Tate: Model Of Visual Identity

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Corso di Grafica Cattedra prof. Renato Galasso Laurea di Primo Livello


Contents 004 Introduzione 006 Cenni storici sul museo 012 L a grafica e il sistema di identitĂ visiva:

la comunicazione visiva come interfaccia tra

l’istituzione e il fruitore della cultura

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Caso studio:

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Caso studio:

Stedelijk Museum Centre George Pompidou


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Caso studio:

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Caso studio:

Tate Galery Walker Art Center

108 Note 102 Citazioni 112 Bibliografia 113 Sitografia 1


004 Introduzione [Nella terminologia italiana e negli assetti didattici e istituzionali, per «design della comunicazione» s’intende oggi (rispetto al più generico «grafica» di sapore ormai più tendente verso l’ambito espressivo) la progettazione di artefatti comunicativi, in particolare di tipo visivo, svolta da operatori specializzati in presenza di precisi vincoli produttivi e con obiettivi più nettamente tesi agli aspetti di tipo funzionale, legati alla risoluzione di specifici problemi posti da specifiche committenze, pubbliche o private]


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Questa è la definizione che Giovanni Lussu scrive per il design della comunicazione, pubblicata sull’Enciclopedia del Novecento, Treccani, Roma nel 2011. Ed è partendo da questa definizione che la tesi si pone come obiettivo l’esplorazione e l’analisi sulla metodologia utilizzata e sulla realizzazione di artefatti del design della comunicazione e dei servizi, al fine di individuare quei progetti che hanno saputo trasformare il loro lavoro in modelli da seguire a livello globale, in termini di comunicazione visiva, branding e visual design. In particolar modo questa tesi si occuperà del progetto di immagine coordinata per la Tate, nelle sue quattro sedi londinesi.

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L’ idea di sviluppare questo tema nasce durante gli anni del mio percorso accademico nel corso di grafica, in concomitanza ai diversi viaggi nella capitale britannica, dove rimasi affascinata, forse per pura deformazione professionale, dalla strategia di comunicazione visiva usata dall’istituzione inglese. Durante questi anni ho sviluppato maggior interesse nel settore della comunicazione di servizi, nello specifico di musei e beni culturali, nonostante la materia non facesse parte del mio piano di studi, decisi di frequentare il corso per approfondire tale argomento sul quale in seguito decisi di sviluppare la mia tesi, effettuando ulteriori sopraluoghi alla Tate Modern e alla Tate Britan di Londra. Durante questi viaggi, l’esperienza di visita e di contatto con l’istituzione stessa è stata di gran coinvolgimento sia dal punto di vista professionale sia dal punto di vista emozionale, personalmente credo che l’esperienza alla Tate Modern, lascia dentro qualcosa che un amante del design e dell’arte contemporanea non può descrivere con semplici parole. Ma di questo mi occuperò più avanti. Dividerò la mia tesi in sezioni cercando di affrontare l’argomento partendo dalla storia del visual design e della comunicazione dei servizi e dei beni culturali fino ad arrivare ai nostri giorni, analizzando i progetti d’identità visiva che più hanno attirato la mia attenzione in termini di innovazione comunicativa dal punto di vista grafico. Il design di servizi, appunto, che comprende la corporate identity delle istituzioni è il fulcro sul quale è incentrata la mia ricerca. Siamo circondati da servizi che si presentato a noi, ogni giorno in forme diverse facendo parte della nostra vita quasi in modo scontato, oramai. Non sono più una novità ma rimangono al centro di discussioni nel diffuso mondo dei consumatori, in questo caso, “consumatori” dell’arte. Manuela Papa


006 Cenni storici sul museo

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[Inizialmente, infatti, non era uno spazio destinato all’esposizione di opere d’arte: era una collezione semipubblica di libri e manoscritti, aperta alla consultazione]


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007 TATE Britain Ingresso principale

Il museo fa la sua comparsa nel XVIII secolo in Europa e negli Sati Uniti. Il primo museo che possiamo definire indipendente è il British Museum, fondato nel 1759, anche se il titolo di museo è invalidato dal fatto che nei primi cinquant’anni della sua esistenza non si è trattato di un museo nel senso che il termine assume oggi. Dal principio il museo aveva la funzione di conservare opere d’arte, manoscritti e oggetti rari e di valore, mettendo a disposizione tali collezioni solo a una certa elitè, cosa che durò nel tempo fino al passaggio importante dalla sfera del collezionismo (accessibile a pochi) a quella della conservazione e del museo (accessibile a tutti). Il museo era il luogo in cui non si ci ponevano interrogativi ma si davano autorevoli risposte. Oggi il museo è al centro di un acceso dibattito, che riguarda la sua metodologia e la sua stessa finalità è messa in questione, questo dibattito che non approda mai ad una conclusione ma che influisce profondamente sulla percezione che abbiamo dei musei e sul modo in cui essi sono gestiti. L’idea di museo ha un ruolo centrale nella cultura occidentale, e nel modo di concepirla. Di tutti i simboli culturali, il museo è forse al tempo stesso il più venerato, il più controverso e nonostante è sempre collocato sul filo della sua stessa definizione, in perenne trasformazione ed espansione, ed è sempre stato oggetto di durissime critiche e innumerevoli riforme1. Nel corso di questi ultimi, sia in ambito nazionale che internazionale stiamo assistendo a un’ulteriore e profonda trasformazione che investe l’ambito dei beni culturali o luoghi della cultura, così definiti per avere un’accezione più ampia e che tenga insieme musei, biblioteche, archivi, orti botanici, parchi archeologici, e patrimoni di vario genere. Cambia il significato: “una struttura permanente che acquisisce, conserva, ordina ed espone beni culturali per finalità di educazione e di studio”2. Oggi i musei e gli eventi culturali si sono guadagnati il rispetto del pubblico, per la più ampia possibilità di scelta e per l’introduzione di servizi. Hanno trasformato la loro immagine proiettandola verso il mondo esterno, il che coinvolge direttamente il fruitore perché è a lui che si rivolge ed è a lui che guarda con particolare attenzione.

Siamo nel 1992 con l’entrata in vigore della legge Ronchey3, che ha previsto l’affidamento ai privati dei servizi accessori alle attività museali. Quei servizi, cioè, destinati a soddisfare la crescente richiesta, da parte dei visitatori, di oggetti collegati ai contenuti delle esposizioni e delle testimonianze storiche artistiche visitate: dai libri al merchandising, dai compact alle riproduzioni e anche a quei servizi che riguardano la ristorazione, generando una netta rottura con il passato e aprendo una nuova strada verso quella che sarà la progressiva apertura delle istituzioni culturali verso i bisogni del grande pubblico, non solo in termini di cultura, ma rispondendo anche a richieste nuove e diversificate. È proprio in questo periodo che nasce l’edutainment, termine coniato da Bob Heyman sta ad indicare una forma di intrattenimento sia ad educare sia a divertire, in ambito museale diventa un fine e un mezzo delle istituzioni, fine perchè il museo è chiamato a fornire una serie di prodotti e servizi inerenti l’edutainment e mezzo perché l’edutainment è esso stesso metodologia e tecnica di svolgimento delle proprie attività4. Ma è anche vero che con l’introduzione di determinati


008 servizi come bookshop, caffetterie o aree di ristorazione, la visita al museo diviene un’esperienza, diversa da quella provata in passato, le famiglie, gli studenti, i turisti possono approfittare di questi servizi offerti dal museo e quindi la visita viene anche in qualche modo agevolata e intervallata; è possibile mangiare qualcosa o bere un thè per riposarsi e per poi continuare la visita nel museo. Personalmente l’esperienza vissuta alla Tate pochi mesi fa, non sarebbe immaginabile senza la pausa caffè, necessaria, date le dimensioni e la quantità di opere che meritano tutta l’attenzione possibile e richiedono tempi lunghi di visita. Diviene difficile negare che molta gente spinta anche dalla semplice curiosità, si avvicina a questo mondo per provare ad assaporare la cultura in termini di svago e divertimento. Wolf Ollins, studio di progettazione grafica, che ha firmato il progetto della corporate identity di Tate, dice che Tate è prima di tutto un marchio più che un istituzione, aperto su scenari futuri che offre intrattenimento e divertimento insieme al suo patrimonio di arte e cultura. Tuttavia anche quest’osservazione riflette il fatto che sono proprio i progettisti che hanno assecondato e compreso i cambiamenti di carattere sociale, culturale e politico adottando nella produzione degli artefatti e nelle metodologie progettuali, modelli di pensiero aziendale. Dal 1980, le gallerie d’arte e i musei, hanno scelto di impiegare gli stessi metodi di persuasione usati dalle aziende commerciali perché considerano le istituzioni culturali alla stregua di imprese produttrici. Conquistati da un nuovo spirito di apertura, ritengono che i loro fruitori debbano considerare la fruizione dell’arte come qualcosa che di avvicina al passare del tempo dentro un supermercato, seppure della cultura, un approccio che se vogliamo può diventare superficiale. Ormai è tutto commercializzato, dalle collezioni permanenti al singolo evento, è come se non vi fosse alcuna differenza. Nel suo saggio illuminante, “L’arte e la cultura sono soggette all’interpretazione, perché mai dovremmo irrigidirle?”, Nick Bell, ritiene l’arte un prodotto

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intellettuale e parte dal principio che il pubblico non può distinguere tra uno scultore e un pittore, e non può apprezzare le sfumature del lavoro artistico, ma è però consolato dal marchio che allevia il senso d’inadeguatezza. “Non importa se non t’intendi d’arte, ci conosci, ti fidi di noi, noi siamo Tate, hai imparato a riconoscere il nostro piccolo, semplice, nebuloso logotipo”. E tanto deve bastare. Le mostre oggi sono diventate grandi eventi, le cui commissioni coinvolgono diverse figure come grafici, architetti e progettisti. Considerando la precedente opposizione alla divulgazione, il mondo dell’arte oggi testimonia i cambiamenti adoperando strategie di marketing che hanno fatto cadere le barriere tradizionaliste e hanno creato opportunità per i progettisti grafici. Ma a volte accade che la discrepanza che esiste tra l’investimento concesso all’architettura spesso non lascia spazio ad altro come spesso accade in istituzioni dove l’edificio è l’opera protagonista (basti pensare al Guggenheim Museum di Bilbao), in questi casi la strategia di comunicazione è incentrata sul lavoro del grande architetto al danno di una vera comunicazione grafica, sostituita in toto dal potere mediatico e comunicativo dell’imponente progetto architettonico. Questi incrementi del mondo museale sono strettamente connessi al funzionamento del mercato dell’arte, le arti sia pubbliche sia private rappresentano il settore culturale dell’economia (culture industry5) e le istituzioni proprio come le aziende che producono beni di consumo sono sempre più determinate ad utilizzare forze di mercato sempre più innovative per attivare e guadagnarsi la fiducia del pubblico acquirente e dei governi sostenitori.


Tate is a brand-led rather than institution-led. Tate offers an open, forward-looking experience, which is as much about entertainment and enjoyment as it about culture and art


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Nell’economia di mercato la cultura è spesso considerata come qualcosa che ha bisogno di sostegno, di un flusso di denaro costante e i governi delle nazioni dell’ovest spendono tutti, in misura maggiore o minore, dei soldi riguardo al sostenimento della cultura. In questo contesto storico/sociale dove da parte del pubblico vi è una forte richiesta del prodotto culturale il più delle volte mescolata a quella dell’intrattenimento, le istituzioni si affidano al design delle comunicazioni visive che diventano un vero e proprio ponte di scambio tra utenti ed enti, un collegamento tra le due parti che adottano un linguaggio comune grazie alla disciplina progettuale, consentendo la nascita di un dialogo tra le parti. Si affidano a studi grafici così come farebbe un’azienda che produce beni materiali per la definizione di un sistema di identità visiva, e talvolta accade il paradosso che le istituzioni fanno della cultura un prodotto (seppure nobilitato dall’aggettivo culturale), lanciando sul mercato le varie proposte e cercando di venderle senza particolari scrupoli, ma seguendo le leggi del mercato proprio come si farebbe con un qualsiasi altro prodotto. La grafica serve come trampolino di lancio alle istituzioni comunicando gli eventi permettendo quindi la comunicazione con il pubblico e confermare la propria reputazione in ambito nazionale e internazionale, portando l’istituzione in una posizione vantaggiosa rispetto a quella dei concorrenti. In tutto il mondo, ma particolarmente in Europa e negli Stati Uniti, questo atteggiamento ha portato a un approccio mirato e profondamente orientato e attento al mercato, in cui le istituzioni promuovono consapevolmente loro stesse. Ed è attraverso gli strumenti del design della comunicazione che lo fanno, sostenendo la loro immagine attraverso il branding6 i progettisti trasformano in prodotto ogni elemento di informazione, confezionato come si farebbe con un qualsiasi oggetto commerciale, per essere venduto. La produzione internazionale stimola la promozione dell’istituzione e si deve molto anche alla disciplina del graphic design per i vantaggi acquisti da parte di essa. Ma è proprio qui che sorgono varie contraddizioni nell’ambito della metodologia utilizzata per la progettazione grafica di corporate identity di istituzioni, in quanto a volte risultano fine a se stesse e sovente non riescono a trasmettere il significato reale dell’offerta.

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Spesso la cultura diviene oggetto in promozione, ne sono esempi alcune delle istituzioni culturali londinesi più importanti, tra cui: Tate, Whitechapel Art Gallery e National Theatre, dove le tecniche utilizzate per il branding sono prese in prestito dal commercio e spesso entrano in stridente contrasto con il contenuto che sono destinate a promuovere. Attraverso il dogma del branding, i graphic designer stanno imparando a trasformare in prodotto ogni elemento di informazione. Dal momento che oggi è più importante il significato del prodotto piuttosto che la sua utilità, ne consegue che l’informazione deve indicare prima di tutto la proprietà, e solo in secondo luogo deve informare7. La competizione internazionale stimola la promozione dell’istituzione, negli ultimi dieci anni, i vantaggi portati dal graphic design come componente visibile di questo processo sono chiaramente visibili. Chastel, storico dell’arte, nel 1989 scrive a proposito del museo: “il museo deve, da ora essere classificato come divertimento per il consumatore dell’arte”.

Questionario TATE per sondaggio del giudizio del pubblico



La grafica e il sistema di identità visiva: la comunicazione visiva come interfaccia tra l’istituzione e il fruitore della cultura


La grafica è ormai una presenza trasversale. Dove c’è comunicazione c’è grafica. Come la comunicazione essa è dappertutto. La grafica è là dove la cultura si fa editoria. La grafica è là dove i sistemi di trasporto si stanno informatizzando. La grafica è anche nello sport, nell’immagine delle grandi manifestazioni come nella loro diffusione massmediale


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Parlare della storia della grafica come strumento utilizzato dal branding non è certo semplice, dato che oramai viviamo circondati e sommersi da questa forma di comunicazione. Per ricostruirla dobbiamo, addentrarci negli albori di questa disciplina che vide i natali sin dai tempi della nascita di Cristo, duemila anni fa. Siamo a conoscenza, che fin da quei tempi camminando per le strade delle città, civilizzate, si trovavano, alle pareti dei palazzi, quelle che oggi chiamiamo insegne, dipinte sui muri, come dei veri e propri manifesti. Manifesti che raffiguravano attraverso delle illustrazioni cosa era prodotto all’interno delle botteghe. Da questo, notiamo che anche nei tempi in cui l’analfabetismo era assai diffuso, la grafica serviva già da mediatore, per meglio dire, iniziava ad essere quel ponte di scambio tra utente, in quel caso l’artigiano, e il fruitore, in quel caso, il cittadino. L’arte della grafica nasce in occidente nel XV secolo, dall’esigenza di produrre più esemplari di una stessa immagine, in una società dove si andava sviluppando una nuova classe sociale, composta da mercanti e borghesi, le esigenze culturali cambiavano, ne conseguiva il bisogno, appunto, di riprodurre più volte un determinato “disegno/soggetto”, e ciò avveniva attraverso le tecniche incisiorie che prevedevano la realizzazione di una matrice, incisa manualmente, dalla quale era possibile trasferire un soggetto su un supporto attraverso delle tecniche che differivano nel modo di trattamento della matrice stessa, al fine di poter essere utilizzata per imprimere il soggetto su un foglio attraverso l’uso di un torchio. Le tecniche di lavorazione delle matrici derivano dall’esperienza degli incisori di metalli pregiati e ricevono un impulso fondamentale dalla quasi contemporanea invenzione della stampa a caratteri mobili, alla quale si sussegue l’invenzione del libro nella metà del XV secolo, ed è infatti intorno al 1455 che veniva pubblicato il primo libro della storia, la Bibbia di Gutemberg. Le prime immagini nella stampa venivano realizzate con la tecnica della xilografia, detta anche silografia, che presuppone l’uso di una matrice in legno, che l’incisore lavora togliendo la parte che non dovrà essere stampata, realizzando in questo modo un supporto che presenta il disegno in rilievo. Già all’inizio del XVI secolo, alla xilografia si affianca la calcografia, tecnica che vede l’utilizzo del metallo, principalmente rame e zinco, per la produzione delle

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matrici. Qui, l’incisore lavora in cavo, cioè scavando nel metallo il disegno da stampare. Quando la lavorazione avviene direttamente sulla lastra, si parla di incisione a bulino, se lo strumento utilizzato, il bulino appunto, toglie il metallo che non serve grazie alla sua punta triangolare; oppure si parla di puntasecca, quando lo strumento a punta si limita a scalfire e spostare il metallo a lato dei solchi. Altra tecnica su metallo è quella dell’acquaforte, che consiste nel disegnare su una lastra, coperta in precedenza con una vernice resistente all’acido, che poi immersa nell’acido fa si che le parti dove la vernice è stata tolta dal disegno si corrodano dando vita a dei solchi che saranno poi riempiti con l’inchiosto e quindi impressi nella carta tramite, ancora una volta, l’uso del torchio. Alla fine del XVIII secolo si scopre la possibilità di utilizzare anche matrici in pietra, nasceva così la tecnica della litografia, che consisteva nel disegnare con matite grasse su pietre, precedentemente, levigate in superficie da acidi, nella fase di stampa l’inchiostro litografico aderisce solamente alle parti precedentemente disegnate, dove trova altro inchiostro, ed è invece respinto dal resto della matrice perché irrorata con acqua.

