L'ultima parabola di gesù è la donna che dà la vita

Page 1

Mara Paltrinieri

L'ultima parabola: la donna che dà la vita

«La donna, quando partorisce, prova dolore, perché è venuta la sua ora; ma quando ha generato la creatura, non ricorda più l'angoscia, per la gioia che è venuto al mondo un essere umano. Così anche voi, ora, siete nel dolore, ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia.» (Gv 16, 21-22) Questa è l'ultima parabola dei Vangeli. E' certo una parabola diversa da quelle brevi storie, più note, che Gesù narra in Marco, Matteo e Luca: il seminatore, il buon samaritano, i talenti. Qui non c'è racconto, appena un'immagine, come accade sempre in Giovanni: in questo Vangelo, infatti, pochissime sono le parabole intese come paragoni, pochissime le immagini in cui Gesù non parla direttamente di sé. Abbondano invece frasi in cui Gesù diviene immagine: è la Parola, la Luce, la Vita, il Tempio, l'Acqua viva, il Pane disceso dal cielo, e ancora. Non so neppure fino a che punto siano paragoni o metafore o simboli: quando Gesù afferma che per avere la vita eterna bisogna mangiare la sua carne e bere il suo sangue perché questi sono vero cibo e vera bevanda, non parla forse anche alla lettera, se una parte dei suoi discepoli si scandalizza fino ad abbandonarlo? Egli suscita quindi una reazione di fuga: le sue parole hanno un tale effetto di realtà perché, evidentemente, alle orecchie di coloro che poi si allontanano, è davvero come se egli avesse offerto il suo corpo per un tremendo pasto cannibale. Le sue parole sono già azioni, chi le ascolta ne avverte fisicamente la sconvolgente energia: come nei silenzi di Marco, nelle parole di Giovanni traspare in Gesù l'abisso divino che chiama a sé l'essere dell'abisso umano. Chi scappa da Dio, scappa da se stesso, per paura dell'amore vivente che ci trasforma da creature in figli e figlie di Dio, nel Vangelo di Giovanni. Dio, incarnandosi in Gesù, ci dà la parola, viene a noi in immagini e figure che rivelano, non svelano la sua grandezza: che ne sarebbe di noi se Dio si svelasse nella cruda nudità della sua tremenda dolcezza? Comunque è Gesù a usare, proprio in merito all'ultima parabola, una parola greca che viene tradotta come: esempio, paragone, parabola. Perciò Egli stesso presenta il suo discorso come intessuto di figure per far concepire al cuore e alla mente umana l'incredibile Annuncio del Bene tradotto in immagini che l'esperienza terrena può riconoscere. Ma Gesù è il Verbo, la Parola incarnata: le sue immagini vanno prese anche alla lettera, non c'è un confine così netto come in un comune paragone fra i due elementi messi in relazione. Non c'è solo un rapporto di somiglianza fra Gesù e la Luce, per esempio; o fra Gesù e la Vita: Gesù è la Vita in quanto tale, carnale e spirituale insieme. Insomma, in Giovanni, quando Gesù parla di sé, immagine e lettera sfumano l'una nell'altra. Certo, c'è tutta una gamma, un ventaglio di possibilità: quando Egli considera che il chicco di grano non produce altri chicchi se non muore, è chiaro che Gesù non è, alla lettera, un chicco di grano, Egli qui non parla di sé direttamente; tuttavia entriamo di nuovo nell'alone odoroso del pane di vita, gustiamo ancora il vero cibo perché questo punto del discorso richiama quello in cui Gesù identifica la sua carne con la sola vera vivanda della vita e il suo corpo come il vero pane disceso dal cielo. Che cosa ci dice Gesù nella parabola finale? Parla di una donna che dà la vita, che dà alla luce un essere umano. Parla del potere di vita di cui la donna fa esperienza nel suo essere donna, passando dal dolore estremo del travaglio a una gioia tale da non avere più


memoria di quell'angoscia che sembrava divorare il tempo, risucchiandola via dalla realtà. E ci mette davanti, anzi dentro allo sboccio improvviso di questa visione imprevedibile, isolata e unica, in un discorso i cui fili cangianti si intrecciano in motivi che tornano e ritornano variando e avanzando dall'inizio alla fine. Gesù ha forse visto e guardato e osservato questa scena? Non possiamo saperlo, certo, ma se la offre ai discepoli prima della separazione come pegno della futura gioia, è chiaro che sia per Lui che per i suoi amici, come ormai li chiama, è scena di potenza assoluta. E forse Lui, perché no, ha davvero assistito a questo evento e come Vero Dio e Vero Uomo è rimasto colpito dal mutamento totale che trasfigura la donna, lo trova impressionante, lo ha presente, davanti a sé mentre profetizza agli amici il loro futuro nel mondo. E nel Vangelo di Giovanni pochissime sono le volte in cui Gesù, nelle sue parole, pronuncia la parola «donna» e sempre con una intensità straordinaria di valore. Questo poi è l'unico momento in cui compie un'affermazione a proposito di una donna. L'immagine risulta quindi eccezionale per la sua unicità esemplare. Che però è scena di vita concreta e comune nel mondo: una donna che partorisce. E per i discepoli, si può immaginare, sarà familiare, nella loro casa, nel villaggio, dove tutto scorre in prossimità, il dolore di madre, sorella, vicina, moglie che urla: e dopo gioia di pianto e risa e silenzio di latte. Un fatto concreto, comune, che non tocca agli uomini, ma li tocca. Un mistero che li avvince, li affascina, li sconcerta. E sfugge loro, senza l'esperienza nuda e cruda di quel dolore, di quella gioia, di quel passaggio repentino, immediato dall'uno all'altra, fino al completo oblio dell'angoscia che sembrava non aver fine. Eppure non possono sottrarsi alla sua potenza, neppure scappando, neppure ritraendosi nell'indifferenza più ostentata. Anche perché le donne, pur vivendo nella propria carne quell'agonia che può davvero essere mortale, perché sì, per dare la vita una donna può perdere la sua; nonostante il rischio estremo, non si sottraggono. Tanta gente crede che nei millenni le donne abbiano generato perché costrette, vittime di una violenza fisica e spirituale, che le imprigionava. Ma io dico che quando le donne non vogliono davvero, si sottraggono. Se non desiderano diventare madri, trovano il modo per farlo, anche a costo di morire. Le donne, nei millenni, hanno dato la vita a figli e figlie perché questo potere, anche quando non messo in atto, è godimento di una libertà assoluta, che va oltre ogni sogno o bisogno, va oltre e porta oltre, trascende e basta. E Gesù fa leva sull'orizzonte divino del mistero umano, la cui potenza affonda le sue radici nel far venire al mondo un essere e nel rovesciare il dolore in gioia per quella presenza nuova, sconosciuta e non straniera, ma intima e insieme così altra da trasformare tutta la realtà, resa in un istante più vasta, più profonda, più reale. Per tanti anni mi son detta «voglio studiare il greco, devo imparare un po' di greco», convinta che fosse necessario per una cultura decente. Io, che avevo scartato il liceo classico proprio perché questo famoso greco mi sembrava così lontano. E ogni tanto, con una vecchia grammatica rimediata in qualche modo, cominciavo, dichiarando a me stessa che quella era la volta buona, che un'ignoranza così non la potevo sopportare, che Omero, Saffo, la lirica, le tragedie, la filosofia erano troppo importanti. Ma non avanzavo, respinta dalla mancanza di un desiderio autentico, lasciavo perdere. E poi ci riprovavo, niente. Non basta la buona volontà, se la ragione non è quella buona, se il tempo non è quello giusto. Fino al Vangelo. Da quando il Vangelo è entrato nella mia vita e da quando io sono entrata nel Vangelo, ecco che quella lingua non è più morta. Il verbo studiare in latino significa amare, perciò se si studia per amore la fatica non esiste più, è solo puro piacere dell'anima. Così doveva essere, che il greco antico potevo impararlo solo dal Vangelo. Adesso capisco bene che non poteva essere altrimenti, ma questo genere di vicende


