sui primi che escono,

eravamo imbestialiti, non si sapeva ancora le perdite dei nostri, c’era che gridava di fucilarli tutti.


121 Così questi ritornano dentro nel forte e sbarrano tutte le entrate. C’è voluta qualche ora per risolvere la faccenda e farli prigionieri. Cerchiamo di continuare la nostra discesa, ma in quel momento ci arrivano a dosso una gragnola di cannonate dalle navi Inglesi, che si vedevano schierate all’esterno del porto.

Per

fortuna la spalliera del Righi, non era popolata come adesso, altrimenti sarebbe stato un disastro; perchè, anche qui, non si riusciva a fargli capire che, non sparavano ai tedeschi, ma a noi. Abbiamo cercato di spostarsi nella valle laterale del Lagaccio, e da lì siamo arrivati alla stazione Principe. Proprio sulla piazza era in corso un aspro combattimento frà sapisti che sparavano, dall’interno della stazione e, dalla

via soprastante e un gruppo di tedeschi,

asserragliati su di un tram. È, bastato un colpo di bacucca, a farli cessare il fuoco e arrendersi. Nel porto, dicono che, una compagnia di finanzieri, circa trecento, che, erano insorti già dal giorno prima, stavano per essere sopraffatti, avevano solo armi leggere e quasi senza munizioni, e i tedeschi non mollavano.

Arrivati nelle vicinanze

del conflitto, un paio di sapisti che

cercavano rinforzi, ci, hanno accompagnato nella zona che avremmo potuto avere la meglio, cioè in un punto, alle spalle dei tedeschi.

Dopo dieci minuti di sparatoria dalla parte nostra e

dalla parte della finanza, si sono visti accerchiati, hanno alzato bandiera bianca e li abbiamo disarmati. Intanto si era arrivati nel pomeriggio, avevamo appena disarmato e consegnato ai sapisti i prigionieri, che, un altro ordine, ci manda in corso Monte Grappa, nella casa del fascio, dove vi era ancora un drappello di gerarchi, che preparavano la fuga, ma intanto caricavano un paio di autocarri, dalle scorte dal loro magazzino. Arriviamo, in tempo che avevano già messo in moto i mezzi, hanno abbandonato tutto e hanno cercato di scappare, disperdendosi in quei boschetti laterali, ma li abbiamo acciuffati quasi tutti. Erano, tutti alti gerarchi e avevano con motivo, una fifa da morire, sui mezzi vi era ogni ben di dio; scatoloni di sigarette Africa, caschi di banane, e un’infinità

di sacchi di pasta bianca,

carne, prosciutti e salami in quantità. Questi, non li abbiamo consegnati ai sappisti, erano per noi, un boccone troppo prelibato, li abbiamo portati alla casa dello studente, li abbiamo chiusi nelle celle di tortura dei partigiani in attesa di giudizio. Nella notte ci hanno mandati a Sturla, nella villa Gentile, che c’era un gruppo di tedeschi, che volevano aspettare di arrendersi agli Alleati, perché, avendo commesso molti crimini verso i genovesi e temevano la vendetta.


Al mattino abbiamo cercato di parlamentare,

in quanto, erano asserragliati in un’una

specie di fortino, ed era difficile farli uscire, senza spianare completamente la villa. Cercavano di tergiversare, dicevano che dovevano sentire i loro superiori del comando zona,

ma non

riuscivano mai a mettersi in contatto, ò facevano finta. Intanto avevamo piazzato, un paio di cannoncini, da 47mm. e qualche mortaio da 81, pronti a sparare, appena scaduto l’ultimato. Abbiamo fatto fuoco, per qualche minuto contro la casa, ed è uscita fuori la bandiera della resa; disarmati, consegnati ai sappisti, e via velocemente per corso Torino. 122 In un paio di palazzi di Via Rimassa, alla Foce, vi erano circa duemila soldati della Wermak, era una colonna che era stata ritirata dal fronte qualche settimana prima e mandata nelle retrovie per riposo. Si erano asserragliati in questi palazzi, ed avevano circondato il perimetro con cavalli di Frisia, con sopra le mitraglie. Anche questi, oramai sapevano che era finita, ma volevano arrendersi solo agli Alleati, e noi non potevamo, a questo punto, permetterselo. Abbiamo iniziato l’avvicinamento dalla parte della ferrovia e, riparandosi dietro le grosse piante, cercavamo di arrivare ad una certa distanza da poter usare le nostre armi. Loro non ci davano tregua, ad ogni movimento, erano scariche di mitraglia che spaventavano. A morire ora, a guerra finita, ci sarebbe un poco dispiaciuto e quindi, non ci siamo buttati allo sbaraglio, come qualche volta era capitato.

