BISAGNO

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DARIO REBOLINI

BISAGNO


Siamo nel 1942, al Liceo D’Oria di Genova. L’Italia è in guerra da più di due anni e gli

italiani non ne possono più. Dopo l’alleanza con il nazismo e la conquista di quasi tutta l’Europa e l’Africa, gli eserciti dell’asse incominciano e cedere. Dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti, dell’Inghilterra e la Russia, le cose incominciano a cambiare. I russi, dopo aver avuto le armate italo tedesche alle porte di Leningrado rilanciano l’offensiva e con milioni di morti riescono a mettere in fuga le armate del terzo Reich. Gli americani in poco tempo sbarcano su quasi tutta l’Europa e gli italiani antifascisti, iniziano ad organizzarsi. Al liceo D’Oria c’è un giovane di famiglia tradizionalmente socialista, ha diciotto anni e lo chiameremo Giulio e sta per diplomarsi con la maturità classica. E’ un ragazzo molto intelligente e studioso, e anche di una certa prestanza fisica dove le ragazze gli sciamano intorno come vespe. Ha una fidanzata che si chiama Lipsia e che frequenta la quinta ginnasio e si vogliono molto bene. Alla visita di leva, che era stato sottoposto qualche mese prima lo avevano fatto idoneo e assegnato alle truppe alpine, ma aveva ottenuto il rinvio alla chiamata alle armi per ragioni di studio. Il fidanzamento prosegue tranquillamente com’é di regola fra due innamorati di quell’età, dove ci si esterna dal mondo e ci si giura fedeltà e amore eterno. Il nostro giovane da qualche tempo ha iniziato a frequentare ambienti antifascisti, dove clandestinamente si facevano progetti da mettere poi in pratica, preparando il terreno per una prevedibile capitolazione del fascismo. Si preparavano manifestini e si facevano arrivare nelle fabbriche, dove si riteneva vi fosse un terreno più fertile per allargare la conoscenza a più italiani possibili. Insomma si cospirava contro il fascismo che ci aveva portato in questo tremendo conflitto, dove, oltre alle tragedie dei fronti con migliaia di morti dei figli più giovani e sani che la patria aveva. Non vi era più alcuna libertà, bastava respirare socialista che ti trovavi al confino o in galera. Naturalmente quando due si amano a quell’età si confidano quasi sempre anche i segreti quotidiani che ti possano capitare. Un giorno gli arriva la cartolina rosa di richiamo alle armi, pensa ad un errore del Distretto e va per sentire e chiarire, avendo avuto il rinvio per studi. Al Distretto non ne vogliono nemmeno sentire parlare, il sergente dell’ufficio matricola gli strappa, con disprezzo il permesso di rinvio e gli fa un foglio di via per il terzo reggimento Alpini a Mondovì, con partenza immediata e con accompagnamento dei carabinieri al treno. Neanche ha potuto salutare la famiglia e la fidanzata. Arriva al reggimento e lo mettono sotto da mattina a sera per un allenamento martellante, causa la oramai prossima partenza per la Grecia. Dopo venti giorni, si trovava già sul fronte greco e in tutti questi giorni non gli hanno permesso neanche una telefonata a casa, con la scusa della segretezza dall’operazione, non lo hanno fatto andare in libera uscita neanche un’ora. Sembrava che tutti sapessero della sua militanza nella cospirazione segreta. Dopo due mesi la sua famiglia riceve una cartolina da un’isola della Grecia, dove dice che la vita è durissima ma che spera di riuscire a superare anche questo brutto momento e che in ogni modo spera che la guerra finirà presto e ci rivedremo. Questa è stata la prima e l’unica cartolina ricevuta, sino alla fine del 1943 quando gli arriva una missiva del Ministero della Guerra e dove gli si dice che è considerato


disperso dall’autunno del 19942, con morte presunta in una famosa battaglia in acque territoriali Greche e dove è stata recuperata, sulla nave affondata, la sua piastrina di riconoscimento.

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Questi si disperano, fanno informazioni presso il comando di questo Reggimento,

presso tutte le capitanerie dei porti ma niente, non risulta da nessuna parte. Intanto arriva il 25 luglio e la caduta del fascio, l’otto settembre con la capitolazione del nostro esercito e la fuga dei Savoia a Brindisi con gli americani, e inizia la resistenza. Molti dei soldati che si sono trovati senza ordini, in balia di se stessi,hanno tentato una qualche resistenza contro i tedeschi, ma furono quasi sempre sopraffatti e qualche volta anche trucidati come i più di duemila che furono fucilati proprio in Grecia. Altri magari già un po’ più politicizzati, nascosero le armi e cercarono di tornarsene a casa, ma molti di questi furono razziati dai tedeschi e portati Germania nei campi di lavoro. Una parte di questi, sopratutto nell’alt’Italia, sentito l’odore di quel che stava succedendo si diedero alla macchia. Nell’ottobre del 1943 già molti gruppi si erano formati in tutte le vallate, dagli Appennini al Piemonte e alla Lombardia. Mentre nelle città, erano nati i comitati di liberazione nazionale, e raccoglievano fondi da inviare a questi gruppi che continuavano ad aumentare, fino ad arrivare nella primavera del 1944 a qualche decina di migliaia. Intanto i tedeschi liberarono Mussolini da Campo Imperatore, dove l’aveva fatto imprigionare il Re dopo il suo arresto il 25 luglio, e lo rimisero al comando della ciurma della famosa repubblichetta di Salò. E quì inizia la più grande tragedia che nessuno si sarebbe mai immaginato. Incomincia la caccia agli antifascisti e sono trucidate famiglie intere, solo perché vicine di casa e non simpatici. Si torturano gente solo perché la portinaia le indicava come antifasciste. A Genova vi era la famosa casa dello studente, dove nei fondi del palazzo erano state costruite delle celle con tutta l’attrezzatura per le più atroci sevizie. Quando uno usciva da li, vi erano solo due strade; o al manicomio o a Staglieno. Intanto in montagna ci si organizzava; gli americani e gli inglesi avevano paracadutato diverse loro missioni per tenere i collegamenti e chiedere aiuti attraverso i lanci. L’estate del 44 la val Trebbia e le valli limitrofe erano completamente libere, sia da fascisti che da presidi di carabinieri, i quali carabinieri il novanta per cento si sono aggregati ai partigiani portando anche un prezioso contributo d’armi, esperienza e organizzazione. Tanto che molti di loro hanno ricoperto, nella resistenza, cariche di comando prestigiose. Eravamo quasi tutti in divisa kaki americana. Nei comuni si erano già istallate le nuove giunte col loro Sindaco liberamente elette, si pensava oramai di trasferire questi esempi di democrazia nelle nostre città, si tenevano conferenze frà gli abitanti, si erano aperti i negozi, i bar e tutto quanto funzionava a meraviglia, i ragazzi tornavano a scuola. A Bobbio era nata la Repubblica di Bobbio e dove si stampava il “Partigiano”, uno dei primi giornali liberi da censure e da qualsiasi altro controllo. A Torriglia era nata anche qui la repubblica di Torriglia, anche se nella periferia di questa cittadina vi era un presidio di tedeschi asserragliati nella colonia di Torriglietta in mezzo à un campo minato. Intanto questo ragazzo non era morto, ma aveva perso totalmente la memoria, e


quindi era finito prigioniero degli inglesi, e dopo aver girato per tutta l’Africa, sentendolo parlare italiano, lo spedirono in Sicilia con lo sbarco e lo lasciarono libero.

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Non ricordava quasi nulla del suo passato, era normalissimo per quanto riguarda il

presente, solo qualche volta gli veniva in mente, molto bene, un volto di ragazza che baciava e stringeva, ma nient’altro, non riusciva a mettere a fuoco nè, dove si trovasse nè, chi era questa ragazza. Sentiva dal suo accento che doveva essere un ligure, o quantomeno dell’alt’Italia. Si mise in cammino munito di cartine geografiche, e dopo aver superato il fronte e scartato ogni possibile imboscata tedesca arrivò a Piacenza. Aveva già sentito e letto che la val Trebbia era occupata dai partigiani, dei quali aveva, nel sub cosciente, una venerazione e voleva partecipare inserendosi fra loro. Arriva a Bobbio e trova il primo comando della divisione “Giustizia e Libertà” di Fausto e si arruola. Per arruolarsi nei partigiani non c’era bisogno di nessun documento, ti chiedevano solo quale nome di battaglia volevi scegliere e basta, con quel nome arrivavi fino alla liberazione senza che nessuno potesse sapere che eri e da dove arrivavi. Dimostratosi quasi subito uomo di grandi capacità organizzative e di un coraggio non comune, dopo un paio di mesi fu fatto comandante di una compagnia di “Giustizia e Libertà”. Intanto studiava le cartine della valle e leggeva il Partigiano, che era stampato proprio lì a Bobbio da Marzo e da Bini. (Nome di battaglia del commissario politico, della divisione Garibaldina CICHERO, che operava da Bobbio in su, arrivando sino alla periferia di Genova e attraverso l’occupazione delle vallate limitrofe, come la valle dell’Aveto sino a Chiavari e la Borbera, sino a Serravalle ed Arquata Scrivia. Un giorno va a far visita alla redazione del giornale e conosce questo Marzo, gli parla dei Garibaldini, di tutto quello che fanno, di come sono organizzati e gli parla sopratutto di Bisagno, il comandante della Cichero che contava a quella data già più di tremila uomini, suddivisi in sette Brigate e a sua volta in una trentina di distaccamenti. Continuano a vedersi, sia in redazione che al bar della piazza, parlano a lungo dei progetti per l’avvenire, di portare quest’esempio di democrazia in tutto il territorio Nazionale, sente che parla il ligure come lui e non lo molla più. Marzo è un uomo politicamente molto preparato ma anche molto colto, gli racconta tutta la sua guerra di Spagna contro il franchismo, dei rischi che ha passato e delle ferite riportate, parlano del C.N.L. di Genova (Comitato Nazionale di Liberazione), delle personalità che nè fanno parte; (ex generali delle forze armate, ufficiali dei carabinieri e della guardia di finanza, e poi tutta una sfilza di personalità civili e, funzionari statali e sopratutto autorità portuali). Gli parla dei G.A.P. (Gruppi armati partigiani), che operano in città, con atti di sabotaggio e imboscate ai fascisti, delle fabbriche genovesi quasi tutte antifasciste e organizzatissime nel sabotare le produzioni che agevolano i tedeschi e la guerra. Insomma non riacquista la memoria ma sente che deve trasferirsi da quelle parti, gli sembra che forse lì potrà trovare qualcosa che lo possa aiutare a sapere chi è. Prende accordi da Marzo, si congeda da Fausto e si presenta al comando della Divisione Cichero da Bisagno, che era all’epoca a Propata. Parla con Bisagno gli racconta la


sua storia, che non conosceva ancora nessuno, Bisagno l’ascolta con molta attenzione a poi gli chiede se vuole rimanere lì al comando per qualche tempo, in modo da impadronirsi della situazione e poi decidere in qualche maniera.

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Bisagno se lo porta appresso in tutti i distaccamenti che lui visitava continuamente, per

la tranquillità degli uomini e il controllo dell’organizzazione. Lo portava anche alle riunioni che ogni tanto si faceva con tutti i comandanti di brigata e qualche volta anche al comando Zona, (che era la sesta Zona operativa e dipendevano da questa, tutte le formazioni d’ogni idea politica e ogni colore, che operavano; dalla Spezia fino a oltre Savona e fino alla pianura Padana. Nel frattempo aveva conosciuto molto bene Croce, comandante della Brigata Jori, ex ufficiale dei carabinieri, ed erano diventati molto amici. Intanto la sua famiglia, perseguitata dai fascisti ha dovuto far perdere le tracce, rifugiandosi in montagna e cambiare nome. Suo padre era stato eletto dal C.V.L. (corpo volontari per la libertà), Comandante supremo delle forze partigiane della Liguria, e membro di diritto presso il C.L.N. alta Italia. Ma lui non ne sapeva niente. Non sapeva neanche di avere una famiglia. Dopo qualche tempo Bisagno gli dice che dovevano creare una nuova Brigata e quindi decidevano di assegnarla a lui come comandante, sperando che accettasse. In una riunione dei comandanti della Cichero era stato proposto e votato all’unanimità come comandante. Accetta e lo trasferiscono con questa Brigata che fu chiamata Grecia, a cavallo della valle D’Aveto, verso il versante genovese. Era una zona di prima linea, gli scontri con i fascisti di Chiavari, (Spiotta e simili), erano giornalieri e qualche volta anche molto cruenti. Un giorno cade in un’imboscata e si trova accerchiato completamente da forze preponderanti nemiche, dopo una giornata e una notte d’angoscia, con aspri combattimenti con morti e feriti e senza uno spiraglio d’uscita, ricorda un episodio di guerra già vissuto, il quale gli suggerisce una possibile scappatoia per la salvezza. Non ricorda dove lo ha vissuto, ma gli si presenta sempre più chiara e limpida la strategia che dovrà adottare. Tiene un breve conciliabolo con i suoi uomini e poi lo mette in pratica; si trattava di aprire il fuoco verso la parte a monte, con tutte le armi pesanti disponibili, mentre la maggior parte degli uomini della Brigata si sarebbero defilati attraverso un piccolo torrentello, nascosti dalla vegetazione e in un secondo tempo, con un ampio giro, si sarebbero portati alle spalle del nemico, iniziando il fuoco come se fossero arrivati nuovi rinforzi. Infatti; dopo circa una mezz’oretta si sente le raffiche di sten, che loro conoscevano bene, sù in alto, alle spalle del nemico, il quale come si sperava si è ritirato immediatamente salendo sui suoi furgoni e lasciandoci libera la parte per ripiegare e salvarci. E’ stato il primo combattimento importante come comandante di Brigata, i feriti erano una decina ma tutti senza gravi conseguenze o mutilazioni, i morti, purtroppo erano due dei ragazzi più giovani, che sono stati colpiti da una granata da mortaio. Rientrando in zona, nella notte seguente, mezzo in sogno e mezzo sveglio, cominciava a ricordare qualcosa di questo combattimento. Si trovava su una nave militare vicino ad una costa, la quale era chiusa in mezzo da altre due navi nemiche con


un cannoneggiamento micidiale e continuo, mentre dalla costa un fuoco altrettanto accanito non gli permetteva nessuna via di scampo. La nave stava bruciando, il comandante del reparto, che non era il comandante della nave, diede ordine ai suoi uomini di calarsi con le scialuppe di salvataggio e di guadagnare la riva, sotto la copertura di un fuoco continuo dalla nave per proteggerli nello sbarco.

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L’operazione è riuscita abbastanza bene, il gruppo di partigiani, forse greci che

sparavano dalla riva si sono dileguati, la nave è riuscita a raggiungere la costa e sbarcare tutti i marinai e gli alpini che erano a bordo, prima di essere divorata dal fuoco e inabissarsi completamente. Non riusciva ad andare oltre a quel ricordo. Intanto arrivano notizie che, tutto intorno ai nostri fronti, dalla Spezia fino ad Alessandria e lo stesso dalla parte della Padana, si stanno concentrando molte divisioni alpine provenienti dalla Germania e agli ordini sempre dei tedeschi, con l’intenzione di operare un grosso rastrellamento e liberare definitivamente tutte queste valli invase dai “ribelli” (banditen). Che, rappresentano un grave pericolo per l’eventuale intralcio alla loro quasi prevista ritirata dal fronte, verso il nord. Erano un paio di brigate alpine e un’altra di bersaglieri, formate e addestrate in Germania, erano tutti i renitenti alla leva e tutti gli altri razziati in tutta l’alta Italia e spediti nei campi di lavoro, e ora con la promessa che, gli avrebbero rimandati in Italia avevano aderito in massa. Verso la fine del mese di luglio 1944, iniziano gli attacchi in quasi tutti i fronti contemporaneamente. La brigata Monterosa che sarà quella che maggiormente impegnerà la nostra zona operativa, incomincia con delle puntate robuste in tutto il territorio. Attaccano da Chiavari, dalla val Bisagno, dalla Borbera e dall’altra parte, su tutto l’oltre Po Pavese e Piacentino, una specie di largo accerchiamento di tutta la nostra zona. Noi resistiamo per una quindicina di giorni, con gravi perdite e consumo di munizioni. Il nostro fronte specifico va dai monti della Scoffera a quelli della val D’aveto e comprende tutta la valle della Fontanabuona. Alla nostra sinistra, verso il levante abbiamo la Brigata Caio, e sulla destra, verso la valle del Bisagno, abbiamo la Matteotti di Giustizia e Libertà. Dopo una decina di giorni di aspri combattimenti s’incomincia a capire che non potremo resistere più a lungo, dalla valle Trebbia gli Alpini hanno sfondato e sbaragliato, la divisione G.L. di Fausto e stanno già attaccando le nostre prime postazioni a Marsaglia, dove rispondono ancora bene le Brigate Berto e la Jori. Dalla valle Staffora la Brigata Aliotta dell’Americano viene sconfitta e tutti gli uomini arrivano in val Trebbia stracciati, feriti e completamente disarmati, creando enormi problemi logistici anche per la carenza di cibo, che non bastava già a noi. Gli unici che ancora tengono sono quelli della val Borbera, soprattutto, le brigate Oreste e l’Arzani che erano le brigate meglio armate, con armi pesanti e molte munizioni. Ma le battaglie di Cantalupo e di Rocchetta finiscono per indebolire anche loro, gli Alpini non mollano, ogni giorno ritirano le truppe del giorno prima e ne mandano avanti sempre delle nuove, hanno cannoni e carri armati, ma sopratutto hanno le munizioni che a noi stanno per finire. Dopo una quindicina di giorni dal primo attacco, anche noi riceviamo l’ordine di ripiegamento, si doveva seppellire o in ogni


modo nascondere le armi pesanti, convergere tutti nella zona dell’Antola, per poi dividersi a gruppi e cercare di sopravvivere per la durata del rastrellamento che si prevedeva di una settimana al massimo o poco più. In questo periodo di sbandamenti, parecchi partigiani cadono in mano agli alpini e sono fatti prigionieri, e quasi sempre, mandati a Genova, per essere torturati e quasi sempre fucilati.

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Al comando del battaglione alpini Vestone, vi erano due gerarchi fascisti camuffati da

ufficiali degli alpini, e appena arrivava un prigioniero veniva subito interrogato da loro, se poi ritenevano che poteva dare notizie importanti lo inviavano alla casa dello studente a Genova per farlo “cantare” Il nostro Giulio un giorno gli capita di incontrare a pochi passi una squadra di alpini, apre il fuoco, ma per sua fortuna lo sten si inceppa e gli salva la vita, non costringendo gli alpini a far fuoco sù di lui. Viene fatto prigioniero e viene mandato a Genova e finisce alla casa dello studente, dove venivano torturati i nemici del fascismo e quasi tutti poi fucilati. Avevano attrezzato una sala torture da far invidia a quelle delle S.S. tedesche. Iniziavano subito con un primo sacco di botte che ti massacravano, poi se ne andavano e ti lasciavano li legato. Il giorno dopo proseguivano con lo strapparti le unghie dei piedi, poi l’elettroshock ai genitali e infine il laser negli occhi che ti rendeva completamente ceco. Questo trattamento completo durava almeno due o tre giorni,mentre rimanevi legato ad un tavolo appositamente attrezzato, legato mani e piedi finché rantolavi. Difficilmente uno resisteva a tutto questo, ma anche se avesse resistito lo avrebbero finito lo stesso, non lasciavano testimoni in giro. Al forte dei Ratti sopra Quezzi, vi era un manipolo di specialisti antiaerei che avrebbero dovuto avvistare gli aerei in arrivo e dare l’allarme in Città, ma facevano ben altro. Preparavano le fosse nel terreno circostante al forte, per seppellire i morti della casa dello studente, che nella notte venivano trasportati lì e buttati dentro, e si diceva;...qualcuno ancora vivo. Dopo un paio di giorni viene portato in una stanza che conteneva un paio di scrivanie dove erano seduti due giovani, un maschio e una femmina, ma il maschio con una divisa di alto gerarca fascista. Quelli che l’accompagnano, aprono la porta e lo spingono dentro ammanettato e richiudono la porta alle spalle. Lui rimane lì in piedi aspettando che gli altri alzino la testa e gli dicano qualcosa. La prima ad alzare la testa, e la ragazza, la quale, a questa vista rimane bloccata e diviene paonazza. Lui la riconosce come viso ma non sa chi è, per un attimo ha sperato che si sarebbe svelato il suo mistero. E’ rimasto lì con la bocca aperta per chiedere qualcosa ma la voce non usciva, lei intanto si è alzata è s’è girata verso la finestra, cercando di prender tempo e pensare come comportarsi, anche perché quell’altro gerarca dell’altra scrivania era il suo fidanzato e promesso sposo, dai suoi genitori. Non sapendo che questi aveva perso la memoria, pensava a quello che poteva succedere se avesse, come lei pensava, saputo e spiattellato tutto davanti al suo fidanzato. Finalmente questi si alza, lo fa venire avanti due passi, gli fa un giretto intorno e gli dice se lo sa che sarà fucilato al più presto, per insurrezione armata contro lo stato. Lui non risponde,


l’altro gli molla un ceffone in faccia che quasi lo fa cadere, chiede di poter parlare con la ragazza che era sempre voltata verso la finestra, questa si gira lo guarda e muove la bocca per dire qualcosa ma anche a lei non escono le parole. In quell’attimo si ricorda che non solo quella faccia non gli è nuova, ma gli sembra anche molto famigliare, così gli chiede se lei lo conosce e se lo può aiutare, ma non intendeva, essere aiutato in quel frangente, ma solo sulla sua identità.