Pagina interna Bibbia Gutemberg 1455



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Affiche Folies Bergère Alec Shanks 1932

Il graphic designer è una figura professionale che lavora nel settore del graphic design e delle arti visive. Il suo lavoro consiste principalmente nel creare prodotti di comunicazione visiva, intesi per essere stampati, pubblicati o trasmessi tramite i media elettronici allo scopo di comunicare un messaggio al pubblico nel modo più semplice ed efficace, tramite il testo e le immagini. La responsabilità principale di un graphic designer è la disposizione degli elementi visivi nel modo più semplice e funzionale possibile. È inoltre in grado di assumere in prima persona responsabilità progettuali e di direzione artistica e di fornire consulenza tecnica in tutte le fasi della creazione di un prodotto. Sebbene i graphic designer siano professionisti che operano in più discipline, generalmente le figure a cui si fa riferimento sono grafici pubblicitari, esperti di comunicazione, architetti, fotografi, tipografi, web designer. Essi possono lavorare in vari ambienti: negli studi professionali, nelle agenzie pubblicitarie, negli uffici di grafica delle redazioni di giornali o riviste, di case editrici o interni alle aziende, oppure come freelance, collaborando con agenzie, aziende o committenti individuali. Il lavoro del graphic designer serve a migliorare la diffusione della conoscenza e al giorno d’oggi si applica ai campi più svariati della comunicazione. Per esempio, i grafici pubblicitari creano i prodotti e gli elementi che costituiscono l’identità delle società e delle aziende (immagini coordinate, logotipi, marchi commerciali, testo ecc.), così come si occupano di creare manifesti e cartelloni pubblicitari e del packaging (confezioni di prodotti di mercato). Esistono poi i graphic designer specializzati nel realizzare prodotti per l’editoria (creazione, impaginazione e progettazione di libri, riviste, cataloghi, giornali, brochure ecc.) e nell’industria dello spettacolo (romanzi, fumetti, titoli di testa e di coda in film e programmi televisivi ecc.). Anche la presentazione delle notizie è stata migliorata spesso dai graphic designer: documentari, telegiornali, periodici, riviste specializzate e libri di testo oggi si avvalgono del lavoro di questi professionisti per comunicare informazioni e attirare l’interesse del pubblico. Infine, in tempi più recenti, con l’avvento del world wide web e lo sviluppo di nuove tecnologie, i grafici e in particolare i web designer hanno acquisito sempre più importanza con la progettazione tecnica e grafica dei siti web e la creazione di interfacce interattive, in modo da

rendere la navigazione più semplice e al tempo stesso più interessante. Il termine “graphic design” (la disciplina in cui un graphic designer opera) è stato usato per la prima nel 1922, nel saggio New Kind of Printing Calls for New Design, scritto dall’illustratore americano William Addison Dwiggins, per definire una serie di discipline artistiche che si concentrano sulla comunicazione visiva. Il graphic designer è colui che opera nel campo del graphic design, avvalendosi in primo luogo delle sue conoscenze visive e tecniche. Il libro Graphic Design di W.G. Raffe, pubblicato nel 1927, è considerato il primo libro a utilizzare questo termine, nel titolo. La professione di graphic designer è considerata da molti essere nata in Europa (più probabilmente in Inghilterra e in Francia) verso la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, durante la seconda rivoluzione industriale: con l’aumento della produzione di merci e del lavoro in serie, le fabbriche avevano sempre più bisogno di comunicare un messaggio per richiamare l’attenzione del pubblico e spingerlo a comprare i prodotti. È così che ha cominciato a imporsi il modello pubblicitario che conosciamo oggi e che coinvolge diverse persone, tra cui artisti e progettisti. I primi “grafici pubblicitari” erano soprattutto artisti visivi, esperti di molte discipline allo stesso tempo (tipografia, illustrazione, calligrafia, fotografia ecc.).


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017 Affiche MoulinRouge Toulouse Lautrec 1891

Fra questi c’era l’artista e scrittore inglese William Morris, che fu uno dei primi a disegnare motivi decorativi affinché altri artigiani e artisti li utilizzassero nelle loro opere; altri furono noti artisti della Belle Epoque francese (come Henri de Toulouse-Lautrec e Jules Chéret), che crearono quelli che possono essere considerati i primi veri manifesti pubblicitari. Gli esempi più noti sono le affiche disegnate per pubblicizzare il Moulin Rouge e le Folies Bergère, noti locali parigini dell’epoca. Infine, in Italia, un impulso venne dato da alcuni artisti, tra cui Dudovich, Seneca, Testa (che lavorarono con diverse ditte italiane creando manifesti pubblicitari dei loro prodotti) e lo stesso fondatore della corrente futurista Filippo Tommaso Marinetti, che cominciò a usare i caratteri tipografici come elemento grafico. A partire dal lavoro di questi artisti, nel XX secolo si iniziato a sviluppare e a guadagnare importanza il mestiere di progettista grafico, inteso non come un semplice artista ma come una figura professionale a sé stante. Nei primi decenni del XX secolo, in Germania, un altro impulso notevole all’importanza della figura del graphic designer fu dato dalla scuola di arte e architettura tedesca Staatliches Bauhaus. Nell’importante eredità che la scuola ha lasciato al mondo del design spiccano diverse innovazioni didattiche, tra cui anche la nascita della disciplina del design, intesa come unione di tecnica ed arte, ma la più importante è il Vorkurs, cioè il “corso preliminare”. Questo corso, svolto da Johannes Itten (designer e istruttore della scuola, che insegnava a liberare l’energia creativa e a indirizzarla verso la meta di una forma energetica e gestuale) è andato in seguito a fondare il moderno corso di basic design, che è diventato in seguito un corso fondamentale, impiegato in tutte le scuole di architettura e di design del mondo. Esso è un corso preparatorio, che comprende lo studio di metodologia, semiotica, ergonomia e diverse altre discipline, e che fornisce ai potenziali progettisti le basi per il futuro lavoro e per sviluppare il loro processo creativo, indipendentemente dagli studi compiuti in precedenza e dal tipo di attività che si vorrebbe svolgere in seguito. Per questo stesso motivo, il Vorkurs era obbligatorio per tutti gli studenti che si iscrivevano alla Bauhaus. Recenti studi hanno visto entrare anche il computer nell’insegnamento del Basic Design. Tra i

Affiche MoulinRouge Toulouse Lautrec 1891


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teorici del Basic Design vi sono state varie figure di rilievo, tra cui Vasilij Kandinskij, Paul Klee, Johannes Itten, Bruno Munari e molti altri. Oggi, il graphic designer è una figura professionale riconosciuta in tutto il mondo e ha sostituito l’iniziale “grafico pubblicitario” nelle agenzie e nelle ditte; l’artista dell’inizio del XX secolo ha lasciato spazio a un libero professionista, una figura esperta in diverse discipline del campo della grafica e costituisce uno degli elementi chiave dell’industria della comunicazione. Per ottenere una posizione di lavoro come graphic designer è solitamente considerato essenziale avere almeno un certificato, ricevuto dopo aver conseguito gli studi in un istituto specializzato privato o in una scuola commerciale. Per dimostrare le proprie potenzialità, in genere viene inoltre richiesto un portfolio dei propri lavori. È necessario anche avere le conoscenze adeguate, le

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quali sono non soltanto legate al campo della comunicazione (conoscenze di comunicazione visiva e sistemi percettivi), ma sono anche tecniche e culturali, e comprendono competenze sulla multimedialità e sul progresso della tecnologia. Ad esempio, per un tipografo è richiesta la conoscenza dei processi e dei metodi di stampa, mentre per un web designer è richiesta la conoscenza dei linguaggi di programmazione web di base, come XML. I graphic designer devono inoltre saper conoscere e comprendere le norme sociali e culturali del pubblico a cui il prodotto è destinato, in modo da trovare le soluzioni visive più efficaci e pertinenti. Un’altra capacità richiesta è quella di utilizzare le proprie conoscenze per risolvere in modo ottimale problemi complessi e le sfide poste dalla comunicazione visiva: ogni progettista deve saper identificare

e tenere presente lo scopo del messaggio che il prodotto deve comunicare al pubblico, raccogliere e analizzare i dati necessari attinenti all’informazione e saper creare potenziali metodi progettuali che mirino a risolvere il problema e realizzare prodotti il più possibile semplici e funzionali e che centrino il target (cioè l’obiettivo comunicativo) previsto. I metodi progettuali servono a conoscere e a identificare il problema e, in base ai dati ricercati dal progettista, portano a compiere una serie di scelte che conducono a una soluzione coerente. Per compiere al meglio il suo lavoro, il graphic designer si avvale delle seguenti conoscenze: gli strumenti e le principali tecniche del disegno e della rappresentazione grafica; i materiali occorrenti, nonché le tecniche di lavorazione; gli eventi storici che sono alla base dell’attuale cultura della progettazione grafica (in particolare la storia dell’arte


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Wolff Ollins studio Londra

moderna e di quella contemporanea); le tecniche della grafica (sia quelle tradizionali e contemporanee che quelle legate alla grafica computerizzata e di modellazione digitale); le tecniche del colore e del suo utilizzo; le tecniche di stampa e di grafica editoriale; le tecniche della fotografia; gli aspetti teorico- scientifici e metodologici della disciplina; la comunicazione visiva, la teoria della percezione e la psicologia della forma. Oltre alla tecnologia e alle conoscenze adeguate, il graphic designer si avvale dello spirito critico e della creatività. Principalmente, a seconda della specializzazione o del tipo di progetto che affronta, il graphic designer si avvale di mezzi quali strumenti di scrittura e disegno (penne, matite ecc.), di stampa (stampanti, torchi calligrafici, macchine rotative ecc.) o di fotografia (apparecchi fotografici o video). A metà degli anni ottanta del XX secolo, l’aumento dell’utilizzo dei computer in tutto il mondo e il conseguente avvento delle applicazioni di arte grafica e di impaginazione elettronica hanno dato il via ad una generazione di progettisti capaci di creare al computer elementi visivi che precedentemente erano stati prodotti a mano. Tuttavia, gli strumenti tradizionali quali le matite o le penne sono ancora utili per una parte dei progetti, anche se i computer vengono utilizzati per il loro completamento; un progettista o un direttore artistico, ad esempio, può effettuare degli schizzi o disegnare dei layout per presentare i concetti utili alla progettazione grafica. Alcuni di questi schizzi possono anche essere mostrati ad un cliente durante la fase iniziale della progettazione, così che il progettista possa eventualmente correggere gli errori e sviluppare l’idea in modo più preciso. Ad oggi, i computer sono considerati uno strumento indispensabile nell’industria del graphic design e sono talvolta visti come strumenti più efficaci dei metodi tradizionali. Tra le figure che si avvalgono della conoscenza e dell’applicazione della disciplina abbiamo: l’illustratore, ovvero quel grafico che crea immagini che rappresentano un’idea, un concetto o una storia. In genere, esso si occupa di realizzare disegni o illustrazioni per prodotti di comunicazione di stampa, quali libri, riviste ed altre pubblicazioni, o per i prodotti commerciali come tessuti, prodotti di cancelleria, cartoline d’auguri, calendari ecc. Gli illustratori possono

usare mezzi differenti, dal disegno a matita alla pittura, fino all’impiego del computer. Un illustratore consulta il cliente per conoscere il messaggio che l’immagine deve comunicare o la situazione che deve rappresentare. Oltre ad avere un’ottima conoscenza del disegno, è indispensabile che, per il suo lavoro, un illustratore possieda un fornito archivio di immagini a cui fare riferimento, in quanto deve essere in grado di disegnare tutto, a seconda dell’esigenza. Un’altra figura è quella del progettista di logotipi, ovvero quel grafico che che progetta professionalmente marchi o logotipi, con lo scopo di fornire, tramite un’immagine sintetica, un efficace messaggio visivo per identificare un singolo prodotto, una società o un’azienda. Questi progettisti acquisiscono innanzitutto le informazioni necessarie, in genere fornite dal cliente, in modo da poter realizzare il marchio attenendosi il più possibile al target richiesto, per poi passare alla progettazione vera e propria, tenendo conto di specifici criteri, come la scelta di un font adeguato (lettering), i colori, le forme ecc. In genere, le caratteristiche fondamentali di un buon logotipo sono la leggibilità, l’immediatezza comunicativa che consentono al fruitore il riconoscimento della marca in modo immediato e se vogliamo anche in modo quasi “naturale”. Tra le atre figure di spicco, nella disciplina, troviamo il grafico multimediale che ha il compito di progettare disegni e immagini destinati all’uso mediale, come ad esempio contenuti da inserire nelle pagine web (disegni, animazioni 3D ecc.). Essi utilizzano software e applicazioni specifiche per la realizzazione dei loro lavori. Di solito un grafico multimediale lavora insieme ai direttori artistici e ai web designer, ma anche con persone che lavorano nel settore informatico, per concordare insieme ad esse le caratteristiche legate agli aspetti più tecnici. Sempre nel ramo della multimedialità trova posto la figura del web designer, che ha un ruolo chiave nel progettare le pagine web, prendendo decisioni sullo stile e i contenuti, progettandone gli elementi visivi, gli strumenti di navigazione e la loro disposizione nella pagina. A seconda, della portata del progetto, il lavoro del web designer può anche comprendere la collaborazione con altre figure professionali, come ad esempio l’interface designer. Il prodotto finale dovrà risultare funzionale e piacevole, in modo da presentare chiaramente i propri contenuti e rendere


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facile e gradevole la sua esplorazione. I web designer si avvalgono dell’uso della grafica applicata e della conoscenza del computer e della tecnologia web, ma il loro lavoro comprende anche una certa creatività, così come la capacità di progettare con gusto estetico tenendo presente la conoscenza dell’interattività, dell’uso e accessibilità dei siti web. Ma gli ambiti di impiego per i grafici non si esauriscono qui, un’altra figura non di minore importanza è quella del giornalista visivo, ovvero quel professionista grafico che lavora nell’ambito del “visual journalism”, un ramo della disciplina molto recente, che consiste nel trasmettere informazioni attraverso le immagini (fotografie, video, animazione ecc.) piuttosto che tramite la scrittura. In genere, questi professionisti vengono impiegati dovunque ci sia bisogno di comunicare informazioni in modo semplice e immediato, come ad esempio nella progettazione grafica di mappe, grafici, presentazioni di immagini, animazioni ecc. Inoltre, collaborano spesso assieme ad informatici, matematici e statistici per facilitare il processo di elaborazione e di comunicazione delle informazioni. All’interno dell’insieme della figure professionali principali ha un ruolo importantissimo per la corporate identity, lo sviluppatore della cosiddetta Brand Identity, ed è colui che si occupa di creare e di gestire quotidianamente l’identità visiva di una marca o di una società. Con “identità visiva” si intende, in questo caso, l’insieme di segni grafici tramite i quali un’azienda “demarca” il proprio territorio. Questa figura ha il compito di realizzare immagini coordinate che permettano al pubblico di conoscere una data società nel modo in cui essa è “veduta”. In termini grafici, l’identità di marca di una società può essere rappresentata con un singolo logotipo, il quale, poi, può essere spesso applicato a tutti gli artefatti, prodotti dalla società stessa. Oggi il Brand Designer si avvale delle conoscenze del marketing, tendendo sempre conto durante la progettazione delle strategie di mercato per far sì che il progetto risulti funzionale, e si avvalga in qualche modo della caratteristica dell’ unicità. Infine troviamo il Responsabile Layout, ovvero quel grafico che si occupa di revisionare l’apparenza globale di un prodotto visivo, ha il compito di disporre il testo e le immagini nel modo più piacevole e al tempo stesso più

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funzionale e diretto per il fruitore. Il responsabile di layout deve compiere delle scelte importanti (per esempio selezionare i colori e i font adatti ad ogni progetto) in modo da dare al prodotto la corretta forma visiva in base al messaggio che esso deve comunicare. Questi progettisti spesso lavorano nelle redazioni di giornali e riviste, così come in agenzie pubblicitarie e web agencies. Fra i prodotti più noti, alla loro supervisione, ci sono brochure, manifesti, cartelloni pubblicitari e la stessa impaginazione di libri, riviste e giornali.


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Graphic design is often important in web design, but only as one component of web design’s requirements.


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Manifesto per Stedelijk Wim Crowel, 1957

grafico che si occupa di revisionare l’apparenza globale di un prodotto visivo, ha il compito di disporre il testo e le immagini nel modo più piacevole e al tempo stesso più funzionale e diretto per il fruitore. Il responsabile di layout deve compiere delle scelte importanti (per esempio selezionare i colori e i font adatti ad ogni progetto) in modo da dare al prodotto la corretta forma visiva in base al messaggio che esso deve comunicare. Questi progettisti spesso lavorano nelle redazioni di giornali e riviste, così come in agenzie pubblicitarie e web agencies. Fra i prodotti più noti, alla loro supervisione, ci sono brochure, manifesti, cartelloni pubblicitari e la stessa impaginazione di libri, riviste e giornali. Per quanto riguarda l’identità museale il pioniere è Willem Sandberg, direttore dello Stedelijk Museum di Amsterdam, che tra il 1945 e il 1963 ne ha disegnato manifesti e cataloghi. Nel 1950, le scuole svizzere diventano il punto di riferimento per le scuole internazionali. Questa è l’era della chiarezza, della severità e dell’integrazione sistematica del testo e dell’immagine. Gli esponenti principali erano Max Bill, Otto Treumann e Joseph Müller Brokmann. Nei Paesi Bassi, nello stesso periodo il lavoro di Crouwel9 ha anticipato la “progettazione creativa”. Egli considerava il progetto come soluzione ad ogni problema, le sue composizioni grafiche sono strutturate e mancano completamente di pretesa artistica; rigetta tutti gli elementi ricchi di aneddoti. Questo stesso sviluppo viene osservato anche nelle arti plastiche con la comparsa dell’arte minimalista. E il “momento zero”, quando, negli anni ’60 si considerava ogni essere umano, un potenziale artista. Negli Stati Uniti il gruppo Pushpin9 (consorzio di grafici e illustratori, fondato a New York nel 1956) ebbe un ruolo molto importante nello sviluppo delle comunicazioni visive nel contesto internazionale nei tempi in cui la professione del grafico si stabiliva nella scala internzionale. Nel 1963 veniva fondato Icograda, il consiglio internazionale dei grafici. Erano periodi dove quasi dappertutto si avvertiva il conflitto tra l’ordine stabilito dai grafici provando così una provocazione alternativa caratterizzata dal disegno a mano libera, considerato antifunzionale e difficile da interpretare.

Copertina di : “The Push Pin graphic: a quarter century of innovative design and illustration” 2004

Logo Centre George Pompidou Jean Widmer 1978


L’insieme delle immagini o idee o qualità di un ente che le persone hanno o si formano entrando in rapporto con loro tramite elementi, detti punti di contatto, quali marchi, edifici, prodotti, packaging, stampati, veicoli, pubblicazioni, uniformi, attività promozionali.


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Poster Pirelli Armando Testa 1955. Poster Olivetti F.H.K. Henrion 1962/63. Poster per Barilla Erberto Carboni 1950.

Negli anni ’70 siamo all’apogeo della pubblicità e ai primi tentativi da parte dei musei di sviluppare un’identità visiva. Nel 1966, il progetto di Crouwel è seguito da Sandberg, è il primo progetto di identità visiva di un’istituzione, nella storia. Il museo utilizzava una griglia standard per tutti i manifesti e i cataloghi, conferendo su tutto il resto dei prodotti, qualunque fosse la loro natura, il logo in maniera che fossero facilmente riconoscibili. L’espressione “visual communication” fu coniata nel 1966 negli Stati Uniti per coprire diverse aree: tipografia, locandine, layout, illustrazioni, progettazione di loghi, e così via. Nel 1977, apriva a Parigi il Centro George Pompidou, con il progetto d’identità visiva realizzato da Jean Widmer. Il rapido sviluppo della comunicazione visiva si deve anche alla diffusione e all’accettazione da

parte del pubblico, della pubblicità. Gli anni ’80 rappresentano una decade di cambiamento rapido in tutti i paesi occidentali, i valori culturali di ognuno si andavano a sovrapporre agli stereotipi internazionali. La rapida espansione del museo negli anni ’80 fu alimentata in parte da questo indebolimento delle barriere internazionali, il che ha avuto l’effetto di aprire il mercato professionale a grandi varietà di progetti grafici. Gli anni ’90 testimoniano, una tendenza crescente alla teorizzazione del lavoro del progettista grafico e lo fa oscillare tra quello intellettuale e quello artistico. Inoltre adesso le istituzioni iniziano a definire e gestire strategie, complete e definite, di comunicazione visiva. La comunicazione visiva è quella disciplina che si occupa della produzione di tutti gli artefatti

destinati alla fruizione visiva, ponendosi come ponte tra mittente e fruitore, fondata sul principio di tradurre le informazioni in un linguaggio semplice e comprensibile. Nell’ambito del design della comunicazione visiva si inseriscono il graphic e il visual design, o meglio sarebbe parlare di design della comunicazione che li comprende entrambi, nonostante non siano le uniche discipline messe in atto per la costruzione dell’immagine di un ente, la quale si basa su un lavoro complesso che coinvolge molte altre competenze e aree disciplinari. Una di queste pratiche metodologiche viene denominata da Giovanni Anceschi “progetto di immagine coordinata”, secondo una terminologia ormai entrata nell’uso comune e adoperata nel settore in totale sostituzione dell’omonima espressione inglese (ovviamente questo accade solo in Italia).