Ce la prendevamo con comodo, mi ricordo che, in un portone

dove cercavamo riparo ce lo hanno aperto e ci hanno fatti entrare, offrendoci da bere e da mangiare.

Arriva Bisagno e Croce, danno ordine che bisognava attaccare più duramente, gli

americani erano a Nervi, non dovevamo lasciarli a loro.

Qualcuno a suggerito che ci voleva

qualche cannone, qualcun altro sapeva che ce n’era uno davanti alla Questura, ché oramai occupata dai nostri, forse si sarebbe potuto utilizzare. Ci voleva però un ordine superiore per poterlo prelevare, ordine di Bisagno o almeno di Croce; sentito questo, Bisagno, sale sulla sua moto e dopo dieci minuti, arriva con il cannone, al traino di un autocarro. Lo piazziamo all’angolo sinistro, in fondo a piazza Savonarola, viene puntato sull’angolo e mezza facciata del palazzo interessato, e facciamo fuoco.

I primi due colpi sono finiti raso

terra, sui cavalli di frisia e hanno messo fuori uso le mitragliere corrispondenti,

Si è, messo a


punto l’alzo per aggiustare il tiro, e gli altri due o tre colpi hanno centrato, in pieno, l’angolo e la facciata del palazzo. Un attimo di silenzio e d’attesa,

spunta la bandiera bianca. E’ stato in grido generale e

qualcuno si è anche abbracciato e baciato dalla gioia. C’è voluto un paio d’ore, per farli uscire, la fila arrivava già in corso Buenos Aires, e ancora ne stavano uscendo. Quando sono stati tutti fuori, l’abbiamo fatti sfilare, per corso Buens Aires, piazza della Vittoria, via Canevari fino al campo del Genova, dove ve ne erano già qualche migliaio.

C’è

stato dei momenti che non si riusciva a trattenere la folla sui marciapiedi, che volevano linciarli; gli sputi non si sono lesinati, abbiamo dovuto sparare anche qualche colpo in aria. Ora Genova era liberata, gli alleati sono entrati da Albaro, e giunti a Tommaseo, li abbiamo ricevuti con gli onori delle armi davanti al Monumento al Generale Belgrano, poi scortati, con due ali di partigiani, fino a Piazza De Ferrari, e anche questa volta era difficile tenere la folla lontana, anche se il motivo era diverso, tutti volevano salire sulle Jepp, da dove gli Americani, gettavano tavolette di “libertà”. Finita la liberazione totale di Genova, la Jori, si accasermava nel palazzo della Foce, dove erano i duemila tedeschi. Per la verità rimanevano ancora le batterie di Monte Moro, che, dopo ottenuta la promessa che non avrebbero mai più sparato li abbiamo lasciati agli Alleati come chiedevano, poi c’è li siamo addirittura dimenticati. 123 Iniziando tutti i problemi logistici, di un dopo guerra cosi lungo e martoriato, vedi ordine pubblico, organizzazione dei servizi più urgenti, nessuno ha più pensato a quella batteria, finché un giorno sono stati loro a farsi vivi con gli Alleati e consegnare il tutto.

Ricordo che ne era

nata anche un po' di polemica, con i politici del C.L.N., che dicevano che abbiamo rischiato molto con quella batteria, avrebbero potuto far saltare il porto che era ancora tutto minato. Questo non era vero, primo, quei cannoni non avrebbero mai potuto sparare nel porto, essendo cannoni molto grossi e di gittata

molto lunga, al massimo, con tutta la loro convergenza,

sarebbero arrivati al largo del porto, un paio di chilometri in mare aperto; secondo, le mine del porto erano già state disattivate, dai portuali e dalla guardia di finanza durante l’insurrezione, che sapevano punto per punto dove si trovava ogni mina e ogni innesco. Anche se poi, un po’ tutti si vantavano di essere stati i salvatori del porto, vedi Curia e tanti altri. Ma la verità, è solo quella descritta sopra, cioè, la gente del porto, compresa la compagnia dei Finanzieri. Un paio di giorni dopo, ci inquadrano e ci portano in piazza della Vittoria, gli Alleati volevano ringraziarci per l’aiuto dato nella guerra. La Brigata Jori era inquadrata, al completo, ( ma vi


erano anche spezzoni di altre brigate che erano scese su Genova), al centro della piazza, davanti al monumento ai Caduti. Il palco delle autorità era all’inizio dei giardinetti della Stazione cioè di fronte. Alle nostre spalle e ai lati, vi erano formazioni Americane motorizzate e in assetto di guerra, un battaglione dei nuovi carabinieri, cioè quelli che avevano seguito gli Alleati per tutta la Penisola, erano schierati sulla nostra destra, vicino al palazzo dell’I.N.P.S.. diversi ufficiali, e autorità civili.