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Questa sbianca in faccia come un cadavere, e con un filo di voce a stento riesce a

dire che si sbaglia, che non l’ha mai visto, che forse assomiglierà a qualche altra persona che lui ha conosciuto, e cerca anche di farglielo capire con una specie di ammiccamento degli occhi. Naturalmente lui non capisce e non insiste, è maltrattato da quest’altro e rimandato in cella con l’avviso che si prepari a parlare altrimenti lo costringerà. Al mattino seguente la ragazza che si chiama Lipsia, chiede al suo fidanzato che gli piacerebbe vedere le celle dei prigionieri che non le aveva mai viste, lui chiama una guardia e la fa accompagnare, fa il giro di un paio di celle poi incontra quella giusta, non si ferma ma va oltre, poi chiede alla guardia che gli è sembrato di aver visto una persona che conosce, “un attimo che mi accerto e vengo subito”, faccia pure signorina intanto io mi fumo una sigaretta. Si accerta il numero della cella e gli sussurra, stai tranquillo che ci rivedremo. II suo fidanzato gerarca era in definitiva il capo dei torturatori ed aveva la chiave del quadro dove vi erano depositate tutte le chiavi d’emergenza delle celle. In un attimo di disattenzione si è appropriata la chiave giusta e appena ha sentito che sarebbe sceso nelle prigioni perché doveva veder qualcuno dei nuovi arrivati, ha chiesto di accompagnarlo. Facendo finta di curiosare si è avvicinata a quella cella e si è spaventata, non lo riconosceva più, tanto era stato conciato. Gli ha passato la chiave e un grosso tagliacarte che aveva preso in ufficio e nascosto in seno, dicendogli che dopo la mezzanotte rimaneva una guardia sola e doveva far presto perché rischiava la fucilazione al forte dei Ratti, e che era già stata programmata fra qualche giorno. “”La notte stessa colpisce la guardia con il pugnale, la disarma e la lega imbavagliata nella sua cella con del nastro adesivo che veniva usato per non far gridare i prigionieri dopo averli torturati e perché non si lamentassero nella notte, e non disturbassero la guardie fasciste. Si veste con gli stessi abiti e se ne va con le armi della guardia. Prende per i monti e all’alba si trova già sulla cima del monte Fasce dove un pastore gli indica la strada per arrivare dalle parti di Torriglia. Aveva bisogno di essere medicato, ma voleva farlo più in alto dove in qualche paesino sperava di non incontrare alpini o fascisti che erano ancora da tutte le parti. Intanto pensa a quella ragazza, non ricorda niente, oltre a quello che abbiamo già detto, dovrà tornare a cercarla perché sente che è l’unica che lo potrà aiutare nei suoi ricordi e a conoscere la sua identità. Intanto giù alla casa dello studente, sono quasi sicuri che sia stata lei a farlo evadere, ma fin’ora si è sempre salvata perché figlia di una grossa sciarpa Littorio, persona intoccabile da qualsiasi punto di vista, ed è fidanzata del capo indiscusso di quella prigione-tortura. Lipsia pur non sapendo ché ha perso la memoria, e che quindi avrebbe


potuto non dirgli tutto quello che era successo prima della sua partenza urgente per il fronte. Dirgli che era stato suo padre che, appena avuto sentore che si volevano bene e sapendo che era un cospiratore, l’ha fatto spedire direttamente al fronte, ma non solo, costrinse i suoi genitori a far perdere le loro tracce, pena la deportazione nei campi di sterminio. Aveva saputo anche, attraverso amici della famiglia, della sua morte presunta. Così si era messa il cuore in pace, pur facendo una grande fatica a dimenticarlo.

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Ora avendolo rivisto non voleva più perderlo, era disposta a fare qualsiasi cosa,

avrebbe raccontato tutto ed era sicura che lui avrebbe capito e perdonato, anche perché lei non aveva colpe ma anzi, era stata lei stessa una vittima della follia dei suoi genitori. Non riusciva più a vivere, voleva sapere da dove poter cercarlo, ha trovato qualche indizio da quelli che l’avevano incarcerato,è riuscita a sapere che era stato catturato in val Trebbia. Intanto il rastrellamento era finito, vi erano ancora rimasti un paio di presidi nel fondovalle per cercare di tener libera la statale 45 Genova- Piacenza, ma tutte le brigate erano tornate nel pieno del suo assetto ed erano in grado di tener sotto pressione questi presidi, costringendoli all’immobilità dentro ai loro fortini. Un mattino decide di partire per Torriglia, arriva e trova ancora la cittadina piena di alpini e fascisti, fa qualche ricerca ma nessuna notizia di quel partigiano. Un po’ si spaccia per la sorella un pò per la fidanzata, finalmente gli viene indicato un distaccamento di partigiani sulle alture dei monti alle spalle di Torriglia. Era un distaccamento della Jori che presidiava la galleria di Garaventa, sullo sparti acque frà la valle Trebbia e la valle del Bisagno o Scrivia. Si presenta e chiede di un partigiano che gli è molto amica e vorrebbe entrare nella resistenza con lui, perché lo conosce molto bene e si fida totalmente. Però, se lì qualcuno lo conosce, lo conosce sotto il nome di Giulio, il suo cognome vero nessuno lo sa, in più non sa nemmeno dire che grado ricopre, in che Brigata è, sa solo descriverlo sommariamente nel fisico e non sa altro. Chiede di essere arruolata nei partigiani ma le dicono che, se vuole fare la partigiana dovrebbe andare a Propata dove vi è il comando Divisione e vi sono altre donne partigiane, loro non la possono tenere senza autorizzazione del comando. Lipsia non sa dove dormire è stanca per arrivare a Propata, chiede il ricovero per quella notte, gli trovano una stanza presso una famiglia di Garaventa e il giorno dopo arriva al comando Divisione. Qui forse individuano il personaggio, sentendo raccontare della casa dello studente, la fanno parlare con Bisagno in persona che capisce subito che è lui, ma ora non c’è, è ritornato a Genova per una questione personale. Ma tornerà? Si spera di si, a meno che non si rifaccia beccare da quelli della casa dello studente, e sarebbe atroce, essendo già stato condannato a morte all’attimo della cattura e del riconoscimento. Si, so tutto,risponde lei. A questo punto non sa più cosa fare, tornare a Genova e cercarlo nei pressi della casa dello studente o attendere che possa ritornare e raccontargli tutto?. Chiede di conferire nuovamente con Bisagno e gli chiede consiglio, gli racconta tutto di lei, dei suoi genitori, ma sopratutto di suo padre, di quello che ha fatto a questo ragazzo e


alla sua famiglia, di quello che rappresentava nel partito fascista e di tutte le canagliate che venivano praticate alla casa dello studente contro i nemici del partito e non solo. Bisagno non le racconta della perdita della memoria, ma la conforta dicendogli che è tornato a Genova sicuramente per una ragazza, e ora crede di capire che fosse lei. Quindi gli consiglia di attendere fiduciosa che ritornerà, o che, in ogni modo farà avere sue notizie attraverso il C.L.N. di Genova. In ultimo, ora, non potrebbe più andarsene dopo la confessione testé fatta, anzi se si sposterà dal comando dovrà avere un nostro pass, se no potrebbe rischiare di essere confusa come una spia e subirne la conseguenze.

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Riguardo all’altra questione che vuole arruolarsi, è meglio che aspettiamo il suo

ritorno, intanto potrà svolgere qualche mansione qui al comando, insieme alle altre donne partigiane che sono molto utili e brave. Lui arriva a Genova e conoscendo oramai l’organizzazione cittadina del C.L.N. Sa come può trovare e dove sono i punti d’incontro e d’aggregazione. Si fa riconoscere e ce già qualcuno che è informato della sua storia, gli da informazione su quella ragazza che lo ha fatto fuggire, gli dice che è sparita da una decina di giorni, non sanno se sia stato il padre a nasconderla o se sia fuggita per la paura di essere incolpata con tutte le conseguenze che avrebbe comportato un atto di questa portata, dalla figlia del federale. -- Rimane a Genova, ancora qualche giorno, appostandosi con un compagno nei pressi della casa dello studente, sperava di rivederla transitare. Altri due giorni gli ha passati davanti alla residenza del federale, con binocoli per spiare il giardino e sopratutto le finestre, ma, anche qui non successe nulla, decise di ritornare in val Trebbia. Nel frattempo Lipsia riceve al comando partigiano, una spiata che non sa bene da dove arrivi, un biglietto dove gli è detto che l’uomo che cerca e prigioniero dei tedeschi a Torriglia e che lei potrà intervenire per salvarlo, basterà che si faccia conoscere per ottenere la sua liberazione. Questa non sta tanto a pensarci due volte prende e se ne va. Dopo fatti pochi passi viene raggiunta da un contadino in bicicletta che gli offre un passaggio in canna verso Garaventa e perciò in direzione di Torriglia. Lei tentenna un po’, ma quando sente i chilometri che dovrà fare per raggiungere Torriglia si lascia convincere e sale. Arrivano nell’ultima salita prima della galleria e fanno quest’ultimo tratto a piedi, superano la galleria stessa senza trovare nessun posto di blocco, ma dopo trecento metri, scendendo verso Torriglia, una squadra di fascisti li blocca, l’incerottano la bocca e la portano via. Da quel momento non si sono più avute notizie, il contadino sicuramente non era tale, il posto di blocco non c’era perché avevano notato qualche movimento sospetto e cinquecento metri da loro sulla costa a sinistra, che poi si è rivelato anche questo una farsa per distrarli e liberare il passaggio in galleria. Sicuramente era stata un’azione voluta e organizzata da suo padre, perché Giulio non era mia stato preso dai tedeschi ma era ancora a Genova. E probabilmente ora la terranno segregata in qualche castello-prigione, guardata a vista in attesa che si calmino le acque. Questo fatto del rapimento sì è saputo solo perché un contadino vero, aveva assistito mentre tagliava il


fieno e vide tutto, compreso quell’uomo con la bicicletta, che dopo un attimo era in divisa da fascista anche lui e sparivano, tutti insieme, su di un autocarro parcheggiato cinquanta metri più in giù. Arriva Giulio al comando, Bisagno gli racconta tutto e lui è costernato, non si da pace, l’unica persona che potrebbe aiutarlo a cercare la sua identità non riesce ad incontrarla, sembra che un destino infame ci si mette sempre in mezzo e fa ogni volta fallire tutto. Ritorna al comando della sua Brigata, più o meno nella stessa zona che già conosciamo, e cominciano gli scontri giornalieri con i fascisti di Chiavari al comando del famigerato Spiotta. (Che poi alla fine della guerra sarà fucilato proprio al forte dei Ratti a Genova, con Gimelli e una dozzina di altri gerarchi).

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Durante la giornata non vi è molto tempo per pensare alle faccende personali, ci sono

molti altri problemi più grossi è urgenti. C’è sopratutto il problema di non farsi mai sorprendere e rischiare la pelle a più di trecento giovani, c’è anche il problema dei rifornimenti logistici, non si riesce a mangiare tutti i giorni, si sono perdute molte armi e munizioni durante il rastrellamento, si spera nei lanci degli americani che tardano. Le loro missioni presso i nostri comandi non sono ancora riuscite a ristabilire tutti i contatti e designare le varie zone per i lanci, senza rischiare che finiscono in mano al nemico. Ma alla notte Giulio non prende sonno, capisce che non può andare avanti cosi, per superare questa tremenda angoscia decide di passare le notti nelle postazioni di guardia con i suoi partigiani, così quando è proprio sfinito riesce a dormire qualche ora. Piano. piano cerca di allontanare questo ricordo e viene aiutato in questo dalla ripresa repentina delle azioni partigiane contro i presidi degli alpini che erano rimasti in zona. Si sono ripresi i lanci di materiali bellici ma anche di vestiario e vettovagliamento, La brigata Grecia si era molto ingrossata, superava abbondantemente i quattrocento uomini. Dalla città continuavano ad arrivare giovani studenti inviati dai comitati delle università, e dagli stabilimenti arrivavano anche molti soldi raccolti dagli operai con gigantesche collette in tutta la città. Ce stato un periodo che eravamo euforici, la divisione Cichero essendosi ingrandita enormemente decise di sdoppiarsi, creando la Pinan Cichero, con le due brigate che operavano il valle Borbera e limitrofe, la Arzani e la Oreste. Gi armamenti incominciavano ad essere cospicui e funzionali, non avevamo carri armati, ma mortai da 81, mitragliere pesanti e sopratutto avevamo i bazuca. -- Un’arma questa, stupenda; un metro circa di tubo molto leggero che, chiunque lo poteva portare e con dei proiettili capaci di perforare la corazza di un carro armato. Intanto in val Trebbia la Brigata Jori martella continuamente ai fianchi il battaglione Vestone che era il battaglione degli alpini che dopo il rastrellamento si era installato nel castello Centurione di Gorreto. Erano mille uomini ben armati e ben addestrati anche se non molto fedeli. Ogni qualvolta venivano attaccati dai partigiani, vi era una emorragia di disertori che passavano nelle nostre fila portando armi e informazione precise, tanto che noi, usando la loro parola d’ordine gli portavamo via le sentinelle senza colpo ferire. Dopo un paio di mesi di queste diserzioni, una nostra pattuglia in possesso delle parola d’ordine, s’inoltra nel castello, sequestra


l’attendente del maggiore Paroldo, comandante del battaglione, che dormiva nella stanzetta accanto a quella del maggiore. Il maggiore subito “s’incazza”, ma poi gli prende la paura, come è successo al suo attendente poteva succedere a lui, non vi sarebbe stato,oramai, più nessun ostacolo. Dopo una decina di giorni riesce a stabilire un contatto con i partigiani e offre i cinque partigiani che erano suoi prigionieri in cambio del suo attendente. Si va a parlamentare, si prende l’appuntamento per lo scambio a poche centinaia di metri dal castello, ma quando ci si presenta per la scambio l’attendente non vuole più essere scambiato. Gli sono bastati dieci giorni per capire che la guerra giusta era quella nostra, e ha pregato i comandanti di non scambiarlo che voleva combattere con noi. Il maggiore non ci crede, me lo avete stregato; oltre che il suo attendente era anche un suo paesano, l’aveva visto crescere e se l’era portato appresso da quando aveva preso il comando del battaglione in Germania.

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Gli voleva anche un po’ di bene perché era anche un ragazzo molto simpatico e

genuino. Una cosa come questa ha fatto vacillare di molto la fede che il Maggiore aveva verso i suoi obblighi di Salò. - Invia parlamentari, chiedendo un nuovo scambio con lui presente, si ritorna in quel cascinale dell’altra volta e ce nuovamente la stessa risposta. -- E’ vero Cattaneo che non vuoi più tornare con noi?. --Signor si Signor Maggiore è verissimo, ma cosa ti hanno fatto, ti hanno stregato?. No Signor Maggiore, mi hanno aperto gli occhi, mi hanno fatto capire che questa è la parte che merita di combattere e magari anche morire. È la parte democratica, ai miei superiori gli do del tu e mangiamo alla stessa tavola, e quando devono decidere un azione di guerra o di altro la si discute tutti insieme, e quando si deve partire per l’azione tutti voglio partecipare, alla rovescia di quanto succede da voi. “ Ogni uomo ha diritto di saper scegliere per quali idee vivere e per quali idee morire” (Giuseppe Mazzini in, Giovine Italia) Il maggiore se ne torna con le pive nel sacco, un quarto degli uomini del suo battaglione era già passato nelle nostre fila, compreso un ufficiale che era arrivato da noi nei primi giorni del rastrellamento. Passa qualche settimana e manda sù due alpini con bandiera bianca e chiedono a nome del maggiore di parlare con Bisagno. Bisagno si fa desiderare, vuole conoscere le intenzioni di questo maggiore, il quale gli fa sapere che per ragioni di pericolo non gli può anticipare nulla, ma è disposto a venire da solo e in qualsiasi posto gli verrà indicato. Bisagno accetta di incontrarsi e si rivedono nello stesso punto, del suo attendente. Il maggiore però vuole parlare da solo con Bisagno, si toglie il cinturone con la pistola e la butta per terra ai piedi di Bisagno, chiede di essere perquisito ma ha bisogno che nessuno ascolti quello che proporrà. Bisagno gli dice che per lui va bene, ma è una prassi che da noi non viene mai usata, e rivolgendosi a suoi chiede un specie di assenso a questo colloquio. Avuto tacitamente questo consenso, prende il maggiore a braccetto e si allontanano di una trentina di metri. Era successo questo; il maggiore aveva deciso di arrendersi con tutto il battaglione, ma aveva due compagnie distaccate, una a Bobbio e una a Torriglia, e quindi aveva bisogno di una settimana per farle


rientrare prima che trapelasse la notizia. Sopratutto quella di Torriglia che aveva un tenente vice comandante che era conosciuto come un fascista sfegatato e temeva qualche brutto scherzo. Infatti, il maggiore aveva parlato già con il capitano comandante la compagnia e gli aveva suggerito di allontanare con qualche scusa il tenente e quindi partire per Gorreto. Anche se questo poi, si è rivelato un errore gravissimo perchè appena le due compagnie si misero in marcia per raggiungere il battaglione a Gorreto, furono prese di mira da tutti i nostri distaccamenti dislocati lungo la valle, e non successe una vera carneficina, solo perchè gli ordini “taciuti”, erano quelli di attaccarli al solo scopo di far disertare il maggior numero possibile d’alpini, ma cercando di non fare morti. Infatti, sopratutto la compagnia che arrivava da Bobbio, è stata costretta, un paio di volte a ritornare indietro, perchè appena fuori da Bobbio veniva martellata a dovere e doveva rientrare. Questo succedeva perchè nessuno dei distaccamenti sapeva di questi accordi segreti, ma appena, al comando sono venuti a conoscenza di quanto stava succedendo, inviarono staffette a tutti questi distaccamenti e finalmente hanno potuto rientrate.

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Il giorno dopo abbiamo festeggiato la resa con l’onore delle armi e con l’obbligo di

scortare gli alpini che non erano d’accordo di combattere con noi, fino al confine della nostra zona partigiana che era la sesta zona operativa e che arrivava fino a Piacenza, ma nessuno degli alpini se ne andò. Subito in quel giorno, sul piazzale davanti al castello si è tenuta una conferenza pubblica per comunicare che il comando della Cichero si era trasferito al posto del comando dell’ex battaglione Vestone nel castello. E, tenendo conto che, gli alpini in fin dei conti hanno sempre combattuto i partigiani con lealtà di soldato, senza mai scendere in pestaggi o torture. Il comando partigiano della sesta zona, d’accordo col maggiore Paroldo e credendo di interpretare anche il consenso di molti degli alpini, promuove il maggiore Paroldo vice comandante della divisione Cichero, con il nome di battaglia -Trebbia. E lì ne è venuta fuori un’ovazione e un battimano che non finiva più. Dopo un paio di giorni, il tempo di fare una verifica in tutte le brigate e i distaccamenti della divisione sul numero degli uomini in forza, furono distribuiti tutti gli ex alpini. Un gruppo per ogni distaccamento, a secondo delle necessità e della dislocazione, tenendo presente di non dividere gli eventuali amici che componevano questi gruppi. Inoltre si sono formati due distaccamenti, tutti e solo alpini, con al comando i loro vecchi ufficiali e con il solo commissario politico preso fra le forze partigiane. --Il Vestone, e l’Alpino,-- i quali hanno avuto tempo e modo di farsi onore combattendo ancora sette mesi al nostro fianco contro i tedeschi e fascisti, sempre più agguerriti. Lipsia era stata rinchiusa nella villa dove abitavano e non l’era permesso nemmeno di uscire in giardino, gli avevano messo due camice nere delle più fidate a guardia continua. Era disperata, il suo amore per quel ragazzo si era ingigantito, odiava tanto suo padre che gli veniva persino l’istinto di ucciderlo, e l’avrebbe fatto, se solo lo avesse trovato senza guardie. “”La mamma non l’aiutava minimamente perché, oltre che essere innamoratissima, forse lo temeva anche un po’,


era in ogni modo una donna soggiogata da mio padre che sopportava anche le corna evidenti di una ragazza della gioventù italiana che gli fungeva da segretaria. La quale spesse notti dormiva nella camera degli ospiti, dove veniva visitata da mio padre, con mia madre consapevole. Era una famiglia che disprezzavo e l’avrei denunciata sicuramente ai partigiani non appena mi si fosse presentata l’opportunità. Mio padre aveva operato per un breve periodo, in qualità, di federale nella città di Cuneo, dove probabilmente aveva commesso qualche cosa di atroce, perché una sera, si presentano due ufficiali della Guardia Nazionale repubblichina, chiedendo di parlargli, li porta nello studio e dopo un attimo tirano fuori le pistole e lo ammanettano. Erano due partigiani che venivano dalle Langhe per riportarlo lassù e processarlo, era stato incolpato dello sterminio di una famiglia perchè uno di loro era partigiano e non voleva “parlare”. Dopo avergli ucciso la moglie e il figlio, in sua presenza uccisero anche lui, perchè non sono riusciti a farlo” parlare”. In casa eravamo solo noi tre, più la mia guardia, che era già stata soppressa con un colpo di pistola al silenziatore. Davanti a casa avevamo la nostra macchina parcheggiata nel cortile, una lancia quasi nuova che sul parafango davanti portava la bandierina blu per le personalità fasciste.