dell'anima si chiariscono solo dopo, per intuizione lampante; prima del momento che cambia tutto non si ha neppure una vaga idea del perché si fanno o non si fanno certe azioni. Gesù non parlava in greco, né ha scritto nulla: eppure il greco antico, lingua morta, cioè solo scritta, me la insegna Lui, che vive in tutto e tutto fa vivo. Ma io qui non sto a fare la professoressa, la teologa laureata, né voglio dar lezioni: dico solo che è importante, per capire Gesù, sapere quali parole vengono da lui, attraverso i millenni. E' verissimo che il Vangelo parla in tutte le lingue: ogni lingua, con la Pentecoste, è lingua madre di Dio. Ma la Scrittura reca il sigillo del Tempo in cui Dio si incarna, in cui Gesù Cristo nasce e muore e risorge nella Palestina di 2000 anni fa. Dio viene al mondo facendosi Storia e lascia, per mano di fedeli che scrivono in greco, una traccia. Gesù parlava l'aramaico e dicono che sapesse l'ebraico e forse anche il greco. Ma Lui non ha mai lasciato scritto niente, ha scritto solo per terra una volta, che cosa? Proprio una Legge non scritta, quella dell'Amore. Scrivere il Suo vangelo in greco, come hanno fatto coloro che lo Spirito hanno ascoltato, è stato vero annuncio al mondo dell'avvento del nuovo mondo, sì, quello dell'Amore di Dio per tutto il mondo. Il mio sapere è un'ignoranza, poche pagliuzze dorate che mi brillano in mano come il più raggiante tesoro di una fiaba. E per lodare il bene, oso e devo dire alcune sciocchezze, sciocchezze però amorose e che hanno in questo ragione d'essere. Sarà divertente per me, una dilettante, provare a spiegare parole di una lingua così diversa dalla nostra; dovrò davvero affidarmi allo Spirito, come quella povera che sono. In ciò sta il bello. Nel testo greco di Giovanni, la donna è soggetto del verbo tikto, tempo presente, che significa partorire: è un verbo che si riferisce proprio alla donna, perché, anche se si può tradurre come generare, mettere al mondo, ha una carica di fisicità. Non si adatta perciò all'uomo. Il parto è un travaglio, un passaggio doloroso: é venuta la sua ora, dice Gesù; è l'ora della prova, del dolore. Quando viene la nostra ora? Quando soffriamo, nell'angoscia, del corpo o dell'anima, sentendo il male che ci lacera. Quando viene la nostra ora? Quante volte nella vita di un essere viene l'ora? Gesù però ci parla di un dolore che trasforma la realtà: ci guida a uscire dall'angoscia per uno spiraglio di luce, un raggio solo. L'ora, quella terribile che ci strazia, ci trasforma trasformando tutto in noi e fuori di noi. Quante volte ricominciamo a vivere con uno sguardo nuovo, dopo il pianto! E' venuta la sua ora, una frase che in questo Vangelo compare più volte, sempre riferita a Gesù, tranne che in questo caso. Volevano catturarlo ma Egli sfuggì loro, perché non era ancora venuta la Sua ora; lo stesso Gesù parlando di sé dice che è venuta la sua ora quando s'avvicina il momento in cui verrà tradito e messo a morte sulla croce. Egli sa bene quanto è dura l'ora che viene per la prova: se usa proprio queste parole per la donna che partorisce, allora è chiaro che capisce fino in fondo il dolore che sembra uccidere senza possibilità di un aiuto. Perché l'ora mette a nudo la solitudine del male che stringe il cuore in una morsa. Ma quando la donna ha generato, un bimbo, una bimba, allora il male scompare senza lasciare neppure traccia nella memoria. La donna è soggetto del verbo generare: e qui sorprende il verbo che compare, uno diverso dal primo. Il secondo verbo, infatti, è ghennao, che vuol dire proprio generare e nel greco antico era riferito in primo luogo al padre, all'uomo, che nella cultura del mondo antico riteneva se stesso come il vero autore della nuova vita, perché la donna, nel discorso corrente dei sapienti, veniva svilita a mero mezzo, un contenitore. Ma per Gesù no: la donna che partorisce, che sperimenta nella sua carne il travaglio è colei che genera, l'autrice della nuova vita. Solo in secondo luogo il verbo era riferito alla donna, anche se la radice è la stessa della parola greca che significa donna, gunè: così Gesù rende giustizia alle donne, riconoscendo che il corpo della donna mette al mondo il corpo insieme con l'anima. Gesù non accenna neppure alla partecipazione di un padre terreno ai fini della generazione, la scena non riflette neppure l'ombra della figura paterna: mamma e bebè entrano nei nostri occhi, nessuna altra