Hanno parlato

Poi un generale Americano con il traduttore, il quale, dopo

averci ringraziato solennemente, chiedeva in sostanza, che depositassimo le armi ai nostri piedi, e che tornassimo alle nostre case e, tutti insieme ricostruire il paese. C’è stato un mormorio in tutta la Brigata, come se fosse stata percorsa da una corrente elettrica. Ha preso la parola Bisagno che salendo su di una jepp, ci ha chiesto di mettersi in marcia per la nostra caserma, e poi da lì, si sarebbero trattate le regole e i documenti ufficiali per la nostra smobilitazione. Un distaccamento dietro l’altro con in testa Bisagno, col suo sten a tracolla, abbiamo puntato verso corso Buenos Aires, per recarsi alla Foce, ma quando siamo di fianco al palazzo dell’Inps, dove erano schierati i carabinieri che chiudevano il quadrato, non ci lasciano passare.

E’

stato l’attimo più pericoloso di tutta la guerra, avrebbe potuto succedere un macello, io mi trovavo nel primo distaccamento, appena dietro Bisagno, e quando l’ho visto imbracciare lo sten e puntarlo sulla pancia di un sottufficiale, spingendolo da parte per passare, ho pensato al peggio.

Il sottufficiale, l’ha guardato per un attimo poi si è spostato per lasciarci passare.

Abbiamo sfilato in quello stretto corridoio, tutta la Brigata e siamo tornati in caserma. Il comando, dell’ottava armata, ( se ricordo bene, ò quinta). Si era istallato nell’Hotel Bristol, a metà di via Venti Settembre, e lì per una settimana di seguito, ognuno di noi, siamo stati chiamati per la denuncia del nostro stato partigiano e per le generalità complete, compreso l’indirizzo, con la promessa che ci avrebbero, in seguito, inviato tutta la documentazione per il riconoscimento della qualifica di Partigiano-Combattente, e la liquidazione della “deca militare,” per circa i diciassette mesi passati in montagna. 124 Ma anche così, non andava bene, la maggior parte dei partigiani della Cichero, non erano di Genova, ma delle varie città del nord, e moltissimi siciliani e calabresi, non avevano neanche i soldi per il viaggio, e, visto che il tempo passava e nessuno parlava chiaro, abbiamo deciso di tornarsene in Val Trebbia.


Avevamo requisito non so dove, un paio d autocarri Fiat, mi pare si chiamassero “Leoncini”, e per tutta una settimana hanno viaggiato avanti e indietro con la val Trebbia, carichi di armi tedesche, (tutte quelle che avevamo requisito a quella colonna della Foce), e moltissimi viveri, compreso tutti gli attrezzi musicali della banda di quella Brigata. Quasi tutta la Brigata Jori, e il comando della Divisione Cichero,hanno trovato sistemazione nei vari locali Comunali, compreso la requisizione di tutti gli alberghi di Torriglia; gli altri delle altre Brigate, sono tornati, anche loro nei luoghi che avevano combattuto. Abbiamo passato quindici giorni di festa.

Nella sala del fascio di Torriglietta, avevamo

messa un’orchestra che suonava dalle quattordici alle due di notte, il ristoranti e gli alberghi, sfornavano a getto continuo, ravioli, tortellini a lasagne. Mio padre, vedendo finire la guerra, e vedendo tornare gli altri, è partito a piedi da Zerba, ed è andato a Genova a cercarmi, e da lì l’hanno rimandato a Torriglia,