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Lipsia era quasi contenta al sentire che questi erano della resistenza, sperava sempre

di poter in qualche modo avvicinarsi al suo amore. Salgono in macchina con i prigionieri tutti e tre ammanettati dietro la schiena, la mamma vicino all’autista, che era sempre in divisa da fascista, e gli altri due dietro, con a fianco l’altro partigiano, che gli teneva puntato la pistola alle costole. Partiamo e prendiamo l’Aurelia, arriviamo nei pressi di Savona, senza poter aprir bocca, si accorgono che bisogna fare rifornimento e chiedono dove sono i buoni benzina, ma nessuno sa niente di questi buoni, erano faccende che gestiva l’autista, così chiesero a mio padre i soldi per pagare. Arriviamo in un paese delle Langhe, entriamo direttamente in un cortile di una villa, entriamo in casa e ci separano, io e mia madre in una camera al terzo piano con due guardie fuori della porta. Mio padre lo mettono giù nei fondi in una specie di guardina. Per un paio di giorni, non si parla con nessuno, anche se io chiedevo insistentemente di parlare con qualche capo, niente da fare, mi rispondono che ci sarà un processo fra qualche giorno e li potrò dire quello che voglio, ma prima niente. Arriva questo tremendo giorno del processo, ci portano giù, in un salone ammanettati tutti e tre, fuori nel cortile si sentivano schiamazzi e grida di, boia, di assassini, sterminatori di partigiani, a morte, a morte, fucilateli senza processo, non si possono processare delle belve di questa specie. Devo dire che in quel momento non ero più tanto sicura e contenta di aver un fidanzato partigiano, temevo di non riuscire a parlare, a spiegare, le cose le vedevo precipitare. Anche quì, in questa sala l’ambiente si surriscaldava, si temeva da un momento all’altro, ci finissero lì, così ammanettati con qualche scarica di mitra a bruciapelo. Finalmente, arriva un alto ufficiale con un triangolo dorato sul petto e cinque stelle dorate all’interno di questo triangolo, è in divisa completa americana. Tutti si sono zittiti e alzati in piedi, era il comandante di quella formazione che


apparteneva il partigiano che mio padre aveva fatto trucidare con i suoi famigliari nelle prigioni di Cuneo, ed era anche un avvocato di una certa importanza. Formulano l’atto d’accusa e iniziano le interrogazioni, mio padre s’inginocchia, prega clemenza, dice che lui non c’entra, che è stata tutta una montatura dei suoi subalterni per eliminarlo, o comunque farlo trasferire. Ma i testimoni erano troppi, diverse guardie che non erano fasciste e che stavano li per lo stipendio, per quel pezzo di pane come si suol dire, hanno giurato tutte sù quel capo d’accusa. Hanno dichiarato tutte sotto giuramento, e non solo loro, che è stato lui in persona, a interrogare quel partigiano e a sparare su quella gente. Alla fine quello che fungeva da pubblico ministero chiese la pena di morte per tutti e tre. L’avvocato d’ufficio nella sua brevissima aringa, chiese di risparmiare le due donne, giacché sono solo colpevoli di essere suoi famigliari. Non commettiamo le stesse atrocità del condannato, quando trucidò con la massima leggerezza i famigliari di quel partigiano per il solo fatto di non voler essere un delatore. La giustizia che domani dovremo portare nelle nostre aule, non dovrà essere vendetta ma solo giustizia giusta. Combattiamo per questi principi, ricordatevelo sempre, se no, saremo come loro, o ancora peggio. Dato che combattiamo con sacrifici e sangue per un mondo nuovo, un mondo migliore, iniziamo da ora, e liberate queste due donne, che sono già loro vittime di questo aberrante sistema.

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Mio padre venne condannato a morte e fucilato il giorno dopo, noi due ci

condannarono alla prigione in un luogo occupato dai partigiani, fino al giorno della liberazione dell’Italia, per poi essere giudicate definitivamente dai nuovi tribunali democratici. E qui inizia la mia via crucis, ci trasportano nel carcere partigiano di Dronero, dopo due mesi ci trasferiscono in un paesino di montagna dove vi era un campo di concentramento di prigionieri tedeschi e fascisti. Fa un freddo intenso, mia madre muore di polmonite e io rimango sola, cerco qualcuno che mi ascolti, ma tutti hanno paura al solo avvicinarsi. Si vive come si può, non c‘è possibilità nemmeno di potersi lavare, non c’è da mangiare, dicono che non ne hanno neanche per loro. Sono carica di pidocchi, non c’e la faccio più. Mi prende lo sconforto, comincio a pensare di farla finita, studio come posso fare per farmi passare la paura e trovare un modo spiccio per finirla. E, faccio anche un tentativo fortunatamente andato a vuoto. Poi penso al mio amore, mi viene in mente che era andato a Genova a cercarmi, forse mi voleva ancora bene, devo fare gli ultimi sforzi per trovarlo e parlargli, sè poi non mi vorrà più, allora sì la farò finita, perchè veramente sono troppe le ferite al mio cuore, non potrà sopportarne altre. Intanto arriva il pieno inverno, si sente raccontare che molti partigiani sono rientrati nelle città in attesa della primavera per riprendere le azioni di guerriglia, lo stesso radio Londra glie lo aveva consigliato, visto che anche sul fronte italiano sembrava fosse stata concordata una tregua in attesa della stagione migliore. Un giorno arriva un autocarro molto capiente, chiamano una trentina di nomi e se li portano via. Noi rimaniamo lì e ci accorgiamo che i nostri guardiani se ne sono andati, saremo ancora un centinaio per lo più donne, ognuno decide da


sè. Io mi metto in marcia scendendo verso il fondo valle, non sapevo dov’ero, ma speravo che scendendo sarei arrivata almeno dove finiva la neve, e avrei avuto qualche notizia sulla direzione da prendere. Sono andata via sola, perchè le mie condizioni fisiche e mentali non erano proprio nelle condizioni di cercare amicizie, ero quasi in delirio. Ogni tanto vedevo il mio fidanzato con le braccia aperte che mi invitava nelle sue braccia, correvo da quella parte ma lui non c’era, mi giravo e lo rivedevo dall’altra parte che abbracciava mia madre, ho perso i sensi e sono svenuta. Qualcuno mi a raccolto e portato all’ospedale, mi sono risvegliata in un letto d’ospedale e il primo pensiero che mi è venuto è stato quello di temere di essere morta. Ci sono voluti, qualche decina di minuti prima d’essere certa che ero ancora viva. Ero nell’ospedale di Dronero, ero senza documenti e aspettavano da me qualche notizia sulla mia identità. Gli ho detto chi ero, senza inventare nulla, gli ho detto che ero prigioniera in un paese di montagna e che sono riuscita a scappare, ma poi non ho resistito al freddo e la fame e sono svenuta. I rapporti con mia madre sono sempre stati burrascosi, era una bellissima donna ma di rango superiore, qualche rara carezza finché ero bambina poi basta. Quando ho conosciuto Giulio ho cominciato assaporare le sue coccole prima ancora dei suoi baci; qualche volta chiudevo gli occhi e vedevo il viso di mia madre che si sostituiva a quello di Giulio, mi prendeva il panico e mi staccavo sbalordita e terrorizzata. Poi piano, piano Giulio mi ha fatto dimenticare queste visioni e non ci pensavo più.

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Ma quando ero lassù svenuta mi è tornato questo sogno tremendo, che poi per tutta

la guerra non ho mai potuto dimenticare, tanto che non ero più tanto sicura che fosse stato solo un sogno e non la verità. Dopo un tentativo di suicidio, c’è sullo sfondo della mia adolescenza che sembra già cosi lontana, quel passato maniacale e un po’ squallido, ma sopratutto la graduale conquista di un rapporto nuovo con mia madre, il desiderio di recuperarne la affettività, di riannodare pienamente i fili della comprensione e della dolcezza. E’ proprio questa mescolanza di sentimenti ma anche di eros per il mio Giulio adorato, ma non più della madre amatissima. E’ quest’aspetto un po' confuso ma in qualche modo seducente e coinvolgente a stuzzicare le fantasie meno prevedibili. “Ho letto da qualche parte che in fondo ogni donna in cerca di un uomo che si prende cura di lei, più che un amante o un compagno sta desiderando una madre un po' incestuosa.” Cosi in quel tremendo sogno mi appare la faccia di Giulio e quella di mia madre che mi sono sopra e mi schiacciano, sembra vogliono squarciarmi, sento sulla bocca di Giulio l’odore del respiro di mia madre, e sul collo e sul petto di mia madre l’odore di Giulio. Vedo il suo naso la tua bocca,le sue orecchie e i tuoi occhi, sento battere due cuori anzi ché uno, ma io non partecipo, sono estranea in questo trio d’amore. Poi più niente, solo respiri e sospiri di sollievo e soddisfazione, le palpebre si sono abbassate, gli odori si sono intrecciati e confusi tra loro diventano uno solo, un odore amato e desiderato l’odore dei miei amori più cari. Mia madre era morta da poco, ma in questi


tre mesi di prigionia prima di morire il mio odio si stava trasformando in amore, il ghiaccio che credevo in lei si era sciolto, iniziava a piacermi il ruolo di figlia, mi sentivo importante. Non sapevo neanche dove fosse stata seppellita, mi avevano consegnato una ricevuta del Comune di Accelio con il nome e cognome e il numero della tomba. L’avevo cucita sull’unica camicetta che mi era rimasta e in ospedale me l‘hanno riconsegnata. Sono rimasta lì una settimana e mi sono un poco ripresa, mi si sono schiarite le idee e ricominciavo a pensare al mio sogno. Infatti un giorno, dopo aver rubato gli abiti di una nuova arrivata che aveva la mia taglia, sono fuggita. Sono andata in stazione dove non si poteva entrare senza il biglietto, ho girato un po' attorno e approfittando di una distrazione della guardia, sono sgusciata dentro. Ho trovato un treno che dopo moltissime stazioni c’era anche quella di Genova. Biglietto non ne avevo e soldi neppure, la fame mi attanagliava lo stomaco ma non sarei mai scesa prima di arrivare Genova. Mi metto a girare per il treno sperando di trovare qualcuno che abbia qualcosa da mangiare, erano momenti che chi si metteva in viaggio facilmente si portava da mangiare, era difficile mangiare in giro, era tutto tesserato o di contrabbando e ci volevano molti soldi. Finalmente in una carrozza con le panche di legno, vedo la in fondo un paio di persone che mangiano qualcosa, mi avvicino e in mezzo a loro avevano sulla panca, un grosso fazzoletto a quadri di quelli che le donne di campagna portano in testa per il sole, e in questa specie di tovaglietta a quadri vi era una grossa mica di pane bianco che non se ne vedeva più da qualche anno. Mi sono bloccata con lo sguardo fisso su quella grossa pagnotta e non riuscivo più a staccarlo.

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Erano, probabilmente marito e moglie, la donna dopo un attimo

che ero bloccata sù quella mica mi chiese; vuole favorire Signorina?. Abbiamo solo un po’ di pane e formaggio, cosa vuole, sono tempi brutti, non si trova più niente e bisogna accontentarsi. Oh.. signora; sono due giorni che non mangio se me ne date un pezzetto eviterete che muoia di fame. Il marito rompe a metà la micca e me la porge, e intanto cerca il coltello per tagliare un pezzo di formaggio. Gli dico di no, mi basta il pane, per di più bianco che pensavo non nè esistesse più. Lui insiste ma intanto la mezza micca era già sparita nelle mia pancia, si gira, guarda la moglie come per dire; ma da quant'é che non mangia questa?. La quale gli fa un cenno di assenso e mi porge l’altra metà con il formaggio. A questo punto scoppio in lacrime e mi abbraccio alla signora e la riempio di baci, questa mi stringe un po’ e mi accarezza. Non pianga signorina, noi abbiamo già mangiato, e questo ci cresce. Siamo contadini, il pane e il formaggio ce lo facciamo noi, quindi ci fa piacere che sia toccato a lei, lo sa che tempo fa ce l’anno sequestrato le guardie?. Dicono che è vietato fare e mangiare il pane bianco, e ci hanno anche minacciato. Dopo poche stazioni sono scesi. Pane non ne avevano più ma hanno voluto a tutti i costi che prendessi almeno quel poco formaggio che era rimasto, e mi è servito a fagiolo per arrivare a Genova senza più svenire. Da diversi mesi erano state le prime persone che non ce l’avevano con me, le prime persone che mi hanno fatto pensare che al mondo non vi era solo guerra, odio e distruzione, ma vi erano ancora gente semplici e buone che non odiavano nessuno e non c’è l’avevano con nessuno, e mi hanno di


nuovo fatto sperare. Intanto in val Trebbia erano successe molte cose, vi era stato un altro rastrellamento a dicembre, un rastrellamento tragico, con un paio di divisioni tedesche con alle loro dipendenze un paio di battaglioni di mongoli. Truppe che approfittando della pausa al fronte, i tedeschi le avevano distaccate per mandarle contro i partigiani, volevano distruggerci definitivamente per liberarsi la via della ritirata. Anche questa volta, ci attaccano in cerchio, dal mare e dalla padana, vi si scatenano combattimenti tremendi, tutto è più difficile che a quello degli alpini d’agosto. Resistiamo in quasi tutti i fronti per una quindicina di giorni, poi come d’agosto, mancano le munizioni e si pensa allo sganciamento per salvare più uomini possibile. I tedeschi occupano tutti i paesi delle vallate, ci stanno un paio di giorni poi si scambiano con altri, ma lo fanno sempre la sera, fanno finta di andar via che tutti vedono, per poi ripiombare appena notte e bloccare gli ingenui che credendo il paese libero vanno a cercare qualcosa da mangiare e cadono in trappola. Finito anche questo tremendo rastrellamento, che durò più di un mese, e hanno perso la vita moltissimi partigiani. Piano, piano, si riformano le brigate. La Grecia, che, all’inizio del rastrellamento era stata mandata in aiuto alla brigata Arzani in val Borbera, dove vi era concentrato il grosso della forza tedesca ed erano armati con armi pesanti, con cannoni, mortai e carri armati. Ha subito molte perdite e si è guadagnata molti encomi, sia dal comando divisione che al C.L.N. Ne à parlato molto anche il “Partigiano”.

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Finito il rastrellamento si è ricostituita in quella zona, vale a dire sul crinale che divide

la val Boreca, dalla val Borbera e la Staffora. Con distaccamenti alle Capannette di Pej, ad Artana, Bogli, Vezzimo e Zerba, e dall’altra parte a Cosola, e in tutta l’alta valle sino a Carrega e le capanne di Carrega, che confinavano con i distaccamenti della Jori sempre al comando di Croce, che era molto amico del nostro comandante Giulio. Quasi ogni notte, arrivavano lanci di materiale bellico sui prati delle Capannette, e noi avevamo il compito di difenderli da eventuali puntate nemiche che partivano da Serravalle e in poche ore potevano arrivare lassù. -- Poi anche quello di farli arrivare nei rifugi sempre per non farli cadere in mano al nemico. Lipsia arriva a Genova e va a casa sua e la trova occupata dal suo ex fidanzato, gli racconta quello che è successo e lui cerca di rincuorarla, ma lei chiede tempo, dopo tutto quello che ha passato ha bisogno di tempo, dice che il suo cuore lo hanno trasformato in pietra, pensa persino di andare per qualche tempo in un convento a cercare pace, perché solo di questa ha bisogno. Infatti, dopo un paio di giorni si trasferisce in un convento di suore a Sotto il monte, nella zona di S. Fruttuoso, dove conosce una sua amica fattasi suora in quel convento. Lì, la ragazza, piano, piano riesce a riacquistare una certa distensione e serenità ed aumentare il desiderio di ritrovare il suo primo amore. Il suo attuale fidanzato imposto dalla famiglia, non lo può più nemmeno sentire per telefono e non si fa trovare. Dopo qualche settimana insiste che vuole vederla, le autorità del convento hanno paura, temono le ritorsioni del regime, attraverso la sua amica suora gli consigliano di essere accondiscendente, viene considerato un brutto ceffo,


capace di qualsiasi bassezza, ha più morti sulla coscienza lui che il boia di San Quintino. Vada a casa, le consigliano. In queste condizioni decide di fuggire, ma non dice dove và. Prende la sua valigetta, compreso una ricca busta di soldi che ha preparato quando era tornata, e sparisce. Le suore del convento passano le sue, sono interrogate con insistenza senza lesinare le velate minacce di ritorsioni. La sua amica è stata consigliata, dalle superiori, di allontanarsi per qualche tempo dal convento, e ha trovato asilo in un ospedaletto fuori città. Lipsia parte decisamente per la val Trebbia, riesce a sfuggire a tutti i posti di blocco e tutti i controlli durante la strada. Arriva in quella galleria famosa del suo precedente rapimento e è fermata dalla pattuglia dei partigiani del distaccamento Guerra della Jori. Era abbastanza tranquilla perché già a Torriglia non aveva visto nessun tedesco ne fascista ma addirittura, nella parte alta della città, aveva incrociato una camionetta con un gruppo di soldati che ha creduto fossero partigiani giacché avevano dei fazzoletti al collo tricolore che aveva già visto a Propata. Gli chiedono i documenti, e visto che non è della zona la invitano ad essere accompagnata al loro distaccamento che si trovava a Garaventa. Insiste un po’ dicendo che ha conosciuto Bisagno e che è fidanzata con Giulio, e quando gli ha lasciati, pochi mesi prima, il comando era a Propata e Giulio, con la sua brigata era nella zona dell’Aveto, e lei ora doveva raggiungere Giulio e non sapeva come fare, per questo stava andando a Propata.

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Questi naturalmente non conoscevano la dislocazione esatta che aveva qualche mese

prima la Brigata Grecia, e tanto meno sapevano dove si trovava ora. Sapevano soltanto che il comando Divisione si trovava da qualche tempo a Gorreto nel castello, e che Bisagno probabilmente sarà stato lì. Lipsia si trovava più o meno nella stessa situazione di quell’altra volta, quando aveva dovuto dormire da una famiglia di Garaventa. A Propata, c’era un solo distaccamento e Giulio con la sua Brigata si trovava molto lontano e da tutt’altra parte. Gli consigliarono di ripetere la sosta in paese per quella notte e poi domani, si sarebbero attivati per proseguire le ricerche. Anche perchè quella sera il comandante del distaccamento era assente, e si sperava che almeno lui conoscesse la dislocazione di questa Brigata Grecia. Infatti, il mattino seguente il comandante sa tutto, conosce personalmente Giulio e conosce anche esattamente la dislocazione attuale della brigata. Però restava sempre il fatto che era molto lontana, e si pensava come trovare la strada più corta per raggiungerla. O scendere giù sul fondo valle e proseguire per Ottone per poi salire la val Boreca, ma c’era anche li il pericolo di doverla fare quasi tutta a piedi causa l’interruzione dei ponti sul Trebbia. O, camminare in cresta sulla costa e attraversando, su dei sentieri un paio di montagne e raggiungere dalla parte alta le Capannette di Pej, dove era il comando della Grecia. Li in quel distaccamento non avevano cavalli, il comandante però, volendo fare un favore a Giulio mandò una staffetta a Propata dove avevano due muli che servivano per la sussistenza dei distaccamenti più lontani dall’intendenza centrale che si trovava a Gorreto. Voleva sentire se glie li potevano imprestare per questo viaggio. Dopo due ore è tornata la staffetta dicendo che non glie li avrebbero dati, perché Bandiera, il conduttore dei muli, non li avrebbe mai ceduti a nessuno, ma stava


venendo lui stesso con questi muli e l’avrebbe accompagnata lui stesso fino alle Capannette. Cosi la salutarono pregandola di camminare sulla strada che avrebbe incontrato i muli che stavano venendogli incontro, e salutare anche caramente Giulio. L’incontro con Giulio è stato commovente, si sono guardati per cinque minuti, uno in faccia all’altra come pietrificati, lui apre le braccia lei ci si butta dentro con una slancio da farlo indietreggiare, rimangono così stretti per altri dieci minuti, poi lui dice; sei la mia ultima speranza di salvezza, devi cercare di aiutarmi, solo tu puoi farlo. Lipsia non capisce, rimane un poco in confusione,non sa della perdita della memoria, gli risponde, dimmi se mi vuoi ancora bene. Giulio si blocca, la guarda... ma allora tu sai quello che io solo intuisco, ci siamo voluti bene in qualche tempo e da qualche parte?. Dimmelo subito, sai che io ho perduto la memoria in Grecia e non ricordo più nulla?. No non lo so, nessuno me lo a mai detto, hai ragione non siamo mai riusciti a fare una parola frà noi, ma io ti avevo dentro e non volevi uscire, eri nel mio sub cosciente da quando ti ho visto in quella tremenda occasione del mio arresto, e dopo che mi ha fatto liberare ti sentivo sempre più forte e soffrivo. Si caro Giulio, fammi respirare che ti racconterò tutto, ma allora, se tu mi chiami Giulio è questo il mio nome?. Si è questo, e io sono Lipsia, non ti ricorda niente questo nome?. Non ti ricordi il liceo D’oria a Genova, tutti i baci che ci siamo dati e le promesse fatte prima che tu partissi per la Grecia?. Dopo non ti ho più visto nè sentito ma ho solo saputo della tua morte presunta?.

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La mia morte presunta? E cos’è questa novità?. Si Giulio, un anno dopo che sei partito

i tuoi ricevettero la tua piastrina di riconoscimento, trovata su di una nave che dopo essere andata a fuoco è affondata. Fermati, fermati, fermati un momento se no impazzisco, hai detto la mia famiglia, quale mia famiglia?. Ma Giulio, tua madre e tuo padre ma non ricordi proprio nulla?. No purtroppo, ma parlamene, parlami di mio padre e di mia madre, chi sono, dove sono, voglio sapere tutto. Purtroppo ora non so dirti granché, sono spariti poco dopo che tu partisti e non se ne saputo più niente. Gli ho cercati tanto, perché avevo bisogno di tue notizie, ma non c’è stato nulla da fare. Non so se ti ricordi che tuo padre era un alto dirigente dell’Ansaldo e anche uno che non nascondeva le proprie idee contro il fascio. No, non mi ricordo niente ma questo fatto mi rende molto orgoglioso di lui, ma ora c’è il pericolo che non ci siano più, o forse ci potrà essere qualche speranza?. Giulio, penso che ci saranno ancora, e ora che ci siamo ritrovati non ci fermeremo a fare ricerche. Tanta gente sono dovuti scappare e nascondersi nei paesi sconosciuti in montagna, spero l’abbiano fatto anche i tuoi, tuo padre non era l’ultimo arrivato, non si sarà fatto prendere con le pive nel sacco come si dice, vedrai li troveremo. Lipsia fu alloggiata da una famiglia alle Capanne di Cosola, ma passava la giornata al comando della Brigata con altre partigiane, era felice non stava più nella pelle, amava Giulio da morire, e Giulio anche se non ricordava più il loro amore e le loro promesse, ricambiava con slancio e passione. Parlavano continuamente del passato, voleva che le facesse la descrizione esatta dei suoi genitori, non perdeva nessuna occasione per chiedere informazioni,


sperava che un alto dirigente dell’Ansaldo qualcuno l’avrà pur conosciuto, e dato che è un uomo di quello stampo sarà sicuramente nella resistenza, sperava di arrivare a qualche testimonianza, a qualche indizio che lo facesse sperare. Un giorno Giulio decide da andare a Genova, e attraverso i comitati di quartiere spera di trovare qualche notizia che gli potrebbe dare una direzione di ricerca e qualche speranza. Lipsia lo vuole seguire, lui non vuole, non vuole farla rischiare troppo, è l’unica persona che oltre ad amarla potrà aiutarlo nell’acquisto della sua identità, non può correre questo pericolo, deve rimanere lì dov’è ben protetta da qualsiasi pericolo, e lui si sentirà più tranquillo e libero nelle sue azioni in città. Ma non c’è niente da fare, lo prega in ginocchio di non lasciarla un’altra volta sola, non c’è la farebbe a vivere un solo giorno, lontana da lui, si mette a tremare, sembra un pulcino lontano dalla chioccia e al freddo, teme gl’incubi di quel tremendo sogno. Delega il comando della Brigata al vice, d’accordo con il comandante delle Cichero Bisagno e si mettono in viaggio. Già Bisagno gli aveva consigliato di cercare anche presso i comandi clandestini della piazza di Genova che ci sono dei generali cospiratori e anche presso il comando del Corpo Volontari per la Libertà, C.V.L. comandato dal Generale Cadorna, che si trova oltre il fronte con gli americani, ma quì a Genova, vi erano degli alti personaggi che avevano in delega il comando del C.V.L. per l’alta Italia, e in bocca al lupo. Scendono attraverso i monti sul versante Tortonese, come due coniugi della val Borbera, con documenti regolari rilasciati da un Comune della valle. E prendono il treno per Genova. Arrivano a Genova e come prima cosa vuole essere portato a vedere la sua casa che lei conosceva bene perchè ci andava quasi tutti i giorni con la scusa di studiare insieme. Arrivano a Carignano e si avvicinano al portone della casa, un signore fermo poco lontano non la smette di guardarlo, lei gli dice di non fidarsi perchè non l’ha mai visto, non pensa che sia un condomino. Lui però non la stà a sentire, si mette la mano in tasca, sulla pistola, e si avvicina. Quel signore impallidisce e gli chiede scusa, gli sembrava di aver riconosciuto un giovane che abitava quì e che è morto in guerra. "Come si chiamava quel giovane?. Si chiamava Giulio ma sono già un paio d’anni che è morto e i suoi se nè sono andati via subito dopo. E io ho visto in lei una forte assomiglianza che mi ha fatto venire un tuffo al cuore. Anche Giulio impallidisce capisce che è lui questo soldato morto, ma non riesce ad andare oltre. Lipsia gli dice di stare attento perchè quasi tutte le abitazioni dei cospiratori sono sorvegliate continuamente, e inizia lei con le domande a questo signore; gli chiede se abita lì e a che numero, gli chiede se conosce bene quella famiglia che abita all’interno dieci, l’Ingegnere Pratolungo?. Si, lo conosco molto bene, era un dirigente dell’Ansaldo dove lavoravo anch’io, ma ora sono due anni che non se ne sa più niente.