presenza ci distrae. Il verbo è un aoristo congiuntivo: chi non ha studiato il greco a scuola dirà, ma che roba è? La lingua greca non aveva il senso della relazione passatopresente-futuro come avviene nell'italiano o in altre lingue spesso studiate a scuola. Valeva molto più il senso dell'aspetto dell'azione: cioè se una azione veniva considerata mentre si svolgeva o se veniva vista nel suo accadere senza riferimento a un arco temporale. E' difficile da spiegare, così in astratto, ma se torniamo alle parole di Gesù, Egli stesso ci illumina: non importa soltanto che sia successo, importa che quel dare alla luce è avvenuto per sempre, in un bagliore di eternità. Sì, diranno i professori dell'università e le professoresse del liceo, donna, tu deliri: e non hanno torto, a modo loro. Ma quell'aoristo dice proprio così, mica lo dico io: siamo fuori del tempo, l'evento del dare alla luce splende davanti a noi e nessuno ricorda più il passato, né si preoccupa del futuro, siamo nell'assoluto. La donna genera: chi? È un bimbo o una bimba? Nell'italiano corrente non c'è il genere neutro, come nel greco antico. Anche altre lingue hanno parole che non recano il segno del sesso, come l'inglese child. Il Vangelo parla di paidìon, una parola che indicava, senza distinzione, maschio o femmina, fino ai sette anni. Sembra una coincidenza rivelatrice che l'unico modo per tradurre mantenendo l'intenzione del Vangelo nella nostra lingua sia la parola creatura, che dai dialetti meridionali in qualche modo è filtrata, con accento scherzoso, riferita a bimbi e bimbe. Strana coincidenza, che nella nostra lingua proprio la parola che ricorda la creazione sia anche l'unica che può rendere l'dea del valore che Gesù esalta nella generazione. Strana? O forse proprio perfetta? Perfetta per quel Dio che ha creato e poi si incarna nella storia, nascendo da donna come creatura, non dal niente, ma da carne umana feconda di Spirito. Già, strana e perfetta coincidenza sorta dalla necessità che mi ha mosso a cercare la parola che mantiene l'autentico del discorso: Gesù non parla di un figlio maschio, no, parla di una donna che genera un figlio o una figlia, senza scegliere un sesso. Una volta mi è capitato di trovare su internet tutto il commento di sant'Agostino al Vangelo di Giovanni e sono andata a vedere che cosa diceva della parabola: mi son trovata davanti a belle parole, ma il santo sbagliava nell'esaltare la nascita di un figlio maschio, per lui infinitamente superiore a una figlia femmina. Le cose stanno altrimenti, infatti: quello che preme a Gesù è gloriare la generazione della donna come colei che attraverso la prova mortale del parto dà la vita, corpo e anima. La donna non si ricorda neppure più dell'angoscia, della sofferenza, del dolore: la parola greca tiene insieme il patire fisico e quello dell'animo, perché rimanda all'immagine di un comprimere, uno schiacciare; anche la parola latina da cui viene angoscia ha in origine questa dimensione fisica, che in italiano rimane solo nell'espressione del linguaggio medico angina pectoris, una malattia che si manifesta con un dolore simile a una morsa che stringe opprimendo. Il patire del corpo, come dimenticarlo? Un poeta disse che il tatto ha una memoria: ancor più vero forse scoprire che la carne è memoria, memoria di sé quando l'altrui la tocca, la sfiora, la manca. E una donna, che vive in sé il crescere di una carne che è la sua e non lo è, né una né due, quale memoria! La memoria della carne non si perde, storia viva senza monumenti: carne della mia carne, sì, ma anche oltre, anima della mia anima. Perché nel respiro dell'anima si dissolve non solo il ricordo, ma il dolore stesso, come non fosse stato. Come quando Dante, per ascendere dal purgatorio al Paradiso, viene immerso nelle acque prima del Lete, che tolgono ogni memoria del male, poi in quelle dell'Eunoè, che restituiscono ogni ricordo smarrito del bene, perché si può salire al cielo solo nella purezza di un'innocenza bambina, senza neppure l'idea del male a dar ombra alla assoluta trasparenza del Bene. Esperienza di un nascere al mondo, la donna la prova con la sua creatura: nascere nuova, certo, rinascere dopo l'ora cruciale a nuova vita. Questo contempla Gesù della donna, Lui vero Dio e vero Uomo, incarnazione di Dio nel corpo virile di quel sesso maschile che non conosce nella sua carne questo mutare, trasmutare


in altro da sé, questa pancia di luna che splende dentro, questo squarciarsi di viscere alla luce non per morire, ma per nascere ancora di gioia. La gioia, parola che torna e ritorna nei Vangeli: in quale altra opera del mondo antico succede? Cuore dell'annuncio, la buona novella, il regno di Dio, l'altro mondo qui, ora: è la gioia dei cieli che viene, che come primavera fa rifiorire in vita eterna ogni istante di quella terrena. La donna in questa eternità dell'istante esce da sé, nell'estasi a cui l'essere intimo e ignoto da lei donato alla luce la rapisce. Una gioia libera da ogni peso: piange, la creatura? forse, ma Gesù non ne parla. Già, le creature, per essere sane devono piangere, come prima azione vitale: siccome qui la scena è colta nel lampo di un presente immediato, l'esserino starà piangendo: ma Gesù non ne parla. Egli mette a fuoco la gioia della donna divenuta madre, la gioia dell'amore materno che aleggia intorno, offuscando di luce ogni altra figura nella stanza o tenda o stalla. Di che gode, la donna? Di avere un figlio? No, Gesù non la vede così: la donna gode perché un essere umano è venuto al mondo. La donna non è più soggetto del verbo generare, come prima: ora il soggetto cambia, è l'essere umano. Il verbo invece rimane lo stesso, ma in una forma dell'aoristo che può avere due significati: si può tradurre come è stato messo al mondo, con valore passivo, ma si può intendere anche nel senso di è nato, è venuto al mondo. Ecco, l'essere umano, è venuto al mondo, è nato un nuovo essere, tutta la realtà si trasforma, niente è più come prima. L'essere è umano, maschio o femmina; l'umano non nasce forse da questa differenza che è nel principio? Quando Dio creò «a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza» ricreò anche Sé in quell'aprirsi di un orizzonte libero, nel gioco di una unità che sorge dal mistero di un due, di un Essere che non si manifesta nel cosmo come uno immediato? Dio si dà nel mondo, si dà a conoscere a partire da due sessi. Già, forse il numero primo dell'amore è due; nell'amore uno non è il numero primo. E forse due viene prima di uno, nell'aprirsi di Dio all'altro da Sé. Non uomo e donna, ma maschio e femmina: ah, qui è vertigine che ci tocca, ci attraversa, ci porta oltre noi – a quel noi che è in Dio. Aoristo, evento assoluto del nascere di chi prima non era, ma che da quando si immerge nella luce cambia il presente, il futuro del mondo. E cambia anche il passato, tale è l'onda della sua presenza che circola perfetta nel tempo, indietro indietro come da sempre attesa e sorpresa. Come chiama Gesù questo essere, con quale parola lo prende per mano per portarlo ai nostri occhi? In greco ànthropos, che negli autori classici varia molto come significato: ma certamente, anche se il genere grammaticale e la sua origine risalgono al maschile, è soprattutto essere umano, persona. Per la cultura greca l'uomo maschio nel suo valore forte, contrapposto a gunè, la donna, si chiama anèr. Anzi, ànthropos, che molto raramente equivale a anèr, può intendersi in senso negativo come servo, schiavo oppure – davvero inusuale come slittamento di senso – addirittura come donna e talvolta, con una capriola completa, commisera o disprezza la schiava. La parola di Gesù quindi accoglie l'essere umano che nasce davvero come immagine di Dio, non importa nessuna gerarchia mondana patriarcale in cui il figlio maschio, vero uomo, supera in umanità la figlia femmina. La gioia della donna è gioia spirituale in cui l'essere umano, nel suo nudo limite carnale partecipa dell'assoluto divino. Così Gesù ce la dipinge, così la vede, così la vive, Lui nato da donna. Così, con questa immagine di radiosa gioia vitale, Egli prepara i discepoli al momento della prova: insegna loro che il Bene è realtà sovrana, aprendo il loro cuore all'intelligenza dell'amore, grazie al potere della scena evocata. Anche loro adesso soffrono, sentono dolore, ma verrà il tempo in cui il loro cuore gioirà e quella gioia sarà per sempre: Gesù riprende proprio, nel paragone le stesse parole per dire dolore e gioia che aveva detto della donna che dà la vita. Quale tempo viene? Quello, dice Gesù, in cui Lui li vedrà di nuovo: mentre i discepoli sono soggetti del dolore e della gioia, Gesù si fa presente nel tempo della gioia senza fine come soggetto di uno sguardo di luce. Poco