[progetto di immagine coordinata]

Il termine è appunto la traduzione, non esattamente letterale, dall’inglese di corporate identity o corporate image, definizione formalizzata dai graphic designer F.H.K. Henrion e A. Parkin nel testo Design coordination and corporate image pubblicato a Londra nel 1976, in cui gli stessi dopo avere sperimentato ampiamente dal punto di vista progettuale lo strumento della corporate identity, giungono alla sua necessaria formalizzazione teorica e lo fanno contestualmente alla raccolta di una serie di casi studio a livello internazionale tra i quali compaiono parecchi progetti italiani (Olivetti, Barilla, Italsider, Pirelli,…). Nel testo la corporate identity è definita come “L’insieme delle immagini o idee o qualità di un ente che le persone hanno o si

formano entrando in rapporto con loro tramite elementi, detti punti di contatto, quali marchi, edifici, prodotti, packaging, stampati, veicoli, pubblicazioni, uniformi, attività promozionali”; il progetto di immagine coordinata è il fulcro di un progetto di sistema di identità visiva, in cui i diversi elementi che la compongono, quali: il marchio, il segno ed il logotipo servono a determinarne uno stile proprio. Il principio della corporate identity deriva dal desiderio/bisogno, interno alle organizzazioni e alle compagnie di fissare o di controllare la loro comunicazione verso l’esterno. Alcune, contribuiscono a promuovere o a vendere ciò che una società o un’organizzazione produce, rispecchiando fedelmente la sua reale attività, altre invece esistono

a dispetto di quello che una società o un’organizzazione produce, e in stridente contraddizione con il modo in cui essa agisce realmente.8 Per sistema di immagine coordinata o corporate identity, si intende quindi quel progetto, ideato e realizzato per un ente, corporazione, azienda o istituzione, in grado di fornire un’identità, un’immagine univoca, in modo da poter essere riconosciuta e ricordata dal fruitore per determinate caratteristiche di ordine grafico che rendono il sistema dei segni pregnante e memorabile. Il sistema di identità visiva è solitamente basato su alcuni elementi fissi, quali: il marchio, i colori di bandiera, la/le font, e su altri variabili, quali i vari artefatti“...


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Logo CocaCola Frank Mason Robinson 1886

Il marchio è l’elemento centrale del sistema di comunicazione è solitamente abbinato al logotipo, ma esistono marchi che possono vivere separati dal logotipo. In questo caso il marchio è sufficientemente conosciuto per cui il brand è identificabile anche senza l’inserimento del nome. Molto più comunemente, si incontrano dei logotipi che per la loro caratterizzazione sono essi stessi un “marchio”. Oggi si è sempre più interessati all’immagine ed al significato dei simboli visivi che sono sensibili alla qualità, in termini di comunicazione, di un marchio. Caratteristiche fondamentali di un marchio/logotipo sono il design, la propria riconoscibilità così come la sua capacità evocativa. Vista la diversità dei prodotti e/o dei servizi presenti sul mercato, l’esigenza di un segno distintivo “originale” è ancora più marcata, perché il marchio/logotipo è il fondamento dell’immagine dell’azienda. Un buon marchio/ logotipo progettato e disegnato bene diventa basilare per qualunque azienda o prodotto che vuole promuoversi attraverso i media. Il nome, rappresentante comunicativo o semplicemente elemento distintivo verso l’esterno in grado di riflettere e principalmente nominare le attività dell’azienda o ente (basti pensare alla forza di McDonald’s).

Logo McDonald 1886


Alcune parole, come alcuni notissimi marchi di fabbrica, sono talmente conosciute, che se noi togliamo tutte le lettere meno quella o quelle caratterizzate e le sostituiamo con delle sbarrette nere, noi leggiamo sempre lo stesso nome e poi, in un secondo tempo ci accorgiamo che qualcosa è diverso..


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Il marchio, è un simbolo grafico ben distinto che rappresenta un’azienda o un prodotto. Esso è l’elemento centrale del sistema di comunicazione, e può essere un logotipo, un monogramma, un diagramma, un pittogramma. Per logotipo (chiamato, spesso logo) è un segno grafico, il cui referente è un’espressione fonetica (Coca Cola), è solitamente abbinato al marchio, ma è anche possibile che esistano marchi che possono vivere separati dal logotipo. In questo caso il marchio è sufficientemente conosciuto per cui il brand è identificabile anche senza l’inserimento del nome. Molto più comunemente, si incontrano dei logotipi che per la loro caratterizzazione sono essi stessi un “marchio”. Il diagramma è un segno non iconico, o comunque con un basso grado di iconicità, e può pertanto non avere alcun richiamo alla realtà (Nike). Il pittogramma/ideogramma è un segno grafico che rappresenta la cosa vista e non la cosa udita, se si disegna un piede per indicare la parola piede, sarà definito un pittogramma, se invece si disegna un piede per inidicare l’azione del camminare sarà definito ideogramma (il segno viene definito ideogramma quando il significato del concetto che sta a raffigurare è definito dal codice e non dal disegno). Il monogramma è un segno grafico composto da due caratteri correlati, intersecati, uniti fra loro in maniera singolare. Fin dalle sue origini, che risalgono all’antica Grecia, il monogramma compare come firma, come simbolo di proprietà (ad esempio come riconoscimento di un quadro o incisone) o come marchio di identificazione su manufatti o merci. Il monogramma non nasce dal banale accostamento di due lettere, bensì dallo studio e dalla ricerca di sovrapposizioni e di legami originali fra esse, seguendo l’impronta di una costruzione armonica e geometrica. La lettura del segno definitivo, in quanto immagine forte non memorizzata non deve esaurire nella semplice osservazione ma deve stimolare un processo di interpretazione in rapporto al contesto entro cui è inserito.


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Marchio Pura Lana Vergine Franco Grignani 1964 Logo Nike Carolyn Davidson 1969 Logo Louis Vuitton George Vuitton 1896

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I colori, sono un’altra caratteristica che rafforza il sistema di identità visiva, sono fissati in ambito progettuale e servono a definire le scelte cromatiche la cui individualizzazione passa attraverso determinati sistemi di decodificazione e riconoscimento universale. Questi, danno al fruitore un ulteriore modo di riconoscere l’azienda tramite la loro combinazione in modo specifico (basti pensare alla palette di colori di Paul Smith oppure al rosso di Valentino). Per la sua semplicità e universalità il colore è ritenuto uno degli strumenti più efficaci della comunicazione visiva, che se ne avvale per evidenziare le informazioni, renderne agevole e

Indice Colori Esempio

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veloce la loro fruizione e imprimerne il ricordo nella memoria. La visione dell’immagine, infatti viene integrata e corretta nel cervello dall’esperienza soggettiva che la compara istantaneamente con i dati conservati in precedenza, con le esperienze culturali e le sollecitazioni affettive ed emotive. i colori si distinguono in colori caldi, ossia i rossi, i gialli, gli arancioni, associabili al calore ed alla luce solare; poi ci sono i colori cosiddetti freddi, quali il blu, i verdi e le combinazioni intermedie. l colore nella comunicazione visiva segue delle regole precise per il corretto uso, come il giusto abbinamento cromatico per facilitare la lettura di caratteri su uno

sfondo, oppure i giusti abbinamenti cromatici per un’efficace comunicazione volta ad amplificare il prodotto. Nei colori esistono: i toni primari (giallo-rosso-blu), i colori secondari e i terziari dati i primi dalla combinazione dei colori primari ed i secondi dalla combinazione dei colori primari e secondari. La paletta dei colori sono uno strumento utilizzato in ambito progettuale, è possibile definire una paletta, o tavolozza dei colori, che contenga l’insieme dei colori che possono esserci nell’immagine, o nel sistema di identità, ad ognuno dei quali è associato un indice.


Typography must be visually orderly for the purpose of good readability


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Helvetica e vari Manuela Papa 2012

Le font o famiglie di caratteri, sono un ulteriore elemento che caratterizzano e determinano in alcuni casi, il sistema d’identità visiva, molto spesso vengono realizzate appositamente per un determinato progetto (custom font), una delle importanti caratteristiche che ha, è l’immediato riconoscimento da parte del fruitore (basti pensare alla font adoperata dall’azienda

americana della Coca-Cola). Il carattere o font è la forma grafica delle lettere che compongono un alfabeto. Un progetto grafico riuscito dipende anche da un’ appropriata scelta del font. Sbagliare carattere può significare affaticare la lettura o rendere addirittura illeggibile un testo, cosa che vanificherebbe ogni sforzo di comunicazione. Esistono parecchie classificazioni

dei font, qui ne citerò le più utili e conosciute. Possiamo dividere i font in 4 grandi famiglie (serif, sans-serif, calligrafici e fantasia), anche se ultimamente la varietà dei font in circolazione ha ulteriormente suddiviso le categorie e ampliato la scelta. Sicuramente le più importanti sono le prime due, che a loro volta si suddividono in innumerevoli sottocategorie.


Ogni singola comunicazione in partenza dalla ditta (dal biglietto da visita del presidente all’abbigliamento del personale, dal manifesto stradale all’articolo redazionale comparso sulla rivista economica) viene presa in considerazione come veicolo pubblicitario, come supporto materiale dell’immagine


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Ma la corporate identity diventa un importante e consapevole strumento della comunicazione quando intorno alla fine della Seconda guerra mondiale, nasce il bisogno da parte delle aziende, di avere un’identità propria, di essere in grado di controllare la loro comunicazione verso l’esterno, questo è il principio. Dove lo scenario globale è animato dalle corse alla conquista del consumatore, è proprio in questi anni che le aziende avvertono un estremo bisogno di definire la propria identità, un’immagine che possa essere univoca e riconoscibile rispetto a quelle delle concorrenti, sfruttando al meglio tutti i vantaggi che conseguono dal possederla e dal saperla gestire. Da allora o forse oggi, ancora più di prima, nonostante l’avvento delle tecnologie e dei nuovi mezzi di comunicazione e produzione, la corporate identity rimane sempre il punto di partenza di un’azienda che le permette la proiezione verso il mondo esterno, nel sistema della competizione globale e capitalistica. Ma questo non riguarda soltanto aziende che producono prodotti di vario genere destinati all’uso materiale, bensì si estende a tutte quelle aziende e istituzioni che oggi giorno producono beni di altra natura come i servizi, e che si occupano di patrimoni, di arte, di istruzione, di politica, solo per citarne alcuni. Dagli anni ’80 ai ’90, le gallerie d’arte e i musei, hanno scelto di impiegare gli stessi metodi di persuasione usati dalle aziende commerciali perché considerano le istituzioni culturali alla stregua di imprese produttrici. Conquistati da un nuovo spirito di apertura, ritengono che i loro clienti debbano considerare la fruizione dell’arte come qualcosa che di avvicina al passare del tempo all’interno di un supermercato, seppure della cultura, un approccio che se vogliamo può diventare

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pericolosamente superficiale. Nell’ambito culturale, le identità delle istituzioni sono rappresentate con tale fanatismo che il leitmotiv finisce per soffocare le differenti particolarità offerte da un singolo evento.11 Nel suo saggio illuminante, “L’arte e la cultura sono soggette all’interpretazione. Perché mai dovremmo dar loro delle identità rigide?”, Nick Bell, ritiene l’arte un prodotto intellettuale e parte dal principio che il pubblico non può distinguere tra uno scultore e un pittore, e non può apprezzare le sfumature del lavoro artistico, ma è però consolato dal marchio che allevia il senso d’inadeguatezza. “Non importa se non t’intendi d’arte, ci conosci, ti fidi di noi, noi siamo Tate, hai imparato a riconoscere il nostro piccolo, semplice, nebuloso logotipo”. Secondo Bell è giusto che l’arte e le gallerie d’arte siano più accoglienti, che è bello acquistare libri e quant’altro al loro interno e che questo fa in modo che gente che non si sarebbe mai accostata all’arte moderna adesso la prenda in considerazione e la faccia diventare parte della propria vita culturale. La pratica della progettazione della corporate identity deve essere indissolubilmente legata al contenuto che si ritiene debba essere fatto emergere; deve trasformare il contenuto nel vero soggetto ed evitare che tale ruolo venga assunto dal design. L’identità visiva di un’istituzione culturale non può essere inventata. Non può essere ciò che vorremmo che fosse. Può essere solo un’esaltazione di quello che realmente è. Il problema della corporate identity è che il modo in cui viene di solito praticata non fa distinzione tra creatività e invenzione. Questo perché in campi più commerciali, dove è normalmente praticato, l’identità è qualcosa di completamente inventato, che non poggia su una storia pregressa ma viene creata artificialmente negli studi dei


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035 Artefatti Tate Manuela Papa 2011

comunicatori e ciò accade perché la corporate identity nasce per distinguere prodotti identici, o prodotti che vengono percepiti come uguali. Il branding e la corporative identity sono discipline definite dalla concorrenza. Un pezzo di sapone, per usare l’esempio di Tom Bodkin, non è soggetto a un’atto interpretativo. Il suo significato è fisso e quindi il marchio ne cristallizza per noi il significato e, con un atto di creatività, gli conferisce un’identità inventata che lo distingue dalle altre forme di sapone. Diversamente accade per un’opera d’arte, la quale è soggetta a un’atto interpretativo. Il suo significato non è fisso. Purtroppo la maggior parte dei progettisti che hanno praticano la corporate identity fino ad ora, si sono preoccupati di affinare le loro capacità su pezzi di sapone, per così dire. Quello che dobbiamo accettare è che un’opera d’arte si contraddistingua, proprio come accade per gli spettacoli a cui assistiamo a teatro o per le collezioni permanenti che visitiamo nelle gallerie. Loro stessi costruiscono la propria reputazione. Sono riusciti a farlo fino a poco tempo fa, nonostante non avessero un’identità o un branding aziendale. Tutto ciò che devono fare i progettisti allora è ascoltare, guardare, vedere e rispondere in maniera creativa, ma resistere dalla tentazione di inventare tutto. 12


0036 Caso studio

Stedelijk


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WearComps installazione Steve Mann Stedelijk Museum 2008

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Lo Stedelijk Museum è un museo d’arte moderna e contemporanea internazionale, statale, che si trova in Paul Potterstraat, 13, ad Amsterdam, in Olanda. Sorge accanto alla Museumplein, al Rijksmuseum, al Van Gogh Museum e al Concertgebouw. Inaugurato nel 1895, alla sua guida si sono succedute grandi figure come: Willem Sandberg, Edy De Wilde, Wim Beeren, Rudy Fuchs. Tutti, con concezioni e metodologie differenti, hanno contribuito ad innalzare l’istituzione e a consolidarne la fama e il prestigio a livello internazionale. Ma quello che più di tutti seppe rivoluzionare il campo della pratica museale in Olanda, coinvolgendo il mondo intero, con la prima corporate identity museale, fu senza dubbio, Sandberg. 
 I diversi risultati furono ottenuti senza il conforto di grandi budget, né l’appoggio di grandi collezionisti, come è accaduto per quasi tutti i grandi musei del mondo. Al contrario, lo sviluppo dello Stedelijk è stato il frutto di azioni ispirate: scelte oculate, ma tempestive, e una paziente tessitura di rapporti con artisti e collezionisti, e la disponibilità di fondi nei momenti cruciali. Nel corso del secolo scorso, lo Stedelijk Museum ha acquistato la fama di uno dei musei più influenti del XX secolo, primo rivale del Centre Pompidou e del MoMA. Una costante nella storia, fin dalla nascita dello Stedelijk, è l’apertura verso le nuove frontiere della creatività. Questa prerogativa ne fa un museo multi disciplinare, in cui trovano riscontro le principali espressioni nel campo delle arti visive internazionali; di fatto
 l’arco cronologico delle collezioni e dell’attività espositiva spazia dalla seconda metà dell’800 ad oggi. L’edificio che lo ospita fu progettato dall’architetto Willem Adriaan Weissman tra il 1892 e il 1895. Nel corso degli anni, ha subito diversi interventi di ristrutturazione volti a risolvere i problemi di mancanza di spazio.
 Ma il problema dello spazio è un’ulteriore costante nella vita dello Stedelijk. Negli anni ‘50, sul retro della sede storica fu aggiunta una nuova ala, in modo da far convivere le attività espositive e la presentazione della collezione permanente. Ma l’evidente impossibilità di raggiungere lo scopo, ha spinto negli anni successivi a sviluppare un programma di mostre collettive a tema, facendo sì che le collezioni, ruotando e mescolandosi potessero essere esposte, nonostante la mancanza di spazi.


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La camera da letto dipinto Vincent van Gogh Stedelijk Museum 1931

Ger Lataster and Willem Sandberg 1950

Opera dell’architetto Willem Adriaan Weissman, architetto olandese13, venne finanziato dalla vedova S.A. Lopez Suasso-de Bruyn e dagli eredi del banchiere Van Eeghen, che alla loro morte lasciarono in eredità al museo le loro collezioni private. L’edificio richiama l’architettura rinascimentale olandese del XVI secolo: la facciata e la torre sono in pietra e mattoni rossi. Nel 1938, Sandberg dipinse le pareti interne di bianco creando all’interno della galleria quell’effetto che viene definito ‘white cube’. Molte modifiche, come ho già accennato in precedenza, furono apportate all’edificio, per mancanza di spazi espositivi: nel 1954 venne realizzata la prima estensione della galleria, in vetro, che si sviluppò fiancheggiando la Van Baerlestraat, e lo spazio venne denominato “Sandberg Wing” in onore di quest’ultimo. Fu infatti Sandberg ad apportare ulteriori cambiamenti, sostituendo le pesanti porte del museo con ingressi in vetro. A quest’ultimo ampliamento si susseguirono una serie di ristrutturazioni e ulteriori cambiamenti che riguardarono l’architettura del sito, anche per cause di forza maggiore dovute alle condizioni climatiche, oltre che per la mancanza di spazi e quindi all’impossibilità di ospitare servizi, oramai standard, lo Stedelijk chiude nel 2004.

 Il secondo progetto per la ristrutturazione del museo fu affidato allo studio Benthem Crouwel, e prevedeva un’espansione uguale a due volte la dimensione stessa del museo attuale.