dove, dopo averlo

presentato ai miei amici e comandanti ha dovuto fermarsi qualche giorno e ha potuto capire il perchè non tornavo a casa. Naturalmente i nostri comandi, ma sopratutto Bisagno, continuavano a parlamentare con Gli Alleati, finché un giorno arriva su, a Torriglia, un Generale con un folto gruppo di aiutanti, si istallano nel Ristorante Pipino, e per otto giorni distribuiscono Il “proclama Alexander”, con il nome di ogni partigiano, grado, e la paga per il tempo rimasti in montagna. Molti, se ne sono tornati a casa per conto loro, mentre quasi tutti gli alpini, sono tornati a Genova nella solita “caserma della Foce, nell’attesa di essere accompagnati alle loro abitazioni, come Bisagno aveva promesso. Bisagno: “ Fra i primissimi ad accorrere in difesa della sua terra oppressa dal nemico, partecipava a numerose azioni di guerra alla testa dei suoi partigiani che lo avevano eletto capo per l’indomito coraggio e l’alto spirito di sacrificio, sempre e ovunque dimostrati. Audace assertore di azioni di sabotaggio distruggeva con leggendario ardimento e tecnica perfetta importanti opere fortificate avversarie, inseguendo,disperdendo e catturando i nemici atterriti dalla sua audacia. Mentre completava la sua missione restituendo alle loro case i partigiani superstiti della lotta, suggellava con la morte la sua eroica esistenza. Val Trebbia, val D’aveto, settembre 1943- maggio 1945”. Questa è la motivazione della medaglia d’oro al V.M. conferita alla memoria. Molti, più tardi, anno fatto di tutto per oscurare la sua limpida figura, soprattutto, sulla sua morte e soprattutto, certi suoi partigiani che per ragioni oscure, continuano, ancora oggi e non lasciarlo in pace, forse sono dei fanatici, ma sopratutto sono menti contorte, menti diaboliche


che non sanno e non anno mai saputo

essere puri, essere leali come Bisagno.

Lo vogliono

far apparire come un uomo pieno d’intrighi, di cospirazioni, di trame politiche, mentre Bisagno era puro come un angelo, le sue qualità superiori erano l’onestà e l’amicizia, era sempre pronto a dare la vita per gli altri. 125 Tutto questo lo fanno ora, che i testimoni di quel tragico fatto non ci sono più; fanno apparire, con discorsi contorti da cospiratori, personaggi fantasma, fanno sostituire il Filippazzi, (secondo autista con Dorino e terzo Barbera), con un un altro personaggio fantasma, che appare e sparisce per riapparire nuovamente quando a questi fa comodo. della guerra, quando a Gorreto faceva l’autista di piazza.

Conoscevo Dorino da prima

Dopo la morte di Bisagno, sono

andato a cercarlo a Rovegno, per farmi spiegare di persona come si erano svolte le cose, che erano quelle che ha raccontato da subito, sia ai carabinieri, che ha tutte le autorità che lo anno interrogato poi. Dorino, come molti giovani montanari era persona onesta, era con Bisagno un fratello, erano due anni che praticamente vivevano insieme, lo portava, con il suo taxi, da qualsiasi parte Bisagno doveva andare, non si sarebbe mai prestato a giochi del genere, ma non solo, basterebbe solo un poco di buon senso. Bisagno vivo, era per Dorino una fortuna mai sperata, voleva dire aiuti in tutte le maniere e di tutte la qualità. Voleva dire essere in una botte di ferro, voleva dire essere tranquillo. Con un amico così sarebbe stato tutto più facile, anche in una eventuale sistemazione economica-famigliare. Dorino-testimonianza; “tornavamo verso casa, dopo aver girato mezzo veneto portando tutti gli alpini alle loro residenze. Avevo appena passato il volante dell’automezzo a Filippazzi, mi ero sdraiato per riposare, quando una brusca frenata mi ha fatto sobbalzare, ho guardato fuori e ho visto che eravamo finiti nella cunetta della strada, ho sbirciato dall’altra parte e ho notato una colonna di automezzi Alleati che proseguivano in senso opposto. Dopo un attimo abbiamo sentito dei lamenti che provenivano da sotto il camion è, solo all’ora abbiamo capito cosa poteva essere successo.

Bisagno era salito sul tetto della cabina con Barbera, e, come si

faceva spesso durante la lotta partigiana si erano messi a cantare.

Un sorpasso di una jeep

americana che veniva in senso contrario, ha costretto Filippazzi ad una brusca frenata, e, con un colpo di sterzo a destra finiva nella cunetta. Bisagno è scivolato giù ed è finito sotto le ruote posteriori del mezzo. spirava.