prima, invece, Gesù aveva annunciato:«Un poco e non mi vedrete più; un poco ancora e mi vedrete». Questo aveva provocato nei discepoli sconcerto, non capivano che cosa voleva dire: il dubbio dei discepoli viene sciolto dalla parabola della donna. Perché Gesù, invece di ripetere, nella seconda parte della parabola,«mi vedrete», cambia punto di vista variando in «vi vedrò»? Che differenza fa, Gesù, mettendosi in prima persona nella scena? In questo modo anche nella seconda parte della parabola due sono i soggetti: prima la donna e l'essere umano appena nato, ora i discepoli e Gesù stesso. Anche nella seconda parte, perciò, si apre una relazione fra due soggetti, perché la gioia nasce proprio dal trovarsi di fronte ad altro da noi. Perché questa è realtà, essere alla presenza di un essere che non sono io, essere nella sua presenza che mi rivela a me. Che Gesù parta dalla relazione fra madre e creatura per insegnare la realtà non deve passare sotto silenzio. Simone Weil, donna ebrea innamorata di Cristo, contemplando l'azione del Suo misterioso rivelarsi a lei, prima atea, distillava, nell'inferno della 2 guerra mondiale, questa verità incredibile eppure innegabile tanto quanto indimostrabile: «La gioia è il sentimento della realtà». Ciò che passa tra la donna e il nuovo essere, ciò che avverrà nel cuore dei discepoli quando saranno di nuovo nella visione di Gesù, è proprio quello sbocciare e fiorire del nuovo che magnifica la realtà, la rende grande, vasta, attraverso l'ignoto che tu sei per me. La realtà che Gesù annuncia è la Sua Resurrezione, Sua e loro: Lui sarà presente in prima persona, in carne e ossa, dando la vita eterna. La parabola finale avvia alla conclusione l'ampio addio di Gesù ai discepoli: sta giungendo l'ora, per Lui e per loro. Lui sa che cosa Lo aspetta; loro no. Loro non possono neppure immaginare che cosa li aspetta. Il traditore è già uscito per fare quello che deve perché tutto si compia secondo le antiche Scritture, i discepoli non tradiranno come Giuda, ma abbandoneranno Gesù, Lo rinnegheranno, si disperderanno. Conosceranno così la loro miseria, la debolezza del loro amore, della loro fede: smarriti saranno davvero poveri di Spirito. No, ancora non sanno: e come possiamo sapere prima che venga l'ora, fino a quale vertigine di nulla possiamo cadere? Ma da lì bisogna passare, e quante volte in una vita? Ma non c'è altra strada per trasformarci sempre più nella nostra stessa verità. A lungo Gesù li prepara, perché sarà dura la prova: li ammaestra, predice loro tutto il male che dovranno attraversare, perché «saetta previsa vien più lenta», li discolpa, fa loro coraggio e li conforta dando loro il nuovo comandamento, «amatevi reciprocamente, come io vi ho amato», lasciando loro la sua pace e annunciando la venuta dello Spirito di verità, che solo consola. E profetizza la Resurrezione. La profetizza facendola germogliare già nelle sue parole. Essi devono rimanere in Lui, rimanere nell' Amore che Lui ha donato loro: solo così Gesù potrà rimanere vivo in loro. Se essi si lasciano vincere dal nemico peggiore, che non è la paura, ma l'odio, la più disperata e vana difesa dall'amore, ecco che allora abbandoneranno veramente l'Amore, lo rinnegheranno, lo tradiranno. L'odio del mondo, amore soffocato dall'angoscia della libertà, li colpirà: non devono combattere l'odio sul suo terreno, solo rimanendo nell'amore percorreranno salvi il territorio del diavolo. Non lasciarsi contagiare dal piacere dell'odio che divora cuore mente anima e corpo, no, rimanere nel Nome. Nel suo Nome, Amore. Così saranno già l'altro mondo in questo. Un addio di tremenda dolcezza, perché solo la gioia poi, eterna, regni. Ancora molte cose, dice Gesù, avrei da dirvi, ma non potete portarne il peso. Lui legge nelle loro anime, capisce la fragilità, sente il loro smarrrimento. Solo un poco, solo un poco e poi mi vedrete ancora. Ma quel poco, si guardano loro senza osare più chiedere, quanto è? Quel poco che li minaccia come una voragine senza fondo, una notte che si dilata nel cuore, quanto è? Per quanto starai via, dove andrai, quando tornerai? Ecco le domande