Giulio trema, vorrebbe farsi conoscere e parlare chiaramente, ma Lipsia lo trattiene, e continua l’interrogazione. Senta, noi siamo dei parenti dell’Ingegnere, anzi lui è suo cugino --ecco perchè l’ho scambiato per Giulio, sono parenti, risponde questo signore. Si, lui è parente ma viviamo in Francia dove non possiamo più stare per ragioni politiche e le saremmo grati se ci aiutasse a trovare questi suoi cugini. - Ma, risponde lui, sono tempi ché è difficile trovare chi si nasconde, ci sono già le polizie segrete del regime che li cerca e non sempre li trovano, quindi sarebbe un’impresa impossibile per me. "Ma qualche notizia, anche insignificante, non si sa mai, potrebbe darci un indizio e portarci sulla strada buona. Per esempio... l’idea politica; ah. beh questa è chiara a tutti,è sicuramente uomo anti regime, ma lo è sempre stato, tutta la sua vita che combatte senza neanche tante precauzioni, negli ultimi tempi era anche sotto una sorveglianza speciale, quì giravano sempre certi ceffi!. All’Ansaldo era molto ben voluto per questo, tutti sapevano che rischiava di grosso a sabotare le produzioni di materiale bellico, e tutti erano solidali con lui. Ma senta, nella casa di questa famiglia chi ci vive ora?. Nessuno, è chiusa da più due anni e non si sa chi ha le chiavi, c’è stata un’assemblea condominiale di recente ma loro sono stati assenti, con un paio d’altre famiglie, e con nessuna delega, forse, potreste saperne di più dall’amministratore. Ci fornisce l’indirizzo dell’amministratore, ma ci avverte che è un uomo di regime e anche molto quotato, molto difficile che l’ingegnere abbia potuto lasciare sue notizie. Non sappiamo come comportarci. Rischiare questa carta con così poche speranze, non ne vale la pena e decidiamo per altre strade. Ci rechiamo all’Ansaldo ma l’entrata è molto complicata e difficile, aspettiamo l’uscita del turno di lavoro sperando di riuscire a parlare con qualcuno, ma vanno tutti di fretta. Ci rechiamo nella sezione del comitato di liberazione clandestino di S.P.D’Arena, e riusciamo a prendere contatto con un giovane che ci stà ad ascoltare, ma anche lui sa ben poco di quello che cerchiamo. Ci consiglia di rivolgerci al parroco che sicuramente non è fascista e potrebbe saperne di più. Infatti, subito ci risponde che sono tempi duri, e che ci sono una infinità di persone che sono sparite e non se ne sa più nulla. Ma quando noi incominciamo a parlare della resistenza e gli spieghiamo bene tutto quello che sappiamo e anche dove operiamo, cambia tono e si rende interessato alle nostre ricerche. Gli sembra che un pezzo grosso dell’Ansaldo sia finito nel corpo dei volontari della libertà agli ordini del Generale Cadorna, C.V.L.. Ma non sa dirci come possiamo contattare questi gruppi, sa che ci sono dentro anche molte personalità civili e militari locali, fa qualche nome; Pieragostini, Macchiavelli, Taviani, Pertini ed altri ma non sa come possiamo rintracciarli. "Torniamo verso il centro e ci portiamo in Albaro dov’era la mia casa. Dovevamo stare molto attenti perché lì ci conoscevano in molti ed era pericolosissimo, in più ci bazzicava quel personaggio della casa dello studente che avrei dovuto sposare e che viveva in casa mia dopo averla fatta sequestrare come


bene del partito. Dopo una settimana di queste ricerche eravamo al punto di partenza, l’unica gran consolazione che il nostro amore s’ingrandiva sempre più, vicino a lui mi sentivo invulnerabile, ero molto felice, prima, o poi, avremmo sistemato anche la faccenda dell’identità di Giulio, che, in ogni modo, qualche lieve progresso sentivo che arrivava. Quando mi baciava e parlava di ricordi, gli venivano delle visioni che non inquadrava ancora bene, ma che io riuscivo a spiegargliele e lui le immagazzinava. --Piano, piano, eravamo, già arrivati ai baci del liceo, le caravelle di Colombo, la spiaggetta a quarto dei Mille. Un passetto per volta, nè ero sicura, saremmo arrivati in fondo. Giulio era anche più tranquillo, scherzava e rideva come un bambino, solo a tratti si bloccava, diventava scuro in faccia e pensava a suo padre, era quasi sicuro che fosse vivo ma si disperava di non poterlo trovare, chiedeva a me; ma tu la mia mamma l’hai conosciuta?. Altroché, se l’ho conosciuta, ero sempre in casa tua a sbaciucchiarsi e gli facevamo credere che venivo per studiare, è una bellissima donna, ci serviva il tè con i biscotti che allora non se li poteva permette molta gente, era affabile e ti voleva un bene da morire, quando ti guardava il suo viso si illuminava come una centrale elettrica; "capperi che paragoni mi tiri fuori". Sai faccio quello che posso, sono due anni che non prendo più in mano un libro cosa vuoi di più.? Torniamo sù in montagna con pochissime notizie se non la quasi certezza che suo padre e forse anche sua madre fossero vivi, se finirà la guerra si risolverà anche questo nostro problema. Alla Capannette di Pej, io mi sentivo come una allodola che in quei prati ve ne erano moltissime, alla sera andavamo per delle ore a passeggio in questi stupendi prati, mi sentivo leggera e felice, il mondo era tutto rosa, amavo Giulio da morire e lui ricambiava, non si sentiva quasi più parlare di tedeschi e fascisti, quasi ogni notte arrivavano i lanci, vestivo una divisa americana che sembrava fatta su misura. Giulio mi diceva che sembravo un'attrice nei film di guerra americani. Che ogni tanto ci proiettavano, quelli della missione alleata. Una sera mi propone di andare a vedere un lancio, mi dice che è una cosa molto emozionante e suggestiva, almeno una volta devi venire. C’incappottiamo perché, lassù la notte è ancora molto fredda e assistiamo all’accensione dei fuochi, affinché gli aerei potessero inquadrare la zona esatta per lanciare. Aspettiamo abbracciati e in un bacio continuo, speravo che ritardassero all’infinito, mi trovavo in paradiso e sentivo gli angeli che cantavano per noi le loro celesti canzoni. Dopo molte ore si rompe l’incantesimo, si sentono le fortezze volanti che arrivano sopra di noi con un rumore infernale, un attimo dopo tutti i prati circostanti, ma anche le montagne vicine sono illuminate a giorno, grossi palloni luminosi si fermano a mezz’aria e illuminano la terra sottostante, sembra di giorno. Dopo un attimo che abbiamo visto sfrecciare sopra le nostre teste un paio di caccia, bassissimi e velocissimi, inizia il lancio.


Abbiamo visto spuntare questi grossi bestioni sopra le case delle Capanne di Cosola e venire verso di noi, si avvicinano appaiati due a due, arrivano nel cerchio dei fuochi e iniziano a lanciare. Il primo che è uscito, aveva tre paracaduti dove era appeso, e non si capiva cosa fosse, fin che quando toccò terra ho riconosciuto una camionetta, ma una camionetta strana molto più piccola di quelle che avevo visto sino ad ora. Passavano, scaricavano e sè nè andavano verso la val Boreca sempre appaiati. Ogni tanto sentivamo il sibilo dei caccia supersonici e ci prendeva l’istinto di abbassar la testa, tanto sfrecciavano quasi a raso terra. Era una cosa molto suggestiva, sono rimasta felicemente sorpresa, non avrei ma immaginato una cosa così in grande e così precisa, i prati li intorno erano pieni di paracaduti dei più svariati colori, c’era di tutto, dai grossi platò di vestiario e alimentari, alle armi e munizioni e alle JEEP piccole per camminare sui sentieri di montagna. Uno se li può anche immaginare ma a vederli è tutta un’altra cosa, ho chiesto al mio amore che ci sarei ritornata ancora. Ma dopo un paio d’ore, che ancora non era stato recuperato tutto il materiale, una staffetta ci segnala che stà arrivando una colonna di tedeschi dalla val Borbera e sentiamo in lontananza una grossa sparatoria provenire dal fondovalle, e subito si è intuito cosa stava succedendo. Sicuramente da Serravalle dove c’era il grosso dei tedeschi, avranno visto o sentito passare le fortezze volanti, ed è partita subito una colonna motorizzata per raggiungere la zona dei lanci, che oramai conoscevano molto bene. A Cosola però sono stati attaccati da un nostro distaccamento, che era stato allertato dalle sentinelle e n’è venuto fuori uno scontro micidiale. A Cosola, terminava la strada carrozzabile, per proseguire verso le Capanne si doveva avere dei mezzi da montagna con quattro ruote motrici o se no a piedi. Quindi sono stati fermati con una cera facilità, ma avrebbero sicuramente sfondato se non fossero arrivati rinforzi. Giulio mi prega di andare a letto, che lui doveva scendere giù con tutti gli uomini che erano a protezione del lancio e dare una mano al distaccamento di Cosola, che sapeva non avrebbe potuto resistere a lungo. Quando succedevano questi attacchi immediati e senza preavviso, mi prendeva il panico, non potevo dormire, sarei stata sveglia tutta una settimana se sapevo che c’era il mio amore in pericolo e pregavo, pregavo tutta la notte e anche di giorno finché poi arrivava. Mi prendeva subito quello sgomento, che avevo già provato quando ero prigioniera in Val Maira, cosi quella notte gli sono andata dietro. Cercavo di non farmi scorgere, camminavo a pochi metri dietro di loro, e quando siamo arrivati nel pieno dello scontro, mi è passata tutta la paura, cercavo di scorgere dove erano i nostri, e mi aiutava la luna piena. Per farvela breve, mi sono trovata in una postazione di una mitragliera e vedo un partigiano


attaccato a questa mitraglia che continua a sparare e ogni tanto chiede al suo compagno le munizioni. Sento che nessuno gli risponde e mi avvicino ancora per capirci qualcosa, vedo un giovane riverso per terra che si tiene le mani sulla faccia, gli vado vicino, gli prendo una mano per vedere cosa aveva ed era tutto insanguinato, intanto si accorge della mia presenza e mi dice; li, lì, le munizioni, fai presto; prendo la cassetta che mi aveva indicato cerco di alzarla per portarla al mitragliere ma pesa troppo, non ce la faccio, allora cerco di tirarla, di strisciarla vicino alla mitraglia, questi si gira e mi grida, ma da dove sbuchi tu, dov’è Bruno?. E’ ferito vado a vedere, rifaccio quei pochi passi, cerco di capirne di più e mi sembra che sanguina dalla fronte dove si tiene una mano, glie la tolgo e cerco di vedere meglio, ma sembra che la ferita, a mio giudizio non sia cosi molto grave, aveva una specie di taglio lungo tutta la fronte ma sembrava superficiale. Mi strappo un pezzo di camicia e glie la lego intorno alla fronte per fermare il sangue, lui che probabilmente aveva perso i sensi per qualche poco, mi dice da dove arrivo, gli rispondo dalle Capanne e intanto la mitraglia non spara più. Mi fa segno di guardare che succede e trovo il mitragliere morto riverso sulla mitraglia, lo chiamo che venga a darmi una mano, ma non può muoversi perché ha una gamba fratturata, mi dice se sono capace di usare la mitraglia e gli rispondo di no, non ho mai sparato un colpo. Un attimo dopo, sentiamo degli ordini in tedesco sotto la postazione, molto vicini a noi, mi chiede di aiutarlo ad arrivare alla mitraglia, un poco in ginocchio un poco strisciando arriva fin li, e mi prega di aiutarlo a spostare il suo compagno dalla mitraglia, che proverà lui a sparare ancora. Un attimo dopo è ripartita stà mitraglia che mi sono spaventata, mi grida di star giù perché rispondono al fuoco, lui ogni tanto fa una raffica e poi si ferma, ascolta i movimenti del nemico, e spara un’altra raffica poi si abbassa come per proteggersi, vedo infatti le scintille delle pallottole nemiche che si schiacciano sulla roccia che era davanti e di fianco alla mitraglia e si alzano verso il cielo, sembrando, stelle cadenti alla rovescia. Intanto si sentivano altre armi sparare, tutto in torno a noi, lui, ascolta ancora e spara sempre in quella direzione ma non rispondono più al fuoco. Poi piano, piano il fuoco rallenta, qualche raffica qua e là e dopo silenzio, sento qualcuno che grida; sè nè vanno, sè nè vanno abbiamo vinto. Sento la voce di Giulio che grida, siamo tutti salvi?. Rispondete. Si sente un coro di sì e poi la voce del mio vicino che grida, quì no, quì c’è un morto. Il rilassamento di sentire quella voce mi ha portato in un’euforia tale che mi sono messa a correre da quella parte. Sono inciampata e sono caduta, mentre Giulio stava arrivando, mi tira sù e, dopo la sorpresa mi grida di tutto, ma intanto mi bacia, e sembra volesse soffocarmi. Il giovane che era morto era, un’ex alpino del battaglione Vestone ed era di Bergamo, si è fatto un silenzio tremendo, Giulio si è seduto per terra con le mani nei capelli, era pietrificato, non ha più detto una parola per tutto il tragitto del ritorno. All’indomani a dovuto fare il rapporto della serata al comando divisione segnalando quanto era successo e aggiungendo qualche parola sul valore di questo morto, ma anche di quello che, pur ferito in due punti del suo corpo, (aveva una pallottola in


una coscia con l’osso fratturato e l’altra, gli era passata sulla fronte, da un capo all’altro, creandogli un solco che senza una buona operazione di plastica facciale se lo dovrà portare appresso tutta la vita). Ha continuato a sparare con la mitraglia del suo compagno morto e li proponeva, ambi due per un encomio solenne dal comando Divisione. Dopo una settimana esce il "Partigiano" e ci sono tre encomi solenni con la spiegazione punto per punto di quello che è successo. Ma non finisce quì, alla fine della guerra, (ma eravamo già a dicembre del 1945), mi arriva una cartolina dal Ministero della Difesa dove mi segnalava che ero stata insignita della medaglia di bronzo al valore. (Avevano avuto il rapporto della S.I.P., servizio investigativo partigiano, che avevano indagato sù quella azione e avevano inviato il rapporto al C.L.N. alta Italia, che poi è passato alla commissione americana per il riconoscimento dei"partigiani combattenti" e quindi al Ministero della guerra) Piano, piano la vita lì alle Capannette ritorna quasi in normalità, io sono diventata a tutti gli effetti, una partigiana, e ho dovuto prendere alloggio nella casa requisita per il comando della Brigata, e dormire in una stanza con cinque altre colleghe. Quasi tutti i giorni mi toccava qualche ora d’istruzione sulle armi, compreso il tiro a segno, dopo un mese ero già in grado di montare la guardia e fare pattuglia con un compagno o una compagna. Ero sempre più gioiosa e felice, il nostro amore era diventato inossidabile, nessuno lo avrebbe mai più potuto scalfire, s’incominciava a fare progetti per le nozze, il tempo tranquillo e libero lo passava uno nelle braccia dell’altro. Anche Giulio aveva ripreso la sua voglia di vivere come doveva essere per un ragazzo di venti anni e come, erano tutti i giovani della Brigata. Quando si parlava del dopo, si crucciava un poco, temeva l’incontro con i suoi genitori, temeva di non riconoscerli, ma temeva anche per il cuore di entrambi. Avendo pianto un figlio amato per più di due anni, come sarà la reazione nel vederlo tornare?. Bisognerà prevedere anche questo, bisognerà fare in modo, per quanto sarà possibile di prepararli prima, e magari con molto tatto e molta psicologia. Gli veniva da pensare che fosse stato tragico, cercarli per così tanto tempo per poi magari vederseli morire di crepacuore. Perchè avendo perso un figlio di diciotto anni che era la loro luce, il suo cuore non poteva non essersi fiaccato un poco, quindi resisterà?. Potranno godersi ancora qualche anno il suo ragazzo?. Poi intervenivo io e tornava allegro e gioviale come prima. Mi diceva; ma allora secondo quello che mi racconti tu, se non ci fosse stata questa maledetta guerra, saremmo entrambi all’università, e magari, anche vicini alla laurea?- certo, sopratutto tu che avevi appena preso la maturità classica. Oh, pensa quando finirà la guerra quante cose avremo da fare per recuperare tutto questo arretrato,


ci aspetta un impegno non indifferente, faremo quello che potremo, avremo già fatta una guerra e saremo già dei veterani, non ci dovrebbe spaventare più nulla. Tu cosa ti piacerebbe fare?, L’ingegnere come tuo padre o che cosa?. Ma io non ho ancora proprio le idee chiare, mi piacerebbe fare il medico ma poi si vedrà. Anch’io voglio fare il medico, è da quando ero bambina che ho questo pallino in testa, ho fatto il D’Oria proprio per questo, per potermi iscrivere a medicina senza nessun veto o selezione. " Brava, sei una bomba, mi piacciono le tue decisioni, hai le idee molto chiare in tutto, potrò un giorno recuperare anch’io tutto il mio passato e poter puntare solo sull’avvenire come te? " Altroché se potrai, ci faremo aiutare anche da specialisti, ma vedrai che con il ritrovo dei tuoi genitori arriverà tutto da solo, intanto io che ti conosco da bambino, che conosco tutto quello che tu non ricordi, mi accorgo che hai già fatto passi da gigante, ogni giorno mi parli di cose che ieri non conoscevi conosci posti che c’eri stato prima e che avevi dimenticato. Un passetto per volta io ti farò guarire, ti amerò tanto che poi ricorderai anche le ragazze del D’Oria che ti ronzavano in giro e che io ne ero gelosa. Ma questo sarà meglio che non lo ricordi, se no le prendi. Essendo io minorenne e avendo documenti d’identità di un Comune della val Trebbia, venivo usata spesso come porta ordini frà i comandi di montagna e quelli del fondo valle e qualche volta anche con il C.L.N. nelle città. Ero già stata a Milano per fare ricerche sul padre di Giulio che, eravamo quasi certi che fosse vivo e partigiano da qualche parte. Descrivevo i dati sommatici e ogni tanto qualcuno era sicuro di averlo visto negli alti comandi della resistenza, ma poi quando si trattava di stringere, stringere, ci sfuggiva via tutto. Un giorno incontrai un capo partigiano della Divisione Mingo, che operava alle spalle di Genova, nel circondario di Masone, e che era stata completamente distrutta da forze preponderanti tedesche, che dopo averla circondata fucilarono quasi tutti i suoi circa cinquecento uomini; era arrivato nella Brigata Aliotta che operava in valle Staffora al comando dell’Americano, da poco. Questi mi disse che era quasi certo di averlo incontrato più volte alle riunioni del C.L.N. di Genova, ma che proveniva da un’altra organizzazione parallela, o addirittura superiore, come il C.V.L. (corpo volontari per la libertà). Però non mi ha saputo dire dove poteva avere la sede, poiché era comandato dal Generale Cadorna che comandava l’esercito di liberazione nazionale regolare, che operava al fianco delle truppe alleate e che avanzavano, piano, piano verso il nord. Bisognava riuscire, a partecipare a qualche riunione di questo comitato, e forse lì, ci sarebbe stata, una probabilità di sbrogliare la matassa di tutti questi punti interrogativi. Ma per arrivare in quelle riunioni, che non erano spesse e che non sempre vi erano tutti, ci voleva al minimo il Comandante della Cichero Bisagno. Ma anche lui non partecipava volentieri a queste riunioni; era un militare con grossi problemi logistici e di responsabilità sù migliaia di giovani, il suo compito principale era quello di portarli alle sue