Il nuovo Stedelijk, denominato ‘bathtub’ (vasca), avrà una superficie di 8000 mq. Il completamento dell’opera era previsto per il 2007 ma alla luce di un ulteriore concorso, divenne chiaro che l’apertura sarebbe stata ritardata. In realtà l’edificio fu completato e aperto nei primi mesi del 2010, poichè le condizioni climatiche, all’interno della nuova ala, non permettevano le esposizioni di opere d’arte. Il ritardo, fu criticato fortemente, dalla stampa e un noto imprenditore olandese Otto Nan, come da lui stesso definito, con un pacifico colpo di stato, creò un movimento per dimostrare il suo disappunto verso il ritardo dello stesso, e lo chiamò ‘Stedelijk Do Something’, il movimento e le relative manifestazioni attirarono l’attenzione dei media e dei vari social network è infatti occupando lo spazio di Museumplein che invitava la gente a collaborare tramite l’invio di sms per raccogliere fondi che sarebbero serviti ad aiutare il museo ad ultimare i lavori. Una volta completati del tutto i lavori di restaurazione, i punti salienti della collezione rimasero in mostra nella vecchia ala del museo, mentre la nuova ala venne adibita all’esposizioni d’arte sperimentale, con performance e proiezioni di video arte e film e istallazioni. Al suo interno, il museo ospita anche una biblioteca dedicata alla letteratura dell’arte moderna del 1600. Ma lo Stedelijk ha un importante e fondamentale ruolo nel campo delle comunicazioni visive: fu difatti il primo museo al mondo ad avere un sistema di identità visiva, diventando così il pioniere nella corporate identity museale.


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029 Visuele communicatie Nederland poster Wim Crouwel Stedelijk Museum 1969 Mondrian or Mirò poster Wim Crouwel Stedelijk Museum 1958

Come ho già accennato nei capitoli e nei paragrafi precedenti lo Stedelijk sotto la guida di Sandberg, fu il pioniere per quanto riguarda l’identità visiva museale, che negli anni ’60, con l’aiuto di Crouwel, inizia a realizzare le prime locandine per gli eventi in programma, e anche un font apposito, lo “Stedelijk Alphabet”. Ma nonostante questo, ancora mancava un’identità visiva permanente, che solo negli anni a seguire fu definita. Ciò che caratterizzava il suddetto sistema d’identità visiva, era l’essenzialità di come venivano comunicate le informazioni. Questo fu, appunto, la base di partenza del lavoro dei due progettisti, ispirati dalla scuola svizzera: il sistema era basato principalmente sulla composizione tipografica che si prestava in modo esauriente anche per la creazioni di immagini semplici. Tutti gli artefatti, le locandine, i cataloghi e le pubblicazioni, dettero prova del potere che può avere un immagine semplice, costituita da pochi elementi tipografici; d’altra parte era proprio questo che dava forza e caratterizzava il progetto, la tipografia diveniva l’elemento portante, anche se a volte spingeva verso composizioni astratte. Lo Stedelijk, attraverso il suo “manifesto” e le sue pubblicazioni, lascia nell’ambito della grafica e delle comunicazioni visive, un segno indelebile, fino a diventare un modello che ben presto tutte le istituzioni, seppur in modo diverso, seguiranno. Nel 2004 il museo verrà sottoposto a dei lavori di ristrutturazione architettonica, che investiranno anche l’identità visiva e le collezioni vennero collocate, temporaneamente, al secondo e terzo piano di un monumentale edificio, posto dietro la stazione centrale di Amsterdam, edificio che in passato ospitava le Poste. Del nuovo progetto di identità si occupò lo studio grafico Experimental Jetset14, che in rapporto alla natura precaria del museo, realizzò un sistema abbastanza flessibile ed economico, funzionale e proporzionato alla sua temporaneità. Il logo, realizzato utilizzando le iniziali del museo, SMCS, ne manifestava ed enfatizzava il bisogno di immediato riconoscimento. Per la creazione del nuovo sistema di identità visiva, la committenza, ne chiese la realizzazione in tempi brevi (un paio di mesi) costringendo, inoltre i progettisti a rimanere dentro un budget ristretto. Il progetto prevedeva la realizzazione di un logo, di un sistema di


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Saura poster Wim Crouwel Stedelijk Museum 1963 Hiroshima poster Wim Crouwel Stedelijk Museum 1957 Nieuwe Aanwinstenposter Wim Crouwel Stedelijk Museum 1957 Beelden in het heden poster Wim Crouwel Stedelijk Museum 1960

Vomn Gevers poster Wim Crouwel Stedelijk Museum 1968

The Stijl poster Wim Crouwel Stedelijk Museum 1983


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identità visiva completo, così come la riprogettazione della rivista bimestrale e dei vari artefatti. Il logotipo del museo venne realizzato dallo studio basandosi su due elementi di riferimento storico: al logotipo “CS”, precedentemente progettato da Wim Crouwel negli anni ’70, ad esso furono aggiunte le altre iniziali, diventando SMCS, utilizzando l’ “Univers”15 come riferimento al passato stile svizzero, e aggiungendo delle diagonali rosse e blu di riferimento alla vecchia funzionalità dell’edificio postale”. Ed è così che il logotipo assume un’importanza storica: lo studio infatti, utilizzando come base il logotipo di Crouwel ed associando ad esso i colori rosso e blu di chiaro riferimento storico all’utilizzo del sito ospitante, omaggia, non solo il grafico ma anche la storia del monumentale edificio. Il logo è composto dalla sigla SMCS, ricavata dall’abbreviazione del nome del museo (Stedelijk Museum Bureau Amsterdam) e dalle diagonali, rosse e blu che richiamano il motivo che ritorna sulle buste postali. Inizialmente, i colori rosso e blu vennero utilizzati allo scopo di far riferimento alle poste, successivamente assunsero altre motivazioni: il rosso era il colore utilizzato da Crouwel nel primo progetto, mentre il blu adesso diveniva un elemento contrastante, integrandosi perfettamente in un sistema di diagonali, espressione del nuovo orientamento del museo verso quell’idea di modernità piena di contrasti che vivono l’uno accanto all’altro. Le diagonali hanno una funzione importantissima nella realizzazione e nella fruizione del logotipo, infatti permettono alle lettere utilizzate, di connettersi fra loro, ottenendo un risultato soddisfacente e chiaro. Il logo si presenta al fruitore, con un certo grado d’astrazione, capovolgendolo o coprendolo, trasmette il senso di provvisorietà, in cui il museo si trovava al tempo della creazione dell’identità (ne vennero progettate quattro versioni differenti). Le diagonali che appaiono come “schizzi” a matita sfumati danno al logo un carattere indefinito, sempre di riferimento alla precarietà del luogo (al momento della creazione del sistema di identità). Ma nel contempo le diagonali hanno forza espressiva, di dinamismo e progresso; la linea diventa così un segno emblematico del modernismo. Il font utilizzato, l’Univers, disegnato da Adrian Frutiger nel 1957, in primo luogo, fa riferimento alla storia del

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Logo 4 versioni Experimental Jetset Stedelijk Museum


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Supporti in plastica Experimental Jetset Stedelijk Museum

museo e all’essenzialità utilizzata da Crouwel nel primo progetto, e in secondo, alla storia del marchio delle poste, quindi all’allora sito provvisorio. Il risultato dell’accostamento di tali elementi, agisce da metafora sulla condizione del museo. Per quanto riguarda il sistema di segnaletica i designer utilizzano dei formati semplici di riferimento, come i “porta-documenti” dell’ex edificio postale, che saranno realizzati in plastica trasparente in un formato A4. Il sistema si rivelerà semplice, interessante e soprattutto estremamente pratico. Inoltre la scelta del formato incarnava perfettamente lo stile che lo studio scelse di seguire, ovvero quello della semplicità enfatizzata dal fascino dei formati standard o modulari. Per l’interno vennero utilizzati 2000 di questi supporti A4 in plastica, che si differenziavano in due formati: uno richiamava la busta da lettera e l’altro il porta documenti. Il progetto, inizialmente, prevedeva l’allestimento di un’intera parete con i supporti in plastica, ma per la scarsità del budget si optò per un’altra soluzione, ovvero quella dei pannelli separati posti tra le porte delle diverse sale, utilizzando gli elementi grafici delle diagonali per dare un senso di continuità tra gli spazi, dando al fruitore l’impressione di un fermo immagine. Interessante appare anche l’applicazione di elementi grafici all’interno del corridoio esterno, progettato dallo

studio Zwarts & Jansma. Il corridoio rosso, che tramite il colore da al fruitore un senso di bidimensionalità, venne ulteriormente caratterizzato dalle linee verticali del logotipo applicate sugli angoli. Per i banner si utilizzarono degli striscioni appesi a ogni lato dell’edificio, contenenti il nome del museo per intero e la sigla CS nella parte superiore. Tutte le caratteristiche del sistema prendono vita anche nel redesign della rivista che presenta al suo interno titoli di grandi dimensioni, brutalmente interrotti o fatti scivolare liberamente tra pagine diverse. La rivista è organizzata in tre sezioni: nella prima troviamo immagini, stampate su carta patinata, che mostrano fotografie e riproduzioni di opere d’arte; nella seconda si trovano i testi legati alle opere della prima parte, stampati in bianco e in nero su una carta più opaca, infine nella terza troviamo le traduzioni dei testi della sezione precedente. Per la realizzazione di tutti gli artefatti, lo studio decise di utilizzare formati standard ed è così che vennero realizzati gli inviti apparentemente in un formato A5, ma che una volta aperti si rivelano dei mini-poster in formato A3. Il sito web rispecchia perfettamente l’identità usata per il resto del sistema di identità, caratterizzato anch’esso da grandi intestazioni dove dominano il rosso e il blu e le strisce diagonali.


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La collezione permanente comprende opere di un certo calibro e di grande importanza nella storia dell’arte moderna e contemporanea. Essa è costituita dall’arte olandese dell’800, le opere di Marc Chagall, l’espressionismo tedesco, Piet Mondrian e De Stijl (Theo van Doesburg, Georges Vantongerloo, Bart van der Leck, Rietveld), Kasimir Malevich, Jean Dubuffet, Willem de Kooning, gli artisti del gruppo COBRA (Karel Appel, Asger Jorn, Pierre Alechinsky, Corneille, Constant, Lucebert), la Pop Art, il Nouveau Réalisme, il minimalismo. Altri artisti che sono rappresentati da varie opere significative sono: George Breitner, Jan Toorop, Jan Sluyters, Wassily Kandinsky, Max Beckmann. In un ambito cronologico più recente, figurano ben documentati l’arte povera, il neoespressionismo tedesco (numerose le opere di Anselm Kiefer), la transavanguardia e i principali esponenti delle tendenze simulazioniste.
 Una notazione storica piuttosto interessante relativa al 1986 fu un fatto che allora ebbe grande risonanza: un folle danneggiò a colpi di coltello la famosa opera di Barnett Newman Who’s afraid of Red, Yellow and Blue III. Il restauro della monumentale tela comportò problemi talmente complessi, da riattizzare la spinosa questione del restauro e della conservazione delle opere d’arte contemporanea. Di non minore importanza ci sono le opere custodite nella biblioteca, che comprende una vasta collezione di libri e documenti sull’arte moderna.

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Caso studio

Beaubourg


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Prospetto anteriore Centre George Pompidou

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Il Centro Pompidou è un’istituzione culturale polivalente ubicata nel centro di Parigi. Il centro, progettato dagli architetti Richard Rogers e Renzo Piano, come una sorta di grande macchina per la cultura, fu inaugurato il 31 gennaio 1977, dall’allora presidente Valéry Giscard d’Estaing con l’apertura della mostra inaugurale dedicata all’artista dadaista Marcel Duchamp. Chiamato anche Beauburg, dal nome del quartiere in cui sorge, è diviso in quattro parti: il Museo Nazionale d’Arte Moderna (MNAM), il Public Library Information (BPI), il Centro di Creazione Industriale (CPI) e l’Istituto di ricerca Design e Acustica e Musica (IRCAM). Il centro, al suo interno accoglie espressioni di attività multidisciplinari come: pittura, scultura, architettura, design, letteratura e musica. La sua funzione primaria, infatti, è quella di essere museo e centro per le arti visive del Novecento.
La sezione più ampia è rappresentata dal Musée National d’Art Moderne, una delle collezioni più grandi del mondo, ospitata al terzo e al quarto piano dell’edificio. Il quinto, piano invece è occupato dalla Grandes Galleries, destinata alle grandi mostre itineranti.
Al piano terra si trovano le Galleries Contemporaines, che accolgono le mostre di artisti contemporanei. Il Centro ospita anche una biblioteca pubblica, il Centre creation industriels (centro di design industriale) e l’Istituto di ricerca e coordinamento acustico musicale del compositore Pierre Boulez, che comprende una sala prove e una da concerto, destinata per lo più alla presentazione di musica moderna e d’avanguardia.
Oltre ad una cineteca ed un cinema Salle Garance, dove all’interno vi sono presenti anche librerie, un ristorante ed un Internet Café. Il Centre Pompidiu è un grande esempio di architettura post-moderna, legato agli ideali e alle aspirazioni della modernità, si presenta come un parallelepipedo di vetro attorniato da una vasta rete di tubi colorati: gialli per l’elettricità, rossi per gli ascensori e le scale mobili, verdi per l’acqua e blu per l’aria, che racchiudono al loro interno l’intero volume, fatta eccezione per la rampa dotata di scale mobili, che corre esterna e si sviluppa lungo il prospetto principale, all’interno di un grande tubo trasparente, che permette di godersi il panorama parigino da un punto di vista del tutto insolito. La vista migliore però è riservata a chi arriva fino in cima, sulla terrazza panoramica, dove vi è il ristorante. L’estesa piazza davanti all’ingresso, che durante le


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giornate di sole accoglie artisti di strada, giovani e turisti, si inserisce perfettamente nel contesto urbano parigino e costituisce una naturale estensione all’esterno dell’architettura; dando prova che l’arte e la cultura non sono confinate all’interno del centro ma che si protendono nella vasta piazza, che è diventata il principale palcoscenico per il teatro di strada. All’esterno dell’edificio si trovano anche la fontana Beaubourg (1980), progettata dai francesi Jean Tinguely e Niki de Saint Phalle, dove da uccelli animanti sgorgano zampilli d’acqua in varie direzioni, e l’Atelier Brancusi, che riproduce fedelmente l’atelier dello scultore con tutto il materiale che conteneva quando, nel 1956, lo lasciò in eredità al governo francese.

Fontana Beaubourg J. Tinguely & N. de Saint Phalle 1980

Particolare Interno Atelier Brancusi Centre George Pompidou

Prospetto Atelier Brancusi Centre George Pompidou


Una collezione di antichità o di altri oggetti che interessando lo studioso o l’uomo di scienza, analizzati ed esposti secondo metodi scientifici


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Cantiere Centre George Pompidou 1972

Il Centro George Pompidou nasce alla fine degli anni ’60, in un periodo storico in cui i musei di tutta Europa vedevano il susseguirsi di enormi cambiamenti, favoriti dalla ricostruzione e dalla ripresa economica, che dopo aver investito infrastrutture, alloggi, istruzioni e arti dello spettacolo, vedeva protagonista i musei. Tuttavia non fu solo questo il principale cambiamento, bensì influirono al conseguimento di esso, la nascita del turismo di massa, contemporaneamente alla cultura del tempo libero, favorito senza dubbio dai progressi avvenuti nel campo della tecnologia aerea che dava la possibilità di viaggiare a basso costo16, favorendo in questo modo la nascita del godimento del lusso a basso costo da parte della masse. Ma un’ulteriore fattore, importante è rappresentato dalle trasformazioni culturali e dagli avvenimenti del ’68, che ebbe il suo epicentro nelle università dell’Europa occidentale e nel Nordamerica ma che si ripercosse in tutto il mondo. Gli eventi seguirono troppi binari diversi per provocare direttamente un cambiamento politico, ma i risultati indiretti furono notevoli e sono ormai imprescendibili per qualsiasi discorso politico e sociale. Il potere in tutte le sue manifestazioni, visibili o invisibili, normative o istituzionali, divenne oggetto di una profonda analisi, e le sue motivazioni e intenzioni furono poste sotto la lente d’ingrandimento come mai era avvenuto prima17. Tutto ciò si estendeva dalla politica all’istruzione non facendo eccezione per i musei, simbolo di autorità culturale e di potere normativo, ma che nel dopoguerra venivano ormai considerati superati e anacronistici, riservati soltanto ad una cerchia ristretta di pubblico. Al centro delle critiche mosse al museo nel ‘68 vi era appunto la questione sulla credibilità, nel 1904 D. Murray18 dava una definizione di museo apparentemente inoffensiva che alla luce del postsessantotto assumeva un significato quasi minaccioso. La suddetta questione era già stata posta per la prima volta durante la Rivoluzione francese ma adesso costituiva il problema centrale. Punti interrogativi, quali: al servizio di chi di poneva il museo? Su quali basi erano fondate le scelte dei curatori, chi decideva quale storia doveva essere raccontata? Quali oggetti dovevano entrare e quali ne erano esclusi? Venne anche messa in discussione l’autorità dei curatori, non vi si fidava più della loro autonomia.

Il risultato che ne conseguiva era appunto la decostruzione e di conseguenza la nascita di nuove prerogative che fecevano in modo che il museo prendesse coscienza di se diventando consapevole dei propri poteri e limiti di cui era portatore. Da allora la riflessione sulla natura del museo e sui suoi impliciti presupposti è diventata parte integranre della pratica museale quotidiana. L’istituzione perdeva parte della sua autorità per diventare più trasparente e molto più democratica19. Il primo a tradurre tutto questo in realtà, fu un politico conservatore, George Pompidou che, divenendo Presidente nel 1969, fuse quella energia anarchica, mossa nell’anno appena trascorso, in uno stampo istituzionale, annunciando così la sua idea di un centro culturale da costruire in un’area degradata del centro della capitale. Egli uscendo dai tradizionali canali politico-istituzionali creò un’apposita agenzia governativa indipendente, con il compito esclusivo di occuparsi del nuovo progetto e di riferirne direttamente al presidente. Nel luglio del 1970, fu indetto un concorso per il progetto architettonico, vinto dal gruppo anglo-italiano, ancora poco conosciuto, guidato dai giovanissimi Renzo Piano e Richard Rogers. Il nuovo centro voluto da Pompidou non doveva essere suddiviso in sezioni poiché l’intento era quello di creare un complesso autenticamente interdisciplinare. Si diede il massimo risalto allo spirito democratico e sperimentale del luogo. Uno dei principali requisiti


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era appunto la facilità all’accesso da tutti i lati della struttura, senza impedimenti poiché il visitatore che si trova per strada, non debba essere costretto a dirigersi verso un particolare ingresso piuttosto doveva essere stimolato ad andare dappertutto. Non vi doveva essere separazione tra i visitatori della biblioteca e quelli delle esposizioni, perché se questi gruppi si fossero dovuti separare l’effetto desiderato sarebbe andato perduto. Ogni cosa doveva essere basata sull’agio e sulla libertà con cui il visitatore avrebbe partecipato e frutito delle iniziative offerte dal centro. Adattabilità e flessibilità sono infatti gli elementi centrali del progetto. Presentando il progetto architettonico Rogers e Piano, riprendono il concetto di movimento e di apertura in un luogo dedicato all’informazione e all’intrattenimento. Le innovazioni dei due architetti furono accompagnate dalle scelte altrettanto rivoluzionarie dei curatori. Nei primi dieci anni di vita il Centro Pompidou, diretto da Pontus Hulten, organizzò una serie di mostre che, era evidente, sembravano sfidare la narrazione lineare e monodirezionale di cui era modello il MoMA di New York; le mostre diedero grande peso a quell’orientamento interdisciplinare, portando alla luce una storia in cui il moderno appariva molto più complesso, anarchico e volatile di quanto avesse mai voluto riconoscere l’estetismo apolitico del MoMA, dove l’accento era insistentemente posto su una lettura dell’arte rigorosamente formale e autobiografica20. Il Pompidou negli anni ’80 diviene, quindi il nuovo modello da seguire in termini di libertà di stile sulla propria identità e idee riguardo sia le collezioni che le tecniche di allestimento. Per quanto riguarda la funzionalità architettonica, dopo qualche anno dalla nascita, il Centro inizia a mostrare qualche incrinatura, era evidente che per quanto riguardava l’esposizione non si era rivelata vincente la configurazione a pianta aperta con pareti mobili e temporanee che rendevano, talvolta impossibile esporre in modo soddisfacente sculture e dipinti. Il Centro riscosse molto successo, nonostante tutto, sembrava di essere in un grande aeroporto affollato invece che dentro un museo, con i suoi spazi canonici era quasi impossibile concentrarsi sulle opere dato il

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rumore e l’affollamento, questo stesso successo ben presto portò l’edificio a un indispensabile intervento di manutenzione, ben prima dei tempi previsti. Gli interventi di ristrutturazione furono affidati all’architetta italiana, Gae Aulenti, alla quale fu affidato il compito di progettare sale espositive più tradizionali da inserire all’interno dello spazio aperto. Ma la forza dirompente del prepotente e provocatorio progetto architettonico, fanno si che da solo questo sia capace di trasformarsi in immagine di se stesso, e tutto questo viene rafforzato dal primo progetto di comunicazione visiva del centro, affidato nel 1974 al grafico francese Jean Widmer.