senza risposta dell'addio, del semplice ciao quando i cari visi si allontanano anche per qualche ora. Che cosa ti succederà, lontano dai miei occhi? Allora Gesù pronuncia l'ultima parabola. Nel lungo discorso dell'addio, che, insieme con la preghiera finale rivolta da Gesù al Padre, costituisce circa un dodicesimo dell'intero Vangelo, pochissime sono le parabole, mentre ricorrono le immagini in cui lettera e simbolo si fondono, come «Io sono la via la verità e la vita». Nelle parabole precedenti quella della donna che dà la vita, Gesù si mette in relazione con i discepoli e con il Padre: rientrano quindi in un orizzonte più consueto. Sono solo tre, ma la prima e la seconda suonano molto simili per il senso che comunicano: queste due in realtà vengono dette dopo la lavanda dei piedi, quando Giuda è ancora presente, ma il gesto di Gesù assume il valore di una purificazione totale dei discepoli che presto, da soli, dovranno portare nel mondo la purezza divina: Gesù richiamerà poi le sue stesse parole più avanti, per ribadire che la missione dei dicepoli continua la sua. Nella prima Gesù paragona sé al padrone e i discepoli ai servi, nella seconda Lui è colui che invia e i discepoli coloro che sono inviati. Nella prima Gesù non nomina esplicitamente il Padre, ma il ricordo di Isaia, con la figura del servo di Dio, agisce in modo sottile. Nella seconda, dato che Gesù è mandato da Dio, come Egli stesso dichiara, ancora la presenza del Padre viene evocata. Queste due parabole delineano così una relazione simile: il Padre, non nominato, si serve del suo inviato, Gesù; Gesù, come Signore, si serve dei suoi inviati. Sono parabole che hanno al centro il rapporto della grandezza: un servo non è più grande del suo padrone, né l'inviato più importante di chi lo manda. Ma Gesù non dice però: il servo è inferiore al suo padrone. Gesù cioè non pronuncia per via affermativa un giudizio di gerarchia, ma esclude, per via negativa, proprio una gerarchia di grandezza: perché? Il servo non è più grande del suo padrone vuol dire infatti anche che può essere grande come lui, non che è necessariamente meno grande. Gesù insegna così la grandezza ai suoi discepoli. Essi non possono essere da più di Gesù, ma possono essere grandi come lui, rendersi capaci della sua grandezza. Anzi, dirà Gesù poco dopo, che essi potranno compiere opere ancora più grandi delle sue (il che non vuol dire che potranno essere più grandi di Lui, però), perché Lui andrà al Padre e farà tutto quello che chiederanno in suo Nome. Il Padre è allora più grande, è la fonte della grandezza: la grandezza quindi è eguagliabile o no? Il fatto è che la grandezza si trasmette, non come dimensione di quantità, ma di qualità: il Padre è più grande, ma Dio è Spirito. E tutto quello che il Padre possiede, Gesù lo possiede ugualmente. Il discorso di Gesù ai discepoli offre in ogni istante una visione cangiante, che s'arricchisce crescendo di nuovi sensi nel gioco di riprese e variazioni: non c'è mai una definizione che permetta di oggettivare il quanto e il quale di Dio, non si può afferrare Dio, possederlo con la mente, controllarlo con concetti e dimostrazioni. Ecco perché Gesù conduce le sue parole in orbite sempre più ampie secondo traiettorie imprevedibili: non è una retorica a cui il discorso obbedisce, è la verità che nel suo divenire Parola rende impossibile ogni retorica come arte di persuadere. Gesù dice l'indicibile, l'incredibile, l'impossibile che si rivela: e si rivela al cuore, come amore che deve, e solo allora vuole e può essere. Così Lui apre ai discepoli l'anima all'immensa venuta dello Spirito. Ma tu divaghi, dirai tu che leggi o forse ascolti. Aspetta, c'è chi mi guida, io seguo solo, arrivando là dove ero attesa. Se mi perdo, altro non è che per essere trovata. La terza parabola presenta il paragone con una immagine di natura: Gesù è la vera vite, il Padre è l'agricoltore, i discepoli sono i tralci e l'opera dei discepoli sono i frutti che glorificano Dio. Qui la relazione fra Gesù, il Padre e i discepoli è detta apertamente, il Padre viene nominato. Gesù si pone come medio fra il Padre e i discepoli: essi sono tralci, se non rimangono nella vite, che porta la linfa al ramo e permette al frutto di


crescere, si seccano e non possono portare frutto. Che cosa cambia, rispetto alle parabole iniziali? Qui il rapporto fra Gesù e i discepoli risulta più intimo, grazie all'immagine scelta: fra Gesù e i discepoli non c'è tanto una relazione in termini di grandezza, qualità presa in sé come astratta, senza riferimenti a una concretezza d'essere; qui Gesù e i discepoli condividono la medesima concreta sostanza, essi partecipano della vita di Gesù. Rimanete in me, ripete Lui, qui e altrove: se si allontanano, se si staccano da lui, ecco che allora diventano sterili, non danno frutto, non partecipano più dell'essere divino che Gesù incarna apertamente in questo Vangelo. L'immagine della vite, dei tralci e dei frutti ci immerge in un orizzonte di fisicità naturale, in cui il motivo del generare trapela nel senso di una vitalità che l'agricoltore coltiva, di un albero che cresce diramandosi nell'aria aperta nutrendo tralci pingui di frutti succosi. Questo frutto è uva, non è un frutto qualsiasi: è quello da cui si distilla il succo che, simbolo e lettera insieme, è il sangue di Dio. La linfa è liquido acqueo, ricco delle sostanze che le radici risucchiano avide dalla terra, la vite è la pianta che produce il frutto dal succo inebriante che è vera bevanda, come la carne di Gesù è vera vivanda. Il primo segno, il miracolo delle nozze di Cana con cui Gesù, coinvolto dalla madre e messo di fronte alla mancanza della bevanda festosa in un matrimonio, dà inizio al Suo tempo, al suo ministero, viene qui adombrato, ma anche trasfigurato nel momento in cui Gesù affema che Lui è la vite vera, la sola che dà il succo che ubriaca d'amore. Ma che cosa vuol dire Gesù quando afferma «io sono la vite vera»? Questa frase richiama quelle pronunciate nella sinagoga di Cafarnao, dopo la moltiplicazione dei pani e la traversata del lago in tempesta. Gesù proclama se stesso il pane disceso dal cielo e scandalizza molti dei suoi seguaci dicendo che il suo sangue è vera bevanda e la sua carne vera vivanda. Io sono la vite vera: anche qui c'è uno scambio fra la lettera e il simbolo, un rovesciamento del criterio di realtà che spiazza ogni retorica fondata sulla separazione fra cose e parole. Se Gesù è la vite vera, la realtà della vite naturale non è quella primaria, non viene prima. Gesù non è immagine della vite, perché la realtà della pianta che distilla la vera bevanda, il sangue di Dio incarnati in Gesù, è, nella sua essenza, prima in Dio che si fa Parola. La vite terrena è simbolo della concreta vita divina che si manifesta come Parola, che mette al mondo ciò che esiste e realizza l'opera della benedizione che la Parola compie. Il discorso non è, perciò, io sono simile alla vite, ma la vite è simile a me: tenendo fermo che qui la somiglianza esprime partecipazione, non appare come riflesso, come metafora. Il potere di creazione e generazione di realtà della Parola non viene glorificato solo nel prologo, percorre tutto il Vangelo e agisce nel tempo senza cessare mai. La terza parabola va quindi verso una concretezza d'immagini che le prime due non offrono, ma non solo: pone in relazioni di partecipazione alla stessa sostanza Gesù, i discepoli e i frutti. Ci sposta verso un dimensione di vita che si alimenta e si riproduce, nutrendo il mondo dei suoi frutti: Gesù cambia la direzione del suo discorso, rendendolo ancora più confidenziale, intimo: i discepoli non vengono più chiamati servi, ma amici, perché egli apre a loro il suo cuore. Ma ancora i discepoli non hanno aperto il loro cuore a lui. Ancora fanno domande, lo interrogano perché non comprendono interamente il suo messaggio, non lo comprendono perché cercano di capire intellettualmente e non sono ancora trasformati dall'intelligenza dell'amore, che sola li può far maturare, come quei frutti che la loro opera dovrà produrre nel mondo. Se ripercorriamo la lunga scena del commiato, partendo dalla lavanda dei piedi, le incomprensioni, i dubbi dei discepoli emergono come unici interventi che punteggiano il discorso di Gesù: per primo Pietro che non accetta di farsi lavare i piedi, attaccato a un modello di gerarchia alto-basso che Gesù sovverte col suo gesto di servo. Questo gesto però è stato anticipato proprio dal linguaggio femminile del corpo: poco prima, a Betania, Maria compie l'Unzione proprio come servizio d'amore, inginocchiandosi, toccando e accarezzando i piedi di Gesù, asciugandoli poi con i suoi capelli, con umiltà regale che Gesù accetta e approva,