Non era morto, ma era gravissimo, e prima di arrivare al pronto soccorso

Da lì sono incominciati i dubbi, sono andati a rinvangare le vecchie diatribe con Miro,

comandante della Sesta Zona, incominciarono ad arrivare testimonianze dalle più svariate


personalità,

s’inventarono,

autisti

fantasmi,

(Filippazzi

era

diventato

Fantomazzi

o

Giacomazzi),che erano saliti strada facendo per far fuori Bisagno perchè non era comunista. E ancora oggi, dopo sessant’anni, quelle losche figure, quelle menti contorte, continuano ad infierire, macchiando il ricordo di una figura delle più nobili delle più pure e trasparenti che, vi sia stato in tutti i partigiani italiani. La figura di Bisagno ha una purezza,una trasparenza cristallina, quali pochi uomini riescono oltre ché ad avere, ed evidenziare. Questo per quanto riguarda le qualità morali individuali il”privato”, come si dice oggi La sua immagine “pubblica”, poi, assumeva il carattere di simbolo, il simbolo della nuova gioventù che doveva cancellare la brutta impronta del fascismo con tutto il incoltura, di degradazione civile, di qualunquismo becero e vieto;

suo bagaglio di

era la nuova proposta di

un’Italia sana, pulita, giusta, dove non ci doveva essere più posto per i soprusi,per le violenze, le discriminazioni, i privilegi. Un’immagine che veniva fuori dalla realtà quotidiana della guerra partigiana, dal coraggio, dalla temerarietà, ma, prima ancora, dalla conoscenza che tutti avevano della capacità di sacrificio, dall’abnegazione, della dirittura morale di Bisagno. Queste erano le qualità che lo trasfiguravano e per le quali, i partigiani aspettavano da Lui una parola di incoraggiamento nei momenti di sfiducia e di disperazione. 126 Gli abitanti delle valli vedevano in Lui l’eroe puro e giusto, che difendeva non solo le loro povere case, ma anche, e sopratutto la loro dignità umana, anch’essa violentata in ogni modo dalla tracotanza nazi-fascista; un uomo che coltivava i loro stessi sentimenti: l’amicizia, l’amore per la natura, l’attaccamento alla montagna; il tutto permeato da un profondo senso religioso della vita. L’8 settembre 1943, aveva trovato pronta la sua reazione al tedesco invasore.

Sottotenente

dell’arma del Genio a Chiavari, egli, nello sfacelo generale, non ebbe esitazioni. Con l’aiuto dei suoi soldati, nascose le armi e subito si diede alla ricerca dei contatti politici per iniziare la lotta armata. I primi che lo conobbero, Bini, Marzo, Lesta, Severino, Beppe e gli altri giovani che avevano raggiunto i monti, lo disegnavano subito come loro capo militare perché nè avevano compreso immediatamente le alte qualità organizzative, la capacità di comandante e la serietà di impegno. Via, via che

lo sparuto gruppo di “ribelli” cresceva per diventare brigata

poi divisione,

occupando vallate e territori di sempre più vasta estensione, egli seppe adeguarsi ogni volta al


nuovo ruolo, trasformandosi in guida, coordinatore, stratega ed assumendosi il peso e la responsabilità della nuova dimensione. Non era facile svolgere questo ruolo, se solo si pensa alle enormi difficoltà oggettive esistenti, ai mezzi a disposizione e alla eterogeneità della componente umana che costituiva i reparti; alla generale inesperienza militare, sociale e politica che caratterizzava quei giovani. Ebbene

Bisagno riuscì a superare tutte queste difficoltà, che avrebbero scoraggiato

uomini più anziani ed esperti, con serenità, con tenacia ed una forza di volontà insospettabili in un giovane di 22 anni. Parco di parole, modesto nell’espressione, egli amava ascoltare

ed osservare con

attenzione prima di assumere determinazioni; non imponeva decisioni, ne assumeva posizioni autoritarie; prendeva iniziative che servivano da esempio, stimolando negli uomini l’emulazione e coresponsabilizzandoli nell’azione. Così nel combattimento, cosi nel rapporto con i suoi compagni di comando, così nei comportamenti

con i partigiani e con la popolazione civile.

Sempre con rispetto, con

semplicità, con umiltà. Ecco, questo era Bisagno, cosi come lo ricordano ancor oggi i partigiani; cosi parla di Lui , dopo trent’anni la gente delle vallate.

“ cosi scrive Antonio Testa, nella., La brigata Jori in Val

Trebbia.” “ Scriveva Marzo, in uno degli ultimi numeri del “Partigiano”: Genova è dunque libera; fra qualche giorno finirà anche la guerra. La Cichero ha raggiunto la meta prefissa.