Interno Centre George Pompidou



Banner esterni Centre George Pompidou


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Nel 1969, venne indetto un ulteriore concorso internazionale per la realizzazione dell’identità visiva del centro, vincitore del concorso risultò il designer Jean Widmer. Il gruppo “Visual Design” si formò attorno alle figure di Jean Widmer ed Ernest Hierstand.
 La committenza richiedeva una tipografia originale e una segnaletica adeguata per adattarsi alla pluri-disciplinarità e alla complessità dell’architettura, venne difatti disegnato, anche un font apposito il CGP (Centre George Pompidou) dal type designer Hans Jürh Hunziker. Il progetto comprendeva anche la realizzazione della segnaletica che avrebbe avuto le seguenti caratteristiche: integrazione verticale nella struttura architettonica e un codice semplice d’interpretazione per il fruitore del centro culturale, per non ingombrare gli spazi da fruire e informare in modo completo ed esaustivo, rispondendo a una necessità di carattere funzionale e non puramente formale. Integrazione verticale, perché Widmer ha voluto integrare la segnaletica nell’architettura, per non ingombrare l’area e informare al massimo, senza interferire con la visione e attirare l’attenzione del pubblico, rompendo con le sue abitudini. Ma la segnaletica verticale non fu mai stata veramente apprezzata. Codice di identificazione che risponda ad una necessità funzionale e un desiderio non a un desiderio decorativo. Ogni dipartimento, infatti, ha un colore che permette il suo riconoscimento. Widmer scelse i colori in base al simbolismo cromatico, così per esempio l’IRCAM è rappresentato dal colore porpora, che simboleggia la musica e la spiritualità. Jean Widmer non volle inizialmente progettare il logo del Beauburg, egli era convinto che il sistema visivo e la segnaletica fossero, sufficienti per l’identità del futuro centro, ma la direzione, insistette e il designer progettò il marchio nel 1978, un anno dopo l’inaugurazione del centro.

Ancora oggi, questo è in uso, ed è diventato una pietra miliare nella storia del design grafico contemporaneo. Jean Widmer, progetta il logo giungendo alla definizione di un segno forte e semplice, fortemente caratterizzante. Nel logo venne rappresentato stilizzando il prospetto anteriore dell’edificio, ridotto a una sequenza di linee orizzontali interrotte dalla inclinazione di una linea che raffigura la scala mobile, che ne spezza la facciata nella parte anteriore.

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Il Beauburg è immediatamente riconoscibile, attraverso il proprio logo anche se in esso vengono raffigurati solo cinque piani, mentre l’edificio è dotato di sei livelli fuori terra. Nel 1997, il museo rimane chiuso per lavori di ristrutturazione che coinvolgeranno anche il sistema di identità visiva, il quale viene totalmente ripensato dallo studio parigino Ruedi Baur et Associés, che tra il 1997 e il 1999 ne svilupperanno uno nuovo senza soluzioni di continuità con quello precedente. Il progetto si presenta con un’immagine ottenuta da una sovrapposizione di lettere che vanno a formare una texture, una semplice sommatoria di caratteri, disposti su livelli sovrapposti che ricreano o meglio evocano il movimento delle masse che si muovono all’interno del Centro. Il progetto raccoglie in se tutte le richieste effettuate dalla committenza e le traduce graficamente in un sistema di elementi base costituiti da: font, colori e la relativa composizione degli stessi. La composizione di questi elementi semplici apre molteplici soluzioni grafiche che dialogano tra loro in modo esemplare. Il marchio rimane invariato e al font precedente viene aggiunto il FF DIN, disegnato appositamente da Albert Jan Pool, che riprende l’originale Din, fortemente utilizzato nella segnaletica stradale tedesca per la sua alta leggibilità. I colori scelti sono: giallo, magenta, ciano, verde, bianco e nero. Mentre per quanto riguarda la segnaletica, disegnata da Ruedi Baur, si sviluppa utilizzando un sistema di elementi tridimensionali, differenziati dalla forma, dal colore e dal carattere. I volumi sono autoportanti o sospesi, realizzati in metallo verniciato a fuoco con i testi serigrafati, mentre numeri e frecce sono in materiale plastico o realizzati con tubi di neon che vanno a indicare le direzioni. I pittogrammi sono stati disegnati da Hunziker e da Ursula Held sempre dello studio di Ruedi Baur e i colori utilizzati, sono gli stessi di quelli utilizzati per il sistema d’identità visiva, suddividendosi per le diverse informazioni. Poster Jean Widmer 1987 Centre George Pompidou


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Segnaletica particolari Centre George Pompidou

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Logo applicazione Centre George Pompidou Segnaletica applicazione Centre George Pompidou esempio di esposizione Centre George Pompidou Basquiat Centre George Pompidou Yaacov Agam Centre George Pompidou


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Per quanto riguarda la collezione ospitata dal centro bisogna sapere che il Museo Nazionale d’Arte Moderna (MNAM) esisteva ancor prima della creazione del centro. Progettato prima della seconda guerra mondiale apre nel 1947, assorbendo la collezione dell’ex museo di Lussemburgo, (in un primo momento la collezione venne allestita presso il Palais de Tokyo, altro museo parigino), ed è qui infatti, che Jean Cassou, il primo direttore cercò attraverso la generosità di grandi artisti come (Picasso, Braque, Matisse, Chagall, Brancusi, ecc.) di costruire una collezione che vantava la presenza di opere che gli altri musei trascuravano. L’arricchimento della collezione si continua ad avere nel corso del tempo con lasciti da parte di grandi figure di spicco del periodo come Daniel Cordier (Dubuffet e Art Brut), Louise e Michel Leiris (Cubismo, Masson), fanno parte della collezione molte altre opere di Brancusi, esposte nell’atelier dedicato all’artista. Al giorno d’oggi la collezione vanta di quasi 53.000 opere, coprendo tutti i campi dell’arte. Essa è divisa cronologicamente tra i livelli quarto e quinto. Al quarto livello si trovano le opere d’arte contemporanea dal 1960 ad oggi con opere di Penone, Boltanski e Rondinone, solo per citarne alcuni. Mentre il quinto ospita le opere d’arte moderna dal 1905 al 1960 di artisti importanti come : Picasso, Giacometti, Pollock, Dalì e Duchamp. Ma oltre la collezione divisa nei livelli quarto e quindi, vi sono stanze monografiche a tema come sul Fauvismo, De Stijl, stanze dedicate a performance sulla pittura monocromatica, e ancora spazi dedicati al mondo virtuale e alle nuove tendenze dell’arte contemporanea. Ma nonostante il museo abbia una superficie in grado di esporre tutta la collezione, solo una parte delle opere è visibile, in quanto la politica di rinnovamento consente e privilegia la rotazione delle opere della collezione. Le collezioni sono a disposizione del pubblico anche sul sito del museo, dove vi è possibile visitare le camere attraverso una mappa interattiva.


Caso studio

TATE

The Branding that existed before was the branding of a particular period, and the branding of Tate Modern and Tate Britan is branding of another. Of course it is of its time


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La Tate Gallery è un’istituzione culturale che racchiude al suo interno quattro sedi museali: Tate Britain, aperta nel 1897, situata a Millbank, London SW1P 4RG; Tate Liverpool, aperta nel 1988, situata a Albert Dock, Liverpool L3 4BB; Tate St Ives, aperta nel 1993, situata a Porthmeor Beach, St Ives Cornwall TR26 1TG ed infine Tate Modern, aperta nel 2000, situata a Bankside London SE1 9TG.

Ingresso Milbank Tate Britain

La prima delle suddette gallerie ad essere fondata è stata la “National Gallery of British” (oggi chiamata semplicemente “Tate Britain”), situata nel quartiere londinese di Pimlico. Fu la prima delle quattro sedi ad aprire i battenti nel lontano 1897. L’idea di un museo nazionale fu proposta nel 1820 da Sir John Leicester , idea che si concretizzò quando Robert Vernon donò la sua collezione alla National Gallery, nel 1847. Quarant’anni dopo Henry Tate, collezionista d’arte vittoriana, si offrì di finanziare la costruzione dell’edificio che avrebbe ospitato la collezione diventando una galleria d’arte, a condizione che lo stato pagasse il mantenimento della stessa. Fu proprio Henry Tate21 a donare la prima collezione al museo, ed è proprio per questo motivo che in seguito il museo ne assunse il nome, diventando: Tate Gallery. Alle origini la Tate Britain era controllata ed amministrata dalla National Gallery, fino al 1954, e raggruppava collezioni dell’età vittoriana. Negli anni che seguirono ebbe la funzione di mostrare la storia dell’arte Britainnica e quella internazionale. Tra gli anni ’50 e ’60, il dipartimento delle arti visive e l’Art Council of Great Britain finanziarono e organizzarono mostre temporanee alla Tate Gallery e nel 1966 una retrospettiva su Marcel Duchamp diede l’inizio ad una serie di mostre temporanee, allestite all’interno della galleria, che iniziava a dar dimostrazione di crescita di interesse da parte delle masse attraverso l’incremento di pubblico che metteva alla luce problemi di spazio. Nel 1979 un’importante banca giapponese finanziò un ulteriore ampliamento della sede realizzando “Clore Wing”, aperta nel 1987, attuale sito della Tate Britain. Nel 2000 in occasione del “Centenary Development” si pensò di apportare delle modifiche all’intero sistema di comunicazione, in onore dell’importante ricorrenza del museo, che prevedeva la nascita di altre strutture destinate alla fruzione d’arte e quindi ad un conseguente


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Ingresso Milbank Tate Britain

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...it is very pronunced at Tate, but that is partly to do with its vastness as an institution. The branding was meant to overcome the sense of fragmentation.


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incremento di pubblico di vario target, cercando soluzioni per di risolvere i problemi per la mancanza di spazio alla Clore Wing venne presa in considerazione la saggia idea di separare le collezioni “British” e “Modern”e quindi di collocarle in sedi differenti. Sedi che saranno le successive: Tate Britan e Tate Modern. La Tate Britain ospita l’imponente collezione britannica che copre il periodo storico che va dal 1500 al 1900, le esposizioni sono esposte secondo un ordine cronologico; vi sono alcune sale dedicate ad un singolo artista, mentre quelle più ampie ospitano opere di diversi artisti contemporanei. Tra le sale più importanti vi è quella interamente dedicata a Joseph Mallord William Turner, uno degli artisti inglesi più famosi ed influenti del XIX sec. La visita inizia con un percorso che parte dalle sale centrali accompagnando lo spettatore in una passeggiata attraverso lo sviluppo dell’arte del XX secolo, con opere di artisti come Bacon, Hepworth, Hockene, solo per citarne alcuni, per poi arrivare alla grande sala dedicata agli artisti contemporanei di recente acquisizione come Hirts, Evans, Byrne e Nelson. La dislocazione della collezione moderna, segnò un momento cruciale per l’istituzione, che giunse alla conclusione di un importante intervento progettuale, in cui vi furono coinvolte diverse figure professionali, tutte impegnate in un complesso processo che va dalla restaurazione architettonica alla nascita del progetto di immagine coordinata per tutte le quattro sedi Tate (fino alla realizzazione delle divise dei dipendenti del museo disegnate da Paul Smith).

Damien Hirst Tate Britain


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Particolare architettonico Tate Britain

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La Tate Liverpool è la seconda della quattro sedi ad essere istituita e sorge nel bacino di Albert Dock22, all’interno di un ex magazzino del complesso portuale. La sua nascita si deve al direttore Alan Bowness che nel 1980 era già direttore di Tate. Bowness e il consiglio della fondazione ebbero l’idea di creare una galleria d’arte contemporanea nel nord dell’Inghilterra, una “Tate nel Nord”, sottolineando il fatto che la nuova galleria avrebbe dovuto essere una controparte di quella londinese destinata ad ospitare l’arte moderna con un programma didattico ed educativo per attirare un pubblico giovane. Liverpool fu l’ultima città che il direttore visitò durante il tour dei luoghi potenziali per la scelta del sito della “Tate del Nord”. Le caratteristiche del sito che lo attrassero furono la posizione strategica dell’edificio, e il fatto che l’Albert Dock fosse al centro della città lo rendeva un candidato ideale. Diversi progetti erano stati proposti per il bacino, progetti che però che avrebbero cambiato totalmente il volto storico della zona oramai in decadenza, mentre il progetto insediativo promosso da Tate, ne prevedeva la riqualificazione, senza alterare il volto della zona che divenne, durante gli anni ’80, un centro d’arte e cultura che oggi ha raggiunto il massimo sviluppo. Il Dock venne progettato da Jesse Hartley nel 1948, ed era uno degli esempi più maestosi di architettura industriale in Europa, venne chiuso nel 1952 decadente, e nel 1985 iniziarono i lavori di ristrutturazione degli esterni da parte degli architetti James Stirling e Michael Wilford, nominati appunto, per convertirlo in una galleria d’arte, e solo nell’anno successivo iniziarono i lavori. Stirling ha trasformato l’interno in una galleria elegante adatta per l’esposizione d’arte moderna. Il lavoro fu completato nel 1988 e dieci anni dopo susseguì un’ulteriore ristrutturazione, che vedeva la conversione dei piani superiori, rimasti inutilizzati nella prima fase, in spazi appropriati da dedicare alla didattica, diventando un auditorium e un altro spazio dedicato alle esposizioni temporanee. Il progetto si basava sulla conversione del ex magazzino di sette piani in una galleria di cinque, che sarebbe diventata la più grande fuori Londra. Tate Liverpool è, infatti, la più grande galleria d’arte moderna fuori dal centro londinese, nel nord della Bretagna, e ospita la collezione nazionale di arte


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moderna e contemporanea dal 1900 ad oggi. La mission era quella di incoraggiare consapevolezza e una maggiore comprensione dell’arte del XX secolo, rendendola accessibile anche alla gente che abitava non nella centralissima Londra. La galleria, basa l’esposizione permanente su parte della collezione della principale sede londinese e viene a man mano completata ed arricchita dalle esposizioni temporanee. Il dipartimento didattico di Tate Liverpool ha un programma di eventi che coinvolge le scuole, le università, gruppi di varie comunità e oltre il grande pubblico. Essa ha anche un ruolo attivo alla Biennale di Liveropool. Il progettista del sistema di identità visiva, allora il designer David Hillman, partner del rinomato studio Pentagram, che in stretto accordo con lo stile architettonico decise di trattenerne molte delle caratteristiche principali come, i 53 segni riprodotti nelle parti in ghisa delle pareti, i colori utilizzati, il nero e il grigio, che insieme a un carattere classico e serif divenivano elementi complementari per tradurre in modo coerente lo stile della galleria. Inoltre erano stati sviluppati dei sistemi visivi, basati su elementi grafici, di segnaletiche per indicare i punti importanti e le direzioni da seguire durante gli eventi. Il logo usato era la silhouette in negativo dello stemma reale con il motto “Dieu et mon droit” e gli opuscoli d’informazione, ovvero le brochure, erano di forma rettangolare con una copertina composta da una fotografia monocromatica e da una tipografia ordinata. L’impressione che si voleva dare era appunto l’armoniosa fusione tra il passato e il contemporaneo, in cui però la priorità era data dall’edificio.

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Particolare architettonico Tate Liverpool

Particolare espositivo Tate Liverpool


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At the end of a stormy and blustery day we arrived at the Mersey, had a quick look at the Liver Building (not suitable), and then went into the totally derelict Albert Dock. It was immediately clear to me that this was the place.

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Prospetto frontale Tate St Ives Particolare giardino Barbara Hepworth Museum

Tate St Ives è la terza delle quattro sedi Tate. Si trova a Porthmeor Beach, St Ives Cornwall TR26 1TG, nel cuore della comunità. Situata sulla spiaggia di Porthmeor, l’edificio è stato progettato dagli architetti David Shalev e Elder Evans, sulle ceneri di un ex fabbrica. Fu costruito con l’idea di avere lunga durata nel tempo e soprattutto di essere radicato nel territorio. Gli architetti in fase progettuale adottano due forme base che fanno eco a quelle del sito originale: una forma circolare vetrata forma il centro del palazzo richiamando la base della vecchia fabbrica, mentre la forma rettangolare era ispirata dagli edifici del dopo guerra presenti a Porthmeor. Il rapporto utilizzato, tra lo spazio interno e la vista sul paesaggio di St Ives, richiama ed esalta la topografia del luogo, con la sua fitta rete di vicoli, stradine e piazzette. Venne inaugurata nel 1993 per celebrare il lascito della colonia da parte degli artisti dell’età moderna che vissero a St. Ives. Essa simboleggia il momento in cui la creatività del luogo si collega con il modernismo internazionale e lo influenza, celebrando lo spirito dinamico degli artisti

che hanno vissuto e lavorato in quella città per tutta la durata del XX secolo. In senso di riconoscimento alla storia culturale del luogo Tate sviluppa a St Ives un centro internazionale per l’arte nel cuore della Cornovaglia ed è infatti, attraverso le piattaforme del Barbara Hepworth Museum e la galleria (Tate St Ives) che offre un vasto programma espositivo sia di arte moderna e sia di arte contemporanea internazionale. Il fulcro centrale dell’offerta è rappresentato dall’internazionalismo e dalla qualità del programma di mostre temporanee, oltre che all’accesso alla collezione Tate centrata, qui sullo sviluppo della cultura internazionale. Per quanto riguarda le esposizioni temporanee, a St Ives cambiano tre volte l’anno, generalmente nel mese di gennaio, maggio ed ottobre e molto spesso si tratta di personali o di esposizioni tematiche. Mentre la collezione permanente è composta dalle sculture di Barbara Hepworth, che Tate gestisce dal 1980, anno della morte dell’artista, attraverso quello che una volta erano lo studio e il giardino dell’artista, oggi il Barbara Hepworth Museum.