sancendo quell'unzione come l'unzione che santifica il passaggio, attraverso la morte, alla gloria. Nel Vangelo di Giovanni, la tessitura degli eventi e delle parole forma una trama di rimandi che fanno risuonare ogni singolo fatto in una rete di significati. Certo Gesù non unge i piedi dei discepoli, essi non sono l'Unto di Dio, ma li purifica completamente cosicché i loro passi siano degni di seguire i suoi. Pietro non capisce, Gesù deve spiegare, una prima volta. Poi, sempre Pietro afferma che è pronto a dare la vita per Lui e Gesù lo avverte, consolandolo, che la sua fede è debole, mentre Pietro si credeva già in grado di essere grande come il maestro, non capendo la propria fragilità umana. Poi Tommaso, che non intende il senso dell'andare di Gesù, un andare che è farsi strada per loro, io sono la via; poi Filippo, che chiede di vedere il Padre e Gesù amorevolmente lo riprende, non credi forse che il Padre è in me e io sono nel Padre, dopo tanto tempo che sono con voi? Poi Giuda, non l'Iscariota, perché ti riveli a noi e non al mondo? Ancora non vedono, i discepoli, che la rivelazione, la conoscenza avviene per via d'amore, chi non ama non può capire. La tristezza, lo smarrimento, lo sconforto, i dubbi: sono giustificati, perché l'abbandono di Gesù è causa di dolore, ma essi sono tuttavia sordi alle rassicurazione, alle promesse, alla fede in Gesù. Quando poi Egli annuncia che presto, ancora un poco, non lo vedranno e poi ancora una poco e lo vedranno, il dubbio serpeggia fra i discepoli: che cosa vorranno dire quelle parole? Si scambiano domande fra loro, ma non osano rivolgersi direttamente a lui. Perché? Temono forse di mostrarsi incapaci di capirLo, di mostrare la loro durezza di mente e di cuore, di mostrare quanto forte è il dubbio e quanto debole la fede? Comunque sia, mentre prima lo interrogavano, ora rimuginano tra loro, non hanno il coraggio di domandare. Allora Gesù, che sa quanto tormento li affligge, si rivolge a loro ed è a questo punto che Egli sposta il discorso verso una direzione del tutto nuova rispetto ai temi che ha intrecciato fino a qui, introducendo la sorprendente parabola della donna che dà la vita, assolutamente imprevedibile nella tessitura delle immagini e delle figure che per tutto il discorso si intrecciano. Che cosa accade, quindi? Dopo Gesù stesso afferma che quando Lui li rivedrà, nella gioia che non può più essere tolta da nessuno, essi non gli domanderanno più nulla: la gioia, il sentimento della realtà, farà vivere loro stessi nella Presenza di Dio e non chiederanno più nulla per sapere, non avranno più dubbi, saranno nella fede, saranno testimoni della fede vivente. Chiederanno per avere, dal Padre, nel nome che Dio ha dato di sé attraverso Gesù Cristo, Colui che porta nel mondo il Nome del Dio vivente, Nome non più segreto, cioè sacro, impronunciabile se non nel chiuso sancta sanctorum da un sacerdote, carico del tremendo abisso di una distanza muta, no. Ora Nome amabile perché invocato quando viene l'ora, nome intimo della sera e della mattina, Nome del Figlio, solo passaggio all'amore. Gesù fino a qui ha parlato loro per parabole, ma da questo momento non è più necessario, viene l'ora in cui dirà loro tutto apertamente. E i discepoli, con nuovo accento, con diverso animo, infatti confermano: ora sì che parli apertamente, ora sappiamo, sappiamo che sai tutto, non c'è più bisogno di interrogarti, ora tutto è chiaro. Essi capiscono e sanno che Egli è veramente uscito da Dio e non hanno più bisogno di chiedere, perché i dubbi si sono dissolti, essi credono. Gesù, però, poco dopo, li avverte: credete? Eppure mi lascerete solo, ma non sono solo, il Padre è con me. Ma le scritture si devono compiere: ancora una volta li conforta nella fede. Le scritture della Antica alleanza devono compiersi, perché la Legge fu data attraverso Mosè, ma la grazia e la verità, solo con Gesù il Cristo vengono nel mondo. I discepoli non devono dubitare di Gesù, devono dubitare di se stessi, sentire che la loro fede nasce da radice celeste, ma la prova umana e terrena li deve far crescere. Essi sono ora, nella loro baldanzosa affermazione, nell'infanzia della fede: il seme dell'amore germoglia, sono già nati dall'altro mondo in questo, ma devono attraversare l'esperienza dell'addio, il taglio del cordone ombelicale, sì: pronti ad accogliere lo Spirito perché nati dal Corpo di Dio, pronti ad essere sospinti e guidati nei primi passi della vita eterna in questa vita