Uno ad uno i suoi distaccamenti risalgono cantando per la Doria, per la

Porcevera, su, su, fino a raggiungere Torriglia: rientran nella Val Trebbia. Cantando van a rivedere i posti dove han combattuto, sofferto; cantando van a ritrovare i loro morti sotterrati qua e là, nei cimiteri della vallata, a Loco, Rovegno, a Fontanigorda, Gorreto, Ottone, Cerreto-Zerba. Val di Trebbia: da quì la Cichero ha spiccato il volo per la vittoria finale; da quì i suoi uomini posate le armi partiran per ritornarsene alle loro case, ai loro lavori. Lassù, tra i loro monti, cantando, uno ad uno i distaccamenti prenderan congedo dai loro comandanti; prenderà congedo l’Alpino, il Fuoco, il Guerra, e poi il Forca, il Bellucci, il Mandorli.... uno ad uno tutti i distaccamenti. Fin che resterà l’ultimo, il Vestone. E’ il distaccamento degli alpini che nel novembre scorso ci ha gettato le braccia al collo e son venuti su a combattere, a mirir con noi: sono ragazzi tutti di Bergamo,di Brescia, di Trento, non son delle nostre parti. Ebbene,Bisagno li porterà Lui su, ai loro paesi, ai loro monti; li consegne Lui, su, alle loro mamme, alle loro case......


A Desenzano, sulle rive del Garda, il Comandante della Cichero, oramai solo, fa ritorno alla sua Genova. Canta, Bisagno, canta la sua canzone: .... se libero uno muore, non importa di morir...... E poi, uno scarto, un colpo di freno, e anche Bisagno se ne va: è morto così, cantando. Appena assolto il suo grande compito. 127 “ LA MIA FERITA..”

Poco sopra avevo parlato di feriti della Jori, compreso io. E ora cercherò di raccontarvi, più o meno com’è andata. Era una giornata invernale, il paese di Zerba era coperto dalla nebbia per metà, rimaneva fuori solo la frazione in fondo, l’Astana, mentre le due frazioni superiori, Lisamara e la Soprana erano completamente coperte di nebbia. Io, con altri due miei compagni, eravamo passati da casa mia, per mangiar qualcosa, per poi rientrare nel Mandorli, che era ad Artana. Era un periodo molto critico, a Gorreto vi erano ancora gli alpini, e, sia da Piacenza che da Torriglia, ogni tanto arrivavano colonne di tedeschi molto potenti e ben armati, compreso i mongoli, che non era il caso di attaccarle, fronteggiandole, se mai qualche imboscata e via, alla macchia. La val Boreca sembrava abbastanza tranquilla, non sono mai risaliti dalla statale se non in pieno rastrellamento, a loro interessava tenere libera, la statale 45, Genova Piacenza. Quindi da quel lato sembrava non vi fosse pericolo. Per tornare, ad Artana la strada più corta e tranquilla era, in ogni caso, la mulattiera che scendeva sul Boreca e risaliva su l’altro versante, proprio sotto il paese. Verso le tre del pomeriggio ci siamo incamminati, per il ritorno al distaccamento, ma, scendendo mi è venuto in mente di fare una visitina al dopo lavoro, per bere qualcosa e salutare qualche paesano che, essendo un pomeriggio di domenica, era pieno d anziani che giocavano a carte. Abbiamo ordinato una gazzosa per uno e ci apprestiamo a curiosare alle spalle dei giocatori; è, bastato un attimo, si era scatenato l’inferno. I tedeschi e i mongoli approfittando della nebbia, ci sono arrivati ad un centinaio di metri prima di aprire il fuoco.

La palazzina

del dopo lavoro si trova in fondo al paese, è completamente isolata, non c’è, nè una pianta, nè un cespuglio che ti puoi nascondere; ci siamo affacciati su un angolo della casa per studiare la


fuga, abbiamo visto i tedeschi che venivano avanti a plotoni affiancati e sparavano a raffiche continue, con la sega Hitler, che era micidiale. Ho detto ai miei amici di seguirmi.

A, monte

della casa vi era una stradina che portava verso il castello, era l’unica speranza per potersi allontanare rimanendo per una ventina di metri coperti dalla casa stessa.

A, monte di questa

stradina vi era un muro in pietra che sosteneva la fascia di terra soprastante, ed era circa un metro e mezzo di altezza, è stata la nostra salvezza. I tedeschi oramai ci avevano visti ed avevano concentrato tutto il fuoco in quel punto. Noi camminavamo un poco curvi per salvare la testa e le pallottole che arrivavano su quel muro, ci buttavano in testa i sassi che spaccavano e che erano infuocati.