famiglie sani e salvi. Non gli andava di perdere tempo e rischiare tante vite, per sentire solo parlare di politica. Il C.L.N. era sopratutto un organo politico, vi erano dentro sei o sette partiti che ognuno voleva dir la sua, ma già s’interessavano della divisione delle cariche politiche nel dopo guerra. Ma sopratutto non sopportava che queste politiche venissero infiltrate, come avveniva spesso, nelle file dei combattenti in montagna, con il rischio di mettere gli uni contro gli altri. Ecco, per questo motivo Bisagno non gli sembrava di aver mai incontrato un personaggio con simili caratteristiche, ma ciò non voleva dire che non ci fosse, bisognava non perdersi d’animo e insistere. L’altro problema era che quando andavi a interrogare la gente in questi ambienti, la parola d’ordine era l’omertà. Guai se non fosse stato così, non si sarebbe potuto mettere insieme un esercito come quello di liberazione, che aveva migliaia d’uomini in armi in tutta l’alt’Italia e cospiratori pronti al sabotaggio addirittura in mezzo alle forze nemiche. I casi di delazione, erano rarissimi, molti erano disposti a morire per la causa della liberazione delI’Italia, piuttosto che parlare. In ogni modo un po’ di tempo dopo, arriva la convocazione per Bisagno di partecipare a una riunione interzonale di tutti i comandi divisione, e invita anche Giulio ad accompagnarlo. Vanno a Genova e la riunione era sù di una corvetta della guardia di finanza nel porto. Trovano diverse personalità, come Taviani Pertini, e diversi altri che si conoscevano, erano quasi tutti i comandanti delle divisioni partigiane più importanti che operavano in alta Italia. Vi era Moscatelli che operava nelle Langhe, il comandante della val d’Ossola, della valle Argenina nell’Imperiese e poi altri del Cuneense. Vi era anche un rappresentante del c.l.n. della zona di Milano e un altro di quella di Torino, che per Bisagno erano nuovi. In più due rappresentanti militari del C.V.L. che arrivavano da oltre la linea del fronte e portavano ordini del Generale Cadorna. Giulio ha un po’ spiegato le caratteristiche e i dati sommatici di suo padre, come glie l’avevo descritto io, ma peggio che andar di notte, nessuno è stato in grado di dargli qualche speranza. . Uno di quei due militari che arrivavano da Roma gli sembrava che qualche mese prima, in una riunione di comandanti avesse ascoltato un discorso da una personalità che poteva avere un poco di accento genovese, ma la notizia era troppo fièvole per prestargli qualche attenzione, anche perchè i connotati non erano proprio quelli descritti da me. Cosi Giulio si è rimesso il cuore in pace aspettando la fine della guerra. E’ ritornato entusiasta di quello che aveva visto e sentito. In primo luogo è rimasto sorpreso di come si poteva tenere una riunione di cosi alto profilo, in una corvetta militare della Guardia di Finanza, in mezzo al porto con pieno di tedeschi da tutte le parti. Secondo è rimasto anche molto impressionato, dai discorsi e l’entusiasmo di tutti questi uomini quasi euforici di saper quello che


facevano, di essere dalla parte giusta di sentirsi già liberi in un’Italia libera. Finita, questa riunione, Bisagno aveva voglia di vedere la sua mamma, che non abitava tanto lontana e che erano quasi due anni che non la vedeva. Così, conoscendo molto bene le strade di Genova, ci siamo portati nelle vicinanze di via Palleocapa, dov’era la sua abitazione. Ci siamo messi sulla sponda opposta sperando di vederla uscire o entrare in casa, era troppo pericoloso per lei avvicinarsi troppo alla casa cosi dopo un paio d’ore c’è nè siamo andati via senza vederla. Un giorno Giulio mi chiede se me la sentissi, con un’altra partigiana, di accompagnare due ufficiali inglesi, che erano arrivati da noi con un lancio, alla zona di Piacenza dove operava la Giustizia e Libertà di Fausto. Sentito il mio assenso mi dice di scegliere la compagna. Tornando un passo indietro non vi ho ancora detto che ho scelto come nome di battaglia il mio nome vero,cioè Lipsia. Ho chiesto a Martina se voleva venire con me, in quell’impresa e mi rispose si con entusiasmo, era per noi una nuova avventura che non comportava quasi nessun rischio, non dovevamo uscire dalla zona partigiana e quindi non ci sarebbe stato nessun pericolo di incontrare nè tedeschi nè fascisti. Partiamo al mattino presto, scendiamo la val Boreca sino arrivare sulla statale a Losso, e da li proseguiamo verso Piacenza sempre a piedi. Avevamo già fatti una trentina di chilometri, e i nostri colleghi inglesi cominciano ad essere stanchi, dovremmo proseguire almeno fino a Marsaglia che lì iniziava la zona occupata da questa divisione, ma temiamo che non ce la faranno. A Ponte Organasco incontriamo una trattoria, chiediamo se si può mangiare qualcosa; ma ci dicono di no perchè gli hanno requisito tutto. Gli diciamo che possiamo pagare in dollari, si guardano un pò in faccia e poi ci fanno sedere, "sarebbe andato in cantina per vedere cosa poteva fare per farci mangiar qualcosa." Arriva dopo dieci minuti con un bel piatto di salame affettato e una mica di pane casalingo, lo divoriamo in quattro e quatt’otto poi riprendiamo il cammino. Arriviamo a Marsaglia a notte e incappiamo subito in un posto di blocco. Sbrigate le prime formalità ci accompagnano dal comandante di quel distaccamento (essendo Badogliani lo chiamano ancora plotone come nel vecchio esercito Regio). Gli consegniamo questi due inglesi della missione alleata, chiediamo se pensano loro a farli arrivare al comando della loro divisione che era a Bobbio, ma non ne vogliono sapere, sul lascia-passare c’era scritto che dovevamo consegnarli al comando e cosi dobbiamo fare. Ci danno da mangiare e ci mettono a dormire in uno stanzone per terra con sotto della paglia, e una coperta da mettere sopra, insieme ad altri dieci partigiani dei loro. Non siamo state lì a fare le difficili perchè era gia tanto poter riposare un poco tranquilli. Al mattino un pò di caffelatte cosi così, e poi via per Bobbio, arriviamo che era quasi mezzogiorno,


sulla piazza di questa bellissima cittadina, ci saranno stati un centinaio di partigiani, tutti i portici in giro erano occupati da loro che discorrevano, giocavano a carte e scherzavano con molte ragazze che non si capiva da dove arrivassero. Gli inglesi, cento metri prima di entrare in Bobbio, hanno indossato le loro divise militari, erano un maggiore e un capitano. Arriviamo li in questa marmaglia e in un attimo si fa un silenzio di piombo, chiediamo dov’è il comando, ci viene incontro un sergente e ci chiede chi siamo e cosa vogliamo, gli facciamo vedere il foglio di accompagnamento e ci porta dal comandante Fausto. Questa formazione non aveva ancora nessuna missione alleata, non avevano mai avuto lanci ma non nè sentivano il bisogno, Tutto quello che gli serviva lo recuperavano sulla via Emilia con imboscate veloci e di sorpresa. Appena adocchiato un convoglio sospetto, saltavano in mezzo alla strada e lo bloccavano e se risultava idoneo alle prospettive veniva deviato direttamente in val Trebbia. I loro magazzini a Bobbio erano strapieni di tutto, a pranzo facevano delle tavolate che sembravano i banchetti di nozze. Hanno voluto che stiamo li un paio di giorni per riposarci, a tavola eravamo una per parte al fianco di Fausto che era un uomo molto brillante e conosceva molto bene Il nostro Bisagno e lo ammirava. Diceva che un uomo come lui ci voleva in ogni Brigata. Ha chiesto notizie di Giulio, e ci hanno lasciato partire con un zaino pieno di roba da mangiare, che nè abbiamo portato ancora alle Capannette. Tornando al comando della Grecia mi dicono che c’è un partigiano dell’Arzani che mi cerca. Mi trovo davanti un giovane con le stampelle e un grosso solco sulla fronte già cecattrizzato ma che ti fa ancora un’enorme impressione, intuisco subito chi è e lo abbraccio ancora prima che lui si presenti. Voleva ringraziarmi per quel famoso combattimento di quella notte a Cosola, Mi dice che se non ci fossi stata io quella notte lui non sarei più quì. Mi fa promettere che dopo la guerra vuole vedermi e presentarmi alla sua mamma che anche lei sarà felice di ringraziarmi. Passiamo la serata in compagnia nella trattoria di Tambussi, con Giulio, lui e altri due reduci di quella battaglia. Ognuno racconta come là vista, c’è quello che dice di aver visto davanti alla sua mitraglia, un paio di tedeschi cadere, c’è l’altro che racconta quando arrivava le bombe del mortaio 81. Le sentivi arrivare con il rumore degli alettoni che avevano in coda e che gli permettevano di cadere sempre con la punta in giù e quindi con uno scoppio sicuro. Non le vedevi perchè erano sparate a obice, cioè con una traiettoria a curva lunga, e man mano che finiva lo slancio di partenza che gli dava la spinta del mortaio, iniziava la fase di discesa e quindi veniva giù quasi a piombo. Se eri tu il destinato non ti potevi salvare in nessun modo. La mitraglia, il fucile ma anche dal cannone ti potevi salvare, bastava un pò di esperienza e un qualche riparo davanti, ma dal mortaio non c’èra nulla che ti potesse riparare. L’unica salvezza se così si può chiamare, era quella dell’udito fine e dei riflessi prontissimi.


Quando sentivi quel caratteristico sibilo che sembrava il volo di una coturnice quando si butta giù con le ali chiuse dalle rocce più alte in una vallata sottostante, devi buttarti per terra immediatamente senza star lì a studiare dove cadere, perchè appena tocca terra esplode e nel raggio di una ventina di metri, all’altezza di un metro o anche meno non si salva nessuno. Mentre se eri atterra coricato ti potevi salvare, perchè scoppiando a dieci, quindici centimetri dentro il terreno, la volumetria del fuoco, cioè la rosa delle schegge, vanno verso l’alto a ombrello rovesciato e colpiscono solo all’altezza d’uomo. Arriviamo nel tardo inverno, o se vogliamo nella prima primavera, e succede un fatto importante, anzi due: La divisione Cichero incominciava a diventare troppo grande, aveva Brigate che erano anche molto lontane dai comandi centrali, come l’Arzani e l’Oreste, e decide di affiliare formando una seconda divisione chiamata appunto la Pinan Cichero. Era il nome di un suo valoroso combattente che non era più. Bisagno parla con Giulio e gli dice che al comando Zona avevano deciso di aggregare alla Pinan Cichero anche la Brigata Grecia che si trovava già in quella zona. Al comando di questa nuova divisione era stato designato Scrivia che era attualmente vice della Cichero. Se però lui avesse avuta qualche difficoltà, doveva solo dirlo perchè al comando della Cichero ci sarebbe stato sempre un posto di prestigio per lui. Giulio ringrazia Bisagno ma vuole stare con i suoi partigiani, aveva passato troppi momenti terribili per lasciarli ora quasi alla liberazione, voleva star con loro. E’ inutile aggiungere che Bisagno nè era già sicuro che sarebbe andata così. L’altro fatto ancora più importante è che ero incinta, si avete capito benissimo, era successo, doveva succedere, non poteva non succedere. Questo fatto che ad altri avrebbe portato timori o preoccupazioni, per noi era il paradiso, si certo, non eravamo proprio incoscienti, sapevamo benissimo di essere in guerra e sapevamo anche che poteva nascere orfano di guerra. Ma eravamo consci anche di quanto avevamo già pagato, non sarebbe più successo, saremmo arrivati sani e salvi alla fine. Ora appartenendo a questa nuova divisione ci siamo spostati con i nostri distaccamenti più a valle nella Borbera, i distaccamenti di Vezzimo e di Zerba sono stati spostati verso Rocchetta e dintorni, il comando della Grecia si è spostato dalle Capannette alle capanne di Cosola, solo un paio di chilometri più in là. Le giornate con Giulio volavano, vivevamo quasi tutto il giorno insieme al comando, facevamo lunghissime passeggiate in mezzo alle primule che, ne erano pieno i prati, facevamo progetti meravigliosi e mastodontici, non avevo più sofferto di quelle veloci crisi di sconforto che mi prendevano in certi momenti quando non c’era Giulio. Avevamo a disposizione una JEEP di quelle piccole che avevano lanciato e che ci servivano per andare a visitare i vari distaccamenti giù in vallata, e spesse volte, ora era Giulio che non mi voleva lasciar sola e mi


portava in giro su questa simpatica macchinetta. Non sapevamo ancora la data certa che sarebbe nato-, ma sicuramente non ero ancora di tre mesi, quindi si sperava che la guerra non sarebbe durata ancora così tanto. A guerra finita, non avremmo avuto neanche problemi di casa, vi era la mia requisita da fascisti, che sarebbe servita ottimamente per crescere un erede della resistenza italiana. Il fronte sulla linea gotica aveva ripreso le attività totalmente, e gli alleati avanzavano piano, piano, i russi erano quasi alle porte di Berlino e la Francia era quasi totalmente occupata dai partigiani e dagli sbarchi alleati avvenuti in Normandia e in altre località. I tedeschi resistevano come pazzi ma si poteva prevedere che oramai si era agli sgoccioli. Le nostre brigate facevano, ogni giorno, puntate sulle strade di fondovalle ingaggiando anche dei tremendi combattimenti, ma alla fine c’era sempre la nostra vittoria, con recupero di materiale rotabile ma anche armi, munizioni e vettovagliamento d’ogni genere. Eravamo già in grado di distribuire alle popolazioni dei nostri territori, viveri vari; ma soprattutto sale, sale che erano due anni che non nè arrivava. In tutti i Comuni vi era il nuovo sindaco liberamente eletto dalle popolazioni locali e quindi, da Bobbio a Genova, quasi, e da Bobbio a Varzi, per arrivare in tutte le montagne dell’oltre Pò pavese e alle spalle di Tortona, su, su verso Novi Ligure, le valle Stura e dello Scrivia per arrivare alle spalle di Genova nella zona di Ponte Decimo, Fegino e fino ad Arenzano. --Dall’altra parte, da Bobbio per tutta la val D’Aveto, la valle di Bettola sino alle spalle di Chiavari e La Spezia. Ecco tutta questa zona era occupata dai partigiani della sesta zona operativa, comandata da Miro e vice comandante il nostro Bisagno. Vi erano brigate di diverse tendenze politiche ma unite tutte per cacciare l’invasore e gli accoliti che lo appoggiavano. Vi erano brigate garibaldine, la maggioranza come la nostra, vi erano altre di giustizie e libertà come quella di Fausto, Quella dell’Americano che operava nella Staffora che non si capiva bene da che parte stesse, che poi era la più simile alla nostra divisione che era anch’essa, una divisione un poco anomala. Anomala, per questo fatto, che, in tutta Italia, nelle zone del Piemonte, della Lombardia ma anche in altre zone fuori, dalla nostra "sesta". Le brigate garibaldine, erano sicuramente brigate del partito comunista, portavano bandiere rosse e stella rossa sul petto con fazzoletto rosso al collo. Noi no, noi come bandiera ufficiale era permessa solo la bandiera tricolore con il viso barbuto di Garibaldi al centro, lo stesso il fazzoletto che portavamo al collo e la stella tricolore sul petto. Questo avveniva perchè il nostro comandante supremo era un cattolico credente e un militare convinto che al fronte non si doveva fare politica ma combattere. Poi, di fatto, avveniva tutto il contrario, perchè i commissari politici erano quasi tutti inviati dal partito comunista,ma anche molti dei partigiani la pensavano allo stesso modo. Bisagno però, si è sempre battuto per scindere la politica dalla guerra, anche se non sempre c’è riuscito.


E anche qui si deve considerare che i giovani arrivati negli ultimi tempi vengano quasi, sempre mandati sù dal C.L.N.. nel quale la maggioranza erano comunisti. Quindi eravamo garibaldini ma senza bandiere rosse, o meglio c’erano anche loro, ma mai nelle occasioni ufficiali e mai negli edifici dei comandi. Per esempio in valle D’Aveto vi era una brigata garibaldina, che prima si chiamava stella rossa e voleva essere autonoma. È stata costretta a cambiare nome è a sottomettersi alla sesta zona operativa con il nome di brigata Caio, ed era comandata da uno Slavo che aveva assunto il nome di battaglia da, Slavo, a Istriano. Tanto per non dimostrare di essere sottomessa alla Zona, l’avevano battezzata brigata di manovra, il che voleva dire che poteva spostarsi da un posto all’altro senza autorizzazione del comando Zona, questo doveva però avvenire sempre con una giustificazione valida: o per ragioni di difesa o per ragioni d’aiuto ad altre brigate in difficoltà. E, all’onor del vero bisogna dire si è sempre comportata benissimo, con onore e coraggio. Vi era poi la G.L. di Fausto che era Badogliana, come un’altra "brigatina" che operava a "cuneo " in mezzo alla Cichero e cioè alle spalle di Genova nella valle del Bisagno, è con questa brigatina non sempre le cose andavano bene. Occupavano una zona a rischio, se i tedeschi sfondando da loro, gli avevamo in casa, e spesso succedeva: arrivava il nemico e dopo qualche scaramuccia, si ritirava nell’altra valle verso la Fontanabuona e i tedeschi avevano via libera sino a Torriglia. Per questo modo di operare ci sono stati anche dei piccoli screzi, degli scontri a fuoco fra noi e loro, anche con qualche ferito. Loro vestivano in grigio-verde e portavano i gradi e le stellette come i militari dell’esercito regio che oramai era andato a farsi "fottere", scappando a Brindisi e lasciandoci nella "cacca". Ritornando a noi si viveva una certa tranquillità, gli attacchi nemici diminuivano sempre e si cominciava a sentir sapore di vittoria finale. Si parlava, d’organizzazione per la discesa in città, ci voleva un certo coordinamento per non trovarsi tutti in una stessa città o paese, lasciando magari libertà agli occupanti di passarsela liscia o ancora peggio di permettere sabotaggi sempre dai tedeschi annunciati. Giulio aveva già una specie di mappa inviata a tutti i comandi brigata dal comando divisione che, ricopiava una stessa inviata dal C.L.N. e modificata in qualche particolare, sopratutto nella zona di montagna dove il C.N.L. non conosceva bene. Secondo questa mappa noi dovevamo scendere a Serravalle con diverse altre brigate, da lì passare nell’altra valle della Stura, per risalire occupando Voltaggio e affacciarsi sulle alture del passo della Bocchetta e calare poi su Pedemonte e Pontedeccimo,spostarsi su Borzoli e scendere poi giù a Sestri Ponente e al mare. Non si parlava d’altro, ognuno sognava la propria casa, la propria famiglia e solo allora ti arrivava un brivido alla schiena che non ti era mai arrivato prima, il brivido che si poteva ancora morire, quando già avevi assaporato il gusto della libertà. Questi erano i momenti più brutti, si sapeva per certo che


molti sarebbero ancora morti, e frà questi, si cominciava a pensare che potessi esserci anche tu, sì, cercavi di scrollare ma, non potevi non pensare al dopo, a quello che avevi pensato e sognato per chissà quanto tempo, a tutto quello che ti aspettava, all’avvenire nuovo in libertà e democrazia, alle promesse fatte per quasi due anni dagli alleati, attraverso radio Londra e con continui lanci di manifestini. "Sarete acclamati come i liberatori del vostro paese, sarete quelli che lo riscatteranno agli occhi del mondo, sarete gli eroi del diciannovesimo secolo, sarete quelli che con spirito di sacrificio e sprezzo della vita vi siete dati alla macchia per riscattare un paese che aveva perso tutto, anche la propria dignità che voi riscatterete." Insomma questi erano bei sogni, ma proprio per questo che si associava sempre la paura di morire, che per due anni nessuno aveva mai pensato. Era una prospettiva, quella di morire che era già presente al momento della decisione di prendere quella strada. Per liberare un paese dalla tirranìa c’era bisogno di morti, questo si sapeva e si metteva in conto, ma ora no, ora non più si doveva morire, sarebbe stata una beffa del destino. Un pomeriggio arriva al comando della Grecia Marzo, il commissario della Divisione Cichero e direttore, redattore, compositore, con Bini, e tutto quant’altro serviva per far uscire il Partigiano regolarmente. Voleva salutare Giulio che non si erano più visti da quando era a Bobbio con Fausto, ma voleva anche conoscere un pò più da vicino la nostra Brigata, che era una delle ultime formatasi e di recente c’era stato quel passaggio dalla Cichero alla Pinan-Cichero. Doveva ripartire quasi subito con la sua scassatissima motocicletta Mas 175, che già a quei tempi inquinava tutta la vallata, ma dopo tre giorni era ancora quì da noi. Prima ha voluto tutte le informazioni sulla conformazione e dislocazione della nostra brigata, il numero dei distaccamenti e quello degli uomini, le azioni principali che avevano comportato feriti e morti, ma anche le perdite e le sconfitte portate al nemico. A fine guerra erano tutte notizie che gli sarebbero servite per scrivere la storia della resistenza in Liguria e nelle sue valli. Poi, pressato dalle nostre domande ha iniziato lui a raccontare: ha iniziato con il cascinale di Cichero in val D’Aveto, dove subito dopo l’otto settembre 1943, si sono trovati un gruppetto d’uomini carichi d’entusiasmo, ma inesperti sia di montagna che di guerra civile. Erano, lui, Moro, Bisagno, Lesta e un gruppetto di siciliani che erano a fare il militare a Chiavari e non potevano sicuramente tornare a casa. Non avevano quasi nulla da mangiare, e poco da vestirsi, lassù faceva freddo, anche se si coprivano sotto il fogliame secco, era dura lo stesso. La popolazione d’intorno non capiva chi erano, li guardava con curiosità ma con diffidenza, li vedevano girare per le strade ma nessuno sapeva dove erano alloggiati, quel cascinale era fuori mano e à nessuno è mai venuto in mente che potessero vivere li dentro. Discutono ed esplorano la zona per un paio di giorni, poi decidono di scendere in giù per vedere di recuperare qualcosa. Cera uno dei siciliani che era scappato da una piccola casermetta