dallo Spirito del vero amore che la nascita in Gesù Cristo, sola, realizza. L'avviso di Gesù, la profezia su quello che accadrà, la prova della tenera fede che li vedrà disperdersi nonostante l'afflato; niente di tutto questo però toglie che una trasformazione è avvenuta. Ma che cosa ha mutato i discepoli, che cosa li ha sciolti dai lacci dei dubbi, dissolvendo i dubbi? E' forse qualche affermazione che Gesù ha pronunciato dopo la parabola? No. I fili del discorso, per quanto cangianti e variati, sono rimasti gli stessi: dopo l'ultima parabola Gesù non introduce nessuna rivelazione prima taciuta. Quando i discepoli fanno il loro atto di fede, questo accade poco dopo la parabola e le frasi di Gesù riprendono motivi che fin dall'inizio del discorso di commiato Egli aveva cominciato a dispiegare. Anzi, è proprio essenziale che nessun motivo nuovo emerga nel discorso: non c'è proprio, dopo la parabola, niente che non sia già stato detto. Insomma, che cosa apre il cuore e la mente ai discepoli? Proprio la parabola, la potenza della parabola ultima, segna il passaggio: l'immagine della donna che dà la vita nel messaggio di Gesù assume un valore eccezionale, perché di fatto la conversione dei discepoli dai dubbi alla fede Egli la affida a questa parabola, mentre prima i dubbi non possono essere risolti, anzi, i discepoli non osano neppure più chiedere, il che mostra in fondo un venir meno della possibilità di comunicare, un venir meno della fiducia nell'ascolto, nella domanda, nella parola. La corrente delle parole di Gesù porta qui, qui converge l'orizzonte del suo saluto. E quale intima assoluta fede libera tale potere nel gioco amoroso dell'immagine gioiosa? Assaporiamo, gustiamo la voce che penetra nel cuore dei discepoli, cuore pauroso, armato di durezza, facendone invece nido di gioia; guardiamo gli occhi che emanano la luce calda alla cui fiamma la mente gelida si schiude nel germoglio dell'amicizia, perché essi non sono più servi, ma amici, nella rivelazione dell'amore di Dio. La donna che dà la vita mette al mondo. E Gesù dice che i discepoli sono come la donna. La donna soffre perché è venuta la sua ora, e i discepoli soffrono, perché anche la loro ora è venuta, quella dell'angoscia, del del dubbio, della paura, dell'addio. Ma come la donna, quando gioisce perché un essere umano è venuto al mondo, così anche i discepoli si rallegreranno quando Gesù sarà di nuovo con loro e li vedrà. Allora i discepoli, sì, sono come la donna: ma solo perché prima soffono e poi gioiscono? Solo il sentire li rende simili alla donna? O non nasce forse un altro più grande senso attraverso ciò che viene vissuto nelle emozioni? Certo: i discepoli, con la loro sofferenza sono capaci di mettere al mondo, di dare la vita. Qui si schiude l'abisso della corolla, qui l'oro tenero della rosa si mostra alla visione: grazie all'amore essi mettono al mondo Dio, grazie all'amore rendono a Gesù la vita che eterna Egli dona loro con la sua Parola. Chi ama, ama Dio. Chi ama Dio, partorisce per metterlo al mondo attraverso quell'amore che trasforma il dolore in gioia non perdendo memoria, ma trovando memoria di una gioia mai prima conosciuta, neppure immaginabile, impossibile da rintracciare prima di viverla, eppure immediata a sorgere perché fatta per noi e noi per essa. Obbedendo al comandamento dell'amore, al nuovo comandamento, noi rendiamo a Dio la nostra vita, quella eterna che viene dalla Parola e rendiamo vita alla Parola, che Dio è, in principio, essendo Principio. Ma é sempre Gesù che dà la vita, insieme con noi: l'espressione che vale per la donna, è venuta la sua ora, compare frequente nel Vangelo di Giovanni, sempre riferita a Gesù e solo nella parabola finale riferita alla donna. Infatti ora viene l'ora di Gesù, Lui stesso lo ricorda nel discorso. Allora, la figura della donna che dà la vita, alla lettera parla dei discepoli, ma simbolicamente adombra la persona di Gesù: come noi, nell'amore di Dio rendiamo vita a Dio, così sempre Dio dà la sua vita eterna a noi, in una relazione di generazione e rigenerazione che si nutre dello scambio amoroso quale Dio desidera incarnandosi e nascendo da donna.


La parabola va letta perciò insieme alla lettera e simbolicamente: anche qui la Parola mostra il contatto fra concreto e spirituale, perché l'uno senza l'altro non sussiste nel mistero dell'incarnazione e resurrezione. Quando Nicodemo si sorprende e sconcertato esclama che un uomo adulto non può certo rientrare nel grembo della madre, Gesù gli va rivelando proprio come avviene questo nascere di nuovo che è nascere dall'alto, nascere dallo Spirito. Nascere di nuovo è che Dio, dall'alto viene a nascere per noi in noi, non secondo la carne di un padre umano, ma secondo lo Spirito che rende viva la carne, cioè lo Spirito della verità che rende liberi dai vincoli del sangue, l'Amore. La donna che dà la vita non gioisce perché ha fatto un figlio, cosa sua; neppure perché è diventata madre, nelle parole di Gesù, perché in quel momento la donna non pensa a sé, ma è tutta gioia per l'essere che è venuto al mondo, trasformando la realtà in modo imprevedibile e quindi inafferrabile, non dominabile, non appropriabile, non uguale a nessun altro essere, cioè frutto e seme di libertà. E quale è per sé la gioia della donna: proprio infatti che la sua vita, da quel momento, non sarà più la stessa, ma nuova, per quel nuovo mondo che l'essere accoglie. I figli ti cambiano la vita, da quando è nata mia figlia io sono un'altra, ecco le frasi delle donne. E anche degli uomini, certo, ma le donne lo annunciano, è una vittoria, un trionfo senza arroganza, un trionfo d'umiltà. Dare la vita non perché si é Dio, ma perché non lo si è, ti fa capire che attraverso di te passa il potere che viene dalle madri e che va alle figlie, un potere che è divino senza che tu ti metta al posto di Dio, perché non ne sei tu principio né fine, sei un passaggio, il passaggio che magnifica la realtà nel suo crescere e farsi grande, nel suo aprirsi come orizzonte dove l'umano e il divino si toccano. E Gesù, che pure è incarnazione di Dio in corpo maschile, offre la parabola della donna che dà la vita perché sa che solo questa parabola ci fa, in uno, madri di Dio e figlie, figli di Dio. Attraverso la Parola che si fa carne, la carne si fa Parola. Teresa di Gesù è più famosa come Teresa d'Avila, ma lei si era battezzata così quando la conversione del cuore le ispira la riforma del Carmelo. Spesso io importuno questa santa, dottora della Chiesa, seguendo il suo insegnamento: infatti lei dice proprio così, che importuna i santi e le sante per essere guidata nel cammino dell'amore. Lei parla di sé come donna ignorante del sapere dei dotti, ma Gesù stesso è il suo Maestro. Con la stessa identica presenza che i discepoli vivevano, a lei Dio si manifesta rendendola perfetta Maria e Marta insieme. Quando l'Inquisizione ordina di bruciare i libri a lei cari, guide dell'orazione, perché sospetti di accendere una troppo ardente libera intimità dell'anima verso Dio, Dio le spalanca la visione di una libertà ancora più ampia e amorosa, con una semplice frase che trasforma la perdita in una vittoria inimmaginabile: «Io ti darò un libro vivente». La realtà le si trasfigura sotto gli occhi, accendendosi di una luce incarnata nel mondo: Teresa ascolta come Maria e come Marta opera, perché la Parola agisce attravero di lei con quell'assoluto totale potere del Principio per cui Dio è tale che la sua Lingua, la Lingua dell'Amore, genera senza fine realtà grazie a «parole che sono opere». E' proprio quello che accade quando Gesù pronuncia la parabola della donna che dà la vita: Lui infonde ai discepoli la gioia, il sentimento della realtà, rendendo esperienza dell'anima loro la gioia di mettere al mondo Dio, rendendo tenero il loro cuore come quello di una donna che diventa madre per amore, miracolo quotidiano. E' Parola di grazia immediata: l'evento unico che nel mondo rende l'idea della grandezza divina, la libertà dell'amore materno, agisce subito aprendo questo mondo all'altro. Dall'angoscia alla gioia, quella che nessuno può più togliere, perché se anche i discepoli conosceranno la loro ora, lo Spirito materno rovescia il tempo in eternità adesso, in questo momento, qui e ora, già e ancora.