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Mappa topografica dei siti londinesi Tate

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La Tate Modern è l’ultima galleria dell’istituzione Tate ad essere stata realizzata. Con sede nel quartiere di Bankside a Londra, Tate Modern rappresenta un momento importante dove si giunge al termine del progetto d’espanzione di Tate e il conseguimento del progetto di riorganizzazione nell’ambito delle comunicazioni. Per la scelta del sito dove far nascere questo importante contenitore per l’arte contemporanea, si presero in considerazione più opzioni prima di trovare un’area che fosse adeguata alla nascita del un nuovo e ambizioso museo. Inizialmente si era pensato di allargare la sede di Millbank (sede dell’attuale Tate Britain) e si occupò del progetto James Stirling, progettando un piano d’espansione e studiando gli spazi per le nuove gallerie ad est dell’edificio, ma i Trustees appurarono l’impossibilità fisica di ospitare a Millbank, tutta la collezione della Tate e piuttosto che mirare a una soluzione parziale si valutò la decisione di cercare una seconda area. La decisione sollevò diverse dispute su come la collezione si fosse dovuta dividere, optando infine per la suddivisione in British Art e in Modern Art. La prima, che raccoglieva in sè la maggior parte delle opere inglesi, rimase stabilmente nell’edificio di Millbank, mentre per la seconda, si decise di creare un museo d’arte moderna,apposito, un luogo in cui sarebbero state esposte anche opere di artisti britannici, ma con una prospettiva diversa che sarebbe andata oltre quanto già fosse fissato dai musei “modello” come il Museum of Modern Art di New York, il Centre Pompidou di Parigi ed il Los Angeles Museum of Contemporary Art23. Dopo le varie considerazioni sui possibili luoghi, si decise di rilevare la vecchia centrale elettrica, Bankside Power Station, progettata da sir Gilbert Scott, diviene una scelta importante per motivi, ovvi ed essenziali che includevano la riqualificazione di un quartiere della città ormai dimenticato, e la sua collocazione in una posizione strategica, che fronteggia la cattedrale di St Paul. Fu anche modificata la linea della metropolitana, Jubilee Line, per facilitarne il raggiungimento con i mezzi di trasporto ed oggi Tate mette a disposizione dei visitatori con soli 5£ una navetta che attraversando il Tamigi,gli permette di raggiungere in breve tempo entrambe le sedi, Modern e Britain. Il progetto venne elaborato con il London Borough


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of Southwark in consultazione con la City of London e London First ed i costi di realizzazione e gestione venerro finanziati sia dal settore pubblico sia da quello privato. I Trustees volevano ad ogni costo che Bankside diventasse un’occasione per realizzare un nuovo tipo di architettura, ed inoltre erano ben coscienti del difficile equilibrio che si sarebbe instaurato tra la visione dell’arte e il desiderio da parte degli architetti contemporanei di imporre segni forti. Fu questa considerazione oltre alla delicatezza dell’edificio e la vicinanza alla Cattedrale di St Paul a convincere Tate a mantenere la struttura esistente di archeologia industriale, progettata da Scott. Così facendo Tate sblocca quella che poi è diventata una delle strade per realizzare gallerie d’arte contemporanea, decidendo di rimodellare e riconvertire un ormai inutilizzato fabbricato industriale, il quale possiede però la giusta scala e la qualità monumentale paragonabile a quella dei musei classici. La Saatchi Gallery di Londra è un’altro esempio che va nella stessa direzione. Per la realizzazione del progetto Tate si fa promotrice di una serie di seminari per discutere il tema del museo moderno, infine dopo la difficile scelta del sito, decide di bandire un concorso di architettura internazionale. Il concorso è organizzato in diverse fasi: nella prima si chiedeva ai concorrenti di indicare come avrebbero affrontato il progetto di Bankside; dopo aver esaminato i curricula, la giuria selezionò i tredici gruppi progettuali

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che comprendevano anche studi professionali con poca esperienza lavorativa. Nella seconda fase i concorrenti dovevano mostrare come avrebbero trasformato un edificio privato in uno pubblico, e un enorme struttura in un ambiente adatto all’arte contemporanea. I tredici progetti produssero i sei finalisti, che elaborarono ulteriormente le proprie proposte progettuali. I vincitori finali furono gli svizzeri Herzog e de Meuron, che non caddero nella tentazione di realizzare un’opera autocelebrativa, ma mantennero lo scheletro esistente dell’edificio, applicandovi dei grandi volumi trasparenti, visibili anche durante la notte, rendendo la galleria parte e protagonista dello scenario urbano. Il delicato involucro di vetro presenta una struttura semplice all’esterno e complessa all’interno. L’impatto con gli esterni spogli, viene interrotto all’interno, in cui una grande rampa immette nella vecchia sala delle turbine, oggi da tutti conosciuta come la Turbine Hall, che è un vano imponente, date le sue dimensioni, trasformato in uno spazio espositivo per le mostre temporanee ma anche adibito a spazio di meeting. Gli ambienti variano dal lussuoso all’informale, con i pavimenti volutamente lasciati grezzi in battuto di cemento, e con una illuminazione naturale che filtrando dall’alto dell’edificio illumina in parte i piani espositivi delle gallerie e i piani riservati agli shop e ai ristoranti.


Particolare Turbine Hall Tate Modern

Particolare architettonico Tate Modern



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Logo applicato ad elemnti urbani Tate Modern

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La collezione mira a rappresentare i significativi sviluppi della storia dell’arte, con opere di eccezionale importanza, nel dettaglio Tate Modern si focalizza soprattutto sull’arte europea occidentale e del nord America, e cerca di rappresentare l’arte moderna e contemporanea, nazionale e internazionale, da una prospettiva globale, ampliando negli ultimi anni il suo patrimonio con opere di artisti provenienti dall’America latina, dal sud-est asiatico, e dall’Europa dell’est. Quando Tate aprì, nel lontano 1897 la sua collezione era composta da soli 65 dipinti, opere donate dal beneficiario, Henry Tate, oggi la collezione si compone di ben 66.062 opere d’arte, realizzate da 3.075 artisti, suddivise in 4930 dipinti, 1690 sculture, 285 rilievi, 333 installazioni, 47.653 opere uniche su carta, 13.272 stampe su carta, 329 blocchi di disegni, fanno parte della collezione alcune delle applicazioni al tessuto architettonico dell’edificio stesso. Le opere sono distribuite nei diversi siti con lo scopo di esporre il più possibile la collezione, nonostante ogni galleria abbia la propria collezione permanente, che andrò ad illustrare nel dettaglio più avanti. Tate dà la possibilità al pubblico di ammirare la maggior parte delle opere nella collezione on line, fatta eccezione per le opere in prestito o poste in deposito o ancora per quelle protette da copyright. È possibile visualizzare le opere nella sezione “A-Z” del sito, che le elenca tutte, fatta eccezione per quelle di Turner, alle quali si accede attraverso una sezione apposita, la sezione “Turner”. Dal menù della collezione on line è possibile effettuare diverse ricerche tipo: “oggetto”, che consente di navigare nella collezione per argomento; “glossario illustrato”, che elenca i termini chiave utilizzati dai vari testi e didascalie; “nuove acquisizioni”, ove sono elencate le opere di recente acquisizione da parte di Tate e a tutto questo si aggiunge una funzione che permette di salvare le opere preferite per rivederle in qualsiasi altro momento. La digitalizzazione della collezione Tate è stata sostenuta economicamente dall’Heritage Lottery Fund e Big Lottery Fund23 La mission che Tate si prefigge, anche attraverso la disponibilità delle opere on line, è quella di aumentare la conoscenza, la comprensione e l’apprezzamento degli artisti britainnici e internazionali e quindi dell’arte moderna e contemporanea.


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Il vasto programma che Tate segue per i prestiti delle opere della sua collezione, sostiene la mission stessa. Attraverso il prestito, infatti, Tate mira ad aumentare e ampliare l’accessibilità del pubblico alla collezione nazionale, contribuendo a mostre nazionali e internazionali per promuovere l’arte inglese all’estero, sostenendo gli artisti e lo spirito di collaborazione e di scambio tra gallerie e musei. Tate presta diverse centinaia di opere nel corso di ogni anno, per mostre temporanee che si svolgono nel proprio territorio e all’estero. Tutti i prestiti sono gestiti da Tate, comprese le eventuali opere in mostra permanente nei quattro siti. I prestiti di Tate sono limitati a determinate categorie, che possono essere così riassunte: a. le esposizioni che dimostrano modalità innovative per aumentare la conoscenza, la comprensione e la fruizione dell’arte in un vasto pubblico; b. le esposizioni che dimostrano una ricerca originale e che darà un contributo alla conoscenza storico-artistica; c. opere che servono a completare significative mostre personali, contribuendo ad una maggiore conoscenza dell’artista; d. mostra tour nelle quattro sedi; e. prestiti da 1 a 5 anni che servano a completare le collezioni detenute in altri musei o gallerie.

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Tutto questo è regolato da documenti che determinano le condizioni e le procedure da adottare in ogni caso specifico. Tate s’impegna a rispettare tutte le politiche nazionali e internazionali, con linee guida e codici di condotta relativi ai prestiti delle opere della propria collezione. Per quanto riguarda la struttura espositiva della collezione permanente della Tate Modern, inizialmente curata dal direttore Nicholas Serota, in cui il sistema espositivo era basato su aree tematiche denominate attraverso l’accostamento di parole chiave come “paesaggio/materia/ambiente, nudo/azione/ corpo, natura morta/vita vera/oggetto e storia/ memoria/società”, viene ben presto cambiata, in quanto fortemente criticata per la sua complessità, e sostituita con una nuova che stabilisce una sorta di ponte tra il primo sistema e lo storicismo utilizzato dalla maggior parte dei musei del mondo, basandosi su una disposizione cronologica delle opere raccolte per appartenenza ai movimenti e secondo una precisa sequenza temporale. Il principio secondo il quale si sviluppa il nuovo sistema allestivo, curato da Frances Morris, parte dalla definizione di quattro aree che accolgono al



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loro interno i principali movimenti artistici del ’900, ovvero Surrealismo (Poesia e sogno), Espressionismo astratto (Gesti materiali), Minimalismo (Idea oggetto) e Cubismo, Futurismo e Verticismo (Stati di flusso). Intorno a tale nucleo, una sorta di zero assoluto, si sviluppa l’allestimento di tutte le altre opere disposte cronologicamente prima e dopo di questo, raccontando secondo un’ideale linea del tempo, ma realmente disegnata sui muri interni della Tate Modern, dall’illustratrice italiana Sara Farnelli, l’attività artistica, con date e nomi, che va dai precursori sino agli artisti contemporanei. L’allestimento della collezione permanente si sviluppa attraverso un sistema che comprende aree monografiche, dedicate ad artisti come Rothko, Beyus, Sol Lewitt e Juan Munoz, alcune sale in cui sono poste a confronto opere di autori anche non contemporanei (De Chirico e Kounellis, Kapoor e Barnett Newman, Cari Andre e Martin Creed, Boccioni e Lichtenstein) e altre in cui permane un sistema strutturato secondo un libero assemblaggio di frammenti, in cui, quasi un ricordo del precedente sistema, assume una notevole importanza la capacità del visitatore di stabilire relazioni tra le opere disposte secondo un unico tema.

Interno vista da livello 3 Tate Modern

Interno livello 5 Tate Modern Interno particolare parete Tate Modern



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La galleria vanta cinque livelli, all’interno dei quali le opere sono disposte secondo i criteri sopra citati. Il primo livello è costituito dalla “Turbine Hall” utilizzata per mostre temporanee, e occupato in parte anche dal main shop dove è possibile acquistare oggetti di merchandising e libri di vario genere, in una libreria fornitissima; il secondo livello la “River Entrance” ospita il ristorante, un secondo shop, la star auditorium e la seminar room; il terzo livello “Collection Display” si divide nelle tre aree che ospitano “Poesia e sogno” dove troviamo le opere dei surrealisti come De Chirico, Picasso, solo per citarne alcuni; nella parte centrale abbiamo “Artist rooms: Diane Arbus” e arrivando dalla scala interna alla destra si può ammirare la sala “Gesti materiali” dove sono esposte le opere degli astrattisti e degli espressionisti come Monet, Bacon, Matisse, e molti altri appartenenti ai medesimi movimenti artistici; il quarto livello, “Exhibitions” invece è dedicato a mostre personali temporanee, sullo stesso troviamo anche un caffè dove ancora una volta, è possibile acquistare oggetti di merchandising, relativo alla mostra in corso; il quinto livello, “Collection Displays” anch’esso diviso in tre aree ospita al suo interno “Stati of flux” dove sono collocate le opere contemporanee del post impressionismo, del cubismo, del verticismo, del futurismo e della pop art, di artisti come Boccioni, Lichtenstein, Duchamp e altri esponenti dei suddetti movimenti; la parte centrale “Artist rooms” espone le fotografie di Jenny Holzer; l’area successiva la “Energy and process” invece si focalizza sull’arte povera ospitando opere di artisti come Acconci, Hammons, Merz ed altri; il sesto livello è invece riservato alla “Member’s room” della quale possono usufruirne solo i soci, mentre il settimo ed ultimo livello è riservato al ristorante. Tate oltre ad avere una forte attività espositiva gestisce al meglio molte altre attività aperte al pubblico, come mostre, convegni, concerti e laboratori. Di grande valore è l’aspetto didattico che Tate promuove all’interno delle proprie gallerie e sul proprio sito web. Per quanto riguarda le installazioni temporanee, come ho già detto, vengono ospitate, nello spazio del “Turbine Hall” attorno alla quale si sviluppano progetti interessanti e di grande spessore in collaborazione con la Unilever, dalla quale infatti deriva il nome di The Uniliver Series, con cui vengono identificate. Il progetto Unilever si basa sui cospicui finanziamenti

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necessari per allestire mostre o installazioni temporanee all’interno della suddetta sala. L’accordo che regola questi finanziamenti e le relative realizzazioni venne firmato nel 1999 da Niall Fitzgerald, amministratore delegato della Unilever.

Installazione di Anish Kapoor Turbine Hall Tate Modern


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Sistema espositivo opere cartacee sovietiche Tate Modern

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Parallelamente alla ristrutturazione architettonica dello spazio espositivo si sviluppa il progetto d’identità visiva. Viene bandito un altro concorso, ove viene richiesto ai grafici di dare ordine al sistema di comunicazione delle diverse sedi Tate, afflitte da un disordine dovuto alla differente dislocazione e connotazione delle singole sedi. Si ha bisogno di un sistema d’identità visiva che sia valido per ognuna di esse e per l’intero sistema museale, e che trasmetta un nuovo modo di fare esperienza culturale, attraverso un sistema che vede l’arte convivere ora anche con lo svago e l’intrattenimento. Vincitore del suddetto concorso fu lo studio londinese, Wolff Olins, studio in cui da subito il tema viene affrontato cercando una coerente fusione dei concetti di unicità e pluralità, ovvero un tentativo di stabilire una connessione tra l’unicità del marchio e la pluralità delle sedi. La soluzione progettuale si presenta estremamente interessante per vari motivi, in quanto traduce graficamente il concetto appena espresso attraverso un marchio che offre di se mutevoli aspetti, come distinti fotogrammi di una trasformazione in atto, quattro versioni differenti che traducono il nome del museo in un logotipo, realizzato con un carattere tipografico disegnato appositamente. Tutto questo avviene nella primavera del 2000, quando l’istituzione culturale cambia radicalmente la sua immagine coordinata in concomitanza del lancio di Tate Modern e di Tate Britain. La nuova identità, disegnata da Wolff Olins, consiste in una gamma di quattro loghi Tate, con colori e font speciali, la corporate identity rinuncia all’uso di un’immagine unica e si basa esclusivamente sulla tipografia, con un stretto rapporto tra forma e contenuto.

Poster applicazione suffisso su logo Tate Britain



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Il logo è composto da quattro (marchi) Logotipi Tate, che variano nella definizione di sfocatura e nelle versioni sia positive che negative. I loghi non hanno delle misure stabilite, né sono creati per essere assegnati ad una galleria in particolare. Il logotipo, Tate contribuisce a sviluppare un marchio fluido e fresco, che presenta una certa consistenza, ad esso viene il suffisso, il nome della galleria per cui andrà ad operare diventado così: Tate Britain, Tate St Ives, Tate Liverpool e Tate Modern.

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087 BRAND ELEMENTS

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BRAND ELEMENTS

TATE BRAND GUIDELINES OCT 2010 V1

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Per quanto i colori utilizzati, la tavolozza si forma di dieci colori in grado di riflettere svariati umori e stili, divisa in due grandi gruppi, da un lato abbiamo una serie di colori vibranti come l’arancio, l’azzurro cielo, il verde, lo scarlatto e il violetto, mentre dall’altro una gamma più esclusiva presenta dei colori dai nomi insoliti, in termini di corporate identity, come: il cioccolato, il borgogna, il porpora, l’ardesia e il verde oliva. Come accade per i logotipi i colori non vengono assegnati specificatamente ad una galleria o ad un’attività in particolare, ma scelti semplicemente per la loro forza caratterizzante e per il loro alto grado di leggibilità in rapporto agli sfondi utilizzati.

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Il font utilizzato per tutto il sistema di identità è il “Tate Mono”, disegnato appositamente da Miles Newlyn per lo studio Olins, è un carattere sans serif caratterizzato dalle terminazioni arrotondate, possiede un forte potere evocativo nei riguardi dell’edificio, avendo un rapporto dimensionale tra base e altezza di 1:2, si presenta chiaro, contemporaneo e distinto. Il font viene utilizzato in tre diverse versioni di definizione per tutte le applicazioni nel sistema di grafica coordinata che vanno dal logotipo alla cancelleria, alla segnaletica fino ad arrivare ad interventi di archigrafia, accogliendo talvolta nella composizione delle lettere della parola, lettere “sfocate”.

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Una chiave di lettura del progetto è contenuta nel processo fisico della visione e il suo esprimersi in una dimensione spazio-temporale, grazie alla quale avviene il primo contatto tra l’opera d’arte e l’osservatore, a partire dal considerare il senso della vista, nella percezione visiva, come uno strumento essenziale per la conoscenza. Il modo in cui il concetto viene espresso graficamente è dato da una scomposizione in fotogrammi nel processo di “messa a fuoco” delle singole lettere che compongono il logotipo, per cui le stesse posseggono una gamma di definizione che va dallo sfocato al nitido, ossia dal contorno indistinto, che forma come un alone intorno al glifo e lo rende appena riconoscibile sino al contorno netto e ben definito in cui la leggibilità è massima. Una seconda chiave di lettura potrebbe invece essere espressa da un processo di dissolvimento digitale del carattere il quale passa da una sua compiutezza di forme all’indefinitezza delle stesse25. La corporate identity di Tate è gestita con attenzione dal dipartimento di comunicazione Tate, che collabora oltre che con il personale anche con una serie di studi grafici esterni, e i vantaggi tratti, fanno si che l’istituzione attiri masse di pubblico, attraverso delle qualità, quali possono essere, il carattere dato da slogan mirati come “trend is not contemporay”. La comunicazione di Tate è di forte impatto visivo, si mostra chiara, semplice al frutitore, appare ben collega le attività dell’istituzione, anche gli artefatti fanno parte in modo indiscindibile del sistema di comunicazione e anch’essi sono il frutto di un lavoro di messa a fuoco sull’attenzione alle gallerie e ai punti di reale interesse, ovvero gli oggetti d’arte.