d’avvistamento contraereo, forse si poteva trovare lì qualche coperta per l’inverno e non dover morir di freddo. Infatti, s’avvicinano sul far della sera e aspettano il buio, intanto controllano a vista se vi fosse qualche pericolo. Poi guardinghi entrano, rimane fuori solo Bisagno perchè è l’unico armato di una pistola, che aveva in dotazione come ex ufficiale dell’esercito Regio. Trovano, infatti, ancora tutti i dieci letti intatti, nessuno vi era più entrato, si caricano di tutto quello che potevano portare e poi via. Al mattino seguente non erano ancora arrivati al casone di Cichero, erano affamati e sfiniti, si sono nascosti in un posto da non farsi vedere e si sono addormentati, meno uno che doveva montare la guardia e ché manco a dirlo era Bisagno, era quello che aveva il fagotto più pesante e che era il meno stanco. Lui, Marzo aveva già fatto qualche annetto di prigione e altrettanto di confine politico, aveva fatto la guerra di Spagna con la brigata internazionale contro Franco, aveva un paio di vecchie ferite che incominciavano a farsi sentire, ma non voleva mollare. Era anche l’unico che parlava il genovese se pur di lontane origini siciliane e proprio in quel periodo che aveva coniato il detto, che poi era arrivato sino alla fine della guerra: "sutta a chi tucca" e annemmu avanti figieu. Bisagno era della classe del 1922, ed ero un tenente del genio militare in servizio nei dintorni di Chiavari. La notte dell’otto settembre 1943 e prima di abbandonare la casermetta fece nascondere tutte le armi e le munizioni leggere e trasportabili, in un’intercapedine che poi fece murare. Il primo mese è stato solo un mese di villeggiatura scomoda, un mese d’attesa e di studi, di previsioni e conformazione della zona circostante. Ogni tanto Marzo, che era il più vecchio e quindi meno sospettato all’eventuale incontro con i tedeschi, che però a quei tempi erano ancora pochi in Italia, o le camicie nere di Salò, che a Chiavari erano già molto attive e potenti, con a capo quel famigerato Spiotta che voleva sterminare tutti i nemici del fascio. Si recava nel fondovalle, per osservare e pesare i vari presidi dei carabinieri che erano rimasti al suo posto per il servizio regolare d’ordine pubblico, parlava e ascoltava persone della valle, cercando più informazioni possibili che gli sarebbero servite per il completamento del suo progetto di costituire un esercito clandestino come in Spagna e di rendere dura la vita agli occupanti della nostra bella patria. Passa qualche altra settimana, a Chiavari incomincia a circolare voce che in val d’Aveto ci sono dei ribelli, infatti, certe giornate, si vedevano dai nostri punti d’osservazione, squadre di militi in fila indiana che, perlustravano i sentieri nei boschi e le strade giù in fondo valle. Non sarebbe passato molto che sarebbero arrivati anche da noi, bisognava far qualcosa. Finalmente Bisagno dice la sua, racconta di quei fucili nascosti in quell’intercapedine, che bisogna assolutamente andare a prendere. Essendo però un carico abbastanza pesante bisognava studiare il modo per portarli via senza dare minimamente nell’occhio. Marzo ricorda che si faceva in questa stagione una fiera dove vendevano molte piante da frutto per


il trapianto in campagna. E, lì è nata l’idea, si doveva comprare di queste esili pianticelle che erano fasciate nella paglia lunga di segala è in ogni fascio infilare più fucili possibili. La famiglia proprietaria del cascinale di Cichero, ci diede una mano fornendoci dei pantaloni di fustagno con quei soliti berretti o cappelli da contadino. L’unica nostra paura era che i fascisti avessero già occupato quella postazione e quindi il recupero di quelle armi sarebbe stato impossibile. Partiamo in tre, racconta Marzo, io, Bisagno e uno di quei militari siciliani che erano lì a fare il soldato, un certo Francesco che più tardi, è stato preso dai fascisti nella zona di Scoffera e mentre lo traducevano a Genova alla casa dello studente per interrogarlo, diede uno spintone al suo carceriere più vicino e si buttò giù in un fosso, riuscendo a scappare in mezzo agli arbusti e sotto una gragnola di raffiche di mitra sparate da una decina di fascisti. --Arriviamo ci appostiamo ad una certa distanza e aspettiamo eventuali movimenti. Alla sera appena buio ci s’inoltra all’interno al lume di candela, e con un martello si rompe la parete e si sfilano i fucili e tutto il resto. Si doveva attraversare un prato alla vista e per nasconderli in un fienile che confinava con la strada, si doveva operare di notte. Il giorno dopo partiamo in dieci e tornando dal mercato con tutte queste fascine di piante, inseriamo dentro i fucili, scartando e abbandonano anche molte piante per portare più fucili possibili. Ogni due fasci pronti, una coppia partiva per i monti, tenendosi distanziati di qualche chilometro per non dare sospetti. Non incontriamo nessuno fino a Borzonasca, ma arrivando lì notiamo un gruppo di fascisti della guarnigione locale che, fermi in mezzo la piazza, scherzavano con delle ragazze. In quei cinquanta passi, per portarsi fuori, dalla loro vista, l’adrenalina era salita alle stelle, Va bene che i fucili nostri erano già tutti carichi e pronti a far fuoco, ma erano moschetti modello 38 che sparavano un colpo alla volta con caricatori da sei cartucce, contro i loro mitra saremmo stati svantaggiosissimi. Bisagno era in testa e appena notato questo, fingendo di riposarsi, appoggiando il fascio contro una parete, e pronto eventualmente a far fuoco se qualcuno fosse stato fermato. Ma non successe nulla, probabilmente eravamo camuffati molto bene che a nessuno venne di pensare che lì dentro c’erano fucili. Siamo arrivati al cascinale che era notte ed eravamo sfiniti, dalla stanchezza che dalla fame, quella notte non abbiamo avuto bisogno della ninna nanna. Poi a raccontato di tutte le marce forzate che dovevamo fare nella notte, ogni qualvolta si presentava pericolo, vale a dire, appena i contadini vedevano una persona "foresta" venivano ad avvisarci. E per non cadere in trappola dovevamo, caricarsi di tutto e spostarsi in altra zona magari anche molto lantana marciando in fila indiana per delle ore senza fiatare. E qualche volta c’è andata bene, come quella volta che non trovando nessuno, ma una sua spia sicura aveva dichiarato, di averci visto il giorno prima, bruciavano il "casone". Bene questo appena raccontato e solo l’inizio di una storia d’uomini che erano degni di quel nome,


che, sono morti e feriti, che hanno compiuto atti d’eroismo indescrivibili e che hanno patito il freddo e la fame per quasi diciotto mesi, che avranno avuto anche momenti di sconforto, ma anche la forza di raddrizzarsi. Come, quella volta che, hanno fatto saltare la casermetta dei fascisti a Rezzoaglio. Bisagno persona esperta nel campo dei guastatori, confeziona una rudimentale bomba e la va a piazzare dentro ad una finestra del piano rialzato di questa caserma, accende la miccia e scappa. Tutta la squadra è in attesa dello scoppio per poi entrare e far prigionieri gli occupanti, ma lo scoppio non avviene, passano i minuti e non succede niente, si rivede Bisagno scavalcare nuovamente quel davanzale e si stà in trepidazione dalla paura che gli scoppi in mano, poi finalmente salta dalla finestra e ancora prima che tocchi terra avviene lo scoppio. Lo scopo di quella bomba era di buttare giù la porta d’ingresso e di spaventare con la sorpresa gli occupanti, e, tutti e due, gli obbiettivi, sono stati centrati, siamo arrivati dentro che ancora erano tutti in pigiama, nessuno ha tentato di reagire, gli abbiamo fatti uscire cosi com’erano con un freddo tremendo, gli abbiamo fatti camminare per tre a quattrocento metri senza scarpe perchè servivano a noi, poi li abbiamo lasciati liberi. Abbiamo requisito armi e tutto quanto vi era lì dentro ed è stato il primo bottino di guerra di una certa risonanza,che sicuramente avrebbe svegliato l’appetito al nostro amico Spiotta. Dopo questo fatto la voce "ribelli" era su tutte le bocche della val Trebbia, ma anche sù quella dei federali in città e sopratutto sul capo delle bande nere che operavano nel Chiavarese, Spiotta. Per un periodo di tempo ci siamo pentiti di aver svegliato un così groviglio di serpenti; ogni giorno, dovevamo fare lunghe marce e fughe precipitose ed ogni tanto avveniva qualche arresto con fucilazione. Noi non eravamo ancora feroci come loro, ma si poteva immaginare che, andando avanti di questo passo ci avrebbero portati a diventare uguali a loro infatti qualcuno dei nostri cominciava a rammaricarsi di non averli fucilati tutti. Le stazioni dei carabinieri delle valli Trebbia e Aveto erano state rinforzate con militi delle bande nere che avevano una gran voglia di medaglie. Molti carabinieri se n’erano andati seguendo l’esempio dei soldati l’otto settembre 43, ma quelli più ligi al dovere e al giuramento erano rimasti per l’ordine pubblico e ora erano stati completamente esautorati da questi militi che la sapevano lunga. Molti di questi carabinieri avevano il merito di conoscere tutti gli abitanti della sua giurisdizione, sapevano chi era fascista ma anche chi era contro. Così spesse volte, quando sentivano prendere delle decisioni nei nostri confronti, riuscivano, attraverso queste persone a farci arrivare le segnalazioni pertinenti e permettendoci di appostarci per riceverli degnamente. Poi via, via, più tardi sono passati quasi tutti nelle nostre file, meno solo qualche eccezione come un certo Tommasi della stazione d’Ottone che era un cacciatore spietato di renitenti alla leva, che poi alla fine della guerra,


qualcuno che l’aveva tenuto d’occhio e lo aveva prelevato nel parmense, e portato a Torriglia, condannato a morte, e fucilato. Questo qualcuno era il padre di un ragazzo della valle, poiché era stato arrestato,mandato nei campi di concentramento e non tornò più. Finalmente dopo il terzo giorno di racconti, Marzo è dovuto andar via, altrimenti ci sarebbe stato da raccontare per altri dieci anni. Noi intanto appena saputa con sicurezza la notizia dell’attesa dell’erede, ci siamo subito sposati. Giulio quando era con la sua brigata sui monti della val d’Aveto e che spesse volte scendevano verso la Trebbia, per attaccare il nemico nel fondovalle, si trovavano a transitare vicino ad una caratteristica cappella con il tabernacolo della madonna. E, ogni volta che passavano di lì, si faceva il segno della croce e "biascicava" qualche parola di protezione. Era un posto stupendo, quella madonnina un pò sbiadita dagli anni e dalle intemperie degli inverni, t’intimidiva un pò e ti faceva pensare. Era situata sù di un altipiano del monte Dego, ed era mèta di pellegrinaggio per gli abitanti delle valli, che sopratutto d’agosto, quando avevano finito i lavori in campagna si radunavano in pellegrinaggio anche arrivando da molto lontano. Era forse anche un pegno di ringraziamento proprio per i raccolti appena incamerati. In ogni modo a Giulio gli aveva fatto effetto, era rimasto bene impressionato da quel silenzio tutt’intorno e ha voluto sposarsi lì. Abbiamo incaricato il cappellano della divisione Cichero che mi pare si chiamava don Gigetto, il quale si è interessato di tutto, facendoci sottoscrivere l’impegno cristiano dell’unione, con l’impegno suo e del comando divisione dove era depositato quest’atto di matrimonio, da trasferire con tutte le ufficialità di legge all’anagrafe di Genova, e nei registri della mia parrocchia d’Albaro dove ero nata e battezzata, appena finita la guerra. Siamo partiti dalle Capanne il mattino ancora buio, siamo scesi per la val Boreca con la nostra (Jeep), gipetta-quasi giocattolo e siamo arrivati, con ampi e lunghi giri per via delle strade, sul prato davanti alla cappella della madonna. Il prato era gremito di partigiani e anche di paesani dei dintorni, don Gigetto era molto conosciuto aveva fatta un po’ di pubblicità. Inutile aggiungere che non mancava nè Bisagno nè Marzo, anche loro con le sue scassate motociclette si trovavano sempre e dovunque, erano come lo "spirito santo". La cerimonia è stata semplice ma toccante. In quella mattinata quasi primaverile, il sole sembrava volesse salutare con i suoi raggi le bellezze del creato. Come uscita dal velo della notte la natura sorrideva splendida alla pace solenne che aleggiava dalle cime dei monti alle valli sottostanti. Le primule, le viole e le erbe diamantate dalla rugiada erano coperte da goccioline scintillanti alla luce del sole. Un profumo di menta e d’assenzio veniva giù dai boschi circostanti mentre gli uccelli


salutavano con i loro canti tanta poesia. E’ stata una cerimonia da ricordare e sicuramente la ricorderemo, ma facciamo anche promessa che torneremo ancora quassù chissà quante volte in questo paradiso di pace. Dal fronte gotico arrivavano notizie di un lento avanzamento degli alleati, noi eravamo stufi di vivere in quello stato snervante d’attesa, in tutte le riunioni che si facevano non si sentivano altre voci, ché quelle di voler scendere in città, di liberare la nostra Genova e aspettare lì gli alleati. Ma questo non si poteva ancora fare per due ragioni; la prima che vi era ordini tassativi dagli alleati di non prendere alcuna iniziativa del genere, seconda che vi era ancora una grossa guarnizione di tedeschi, molto bene armati ma sopratutto con intenzioni di resistere fino all’ultimo uomo e far saltare la città e il porto come ultima scians. In queste condizioni l’unica cosa che ci restava a fare erano le puntate di fondovalle sempre più in avanti e sempre più ardite, tanto che questi tedeschi incominciavano a prenderci sul serio e continuavano a chiedere gli scambi di prigionieri che prima non avveniva, li mandavano in Germania o li fucilavano. Chiedevamo

informazioni

alle

S.A.P.

(squadre

di

azione

partigiane),

che

operavano

clandestinamente nei centri più importanti che circondano la città, e appena studiata la situazione e calcolato gli eventuali pericoli si interveniva con magari anche tre distaccamenti per volta. Si occupavano questi centri, tenendo sotto controllo gli eventuali presidi locali, e tenendo occupata la cittadina anche tutto il giorno. Questi fatti avvenivano quasi tutti i giorni; un giorno toccava ad una brigata e l’atro giorno all’altra, un giorno toccava a Serravalle un altro giorno ad Arquata, per poi arrivare ad occupare PonteDeccimo e Pedemonte e tenerli occupati addirittura per tre giorni consecutivi, pur avendo il comando della divisione tedesca dislocata lì vicino, a Savignone. Lo stesso avveniva per le altre brigate che operavano in val Fontanabuona, val Bisagno,Trebbia e Aveto. Varie volte è stato occupato Recco, con le batterie tedesche ad Uscio, la periferia di Genova come Prato, la D’oria e spingendosi sino a Staglieno. Oramai i tedeschi vivevano asserragliati nei forti o nel porto, avevano paura circolare in pochi, i posti di blocco all’entrata della città erano stati demandati alle camice nere, che appena sentivano odore di "ribelli" e qualche raffica di sten, si ritiravano velocemente sparendo nel centro della città. Un mese e mezzo, prima della liberazione, due brigate,la Balilla comandata da Battista e la brigata Severino comandata da Gino, che erano due brigate di manovra e che avevano sempre operato in quelle periferie, erano fisse, occupando, la prima a PonteDeccimo e dintorni, la seconda da Prato e Staglieno. Un giorno arriva da noi una notizia tremenda, sei partigiani della nostra brigata che sono stati catturati in valle Scrivia e portati alla casa dello studente, dopo essere stati seviziati e torturati erano


stati condannati a morte da un tribunale fascista e sarebbero stati fucilati la notte del giorno dopo, al forte dei Ratti. La notizia era stata data per certa da un informatore che, da tempo aveva manifestata la volontà di passare nelle nostre fila, ma aveva paura e cercava di crearsi le credenziali, dandoci una mano quando riusciva a captare qualche informazione che ci interessava. La notte stessa dell’informazione, Giulio con altri cinque dei più fidati e coraggiosi, sempre in ogni caso volontari, si misero in marcia, armati di sten e bombe a mano. Viaggiarono tutta la notte e all’alba si trovarono nei pressi di questo forte, si nascosero in un avvallamento del terreno con arbusti e attesero tutto il giorno quasi senza manco respirare. Si trovavano però in una posizione difficile da poter osservare la zona dove sarebbe avvenuta la fucilazione, cosi Giulio ha voluto saperne di più e, camminando carponi per più di duecento metri, si è portato in cima alla cava, proprio di fianco alle mura di levante del forte, dove sotto si poteva vedere tutto il piazzale, compreso il muretto dove li avrebbero fucilati. Aveva appena finito di fotografare con la mente dove avrebbero potuto piazzarsi per intervenire e sventare l’assassinio di questi nostri compagni, che è apparso una squadra di quei militi di guardia al forte per gli avvistamenti aerei, e si sono messi a scavare una fossa dove sarebbero stati seppelliti i fucilati di quella sera, senza lasciar tracce. Non sapevano l’ora esatta che sarebbe avvenuta la fucilazione, ma speravano che fosse più tardi possibile per avere il tempo di piazzarsi nel modo migliore per intervenire. Quando Giulio è tornato al nascondiglio per decidere, tutti insieme,sul da farsi, i suoi gomiti e le sue ginocchia erano tutte in una piaga sanguinante, dal cammino che aveva fatto strisciando sul terreno accidentato. Appena notte, guardinghi e con la massima attenzione, passando per un sentiero già adocchiato da Giulio, si portarono ai fianchi di questa piazzola, tre da un lato è tre dall’altro è attesero. Quando, era già passata la mezzanotte da qualche tempo, che, quasi cominciavano a dubitare che fosse la serata giusta, sentono il rumore di un motore che risaliva l’ultimo pezzo di salita per arrivare su quel piazzale. L’emozione ha fatto salire l’adrenalina fuori d’ogni controllo medico, quasi non respirarono, era una serata limpida che trasparivano le figure nitide e quasi riconoscibili in volto. Arrivano con un furgone completamente chiuso e con una targa tedesca sicuramente fasulla e con luci blue molto basse. Fanno il giro della piazza e se non avessero avuto quelle luci clandestine, sarebbe stato un problema, perchè sicuramente l’autista avrebbe visto le nostre, teste anche sè schiacciate per terra com’erano. Fanno un pò di marcia indietro, saltano giù un paio di camice nere, vanno dietro il furgone e aprono la porta, scendono altri sei o sette di loro e poi tocca a prigionieri. Li vediamo scendere tutti e sei, anche se non si potevano conoscere, perché bendati e legati con le mani dietro. Ogni fascista prende per braccio un condannato e lo accompagna contro quel muretto che già conosciamo, si ritirano dove c’erano gli altri già schierati, è in quell’attimo sono partite le nostre sei raffiche di sten simultaneamente.


Eravamo d’accordo; prima di sparare partendo dai due lati andando verso il centro, a modo da non lasciare una parte scoperta dal nostro fuoco. Si sono visti cadere tutti quanti in una frazione di secondo, noi ci siamo volati a dosso sempre sparando. Gli abbiamo tolte le armi, abbiamo preso i nostri prigionieri, gli abbiamo tolto la benda agli occhi e li abbiamo buttati letteralmente sul furgone. I più tanti non avevano ancora capito, cosa era successo, addirittura uno si è messo a correre all’impazzata senza vedere dove andava, sperava che lo avessero sbagliato. Meno male che è caduto quasi subito sul piazzale, altrimenti c’era il pericolo che dopo qualche metro sarebbe finito nel precipizio della cava e non si sarebbe salvato. Abbiamo preso due delle loro divise, una per il nostro autista e l’altra per Giulio che era di fianco, e c’è nè siamo andati via con lo stesso furgone. Il pericolo non era latente, perchè quelli del forte la in alto avranno pensato che, la fucilazione era avvenuta e quindi si doveva andare a seppellirli prima che venga giorno. Siamo scesi velocemente e abbiamo preso per la val Bisagno, sapendo che a Prato vi era un posto di blocco, alla Doria abbiamo girato per Creto, Montoggio è abbiamo portato il furgone sul ponte, vicino a L’Accio, che avevamo fatto saltare noi qualche tempo prima e lì abbiamo dovuto abbandonarlo. "Alla fine della guerra questi sei coraggiosi ragazzi sono stati decorati di medaglia d’argento al valore e hanno avuto, cosa anche più gradita, la riconoscenza degli scampati, e soprattutto, dei loro genitori, che per merito loro, hanno rivisto i suoi figli, tornare a casa sani e salvi." Questa è stata un’azione che non ho potuto oppormici, in quanto si trattava di ragazzi che conoscevo uno per uno e si doveva far qualcosa. Ma sono stata due notti senza prender sonno, solo di giorno riuscivo a fare qualche piccolo pisolino. Eravamo sposati da pochi giorni, quel prato stupendo davanti alla cappella della Madonna del monte Dego non mi lasciava un minuto, pregavo continuamente chiedendo aiuto e protezione per il mio Giulio. In mezzo a questi ricordi fissi, ogni tanto mi si stagliava nella mente una faccia che mi scombussolava, ma non nè venivo mai a capo di niente. Appena detto il si, del matrimonio mi sono girata verso il pubblico e, subito ho incontrato uno sguardo tremendo, uno sguardo che mi ha fatto venire i brividi nella schiena, volevo parlarne a Giulio ma poi mi è sfuggito il pensiero e con esso l’immagine. Ora però mi tormentava, sopratutto appena chiudevo gli occhi, mi balzava alla mente e mi spaventava. Ma più che mi faceva soffrire era che non riuscivo a capirci niente, non l’inquadravo, non riuscivo a metterla a fuoco. Un lampo; è stato come un lampo a ciel sereno, nel dormiveglia ho visto quella faccia su di una divisa da gerarca e subito è seguito tutto il resto. Ho visto l’uomo in bicicletta vestito da contadino, che mi aveva portato in quella trappola sopra Torriglia, l’ho visto un attimo dopo vestirsi da gerarca