Arrivati in ogni modo alla

fine di questo muretto, non c’era più scampo, non vi era più, nessun riparo, una distesa di pietra bianca che sembrava i marmi di Carrara.

Si doveva fare quindici metri completamente

allo scoperto, poi, forse, c’era una specie di dosso, di quelli incanalamenti che l’acqua scava nella roccia in migliaia di anni.

Siamo partiti a tutta velocità, attendendo il finire della raffica e

prima che ne incominciasse un’altra. Siamo arrivati in questo piccolo avvallamento, e, con pancia sotto, scivolando in giù ci siamo trovati nella cunetta della strada carrozzabile attraverso il tombino, potevamo essere salvi, ma. C’è sempre un ma. 128 I miei compagni si sono infilati nel tombino uno dietro l’altro, ma io non ce lo fatta; o meglio, sono entrato anch’io ma appena ho guardato dall’altra parte, mi ha preso il panico; mi sembrava che all’uscita, il tombino, si fosse ristretto a imbuto e sono tornato indietro.

Lì, in quella cunetta

ero al riparo, ma stavano arrivandomi addosso, dovevo decidere velocemente; vedevo davanti a me, sulla strada i solchi che facevano le mitraglie, dovevo passare di li. Mi sono preparato, ho aspettato il finire della raffica e sono partito, ma a metà strada ho visto una gran fiammata sulla ghiaia e ho sentito un forte dolore al ginocchio.

Sono caduto per

terra, ma l’istinto e l’impeto che avevo, mi ha aiutato ad arrotolarmi giù nella scarpata, al riparo dalle raffiche. Un paio di minuti per capire che la gamba non era fratturata e poi nuovamente giù, mezzo zoppicando e mezzo rotolando sono arrivato sulla sponda di un fossato pieno di cespugli e spinacee da non riuscire a vedere il fondo, mi sono tuffato giù senza tanti complimenti e sono arrivato in fondo.

La gamba mi faceva un male da morire, speravo che lì sarei stato in salvo,

almeno sino a notte, che era vicina.

Mi sono sdraiato supino per cercare di alleviare un poco il

dolore e, tendevo le orecchie perchè mi sembrava arrivassero sempre più vicini, infatti, dopo un attimo, vedo spuntare due teste con elmetto che sbirciavano giù nel burrone, era la fine; i due


mitra che portavano a tracolla, puntati in giù verso di me, sembravano due bocche da cannone, tanto mi sembravano grandi da laggiù verso la luce. momento all’altro la raffica, sarebbe stata la fine.

Ero senza respiro e aspettavo da un

Loro forse non mi vedevano, forse rimanevo

in un cono d’ombra che dall’alto non mi potevano vedere, hanno parlottato un minuto frà loro e poi anno buttato due bombe a mano giù nel fosso, così a casaccio;

la prima è scoppiata a

pochi metri da me e mi ha lasciato indenne, ma la seconda, arrivata subito dopo mi ha preso, quasi in pieno e sono svenuto. Deve essere scoppiata a pochi centimetri dalla mia faccia. Non so per quanto tempo sono stato incosciente, so solo che appena aperto gli occhi, non capivo se ero diventato cieco o se era venuto buio.

Avevo la faccia che mi bruciava da morire e la

sentivo tutta bagnata, la gamba, riuscivo a stento a muoverla, lassù, sulla sponda del burrone non c’era più nessuno, ogni tanto si sentiva in lontananza, qualche raffica di mitra,

forse

avevano occupato il paese o forse si erano allontanati rastrellando le case delle vigne, che si trovavano sulla mia direzione.

Avevo capito che lì, non ci potevo stare a lungo, provavo a

muovermi ma la gamba mi faceva morire dal dolore, avevo capito dal gusto che mi veniva in bocca, che era sangue e non capivo cosa fosse successo.

Non so ancora adesso come ho

fatto ad arrivare vicino alla diga del Boreca in quelle condizioni. Mi sono avvicinato ad una catasta di legname per cercare un qualche sostegno per poter continuare.

Ho fatto un po’ di

rumore e ho sentito una voce flebile che subito non o intuito chi fosse, o se fosse qualche animale selvatico, un attimo ancora, ed erano i miei amici che, non sapendo più niente di me e non conoscendo i posti, non sapevano dove scappare.