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Wolff Olins Studio Fondato a Camden Town, Londra, nel 1965 dal designer Michael Wolff e dal pubblicitario Wally Olins, oggi ha sede a Londra e a Dubai e vanta ben 150 dipendenti tra designer, strategists e account managers. Lo studio è specializzato nello sviluppo di marchi, strategie di marketing e in sistemi di identità visivi, dal 1965 ai primi anni ’90 ha sviluppato diverse corporate identiy per molte aziende europee, tra cui Apple Record nel 1968, Prudential nel 1986 e la BT nel 1991. Dopo gli anni ’90 lo studio si è focalizzato maggiormente sulla corporate identity e sul branding. Tra i progetti più recenti troviamo oltre al sistema d’identità visiva per Tate del 2000, Univeler nel 2004, Sony Ericsson nel 2006, mentre tra gli ultimi e importanti progetti dello studio vi è il marchio delle Olimpiadi di Londra 2012. Myles Newlyn è un famoso type designer inglese, una personalità di spicco nel mondo della grafica contemporanea ed è specializzato nella creazione di loghi, font e di altri elementi di comunicazione per una committenza fatta da grandi aziende e organizzazioni. Lavora spesso per importanti studi come Wolff Olins, Coley Porter Bell, BamberForsyth, Enterprise IG, Grigio, Saatchi & Saatchi. Suo è il carattere utiilizzato per tutta la comunicazione delle quattro sedi Tate e del relativo sito web, il “Tate Mono”.

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Caso studio

Walker Art Center


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Prospetto esterno vecchio edificio Walker Art Center

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Il Walker Art Center è un centro di arte contemporanea nel cuore di Minneapolis nel Minnesota negli Stati Uniti. Il Walker Art è considerato uno dei cinque musei più importanti della nazione insieme al Museum of Modern Art, il San Francisco Museum of Modern Art, il Guggenheim Museum e l’Hirshhorn. La mission del museo fin dalle sue origini fu quella di focalizzarsi sulle arti visive, dello spettacolo e dei nuovi media, con un approccio globale e multidisciplinare attraverso la presentazione, l’interpretazione, la raccolta e la conservazione dell’arte contemporanea. Fondato nel 1879 da Thomas Barlow Walker, venne formalmente inaugurato nel 1927, diventando la prima galleria d’arte pubblica del Midwest, ed intorno agli anni Quaranta con una donazione da parte della signora Gilbert Walker fu possibile acquisire opere di artisti importanti come Picasso, Moore e Giacometti, solo per citarne alcuni. Durante gli anni Sessanta, il Centro organizzò mostre che mettevano in risalto le ambizioni dello stesso ad inserirsi nel contesto dell’arte contemporanea, attento appunto agli sviluppi dello scenario artistico mondiale concentrandosi sulla contemporaneità, ampliando man mano le collezioni, il centro si afferma ben presto come un museo aperto ai più recenti sviluppi artistici, che andavano dalle arti visive a quelle dello spettacolo, arricchendo il proprio programma di formazione culturale che lo porterà ben presto al guadagnarsi fama e importanza a livello internazionale proprio come modello singolare di un’organizzazione multidisciplinare e dai metodi di approccio innovativi per il coinvolgimento del pubblico. Adiacenti al centro vi sono il Conservatorio Cowles e il Minneapolis Sculpture Garden, uno dei parchi di sculture urbane, più grandi della nazione. Il giardino fu inaugurato nel 1988 incidendo notevolmente sull’aumento di visite al centro stesso. Del primo progetto architettonico se ne occupò Edward Larrabee Barnes che mise in pratica le nuove idee sull’architettura contemporanea, la galleria appariva come un enorme cubo di un insolito color prugna agli esterni e integralmente bianco negli interni, facendo si che la tecnica espositiva conferisse maggiore importanza alle opere stesse, con pareti candide e incontaminate. Le tecniche progettuali dimostrano


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come l’architetto abbia conferito carattere al sito in modo totalmente consapevole, cercando di dargli forza e carattere nel modo meno aggressivo possibile, attraverso le proporzioni e le altezze di soffitti dove alcune finestre poste in posizioni strategiche fanno si che la galleria venga illuminata dalla luce naturale che crea sottili cambiamenti luminosi nell’ambiente. La pianta si presenta con una configurazione a spirale, proprio perché il progettista voleva dar una sequenza degli spazi in modo seducente che portassero il visitatore a ricordare le opere con un senso di flusso continuo, è appunto il flusso più che la forma il principale punto di forza del museo. La forma compatta estesa verso l’alto fa si che gli spazi espositivi si svolgano come una sequenza di tre gallerie che formano una U, collegate tra loro da grandi scale “a cascata”, che ancora una volta conferiscono al movimento un senso di fluidità senza alcuna forzatura. Berner aggiunse anche delle terrazze sul tetto dell’edificio che si affacciavano sul grande cortile, anch’esse strutturate a spirale su tre livelli che fanno si che l’edificio dall’esterno sia definito da una serie di volumi cubici che ricordano l’architettura minimalista dell’epoca. Il rivestimento di mattoni all’esterno contrasta con la luce degli interni.

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Il progetto incarna perfettamente ciò che il museo si prefiggeva, facendone un luogo che dimostrava in tutto e per tutto le ambizioni dello stesso. Nel 2005 viene promosso un progetto di ristrutturazione che ne prevedeva un ampliamento per il raddoppio degli spazi espositivi. Il progetto firmato dagli architetti svizzeri Herzog e de Meuron prevedeva la realizzazione di un edificio di cinque piani collegato alla vecchia struttura attraverso un passaggio lungo un corridoio in vetro che di fatto poi è un’apertura che si affaccia direttamente sulla Hennipin Avenue, un’area molto trafficata della città. Le pareti esterne sono ricoperte da superfici di alluminio permettendo “all’opera” di cambiare tonalità cromatica che oscillano tra il bianco e il grigio grazie agli effetti della luce riflessa. La nuova aerea venne inaugurata nell’aprile del 2005, dopo quattro anni di lavori e un costo complessivo di quasi cento milioni di euro. L’ampliamento consentì il raddoppio degli spazi espositivi facendone uno dei centri d’arte contemporanea, statunitensi più importanti: 40.000 mq di superficie complessiva che si dividono in un auditorium, una mediateca, un parcheggio sotterraneo e ad altri 4 acri di parco che vanno ad aggiungersi a quelli già esistenti, attraverso dei giardini pieni di installazioni.


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Prospetto esterno nuovo edificio Walker Art Center

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Il sistema di identità visiva del Centro appare fin dal primo progetto interessante soprattutto per l’uso del carattere tipografico disegnato appositamente da Matthew Carter nel 1990, commissionato da Laurie Haycock, viene chiesto al progettista di riportare nel progetto i caratteri del centro e quindi la multisciplinarità e la polivalenza. Il font Walker verrà rivisitato, successivamente sia nel 1996 da Matt Eller sia nel 1998 da Andrew Blauvelt. Il font, sia serif sia sans serif, fin dal principio assume un valore importantissimo per il sistema di comunicazione, data la sua flessibilità infatti si prestava bene ad un utilizzo modulare completato dai glifi. Ma il progetto mostrava delle limitazioni nell’uso che ne faceva la struttura e nel 2005 venne presentato il nuovo volto del Walker Art Centre, ancora una volta fulcro del progetto è il font che si presenta innovativo e sperimentale, incarnando bene il concetto di movimento, viene denominato Walker Expanded, che vive affianco o inglobando l’originario font Walker. Il nuovo sistema di identità visiva viene elaborato dallo studio grafico interno del museo, la committenza chiedeva di rappresentare coerentemente il carattere del centro, in continua trasformazione ed attento all’evoluzione artistica di cui esso stesso era

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promotore. Era stato chiesto di non utilizzare i metodi “classici” per la costruzione dell’identità relativa agli elementi principali di una corporate identity, composta dal logotipo, dai colori e dall’applicazione di essi nei vari artefatti, di conseguenza si optò per un mix degli stessi i quali combinandosi tra loro andranno a formare un pattern, che applicato a tutti gli artefatti e a tutti i supporti andava perdendo la staticità di un logotipo, incarnando perfettamente il concetto di trasformazione e movimento del museo. Il nuovo marchio identificativo del museo è in realtà un font, o faremmo meglio a definirlo un sistema continuo, trasformabile, infinito, espandibile, riducibile, come una linea o un nastro adesivo a cui gli stessi designer fanno riferimento, che può essere applicato facilmente su qualsiasi elemento, senza che questo comporti una difficoltà progettuale o di esecuzione26. Il pattern si compone del font, delle texture, dei colori che disposti su un sistema di stringhe danno la continua impressione di movimento e trasformazione conferendo un carattere dinamico all’intero progetto. Caratteristica fondamentale del Walker Expanded è proprio il modo in cui è composto, non da singole lettere bensì da parole intere o da gruppi delle stesse che si vanno a comporre liberamente dentro texture


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diversificate e fortemente colorate. Per quanto riguarda gli artefatti utilizzati per gli esterni, quindi i banner, venivano applicati alla facciata dell’edificio secondo un sistema che funzionava meglio per gli eventi di lunga durata, mentre mostravano poca flessibilità per gli eventi di breve durata o mostre per le quali non bastava mettere solo il nome e la data, inoltre non era possibile applicare più di due banner per facciata, presentando questo un ulteriore limitazione. Per far fronte a questi problemi di collocazione dei banner venne coinvolto lo studio Pentagram che si occupò del sistema di comunicazione visiva esterna del centro, proponendo soluzioni come display luminosi, proiezioni che permettono alle stringhe, un semplice utilizzo come quello fatto all’interno, gestibili anche da parte del personale stesso, abbassando di netto i costi di gestione. Il sistema diventa così ancora una volta flessibile e innovativo e in stretta coerenza con lo stile del centro. Ma questo verrà realizzato solo in parte rispetto al progetto iniziale.

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Sistema espositivo dipinti Walker Art Center

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La collezione del centro, che gode di una grande fama internazionale ed è in continua crescita attraverso nuove acquisizioni, vanta la presenza di oltre 11.000 opere tra dipinti, film, sculture, fotografie, opere su carta e video, comprendendo anche libri e disegni su svariati supporti. Le collaborazioni con il Ruben/Bentson Film, con il Video Study Collection, fanno si che il centro arricchisca sempre più la sua offerta multidisciplinare sia sul piano visivo che su quello dello spettacolo. Il sito del museo mette a disposizione tutte le informazioni sulle collezioni, gli eventi in programma e le attività svolte all’interno del centro. Nel dettaglio la collezione permanente del Walker Art Centre fonda le sue origini a metà del 1870, nella collezione personale di Thomas Barlow Walker, che al suo inizio includeva una ventina di opere di varia natura tra cui dipinti e sculture provenienti da svariate parti del mondo. Nel 1940 il Walker Art concentra la sua attenzione sull’arte contemporanea iniziando ad acquisire opere, di artisti contemporanei, come le sculture di Picasso, Moore e Giacometti ma anche dipinti di giovani artisti emergenti come Andy Warhol, Chuck Close, George Segal, Donald Judd, Dan Flavin, Claes Oldenburg.Oggi la collezione comprende anche opere dell’arte povera italiana e dell’arte giapponese del gruppo dei Gutai. Un gran numero di artisti, tra cui Matthew Barney, Robert Gober, Ellsworth Kelly, Sherrie Levine, Claes Oldenburg e Andy Warhol sono rappresentati con maggiore attenzione anche sulla loro carriera. Sono presenti più di 500 oggetti del gruppo internazionale noto come Fluxus, e di altri artisti come: Katharina Fritsch, Sigmar Polke, e Rirkrit Tiravanija. Il Walker Art ha gli unici archivi completi di opere grafiche di Jasper Johns e Robert Motherwell, così come centinaia di stampe provenienti dagli archivi della Tyler Graphics Workshop, che ha collaborato con maestri del calibro di Helen Frankenthaler, Joan Mitchell, e Frank Stella. La “Visual Arts Study Collection” contiene modelli, disegni e altri materiali preparatori relativi agli artefatti di grandi aziende. All’interno della Ruben / Bentson Film e Studio Video Collection, si contano circa 800 titoli, tra cui un gruppo ricco di film sperimentali degli anni 1960 e 1970 diretti da Kenneth Anger, Stan Brakhage, Bruce Conner, Paul Sharits, e molti altri, così come il catalogo completo dei film di William Klein e una serie di film sovietici, rari dell’inizio del XX secolo.


Conclusioni


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Analizzando le istituzioni attraverso delle schede tecniche ho voluto mettere¬ alla luce quali vantaggi e svantaggi, seppur così vogliamo definirli, si hanno dall’utilizzo dell’immagine coordinata da parte delle istituzioni culturali tra le più importanti nel mondo occidentale. Ogni scheda mette in evidenza non solo la storia dell’istituzione stessa sia in termini architettonici che in termini di comunicazione visiva, bensì mette in risalto le caratteristiche peculiari di ognuna, che riassunte brevemente sono l’essenzialità per lo Stedelijk, la funzionalità per il Pompidou, i l forte impatto visivo ed emozionale per Tate e la dinamicità per il Walker Art. Ho iniziando a raccontarle, dal contesto storico-culturale di ognuna fino ad arrivare ai giorni nostri che vedono protagonista la disciplina della comunicazione visiva al loro interno, ho cercato di individuare un percorso che parte dalla nascita dell’istituzione fino ad arrivare ai nostri giorni. Più volte nel testo cito Nick Bell e il suo saggio “L’arte e la cultura sono soggette all’interpretazione. Perché mai dovremmo dar loro delle identità rigide?”, proprio perché egli fa un’analisi critica dei sistemi di comunicazione utilizzati, a volte in modo totalmente inappropriato ed esasperato che non sempre corrispondono in modo esaustivo al programma culturale dell’istituzione che vanno a promuovere. Abbiamo visto come la disciplina del graphic design nasce appunto dalla necessità di comunicare in modo semplice e immediato delle informazioni e quindi che si pone fin dal principio come ponte tra l’utente e l’ente, e che vede l’aumento di importanza e di potere agli albori della rivoluzione industriale quando si inizia ad avvertire più che mai la necessità di differenziare oggetti di stessa natura ma di produzioni differenti. Abbiamo visto come la corsa all’identità investe anche, in tempi recenti, le istituzioni culturali che ampliando la loro offerta, iniziando a concorrere l’una con l’altra, creando un mercato, e facendo in modo che l’arte divenisse in tale sistema, anch’essa un prodotto/ oggetto, che ha bisogno di essere identificata per determinate caratteristiche, per essere venduta così come lo si fa per normali prodotti di consumo materiale, nasce così la Culture Industry. L’istituzione così come una fabbrica sente il bisogno di definire e quindi di marchiare la propria offerta per concorrere nel mercato,


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seppure sia questo un mercato d’arte. Uno degli svantaggi provocati da questa corsa quasi inarrestabile è proprio quello di cercare di dare un’identità ad un prodotto culturale così come lo si fa per un prodotto di produzione industriale destinato al consumo materiale e questo accade perché i progettisti utilizzano le tecniche provenienti dal branding del settore industriale per la creazione di corporate identity destinate a promuovere invece istituzioni culturali, non facendo talvolta alcuna differenza per la creazione di una corporate identity o di un’altra. È come se le committenze venissero messe tutte sullo stesso piano, come se fossero indifferenziate, e questo ovviamente è un errore. È pur vero che il principio della grafica è quello di tradurre le informazioni in modo semplice e diretto e che nel caso della costruzione di un’immagine coordinata, essa debba contenere in se tutti quelli elementi che seppur raffigurati con un’immagine semplice, rimandino alle attività produttive dell’azienda stessa, facendo in modo che attraverso anche il solo marchio, l’azienda venga subito riconosciuta per ciò che produce, inoltre a rafforzare tutto il sistema di comunicazione vi sono i vari artefatti e l’applicazione del marchio su svariati supporti che destinati alla fruizione visiva innescano nel fruitore un senso di curiosità che lo spinge

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ad “acquistare” il bene prodotto. Ma spesso accade che i sistemi d’identità vengano definiti in fase progettuale secondo alcune caratteristiche che non rendono giustizia al contenuto che sarebbero destinati a promuovere, nel caso specifico l’arte, e che diventino autocelebrativi per l’istituzione stessa, lontani quindi da quei criteri di funzionalità che risiedono alla base della disciplina progettuale. L’entrata dei musei nel settore economico ha indubbiamente dei pro e dei contro, da un lato abbiamo una diffusione dell’arte in modo capillare mentre dall’altro vi è una generalizzazione del prodotto che potrebbe dare l’impressione di una mancanza di rispetto nei confronti dell’arte stessa. Il design della comunicazione in questo contesto assume un ruolo determinante non solo in termini di identità (quali il marchio o i vari artefatti ) attraverso il quale informa il pubblico dell’esistenza e dell’offerta dell’istituzione stessa, bensì lo aiuta anche nella fruizione delle opere, all’interno degli edifici, lo guida nel percorso con l’inserimento di elementi grafici e di artefatti che vanno a fondersi direttamente nel tessuto architettonico dell’edificio stesso. Come abbiamo visto molti cambiamenti investono la pratica museale, nel corso degli anni, cambiando radicalmente anche il modo di intendere l’istituzione


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Museo. Un momento cruciale per le istituzioni si ha appunto negli anni Sessanta e Settanta che oltre alla ridefinizione della pratica museale, vedono la messa in pratica di determinati ideali con la nascita del Centre George Pompidou come nuovo esempio di libertà di pensiero, d’espressione e quindi di fruizione dell’arte in modo totalmente rivoluzionario attraverso dei sistemi del tutto innovativi che investono ogni aspetto dell’istituzione stessa. Con la crescita del sapere in termini sociali cambiano anche le richieste da parte del pubblico e le istituzioni si trovano a far fronte ad esse con l’adozione di strategie di mercato, tra le più svariate, diventando talvolta esse stesse committenti per le installazioni da esporre al loro interno. Questi cambiamenti hanno però fatto in modo che alcune istituzioni prendessero strade diverse, a volte ritrovandosi a diventare dei luoghi totalmente autocelebrativi come nel caso del Pompidou di Parigi, o nel caso del Guggenheim di Bilbao, dove il visitatore viene “confuso” e “ammaliato” dalla forte imponenza dell’architettura che va a spostare in secondo piano l’offerta di cui in realtà esso è il contenitore, con i dovuti distinguo tra i due esempi, totalmente rivoluzionario nel primo caso, eccessivamente concentrato sull’architettura nel secondo. Molto spesso l’equilibrio tra la forma e il contenuto viene violato dalla pressione economica che fa in modo che l’attenzione passi dal reale significato dell’offerta, come nei casi sopra citati dell’architettura o nel caso delle identità visive, a strutture di sistemi fini a stessi. Nell’ambito delle comunicazioni visive ciò avviene perché oramai facendo fronte al branding e quindi a una corsa di carattere puramente formale, le identità appaiono spesso vuote o meglio svuotate nei contenuti. Il progettista che ha il ruolo primario, di realizzare immagini attraverso la traduzione nel modo più chiaro e semplice possibile, dell’oggetto che deve andare a promuovere, cercando di renderlo icona che racchiuda dentro se una svariata serie di emozioni, sensazioni e associazioni che mirano ad imprimersi nel fruitore, facendo in modo di essere “ricordata”. Nei capitoli precedenti ho descritto il ruolo fondamentale rivestito dalla disciplina delle comunicazioni visive nel XX secolo e del ruolo importante che assume all’interno delle istituzioni culturali e non. Indubbiamente il XX secolo è l’emblema di una