e portarmi via. Lo vedevo ora là, sù quel prato davanti alla Madonna vestito da partigiano e mi preoccupava il pericolo che tutti i partigiani stavano correndo. Non sapevo cosa fare. Mi ricordavo che, qualche volta Giulio mi diceva che non riusciva a capire come avessero fatto a portarti quel messaggio, proprio lì al comando Divisione. Ma ecco spiegato l’arcano; quello lavorava lì, faceva il doppio gioco, se no come poteva sbucare, qualche centinaia di metri dopo e vestito da contadino?. Dovevo fare qualcosa subito, bisognava che al comando sapessero che avevano una spia. Ma io mi trovavo alle Capanne Di Cosola, mentre il comando Divisione era a Gorreto. Vado dal vice comandante della Grecia che sapevo anche molto amico di Giulio e gli racconto tutto. Lui, non sapeva di tutte le mie tribolazioni, non sapeva neanche di quel fatto strano del mio rapimento in zona partigiana, anzi al comando stesso della Divisione. Così ha cercato di prendere tempo, dicendomi che sarebbe stato meglio aspettare il ritorno di Giulio, che lui conosceva tutti i nomi e le persone della Divisione per esserci stato fisso, qualche mese addietro. Ero molto preoccupata, volevo quasi andare io a Gorreto che conoscevo personalmente Bisagno e che era stato anche mio testimone alle nozze, ma il responsabile della Grecia in quel momento non mi accordò il permesso, non tanto perchè non voleva che andassi al comando Divisione, ma non voleva prendersi la responsabilità di fronte a Giulio di avermi lasciato andare via incustodita. Finalmente arriva Giulio e dopo una lunga medicazione sù quasi tutto il corpo per le escoriazioni prodotte in quell’avvicinamento al forte, gli racconto la mia visione. Gli dissi anche che, non vorrei sbagliarmi, ma quel partigiano forse era anche un graduato, mi sembrava avesse sul petto qualcosa che brillava, come dei gradi o delle medaglie. Partiamo immediatamente per Gorreto con la nostra piccola Jeep e dopo un’ora, eravamo già lì. Bisagno non c’è, dobbiamo aspettare tutto il pomeriggio, intanto io giro per il castello, passo per gli uffici con delle scuse, nello spaccio e in sala mensa, ma non trovo nessuno con quella faccia. Ci fermiamo a cena, ma anche quì nessun riconoscimento, finalmente arriva Bisagno, e dopo i convenevoli saluti e abbracci, ci raccontiamo la storia. All’inizio non ci può credere ma dopo aver fatto mente locale per qualche tempo inizia un dubbio. Se c’era una spia fra noi, non poteva che essere una persona, un commissario politico arrivato frà noi un pò di mesi fa, che proveniva dalla zona delle Langhe, ed era provvisto di tutti i timbri necessari per non essere sospettato. Si era presentato con un plico del comando della Sesta Zona, con tutti i timbri e le firme regolari, dove ci chiedevano di inserirlo nelle nostre fila perchè doveva fare ricerche ed esperienza per poi portarle nella zona delle Langhe e cercare di amalgamare e uniformare le varie formazione


partigiane in tutto il territorio dell’alta Italia. Non era minimamente sospettabile, perché anche il "Partigiano", nè aveva parlato e nè parlava continuamente, era una regola dettata dal C.L.N. alta Italia. A guerra finita si doveva essere più o meno tutti sulla stessa lunghezza d’onda, avere le stesse regole per far rinascere uno stato democratico e libero. Adesso però questo signore se nè era andato da un paio di giorni, giustificandosi con il fatto che oramai era in grado di portare i contenuti della nostra vita partigiana, cercando di uniformare per quanto possibile, quelle zone dell’alto Piemonte e Lombardia. Ma ora, visto sotto questo aspetto, dovevamo stare molto attenti, bisognava allertare tutte la forze partigiane della nostra zona, aveva portato via tutti i nostri segreti, i dislocamenti delle nostre Brigate, come eravamo armati, quanti eravamo veramente e tutto quanto aveva potuto apprendere in questi mesi che è stato con noi, e forse se ne era andato proprio per la paura di essere stato riconosciuto e rischiare la fucilazione. In ogni modo, per saperne di più, Bisagno si sarebbe recato al comando della Sesta Zona Operativa ché, nè era anche il vice comandante, e si sarebbe attivato per accertare se veramente anche in quel comando c’era il pericolo di qualche infiltrato. In quei pochi mesi che sono stata alla casa dello studente come segretaria del torturatore di partigiani Gimelli, anche se non mi facevano sapere tutto, qualcosa riuscivo sempre a captare. Quando parlavano di dislocazioni partigiane in città, S.A.P.,veniva sempre fuori il nome di Sangermano che era il dirigente della squadra politica della Questura di Genova, ed era l’uomo più informato di tutti, perchè aveva diversi suoi agenti infiltrati frà i partigiani locali, e si diceva anche nelle formazioni di montagna. Quindi, il nostro uomo non poteva che essere uno di questi. Ne parliamo a lungo con Giulio e decidiamo di intervenire. Partiamo in tre, io, Giulio e un altro genovese che conosceva bene la zona ed era anche molto in gamba, si chiamava Pino ed era quasi minorenne come me e aveva anche i documenti da minorenne, ma soprattutto, conosceva molto bene, quel finto commissario partigiano che cercavamo. Arriviamo nei paraggi della Questura di Genova e ci piazziamo nell’attesa. Attraverso il C.L.N. abbiamo ottenuto una stanza in un palazzo di fronte che si poteva osservare tutti i movimenti che avvenivano nei dintorni. Eravamo muniti di un piccolo binocolo che ci permetteva di conoscere qualsiasi persona circolava in quei paraggi. Il primo giorno niente da fare, forse non era dipendente da questo Sangermano, poteva essere anche di un altro commissariato, ve n’erano alcuni altri in città che si erano fatti il nome di sfegatati anti "ribelli". Ma il giorno dopo verso le nove lo vediamo arrivare, lo vediamo scendere da una balilla davanti l’entrata principale della Questura e sparire dentro. Vittoria: oramai è nostro. Abbiamo atteso più o meno l’ora del pranzo poi siamo scesi, Pino ed io ci siamo piazzati, uno per


parte all’incrocio li davanti, che vi era anche la fermata del tram. Giulio è andato a prendere un taxi segnalato dal C.L.N. per uno dei nostri e si è portato nelle vicinanze. C’era solo da sperare che non uscisse direttamente con la balilla dal cortile interno alla Questura, che in ogni caso l’avremmo seguito e avremmo visto dove abitava e quindi avremmo agito lì. Infatti, esce e dopo un’occhiata in giro si dirige verso il D’Oria da dove uscivano le auto di servizio della Questura e sale su una di queste. Noi non potevamo avvicinarsi tanto in quanto ci poteva riconoscere e sarebbe stata la fine, dovevamo arrivarci addosso di sorpresa. Arriva Giulio con il taxi, saltiamo dentro tutti e due e via all’inseguimento. A metà di via Assarotti si presenta l’occasione; un semaforo rosso ci viene in aiuto, il taxi si avvicina e tira giù il vetro per chiedere qualcosa, allo stesso istante Giulio, che era di fianco all’autista alza lo sten lo punta alla spalla dell’autista del nostro "amico" e intima l’alt, la resa o la morte, sù le mani. Nel medesimo istante Pino salta giù dal taxi e gli piazza il suo sten dietro la nuca al gerarca e intanto sale sulla balilla e io con lui dall’altra parte, e diamo ordine di partire per prato, avvertendoli che qualsiasi piccola mossa sarebbe per loro la morte sicura. Partiamo con la canna dello sten nella schiena dei due e l’autista ci prega di non fargli del male che ha due bambini piccoli e che non è fascista ma solo un agente di pubblica sicurezza che quel giorno gli è toccato di guidare quella macchina, l’altro lo tacita con; vigliacco rubi lo stipendio ma non finirà così. Eravamo d’accordo che Giulio ci avrebbe seguito col taxi a breve distanza fino allo scampato pericolo, poi, sarebbe venuto con noi liberando il taxista. Questo è avvenuto subito dopo la D’Oria sulla strada per Creto, dove l’abbiamo ringraziato e pregato di informare il C.L.N. dell’operazione okei. Arrivati a Montoggio sapevamo che verso Laccio c’era il ponte rotto, così abbiamo preso la strada per Pentema e siamo riusciti a portare il nostro prezioso carico, balilla compresa, in zona completamente partigiana. Eravamo già nel pomeriggio avanzato, dovevamo continuare a piedi per risalire sullo spartiacque dell’Antola per poi continuare verso le capanne di Carrega e ridiscendere nel fondovalle del Trebbia per arrivare a Gorreto, dove era il comando Divisione e la prigione nel castello Centurione. L’autista è stato separato in attesa di informazioni, il prigioniero spia è stato legato al palo, come si era avvezzi a fare per punire i partigiani che commettevano infrazioni lievi. Ma poi siamo stati costretti a portarlo nella prigione del castello perchè era diventato una sputacchiera. Lì lo conoscevano tutti e c’era anche il pericolo di linciaggio. Dopo una settimana circa, sono arrivati due grossi del C.L.N. e un alto commissario del Comando Zona, ognuno di questi aveva raccolto decine di testimonianze; di tutto quello che aveva fatto, di tutti i partigiani torturati e anche di tutti quelli che, non c’è l’anno fatta ed erano morti. Fra le accuse più atroci vi era anche quella di aver intercettato il vero commissario che veniva dalle Langhe e di averlo torturato quasi a morte per impossessarsi di notizie sù chi era e sù quello che doveva fare, per poi ucciderlo, lui stesso con una pugnalata al


cuore e prenderne il suo posto cambiando solo la fotografia sul documento della Sesta Zona. E’ stato condannato alla pena di morte per mezzo di fucilazione alla schiena come spia, eseguita il giorno dopo dentro le mura del castello. Mentre l’autista, non essendoci stato nulla a suo carico venne liberato dopo una settimana, ma... Ma, non è voluto tornare al suo lavoro, ha chiesto se poteva rimanere ed eventualmente, dopo tutti gli accertamenti che lui stesso ci avrebbe indicati, se risultava idoneo e con parere favorevole, avrebbe partecipato molto volentieri a combattere al nostro fianco sino alla fine della guerra, così è poi successo. Anche questa volta siamo stati insigniti d’encomio solenne tutti e tre, con pubblicazione sul "Partigiano". Adesso vorrei aprire una piccola parentesi, per tornare, un momentino indietro, solo per farvi capire chi erano i fascisti di allora. All’inizio del rastrellamento d’agosto due brigate d’alpini e una di bersaglieri tornavano dalla Germania, dove erano state ben addestrate dai tedeschi contro la guerriglia partigiana. Erano quasi tutti ragazzi renitenti alla leva o sbandati dopo i fatti dell’otto settembre, che erano stati catturati dai fascisti e dai tedeschi e inviati in Germania nei campi di lavoro. Appena questi giovani sentirono che vi sarebbe stata la possibilità di tornare in Italia, aderirono in massa al reclutamento offerto dai tedeschi. Arrivati però in patria, moltissimi disertarono subito e gli altri, anche se combattevano, lo facevano con dignità e coscienza, senza mai scendere a livelli e a bassezze, che invece per i fascisti erano all’ordine del giorno. Credo di avervi già parlato delle famose battaglie con massicci attacchi fra i partigiani, delle brigate Oreste, Arzani e Jori a Pertuso, Rocchetta, Cantalupo e altre in tutta la val Borbera, contro forze preponderanti e armamenti molto superiori a nostri. C’è stato un momento che stavano per sfondare su tutta la linea, un distaccamento della Jori che si trovava alle Capannette Di Pej per i lanci, è mandato di rinforzo, giù verso Rocchetta. A un certo momento si sono trovati di fronte una colonna di alpini che stavano oramai avanzando indisturbati dopo aver sbaragliato mezza brigata Arzani, la quale, finite le munizioni ha dovuto ritirarsi lasciando sul terreno un mucchio di morti e feriti. Questo distaccamento si mette in posizione d’attacco e dopo pochi minuti è l’inferno, sono dotati persino di carri armati veloci, hanno mitraglie pesanti, hanno mortai 81 che per questa guerra erano micidiali, non potevi trovare nessun nascondiglio, sparavano a obice e quindi la bomba ti poteva arrivare dall’alto dritta sulla testa. Dall’altra parte, avevano tre mitraglie e cinque o sei mitragliatori Breda che s’inceppavano sempre, il resto dell’armamento consisteva in mitra, sten e qualche bomba a mano. In queste condizioni resistettero per tre giorni tenendo inchiodati gli alpini al suo posto. Ma anche quì si sapeva che la cosa non poteva durare ancora per molto. Venivano all’attacco, con le loro armi molto superiori alle


nostre, in più appena finito il combattimento, si ritiravano e subito dopo un’altra compagnia nuova prendeva il suo posto, sembrava fossero migliaia, non finivano mai. Non ci davano neanche il tempo e la possibilità di recuperare i nostri feriti che si sentivano lamentare da lontano. A un certo momento si è visto spuntare, sulla sponda di fianco a noi, una fila di alpini che stavano salendo per poi prenderci alle spalle, si è avuto appena il tempo, con la lingua di fuori sfuggire all’accerchiamento e abbandonando morti e feriti. Ecco; il fatto sconcertante e tremendo avviene ora. I partigiani da quel momento si sono sganciati e si sono sparsi per le montagne cercando di non farsi prendere e salvare la pelle. Questa colonna d’alpini, proseguendo il rastrellamento verso la val Trebbia, ha raccolto i sei o sette feriti di quell’ultima battaglia, li hanno medicati, han costruito delle barelle posticce di frasche e se li sono portati dietro per tre giorni, fino a Zerba. . A Zerba, iniziava la strada carrozzabile ed era l’oro intenzione mandarli all’ospedale di Bobbio per il proseguimento delle cure. Ma nel frattempo erano arrivati, attraverso la statale 45 da Genova, già liberata da altri alpini, una squadra di camice nere con un autocarro e se li fecero consegnare con la falsa promessa di portarli a Genova per il ricovero in ospedale. Questi fascisti erano comandati dal famigerato Gimelli, chiamato il torturatore della casa dello studente. Già nella notte li lasciarono li, per terra sulla piazza del comune al freddo e la gente delle case vicine hanno sentito i lamenti per tutta la notte, mentre loro, dopo aver requisito l’unica trattoria del posto se la davano a gozzoviglie. Il mattino seguente li caricarono sul camion, non prima di averli presi a calci nella pancia e in faccia, e dopo aver fatto non più di un paio di chilometri, a Cerreto frazione del comune di Zerba. Li buttarono giù su di una piazzola laterale alla strada come sacchi di carbone e li trucidarono con scariche di mitra e bombe a mano. Saputo che il capo si chiamava, col nome di battaglia Chicchirichi, hanno piantato nel terreno un legno con un cartello, "Chicchirichi non canta più", ( si chiamava Arzani) -avvertendo la popolazione che se fossero stati rimossi prima dei tre giorni avrebbero bruciato il paese. Ora; quello che io vorrei dire, è che il nemico con il quale avevano combattuto li ha medicati e portati per tre giorni sù sentieri di montagna, con gran fatica e difficoltà per mandarli all’ospedale e poter salvare il salvabile. Mentre altri nemici, che non avevano combattuto e non li conoscevano neanche, ma che li odiavano a morte, li trucidavano in questa feroce maniera. Non si possono fare commenti per giustificare l’atrocità del fatto, ma si possono fare delle domande che nessuno fino ad’ora non ha saputo rispondere. Era semplicemente la guerra?. O erano anche gli uomini, almeno una parte, che avevano perso la coscienza?. E sostituito nel cuore, l’amore con quell’odio tremendo?. Tornando alle capanne di Cosola era per me tornare dall’inferno al paradiso, il mio Giulio era


sempre più bello, ed eravamo sempre più innamorati, la primavera incominciava a pronunciarsi, dalle primule si stava passando alle viole e alle margherite. Appena vi era un pò di tranquillità facevamo lunghissime passeggiate sopratutto di sera, parlavamo del nostro domani sperando di ritrovare anche il passato che Giulio non ricordava più. Ma sopratutto parlavamo d’amore; ogni tre passi e cinque parole mi diceva che mi ama, che ha una voglia di baciarmi da morire, gli rispondevo...non morire e baciami e lui mi baciava, mi baciava per delle ore intere, non eravamo mai sazi, quanto sei bella amore mio, vedi, la luna è gelosa, guarda come diventa scura quando ti bacio, dovremo farlo solo di giorno alla luce del sole, lui non è geloso ma sembra contento. Si amore mio, appena sarà finita la guerra dovrai baciarmi per delle giornate intere, sarà la linfa che mi farà felice, che mi aiuterà nell’attesa che tu ritorni alla sera dal lavoro, avremo il nostro bambino che ameremo tantissimo e che dovremo crescere bene. Ne faremo un comandante di brigata come il padre, ma non lo manderemo mai più in guerra, la guerra, sarà bandita dalla nuova Costituzione e nostro figlio non dovrà soffrire e vedere quello che abbiamo sofferto e visto noi. Vivrà in pace per tutta la sua vita, glie lo dobbiamo. Intanto si avvicina l’ora della discesa in città, si fanno progetti, si tengono conferenze e si gira continuamente per i distaccamenti sparsi nella zona, per spiegare l’ultima battaglia con il minimo possibile di perdite. Gli Alleati insistevano per non farci scendere prima del loro arrivo, ma noi avevamo l’obbligo morale di liberare le nostre città e consegnargliele libere, non fosse altro che per riscattare il ventennio fascista e le conseguenze della guerra, combattuta contro di loro. Erano momenti euforici. il morale degli uomini era alle stelle, non si parlava altro che di liberazione, erano tutti impazienti di dare l’ultima spallata a quel mostro che aveva insanguinato il mondo e si sognava ad occhi aperti. Si arriva così nei primi giorni del mese d’aprile 45, le brigate di punta incominciano a fare passi avanti, sono occupati quasi tutti i centri che circondano le città. Noi, con L’Arzani e L’Oreste, scendiamo sù Serravalle e Arquata e mentre queste due brigate occupano questi due centri importantissimi, per la ritirata dei tedeschi. Noi della Grecia, attraversiamo quel piccolo colle e occupiamo Gavi. Ma non è stato facile perchè in quella fortificazione sopra il paese, vi era un grosso e nutrito gruppo di tedeschi, con le avanguardie piazzate sul colle che sovrasta la valle Scrivia, e prima di riuscire a sfondare e cacciarle dentro la fortezza, abbiamo dovuto combattere tutta una giornata e quasi una notte, solo al mattino poco prima dell’alba si sono ritirate nel castello e asserragliandosi lì dentro. Questa è stata la prima battaglia ingaggiata contro i tedeschi nell’avvicinamento alla città, è stato uno scontro molto cruento con un morto e cinque feriti non gravi, contro le sei morti del nemico lasciati sul terreno e non sappiamo quanti i feriti che sono stati portati via. Abbiamo mantenuto l’occupazione di Gavi per una diecina di giorni con i tedeschi asserragliati nella fortezza con un campo minato tutto intorno. Nessuno di loro usciva mai ma, se ci si avvicinava scoppiava l’inferno, da tutte le feritoie usciva un fuoco micidiale. Alla fine arrivano ordini di non insistere, ma tenerli bloccati e renderli inoffensivi.


Si arriva così fino al 21 ò 22 aprile, a Genova sono pronti per l’insurrezione, gli Alleati incominciano a varcare il Bracco e bisogna far presto, c’incamminiamo con tutti i distaccamenti, lasciando Gavi occupato da uomini della Mingo. Marciamo quasi in colonna, con le avanguardie e i fiancheggiatori per evitare sorprese. A Voltaggio troviamo nuovamente una forte resistenza e dobbiamo combattere anche quì tutta la giornata, i tedeschi erano appostati in una villa sulle alture e avevano buon gioco. Alla notte una parte della Brigata ha cercato di aggirarli portandosi alle loro spalle e al mattino appena giorno iniziamo il fuoco da sopra e da sotto costringendoli, verso mezzogiorno alla resa incondizionata. Sono stati i primi prigionieri della liberazione, erano circa trecento che dopo averli disarmati e reso innocue le armi pesanti, li abbiamo chiusi dentro con a guardia la squadra di azione del paese. Arriviamo sulla Bocchetta e sentiamo che a Genova si spara, scendiamo velocemente verso Isoverde e Pedemonte e non troviamo nessuna resistenza, ci avevano segnalato un grosso presidio di camice nere, ma avevano già tagliato la corda per proprio conto Occupiamo questi centri con una parte d’uomini e proseguiamo per Pontedeccimo, dove la troviamo già occupata dalla Brigata volante Balilla, comandata da Battista, che ha sempre operato nelle valli limitrofe. Intanto sentiamo notizie che la Brigata Jiori di Croce, sta scendendo dal Righi e avendo già disarmato i tedeschi asserragliatesi nei due forti, sta scendendo nel porto, dove sembra che sia in corso un aspro combattimento. Arriva la data del 25 aprile e Genova è libera, liberata completamente dalle forze della resistenza come era nei nostri piani. Giulio ed io con un paio di distaccamenti della Grecia siamo andati in centro dove si doveva ricevere gli Alleati con gli onori delle armi e la consegna delle chiavi della città. Prendiamo alloggio in un palazzo alla foce, dove prima era occupato da circa 2.000 soldati tedeschi che non volevano arrendersi ai partigiani per paura di rappresaglie, ma sono stati costretti ad arrendersi quando hanno visto che facevamo sul serio sparando con un cannone contro la facciata del palazzo. Insieme agli uomini della Jori li abbiamo disarmati, li abbiamo fatti sfilare per tutto Corso Torino, Corso Buenos Aires, sino al campo sportivo del Genoa ed era quasi completamente pieno di prigionieri tedeschi. Appena finita quest’ultima operazione di pulizia in città, abbiamo sentito le prime raffiche in aria e la fanfara che suonava il bughi bughi a tutto volume, che scendevano dalla collina di Albaro verso piazza Tommaseo e corso Buenos Aires. Noi ci siamo predisposti sulle due ali dei marciapiedi e li abbiamo fatti sfilare sino a piazza De Ferrari, acclamati dalla popolazione in festa.