Mi hanno dato una mano per steccare

la gamba, con la cintura del pantaloni e, piano, piano, siamo arrivati a Tartago.

L’unico paese

che in tutti i rastrellamenti e in tutta la guerra, non è mai stato visitato, nè da tedeschi, nè dai mongoli e nemmeno dagli alpini. In quelle quattro case vi saranno state 400 persone, ragazze dei paesi d’intorno, che scappavano per paura dei mongoli, partigiani sbandati dalle varie zone e, fortunatamente un Medico. 129 Era il dott. Dolo, un russo o un tedesco non ricordo bene, che poi è diventato il direttore dell’ospedale partigiano di Livella, Rovegno.

Mi fece stendere sul tavolo, di quella sala che

fungeva da trattoria, mi guardò la gamba e mi disse che non vi era nessun pericolo, era solo molto gonfia dalla fatica sopportata. Mi chiese cosa era successo in faccia, gli risposi che non ero sicuro se, era stata la caduta nel burrone o schegge di una bomba a mano. Aprì la valigetta, tirò fuori gli attrezzi e incominciò con una buona lavata disinfettante, e mi ha fatto, nuovamente rivedere le stelle.

Erano piccolissime schegge di

bombe a mano, ma


saranno state centinaia, con le pinzette e con

l’aiuto di una ragazza, ci ha impiegato qualche

ora per toglierle tutte, meno due che ancora oggi, sono visibili a ricordo sotto la cute, una, vicino all’occhio sinistro e l’altra sul dorso della mano sinistra. Passò poi alla gamba e si accorse che, sull’osso della rotula, sotto il primo strato di carne vi era una pallottola spiaccicata, che probabilmente, dopo aver picchiato sulle pietre della strada mi aveva colpito di rimbalzo al ginocchio. Dopo una piccola incisione e una rigida fasciatura, mi disse; vai, sei come nuovo. Ma, al mattino dopo la gamba era ancora gonfia che sembrava un salsiccione, dovetti stare, nel rifugio dell’Alfeo, che ho già descritto, per circa una settimana.

Quindi, tornato al distaccamento che,

nel frattempo si era spostato verso l’Antola. Ho continuato la mia guerra. Ma, finché siamo in zona Vi voglio raccontare un altro fatto tremendo. Vi ho gia parlato delle battaglie d’agosto in val Borbera, dei feriti che abbiamo dovuto lasciare al nemico.

Bene attorno al venti di agosto 1944, in pieno rastrellamento, un gruppo di alpini della

Monterosa, nostri nemici; raccoglievano una decina partigiani feriti, li medicavano alla meglio e se li portarono appresso, con barelle posticce di frasche, fino a Zerba.

Lì arrivava la strada

carrozzabile e lì s’incontrarono con i fascisti di Gimelli, che erano motorizzati e arrivavano, attraverso la val Trebbia, da Genova.

Con il raggiro di portarli all’ospedale di Genova, per

curarli essendo motorizzati se li fecero consegnare dagli alpini. Già, da quella notte li lasciarono sulle loro barelle all’addiaccio, la gente ha sentito i lamenti per tutta la notte.

Al mattino seguente li caricarono sul mezzo, con calci e pugni e li portarono

fino a Cerreto, che dista un paio di chilometri, li buttarono giù come sacchi di carbone in una piazzola vicina alla strada, e

gli scaricavano addosso un “quintale” di bombe a mano e

sventagliate di mitra, trucidandoli in quella maniera, dopo averli interrogati fino all’ultimo respiro. Avendo saputo che il più alto in grado si chiamava Chicchirichì (nome di battaglia -Arzani il su nome.)

Gli appuntarono, addosso, un cartello non la scritta; “Chicchirichì non canta più”,

aggiungendo che, se saranno rimossi prima di dei tre giorni, sarà bruciato il paese.

Ecco

signori; questo era Gimelli, il torturatore della casa dello studente a Genova, e questi erano i fascisti che avevano governato l’Italia per un ventennio.

Fine


FA’ O SIGNORE CHE IO NON DIVENGA FUMO, FUMO CHE SI DISPERDA IN QUESTO CIELO STRANIERO, MA RIPOSARE IO POSSA LAGGIU NEL MIO PICCOLO CIMITERO, SOTTO LA TERRA DELLA MIA TERRA IL MARE MI CULLERA’, IL VENTO MI PORTERA’ I PROFUMI DELLE RIVIERE E SARA’ LA PACE Liliana Millo – Auschwitz 1943—45 poeta.


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