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società in cerca di identità precisa, un’epoca in cui la differenziazione e l’unicità diventano la carta da giocare se si vuol essere ricordati, in un mondo dove la produzione di massa diventa protagonista, la corporate identity assume un ruolo fondamentale per far sì che le industrie e i loro prodotti differiscano gli uni dagli altri, cosa che accade ancora oggi soprattutto se si osserva il settore culturale che continua ad avere talvolta ambizioni commerciali così come potrebbe fare un’azienda produttrice di beni di consumo. Ambizioni che tradotte in termini di identità a volte danno come risultato dei sistemi identitari in forte contrasto con il contenuto che sono destinate a promuovere, notiamo queste forti contraddizioni se così vogliamo definirle, in alcune delle istituzioni londinesi più importanti mettendo Tate al centro di un’ulteriore analisi critica, insieme alla Whitechapel Art Galery, al National Theatre, alla Barbican Art Gallery. Le identità di quest’ultime sono l’esempio lampante di come la cultura è diventata oggetto in vendita allo stesso modo di come lo può essere uno di produzione industriale. I progettisti che si sono occupati di determinati sistemi d’identità hanno messo in pratica nei progetti una visione che passa dalla promozione del prodotto in termini di informazione a una promozione di vendita dello stesso, assorbiti dalle ormai fatte proprie, tecniche del settore industriale, adottandone in pieno, e talvolta nel modo inappropriato, i metodi di branding. Che tutto questo sia spinto dalla forte concorrenza non vi è alcun dubbio e di conseguenza come per le aziende produttrici di beni anche per le istituzioni si cerca di creare delle immagini di forte impatto visivo, trascurando il fatto che l’apparenza non sempre riesce a colmare quelle lacune presenti nei programmi culturali, si corre così il rischio di far diventare l’apparenza più importante della realtà e di produrre identità vuote e di basso profilo. Talvolta alcune campagne destinate alla promozione di eventi particolari, come una personale, diventano promozione dell’istituzione celando o meglio fagocitando quasi del tutto i soggetti principali, ovvero l’artista e l’informazione. È anche vero che uno slogan può essere tanto efficace da sostituire il contenuto stesso, ancora una volta è il caso di Tate dove si avverte questo fanatismo di carattere culturale, che fa si che la celebrazione dell’istituzione vada a soffocare del tutto l’offerta


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Cattedrale di St. Paul vista da terrazza Londra 2012 Manuela Papa

culturale che il singolo evento dovrebbe promuovere. Mi piacerebbe ancora una volta citare il saggio di Bell, dove egli paragona l’esperienza vissuta durante la visita all’interno di una galleria d’arte con quella vissuta dentro un supermercato, dove vi sono prodotti uguali che differiscono solo nei metodi di persuasione per indurre all’acquisto. È ormai dagli anni Ottanta che si avverte questo senso diffuso di “industrializzazione” del prodotto culturale, proprio perché da questi anni in avanti le istituzioni si affidano completamente alle strategie di marketing fino ad allora utilizzato solo nel settore industriale. Tutto questo fa emergere problemi di carattere curatoriale ed editoriale, che ovviamente si riversano sulla fruizione del sistema di identità visiva adottato. Tate ad esempio, fa un uso del proprio logotipo, anche all’interno delle gallerie, in modo talvolta estenuante, facendo sì che ancora una volta esso canti le sue lodi e non quelle della collezione. Quello che spesso si perde di vista è che bisogna tener conto, quando si ha a che fare con una materia delicata come l’arte, che non si tratta di differenziare prodotti uguali, come potrebbe essere per i comuni detersivi ad esempio, bensì di differenziare programmi e offerte culturali, seppur simili ma differenti in termini di contenuti, di organizzazione e di esposizione. Cercando in qualche modo individuare la radice di questo modo di operare da parte dei progettisti, potremmo trovare spiegazione nella loro educazione formativa all’interno di scuole d’arte dove si da primaria importanza all’espressione artistica personale, tutto questo sfocia in ambito progettuale in una produzione di immagini fini a se stesse che vanno a trascurare la storia che dovrebbero raccontare attraverso se stesse. Nel contesto storico-culturale attuale i progettisti, sarà per la loro educazione in scuole d’arte dove si da più importanza all’espressione artistica personale, producono immagini fini a stesse che trascurano la vera storia da raccontate attraverso quella stessa immagine che a loro è stato chiesto di realizzare. Sono loro che molto spesso perdono di vista il fulcro dell’offerta destinata alla promozione, trascurando il fatto che proprio i dettagli storici stanno alla base e che sono quelli che rendono interessante l’offerta, differenziandola dalle altre istituzioni.

I responsabili della comunicazione all’interno delle istituzioni culturali tendono oggi a commercializzare i loro prodotti, seppur di carattere intellettuale, partendo dal principio che in gran parte “sono tutti uguali” e che solo il marchio applicato ad essi può essere in grado di conferir loro un elemento di carattere distintivo. Nel 2000, Nicolas Serota l’allora direttore di Tate, vista la grande affluenza di pubblico dopo l’inaugurazione di Tate Modern, dichiara: “Non mi faccio illusioni. Le persone potrebbero essere attratte dalla spettacolarità delle nuove architetture, potrebbero godere dell’esperienza sociale di visitare un museo, di prendere un caffè o un bicchiere di vino, di acquistare un libro o una maglietta disegnata da un artista. Molti sono lieti di tessere le lodi del museo, ma rimangono profondamente sospettosi riguardo i suoi contenuti”. Tate è diventata il fornitore di un nuovo genere di prodotto e ha azzerato le eventuali differenze tra una galleria d’arte e un grande magazzino. l suo logotipo ne incarna perfettamente il concetto, presente in ogni dove, anche e soprattutto all’interno delle gallerie, influisce costantemente sul pensiero del fruitore condizionando e diventando protagonista di ogni idea, sensazione e riflessione fatte durate una visita al museo o semplicemente volgendo lo sguardo a un artefatto, mentre si cammina per le strade di Londra o anche semplicemente in metropolitana, è possibile scorgere quell’indifferenziazione tra la storia che si cerca di raccontare e l’oggetto messo in vendita, proprio perché si ci trova spiazzati dal forte impatto visivo che confonde e annulla a volte completamente la storia del determinato evento in promozione per dar spazio, alla celebrazione dell’istituzione attraverso il design. Ma Tate è affascinante, nonostante le contraddizioni presenti nel piano comunicativo, su di essa ho incentrato il mio lavoro, prendendola come modello per la presenza di una serie di elementi che se pur presenti in altre istituzioni, ne fanno uno dei centri culturali più all’avanguardia del momento. L’esperienza da Tate non si limita, come ormai accade per la maggior parte dei musei, ad un’esperienza di solo svago, di solo shopping o semplicemente di sola visita al museo, bensì attraverso la fusione di tutte le esperienze diverse vissute simultaneamente, questa diviene, per i contenuti e la loro coerente relazione con il suo contenitore, unica nel suo genere.


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Ma anche e soprattutto nel caso Tate, i progettisti dovrebbero tener ben presente che Tate non è solo un’istituzione, ma è molto altro, essa vanta una collezione che ha poco da invidiare a gallerie pur dello stesso calibro. I progettisti potrebbero e dovrebbero dare maggiore importanza alla storia nella narrazione dell’identità, ma spesso questa peculiarità viene persa di vista, per ridurre i rischi, i progettisti amalgamano e unificano i concetti base della familiarità, della semplicità e dell’accessibilità, ciò fa in modo che si annulli la rappresentazione del contenuto reale lasciando spazio a una rappresentazione formale che diventa essa stessa il contenuto, dando così maggiore importanza all’aspetto formale più che alla reale offerta, essi operando in questa direzione fanno in modo che la corporate identity diventi così, il fulcro di ciò che si vuole rappresentare, sostituendo del tutto il messaggio iniziale e quindi il contenuto, che deriva dall’offerta reale. La soluzione a queste “contraddizioni” all’interno dei sistemi di identità visiva museali potrebbe essere, la maggiore consapevolezza di progettare determinati sistemi partendo dall’interno, e quindi dalla storia di ognuno di essi per arrivare all’esterno,

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e non al contrario. Si dovrebbe far in modo di trasformare in contenuto, il soggetto da promuovere ed evitare che il design ne prenda il posto, rimanendo nella sua pur fondamentale funzione di mediatore. Si dovrebbe far in modo di raccontare la storia dell’opera o della collezione destinata ad essere promossa, lasciando comunque un margine di interpretazione al fruitore, proprio perché l’opera d’arte è soggetta ad un atto interpretativo e non ha un significato fisso. Sono difatti le opere che costituiscono la reputazione dell’istituzione diversamente da come accade nelle aziende che producono beni di consumo materiale, dove è importante il marchio prima di tutto. Nel settore culturale si ha bisogno di sistemi che mettano in luce le principali caratteristiche date dall’offerta e questo sarebbe possibile se solo i progettisti ascoltassero di più e guardassero con più attenzione ciò che l’offerta detiene e di conseguenza cosa vuole comunicare, creando quindi delle immagini partendo dalla storia che ognuna porta dentro. Ovviamente tutto questo sarà possibile solo in presenza di una committenza colta e illuminata.


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Note 1

Tratto da “Parigi e Londra 1760-1870” , Museo storia di un’ idea, dalla Rivoluzione Francese ad oggi, di Karsten Schubert, il Saggiatore, Milano 2004.

2

Tratto da “Parigi e Londra 1760-1870” , Museo storia di un’ idea, dalla Rivoluzione Francese ad oggi, di Karsten Schubert, il Saggiatore, Milano 2004.

3

La legge Ronchey - L. 14.1.1993, N. 4 Conversione in legge, con modificazioni del decreto legge 14 novembre 1992, n. 433, recante misure urgenti per il funzionamento dei musei statali. Disposizioni in materia di biblioteche statali e di archivi di stato.

4

Tratto da “Mettere in gioco il museo”, di Giuliana Pasucci

5

Termine coniato dai teorici Theodor Adorno e Max Horkhimer, nel capitolo ‘The Culture Industry: Enlightenment as Mass Deception’ del loro libro Dialectic of Enlightenment, definiscono la cultura una fabbrica che produce e standardizza i beni culturali, attraverso i media essa manipola le masse passive.

6

Da brand (marca, marchio). E’ il processo che crea e diffonde la notorietà del marchio. In pratica le strategie che creano l’identità e l’immagine aziendale, attraverso la pubblicità e l’uso del logo.

7

Tratto da “Vendere la cultura”, saggio di Nick Bell “L’arte e la cultura sono soggette all’iterpretazione. Perché mai dovremmo dar loro delle identità rigide?”, a cura di Cinzia Ferrara.

8

Willem Hendrik (Wim) Crouwel (Groninga, 1928) è un grafico e tipografo olandese, particolarmente ben noto per l’uso a di disposizioni ed alla adi tipografia basate a griglia che è piantata nello stile tipografico internazionale.

9

Il gruppo Pushpin era caratterizzato da una produzione che si colloca a metà tra strada tra sperimentazione e recupero della storia grafica, facendo prevalere “l’idea” sul formalismo. Cercarono di andare oltre l’illustrazione spingendosi verso una grafica figurativa che faceva spesso leva sull’ironia e per certi versi veniva considerata espressionista. Tale approccio si contrapponeva alla scuola svizzera, che privileggiava gli elementi tipografici. La loro produzione spaziava dall’editoria alla pubblicità ai manifesti culturali. Lo studio si scilse nel 1974).

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Tratto da “Il potere di un’immagine semplice” saggio di Nick Bell “L’arte e la cultura sono soggette all’iterpretazione. Perché mai dovremmo dar loro delle identità rigide?”, a cura di Cinzia Ferrara.


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Tratto da “Vendere la cultura” saggio di Nick Bell “L’arte e la cultura sono soggette all’iterpretazione. Perché mai dovremmo dar loro delle identità rigide?”, a cura di Cinzia Ferrara.

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Tratto da “Il contenuto è il tema”, saggio di Nick Bell “L’arte e la cultura sono soggette all’iterpretazione. Perché mai dovremmo dar loro delle identità rigide?”, a cura di Cinzia Ferrara.

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Willem Adriaan Weissman, (1858-1923), ha avuto un ruolo centrale nell’architettura olandese, soprattutto molte delle sue opere sorgono nella città di Amsterdam, architetto eclettico prese posizione avversa rispetto ai suoi contemporanei. Autore di molti scritti, come libri ed articoli per “L’osservatore” (rivista di architettura), il suo interesse si volgeva verso l’architettura olandese del 1600, l’architettura britannica e l’architettura americana di Herny Hobson Richardson.

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Lo studio Experimental Jetset, con sede ad Amsterdam, fu fondato da Marieke Stolk, Danny van den Dungen e Brinkers Erwin, la loro caratteristica fondamentale, è lo stile minimalista e l’uso su quasi tutti i progetti da loro firmati, dell’Helvetica, come carattere tipografico.

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L’Univers è un carattere tipografico disegnato da Adrian Frutiger nel 1956, come l’Helvetica, con il quale viene confuso spesso, che appartiene alla famiglia di caratteri sans serif, esso riveste un ruolo importante nell’ambito della progettazione grafica legata alla scuola svizzera.

16

Nel 1958 con i progressi degli aerei a reazione era possibile effettuare voli transatlantici, negli anni ’60 il numero dei passeggeri era triplicato, fino ad arrivare alla totale rivoluzione nel ’70 quando con l’arrivo del Boeing 747 che inaugura l’era del viaggio a basso costo.

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Tratto da “Parigi e Londra 1970-1980” , Museo storia di un’ idea, dalla Rivoluzione Francese ad oggi, di Karsten Schubert, il Saggiatore, Milano 2004.

18

“Una collezione di antichità o di altri oggetti che interessano lo studioso o l’uomo di scienza, analizzati ed esposti secondo metodi scientifici”. D. Murray, 1904.

19

Tratto da “Parigi e Londra 1970-1980” , Museo storia di un’ idea, dalla Rivoluzione Francese ad oggi, di Karsten Schubert, il Saggiatore, Milano 2004.


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Note 20

Tratto da “Parigi e Londra 1970-1980” , Museo storia di un’ idea, dalla Rivoluzione Francese ad oggi, di Karsten Schubert, il Saggiatore, Milano 2004.

21

Henry Tate era un industriale, inventore delle zollette di zucchero, era un’amante d’arte, donò la sua collezione d’arte alla nazione, a condizione che fosse costruita una galleria dedicata all’arte Britannica. Trasferitosi da Liverpool a Londra nel 1893, inizia a collezionare opere d’arte, era un grande mecenate di artisti preraffaelliti. Morì poco dopo l’apertura della galleria nel 1897, a Streatham il 6 dicembre 1899.

22

Il Dock è un complesso di vecchi cantieri navali riconvertiti in attività commerciali, negozi, bar, ristoranti, hotel.

23

Tratto da “Alla Tate, il concetto svizzero”, di Deyan Sudjic, Casabella, 632

24

The Heritage Lottery Fund (HLF) è il fondo patrimoniale della lotteria nazionale. Il fondo viene utilizzato da parte del governo per trasformare e sostenere il patrimonio dei beni culturali del Regno Unito. The Big Lottery Fund (BIG) è un organo pubblico e non dipartimentale, creato appositamente dal governo del Regno Unito per amministrare il consolidamento di “buone cause”.

25

Tratto da “La comunicazione dei beni culturali” di Cinzia Ferrara, Lupetti, Milano, 2008.

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Tratto da “La comunicazione dei beni culturali” di Cinzia Ferrara, Lupetti, Milano, 2008.


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Citazioni Tratto da “Museo storia di un’ idea, dalla Rivoluzione Francese ad oggi”, di Karsten Schubert, il Saggiatore, Milano 2004. Wolff Olins Studio a proposito di Tate.a Tratto da “Carta del progetto grafico” 1989. Tratto da “Web Design is Product Design” di Andy Rutledge. Definizione di Corporate Identity, formulata dai graphic designer F.H.K. Henrion e A. Parkin nel testo Design coordination and corporate image pubblicato a Londra nel 1976. Tratto da “Marchi d’impresa, Immagine Coordinata, Brand Image, Il Caso Italiano” a cura di Andrea Rauch Wim Crouwel a proposito della tipografia. Giovanni Anceschi, “Immagine e rivoluzione creativa”. James D. Murray, definizione di museo, 1904. Michael Craig-Martin a proposito di Tate, tratto da “C/id Visual Identity and Branding for the arts” di Emily King e Angus Hyland, Luaurence KIng, Londra 2006. Michael Craig-Martin a proposito di Tate, tratto da “C/id Visual Identity and Branding for the arts” di Emily King e Angus Hyland, Luaurence KIng, Londra 2006. Tratto da “History of Tate Liverpool early Days”, di Alan Bowness, 1988.


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Bibliografia Karsten Shubert, Museo. Storia di un’idea, Il Saggiatore, Milano, 2004. Giovanni Ancenschi, Il Dominio del Design, Electa, Milano, 1991. Angus Hyland, Emily King, C/id, Visual identity and branding for the arts, Luaurence KIng, Londra 2006. Margo Rouard-Snowman, Museum Graphics, Thames and Hudosn, Londra 1992. Cinzia Ferrara, La Comunicazione dei Beni Culturali. Il progetto di identità visiva di musei, siti archeologici, luoghi della cultura. Neil Kotler, Philip Kotler, Marketing dei Musei. Obbiettivi, traguardi, risorse, Einaudi, Torino 2004. MIchele Spera, Abecedario del Grafico. La progettazione tra creatività e scienza, Gangemi, Roma 2005. Daniele Baroni, Il Manuale del grafico, Come progettare marchi e logotipi, forme e colori, pagine di testi e di immagini, segnaletiche e ipergrafica, Longanesi, Milano 2006. Giorgio Floravanti, Il nuovo Manuale del Grafico, guida alla progettazione grafica del prodotto editoriale: libro, rivista, giornale, CD-Rom e sito web, Zanichelli, Bologna 2002. Guido Muneratto, Il Visual Design delle Comunicazioni, FancoAgnelli. Andrea Rauch, Marchi d’impresa, Immagine coordinata, Brand Immage, Il Caso Italiano.

Riviste: Mara Campana, “In mostra”, Linea Grafica, 292, luglio 1994. Mara Campana, “Comunicare il museo”, Linea Grafica, 352, luglio-agosto 2004. Pierluigi Cerri, “Il campo della grafica italiana”, Rassegna, 6, aprile 1986. Deyan Sudjic, “Alla tate il concetto svizzero”, Casabella, 622, aprile 1995.


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Sitografia www.pentagram.com www.ehiweb.it www.callforcriticism.com www.360grafica.wordpress.com www.webfandom.com www.grafica.html.it www.hotelparigi.biz www.sognoelektra.com www.artdreamguide.com www.experimentaljetset.nl www.emigre.com www.ovo.com www.neringaplangeresearch.wordpress.com www.vangoghmuseum.nl www.moma.org www.tate.org.uk

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