Poi abbiamo abbandonato tutti e ci siamo recati in Carignano dove era la casa di Giulio, sperando di trovare i suoi genitori, ma niente da fare,la casa era al buio e nessuno l’aveva più aperta, ritornando così nei nostri presagi è preoccupazione che non fossero più vivi. Con Giulio abbiamo fatto il giro di tutti i comandi partigiani, di tutti i comandi Alleati per avare qualche notizia, ma nulla da fare, nessuno ha mai saputo darci qualche indizio, sembrava fossero spariti nel nulla, neanche il portinaio che ora era libero di parlare senza timore, non aveva avuto più nessuna notizia da quel lontano 1943, quando erano spariti. Aveva le chiavi, ma non era mai più entrato in quella casa perchè i fascisti, dopo averla perquisita per un paio di volte ci misero i sigilli e ci sono ancora. Giulio non si ricordava neanche del portinaio, il quale appena lo ha visto si è dovuto sedere, perchè sapeva della sua morte e trovandoselo davanti così all’improvviso e avendolo riconosciuto senza possibilità di dubbio si è quasi sentito male. Siamo andati in casa, abbiamo guardato un pò in giro, per vedere se ci fosse qualche indizio ma anche quì nulla , Giulio non si ricordava neanche di averla abitata. Prima di andarsene ci siamo raccomandati che, se si fossero presentati i suoi genitori non doveva dirgli nulla del figlio, ma avvertire il comando partigiano e cercare Giulio, temeva per il loro cuore, temeva che la notizia così brusca,poteva creargli dei brutti scherzi. Passano ancora un paio di giorni e Giulio mi dice se lo accompagno al forte di San Giuliano, che vi erano alloggiati un battaglione dei nuovi carabinieri, che avevano combattuto al fianco degli Alleati durante tutta l’avanzata dalla Sicilia a Genova. Mi dice, sarà un altro tentativo a vuoto ma non possiamo non tentare anche quì. Arriviamo nel corpo di guardia, c’è un via vai di carabinieri in movimento, finalmente riusciamo a bloccarne uno e chiediamo di voler parlare al comandante, Giulio era vestito con una divisa nuova che sembrava un generale americano,coni suoi bravi gradi lucidi sul petto metteva veramente in soggezione. Sopratutto stupiva la sua giovane età. Anche io ero in divisa kaki e facevo la mia bella figura; lo deducevo dagli sguardi dei carabinieri presenti. Il piantone ci dice di attendere e va a riferire a un sottufficiale che era il capo guardia. Arriva li da noi e chiede chi è e per che cosa vuole parlare al Colonnello, si presenta come comandante partigiano della brigata Grecia, come del resto i suoi gradi sul petto lo certificavano, e vorrebbe parlargli per cose personali. Nell’attimo che succede tutto questo, sentiamo un secco ordine di attenti e girandosi vediamo un ufficiale superiore che avanza dell’interno verso l’uscita e quindi verso di noi. A un certo momento, quando mancavano pochi passi di distanza da noi, si ferma di botto, guarda Giulio e dopo una pausa di un chilometro esclama; GIULIO !, un’altra pausa lunghissima poi; PAPA’! e non succede più nulla, non una parola , non più un respiro, niente non volava una mosca. Si abbracciano e non si staccano più per un tempo infinitamente lungo. Poi il colonnello, si stacca lo guarda ancora e chiede, ma sei veramente tu o sei un fantasma, fatti toccare, vieni, vieni con me che abbiamo da parlare. Lo prende a braccetto gli passa una mano sulla testa e lo spettina come


quando si accarezza un bambino, entra nel corpo di guardia e chiede di sedersi, chiede anche un pò d’acqua perchè si sentiva svenire. Passato l’attimo, dimmi Giulio che cosa ti è successo per non farci sapere più nulla? . Ma non aspetta la risposta e lo incalza con le domande, gli dice ma tu sei un ufficiale americano o sei un comandante partigiano e intanto gli osserva i gradi sul petto, si papà sono un comandante partigiano, e solo allora si ricorda di me e si gira per presentarmici. Il colonnello mi guarda un pò in dubbio e poi mi chiede; ma tu sei Lipsia, e come mai sei vestita da partigiana?. Interviene Giulio, che in questi pochi minuti riacquista totalmente la sua memoria, papà te lo spiego dopo, e una cosa troppo lunga per parlarne quì ora, ma la mamma dov’è. A si, la mamma, la mamma è rimasta a Roma, sai che aveva una sorella sposata a un romano?. Hanno voluto che si fermasse da loro sino alla fine della guerra, ma ora la faremo venire sù. Però temo che non resisterà a questa notizia, dovremo andare cautamente, sai, lei non ha il cuore da colonnello, non verrei che gli fosse fatale il tuo incontro, c’è mancato poco che succedesse a me figurati alla mamma, sono piu di due anni che ti piange, dovremo studiare e pensare come prepararla. Dopo pochi altri minuti, il colonnello fa una telefonata, disdice l’appuntamento che aveva col nuovo Questore di Genova e ci porta nel suo ufficio lì al forte. Giulio Gli spiega come non ha potuto avvertirgli perchè aveva perso completamente la memoria, e quindi non sapeva neanche di avere una famiglia, fino al tuo incontro, un momento fa, che ho inquadrato immediatamente tutto il mio passato. Avevo come un velo che non mi lasciava andare oltre,che è caduto di colpo appena ho sentito la tua voce. Prima d’ora, qualcosa ero riuscito a ricordare per mezzo di Lipsia, ma molto poco, ma tu papà dove sei stato?. Che, con Lipsia, ti abbiamo cercato per tutta Italia senza trovare mai una minima traccia?. Beh.. ti racconterò velocemente i dati sommari della mia sparizione. No sò se ti ricordi ma io ero impegnato nella resistenza, già prima dell’otto settembre 43. Ero sotto il mirino delle brigate nere già prima del venticinque luglio 43, prima della caduta di Mussolini, figurati con quei di Salò com’ero ben visto. Un amico che non ho ancora conosciuto, ma spero di poterlo conoscere e ringraziare, mi ha avvertito appena in tempo, poco prima che stavano per venire ad arrestarmi. Siamo fuggiti con la mamma a Crocefieschi, in casa di un nostro amico che aveva una casetta e ci siamo stati per tre o quattro mesi. Poi, siamo dovuti scappare anche da lì, perchè si incominciavano a veder girare certi brutti ceffi e non eravamo più tranquilli. A Genova avevo conosciuto un generale Badoliano che teneva i contatti con il nostro governo in esilio e mi aveva convinto a passare il fronte per eventualmente arruolarmi nel corpo volontario della libertà, che stava organizzando dietro le linee con il consenso degli alleati. Sapeva del mio passato antifascista, sapeva anche che avevo fatto il militare di leva come ufficiale di complemento nei carabinieri e quindi mi convinse a partire. Anche perchè la vita quì a Genova c’è l’avevano resa molto dura i genitori di Lipsia, non volevano saperne che sua figlia avesse relazioni con una famiglia antifascista. E tu saprai anche che il tuo invio immediato al fronte, quando avevi già ottenuto il rinvio


per studi, è stato merito proprio del federale suo padre. Quindi rischiavamo troppo, e dopo la notizia della tua morte presunta, non avevamo più nessun legame in questa città, e abbiamo deciso di andarsene. Ora con calma, poi, mi racconterete di voi, di queste vostre divise della resistenza, di questo travaglio che ci deve essere stato in Lipsia, dei suoi genitori e dell’odio che covavano contro di noi. Si papà poi ti racconteremo tutto, ma ci vorrà molto tempo, ora ti diremo solo che i genitori di Lipsia non sono più, sono morti tutti e due da molto tempo, e Lipsia è stata quella che ha avuto una parte preponderante nella mia salvezza, ma anche nel mantenere una speranza che tornassi a ricordare, come ora è avvenuto totalmente. Piano, piano ti diremo tutto quanto è successo, e, vedrai che Lipsia ha rischiato la vita più volte per salvarmi e c’è riuscita sempre, ma ti diremo anche tutto quello che ha passato in questi ultimi due anni, che è sempre corsa dove io ero in pericolo, ma ti diremo anche, che ci siamo sposati in montagna e che aspettiamo un bambino. A questa notizia ha fatto un salto sulla sedia, si è girato verso di me, si è alzato, mi ha guardata un poco come se mi vedesse per la prima volta e mi ha abbracciato forte quasi a farmi male, e gli son venute le lacrime agli occhi. Un bambino?. Ha esclamato! Ma siete tutta una sorpresa, dobbiamo parlarne, chissà la mamma come sarà felice, sai che ti voleva bene ed era molto contenta nel vedervi insieme. E tu con quella bella divisa da americano, cosa sono quei gradi brillanti che hai sul petto?. Intendo dire, che grado sarebbe, capitano, maggiore, o colonnello come me?. Si, potrebbe essere colonnello, nel nostro ordinamento vuol dire comandante di brigata, che potrebbe corrispondere, più o meno a colonnello dell’esercito regolare. Ah... ma allora siamo pari, due colonnelli nella stessa famiglia, formidabile ma guarda un pò... Tre colonnelli nella stessa famiglia, gli risponde Giulio, quello che nascerà l’abbiamo già promosso in pectore pure lui colonnello. Ma senti un pò Giulio sei già stato a casa nostra?. Si ci sono stato giorni fa con Lipsia, ma non ricordavo niente e non ti so dire gran che, però ora che ricordo mi sembra sia sempre uguale, forse un poco buia. Non c’è più la luce ma ora la faremo rimettere, anzi dovremo far presto, abbiamo bisogno di avere un posto tranquillo per le nostre riunioni. Dovremo parlare per dei mesi per raccontarci tutto quello che abbiamo fatto e che abbiamo passato in questi due lunghissimi anni. Ma anche di quello che faremo, e sarà più tanto di quello che abbiamo fatto non credi?. E poi abbiamo urgente, il problema della mamma, studiare la soluzione velocemente perchè io la voglio rivedere, non posso più aspettare molto. Il giorno dopo avevamo l’appuntamento nella casa di Carignano, l’abbiamo visitata tutta per benino, abbiamo studiato quello che si doveva fare per le pulizie e renderla abitabile, è in tre giorni era pronta e l’abbiamo occupata noi tre soli,in attesa dell’arrivo della mamma. Ci siamo poi recati a casa mia in via Zara, ma non abbiamo potuto visitarla in quanto occupata dai partigiani della Brigata


Severino. Che erano stati autorizzati dal C.L.N., perché prima era stata requisita e occupata dai fascisti del Torturatore della casa dello studente, che era stato appena arrestato e si trovava in carcere in attesa di giudizio. Ora in quella casa di Carignano ci si stava d’incanto,avevamo una parte a mezzogiorno che porgeva sul mare, con una grandissima sala e un altrettanto grande poggiolo. La felicità, dopo tante traversie sembrava finalmente ci irridesse, mancava solo un completamento, la mamma di Giulio. La zia di Roma aveva il telefono ma noi ancora no, ci siamo recati tutti e tre al comando dei carabinieri di San Giuliano e da lì il padre di Giulio ha chiamato la moglie per sentire come stà e quando sarebbe venuta a Genova. Giulio stava ascoltando sull’altro telefono e quando ha sentito la voce della mamma, gli sono venuti i lacrimoni agli occhi e ho avuto una percezione che tremava anche un po’ dall’emozione. Il marito le chiede come stà e con un giro di parole gli fa capire che vi sono anche molte novità quì a Genova, e in più io sono solo mi vuoi lasciare così ancora per molto tempo?. No, no, verrò prestissimo, mah, speravo che tu trovassi il tempo per venirmi a prendere, sai, viaggiare da sola in questi tempi. Si, si, verremo senz’altro, appena tu sarai pronta saremo lì. Va bene, io sono già prontissima, potete venire anche domani, ma scusa con chi vieni?. Ma con chi vuoi che venga secondo tè?. Ma non lo so, mi dici verremo e questo dimostra che non sarai solo, ah beh si, mi farò accompagnare da qualche mio carabiniere. Ora però dimmi se sei seduta e se c’è qualcuno li con te, perchè ti voglio dare una notizia molto grossa, anche se per ora è solo una notizia di seconda mano, e quindi bisogna prenderla con diritto di inventario e non farci troppo affidamento. Si, si, ma non tenermi sulle spine dai, sputa stà notizia cosi grossa non tenermi in sospeso. Ecco; sei almeno seduta, si sono seduta è c’è quì anche mia sorella, allora?. Senti ripeto, quello che ti dirò deve essere preso così,con molta leggerezza, perchè è un filo molto fragile è potrebbe spezzarsi. Ma insomma mi vuoi far morire prima di dirmela?. Senti "mamma" lui la chiamava così da sempre, ho avuto una fragile notizia da un amico che lavora al Ministero della Guerra sul nostro Giulio. Un silenzio di qualche minuto poi... ma che cosa ti hanno detto?. Mi hanno detto che forse potrebbe essere ancora vivo, ancora vivo?, ma dove si troverebbe, ancora in Grecia o dove?. No, sembra che sia stato fatto prigioniero degli alleati e che si trovi in qualche campo di prigionieri in Africa o giù di li. Ma avremo notizie piu veritiere tra poco tempo, questo mio amico farà ricerche. Si, digli che le faccia bene perchè è sicuro che è vivo, nel mio cuore lo sentivo ancora in vita, nè sono sempre stata sicura e ho atteso questa notizia da allora. Vieni subito a prendermi che voglio parlargli io con questo tuo amico, perchè ora sono più che sicura, è vivo lo sento, il mio cuore non mi ha mai tradito. Dopo un’ora eravamo già in viaggio su una macchina messa a disposizione dal comando generale dei carabinieri di Genova. Arriviamo, e noi ci fermiamo sul pianerottolo davanti alla porta, il padre


entra e la prepara, gli dice che la notizia è risultata vera e che Giulio è vivo è sta benissimo e la cosa più bella che stà per rientrare a casa. La mamma da un grido che la sentiamo anche noi fuori della porta, andiamo, andiamo, grida, che se arriva e non ci trova povero ragazzo cosa penserà di noi?. Che siamo morti, dopo tutto questo tempo senza notizie sarà una tragedia per lui credendo di trovarci a casa invece non trova nessuno. Senti "mamma", ma tu come ti senti?. Sarai in grado di abbracciarlo senza farci brutti scherzi?, voglio dire, il tuo cuore, reggerà all’incontro?. Il mio cuore?. Ma tu sei matto, ha resistito quando mi hanno detto che era morto e non deve resistere ora che mi dite che è vivo?. Ma io non vedo l’ora di abbracciarlo, anzi non so come farò ad attendere tutto questo tempo ancora, questo si mi farà male, questa attesa sarà tremenda. "Mamma... siediti e aspetta, mi pare che abbiano suonato vado a vedere, non ti muovere. La mamma forse intuisce, ma non si muove, guarda la porta e vede Giulio che viene avanti, vorrebbe alzarsi ma non riesce, vorrebbe gridare ma anche in questo non c’è la fa. Allarga solo le braccia per abbracciarlo, si stringono uno all’altra per almeno cinque minuti, poi lo allontana per guardarlo. Lui era sempre in divisa americana ed era abbronzato dalla montagna; ma come ti trovo bene, ma come ti sei fatto grande, sei già un uomo, ma da dove vieni così abbronzato e con questa bella divisa, sei sempre militare?. Si mamma sino ad ora sono militare, ma ora chiederò il congedo e torneremo insieme a fare progetti come allora. In questi circa venti minuti, non si era accorta di me, anche se cercavo di mettermi in vista, lei non mi vedeva, quando poi mi ha inquadrato è stato un altro urlo, Lipsia, ma ci se anche tu?. Si, signora ci sono anch’io, dove c’è Giulio ci sono sempre anch’io, ci vogliamo sempre bene signora, come a quei tempi, si ricorda quando ci faceva il tè con i pasticcini?. Altroché se mi ricordo, ma poi sono successe delle brutte cose che io ti avevo dimenticato. Ma ora mi racconterete, si, le racconteremo tutto e le garantisco che nè abbiamo da raccontare. Vedo che anche tè ti sei fatta una bella ragazza, sei un bella signorina, e sei sempre stata con Giulio?. Non sempre ma quasi, e avremo anche notizie importanti e fresche da darle, ma glie le darà Giulio. Guardo Giulio e aspetto che sia lui a dirle del mostro matrimonio e del bambino, ma lui mi risponde; continua pure tu che sei la mamma, così le ho raccontato del nostro matrimonio in quella chiesetta di montagna e del bambino in arrivo. Temevo una reazione contrariata invece, mi chiama per nome e mi dice; vieni, vieni quì cara che, ti voglio abbracciare e darti il benvenuta frà noi, siamo molto contenti che sei entrata a far parte della nostra famiglia. Non sò però cosa nè penseranno i tuoi genitori, dopo tutto quello che è successo contro Giulio e contro noi, te lo permetteranno o ti faranno sempre la stessa guerra di allora?. Si signora, me lo permetteranno perchè non ci sono più, sono morti da un paio d’anni, quindi non ci saranno problemi da quel lato, ma anche se ci fossero saremmo benissimo in grado di superarli, il nostro amore ha superato ben altre difficoltà e rischi molto maggiori al no dei miei genitori.


Mi fa piacere sentirti parlare così, e scusami ma non sapevo, troppe cose, credo di non sapere e spero, me le racconterete piano, piano. Ora però colonnello, ci porti a cena fuori?. Siamo andati tutti in piccolo ristorante che la sorella conosceva ed è stata una grande serata, Giulio requisito dalla madre e io dal padre, poi siamo partiti direttamente per Genova. Abbiamo fatto sette ore di macchina ma a nessuno è venuto sonno, la mamma dietro con il figlio e io davanti con il padre, è stato un racconto di sette ore e non siamo arrivati neanche a metà della storia, ci vorranno degli anni per arrivare in fondo e chiudere definitivamente. Torniamo a Genova e abitiamo tutti insieme nella loro casa di Carignano, eravamo tutti quanti molto felici. I militari avevano problemi di smobilitazione, che gli Alleati sembrava avessero molta premura di disarmarci e mandarci a casa, noi altrettanto ma volevamo dei riconoscimenti sempre promessi e ora quasi in dubbio. Dopo pochi giorni ci riuniscono tutti in piazza della Vittoria, davanti al monumento ai caduti, saremo stati penso qualche migliaio di uomini. Appena inquadrati al centro, ci troviamo circondati, tutto intorno da truppe alleate motorizzate e armate come in guerra. Sul palco, che era costruito all’inizio dei giardinetti e rivolto verso i mare e quindi verso di noi. Salgono dei generali alleati e Iniziano a parlare, ringraziandoci per quello che abbiamo fatto ma ci pregano di lasciare lì per terra, ai nostri piedi, le nostre armi, e andare a casa per ricostruire le città dai disastri della guerra appena finita. Probabilmente i nostri comandanti avevano già qualche sospetto su quello che stava per avvenire, ma sopratutto Bisagno che, sale su di una JEEP e con un megafono da l’attenti alla divisione Chichero e ordina di marciare verso la nostra caserma che era alla Foce, in quel palazzo che avevamo fatto prigionieri, qualche giorno prima, più di duemila tedeschi. Vicino all’attuale palazzo della Previdenza Sociale dove, dovevamo passare per andare verso Corso Buenos Aires, e, quindi in caserma. Vi erano schierate un paio di compagnie dei nuovi carabinieri, ma non quelli in grigioverde che avevano combattuto al fronte,quelli di mio padre per intendersi, ma quelli tradizionali in nero con le righe rosse, quelli per l’ordine pubblico per capirci. I quali, non si muovono e non possiamo passare. Bisagno è in testa con la sua motocicletta e noi tutti dietro, un distaccamento dietro l’altro. Le nostre armi, quasi tutti sten e qualche mitra, sono a tracolla con la canna puntata in avanti all’altezza d’uomo e con pallottola in canna, idem quelle dei carabinieri. A questo punto si poteva temere un macello. Io mi trovavo a pochi metri dietro Bisagno e sono stata con il cuore in gola, sino ché, un maresciallo, che si trovava al centro di una compagnia, vedendosi e sentendosi spingere dalla canna dello sten di Bisagno, sul petto, si è ritirato di due passi e ha chiesto ai suoi uomini di lasciarci passare. E’ stato un respiro profondo e un pericolo scampato, per il buon senso di questo maresciallo che ha, col suo gesto, evitato il peggio.


Siamo stati in quella caserma ancora per una settimana, mentre le autorità parlamentavano con gli Alleati, e mentre quelli del C.L.N., almeno una parte, trasferivano tutte le armi e munizioni che erano ancora dei tedeschi arresisi, nuovamente in montagna, e le nascondevano come si era fatto,in maniera minore, dopo l’otto settembre. Poi visto che non si decidevano a riconoscere le promesse fatte, con degli automezzi sequestri ai tedeschi, siamo tornati tutti in montagna, più o meno nei posti che avevamo combattuto e sofferto. Noi non siamo andati alle capanne di Cosola con la nostra Brigata, ma abbiamo dovuto rimanere a Torriglia, dove si era istallato il comando Divisione e dove erano invitati tutti i comandanti di brigata a rimanere disponibili per gli eventuali sviluppi della situazione. Giulio ed io, eravamo alloggiati nell’albergo Americano, e il comando era nell’albergo Pipino, sulla piazza. Abbiamo passato una quindicina di giorni a rimpinzarci di ravioli, lasagne e bistecche. Poi finalmente ci annunciano che arriva una commissione capeggiata dal generale Alessander, con i diplomi famosi a sua firma e le lire per pagarci la "deca" di tutti questi quasi diciassette mesi di montagna. Tutti i comandanti sono invitati a ritirare quelli dei suoi uomini e avviene la smobilitazione generale, lasciando le armi, quelle che ancora non erano state nascoste, negli alberghi stessi, o negli alloggi dei vari reparti. A questo punto entra in causa Bisagno e la sua morte accidentale. Vi ho già parlato un poco degli alpini del battaglione Vestone della Monterosa, i quali erano quasi tutti veneti. Quando nell’autunno del 1944 si sono arresi al completo a noi, Bisagno aveva promesso che gli avrebbe qualificati ed equiparati completamente a partigiani combattenti italiani, come se non avessero mai combattuto per i tedeschi e contro di noi. Ora era venuto il momento di certificare queste qualifiche, e, lo si poteva fare solo accompagnandoli nei loro comuni e dichiarare il loro operato alle autorità dei loro paesi. Prende un camion e rimorchio, allora non c’erano i comodi pulman che ci sono ora, ci si doveva accontentare, raccoglie tutti questi ragazzi di quelle parti e li accompagna nei suoi paesi, nelle sue case. Terminata la consegna di tutti se ne fa ritorno a Genova, ma, in una curva della gardesana di destra,una manovra azzardata dell’autista, il camion finisce in una cunetta e Bisagno scivola giù e finisce sotto una ruota dello stesso. La tragedia per migliaia di partigiani che lo veneravano si è compiuta. Bisagno non c’era più. Tutto quanto raccontato, in forma romanzata è tutta verità, solo i nomi dei protagonisti, sono stati inventati. E’ pure la brigata Grecia è un nome di fantasia, ma, tutte le altre, con tutti i nomi sopra riportati sono veri, come sono veri tutti i nomi dei partigiani nominati e sopratutti quelli dei comandanti e commissari. Sono vere le località menzionate e tutti i fatti avvenuti in


quei luoghi e a quei tempi. Ma, premetto, sono solo una minima parte di quanto è successo in quei diciotto mesi e in quelle zone. Sono solo i pochi fatti a cui ha partecipato, o comunque conosciuto da vicino, il sottoscritto narratore.


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