La gioia della donna che dà la vita per amore è senza paragone per l'essere dell'umano, potere che si libera di sé, sciolto da ogni tentazione di dominio. Vero specchio dell'amore divino, ne riflette l'immagine di pura luce carnale. Se la parabola è paragone, pietra di paragone di ogni somiglianza è questa della donna che dà la vita: questa è la parabola delle parabole, quella che compie e colma tutte le parabole che la precedono, generando il Regno dell'Amore. Queste sono le parole che operano nella carne, rendendo fecondi i discepoli della Parola, pronti per andare nel mondo e mettere al mondo Dio con le loro parole fertili di vita eterna. Il mondo è sì il luogo delle tenebre: Gesù ne dice il male, ma non lo maledice. Il male va detto, per quello che è, perché se è detto bene, se è detto con le parole giuste, se è chiamato col suo nome proprio, viene alla Parola e la Parola ne fa mezzo di verità. E la verità rende liberi dal peccato. Fin dall'inizio, nel prologo, è legge che la luce vince sulle tenebre. Nel prologo si ripete questa formula, che Gesù non viene riconosciuto dal mondo, neppure dai suoi, ma qualcuno credette in Lui. Ma qualcuno sì, e a chi lo accolse ha dato il potere di diventare figlio, figlia di Dio. La generazione divina dell'umano viene annunciata fin dall'inizio, la generazione umana del divino si rende possibile grazie all'amore divino che tocca l'amore umano nell'ultima parabola, dove chi ama genera Dio. Tutto il Vangelo di Giovanni si regge sul passaggio dal principio della creazione a quello della generazione: la parabola della donna che dà la vita è sigillo a quanto il prologo annuncia, quando afferma che la fede dell'amore trasforma l'essere umano in parto di Dio. L'altro mondo perciò entra in questo, attraverso l'incarnarsi di Dio, in quanto Parola viva che penetrando la carne umana la toglie al nulla. La carne non serve a nulla per l'essere umano, serve allo Spirito soltanto, è la materia prima di Dio che nasce al mondo da donna, trascendendo la creazione che invece lascia il segno del nulla nella carne umana. Dio, nascendo da donna, genera l'umano in divino. Così il peccato del mondo è levato, così il mondo è salvo in Dio, partecipando della vita divina. Ma nella parabola la figura della donna che dà la vita si presenta come immagine di gioia in sé, Gesù non nomina in questo momento né Dio, né il Padre, né lo Spirito. La visione emerge improvvisa, unica nel discorso per la sua pura umanità senza rapporto diretto neppure con la persona di Gesù. E' un salto, uno scarto imprevedibile verso una scena di maternità che in sé, in quanto tale, emana la pienezza della gioia, gioia tale da trasfigurare la vita umana in bene. La donna gioisce perché un essere umano è venuto al mondo: allora, qui, nelle parole di Gesù, il mondo è dunque di per sé luogo e tempo della gioia vera che nasce da un amore libero, assoluto, senza condizioni. Ma che ha la donna da gioire, in un mondo così ottenebrato? Se parlando di lei Gesù non nomina, in quel momento, la Luce che viene nel mondo, come può la donna da sola vedere una luce? Non sa forse che la sua creatura patirà il male del mondo, che lei stessa patirà il patire della sua creatura, non sente che il primo respiro, la prima voce sono pianto e che solo il pianto annuncia a chi nasce la possibilità del vivere? Certo che sì, certo che la donna sa bene tutto questo. Il dolore del parto l'ha salata col fuoco. E da questa esperienza lei stessa emerge rinata: la nascita della sua creatura è la sua stessa rinascita. Sa che il dolore non è il principio della vita. Sa che il male non viene per primo: il pianto del nuovo essere tremante lei può farlo finire nel dolce silenzio del latte, nello sguardo incantato di paradiso che passa fra i suoi occhi e quelli della creatura tutta immersa nella sua visione, nel riso che lei insegna come prima espressione umana del corpo che impara se stesso dalla gioia materna, nella parola che è lingua madre dell'amore. La donna gioisce perché le tenebre non vincono l'amore: il suo amore non può essere vinto, sì, perché il suo amore si fonda sulla partecipazione all'amore di Dio nel dare la


vita. E la vita è bene: la gioia della donna è benedizione del Bene che l'opera divina ha in sé ed è in sé. Per questo Gesù presenta l'immagine della donna nella sua pura umanità. Allora il giudizio sul mondo si rovescia nell'ultima parabola: il mondo è oscurato dalle tenebre, ma la gioia della donna testimonia che l'umanità vive una scintilla del divino, riconoscendo il bene dell'essere. L'opera di Dio non è mai persa: e la Parola si incarna per darla pienamente alla luce nascendo da donna, perché la donna che dà la vita, nella sua gioia chiama alla vita umana Dio, che è la gioia dell'amore. L'amore materno è l'immagine umana di piena somiglianza all'amore divino, ma a Gesù preme far vedere come l'amore della donna nel suo potere di dare la vita si illumina della libertà pienamente umana che Dio ha desiderato prima dando vita alle creature e poi incarnandosi e nascendo da donna. Dio lascia assoluta libertà all'amore umano, che la madre ci insegna. Si apre un gioco di libero amore fra Dio e l'essere umano, la cui prima mossa nel tempo è la creazione, ma nell'eternità la prima mossa è la generazione, perché l'amore muove Dio a desiderare di nascere. E sulla Terra, dal Cielo, si nasce solo da donna. E questo la donna che dà la vita lo sa e ne stupisce con l'abissale umiltà di quella gioia che trasfigura il nulla della carne umana in amore, quell'amore che la madre dà senza chiedere nulla in cambio. Ecco perché Gesù, la Parola incarnata, rende la parabola della donna che dà la vita il passaggio decisivo per la trasformazione dei discepoli: la Parola opera in loro ed ora essi sono capaci di Dio, capaci di accogliere Dio e di farsi passaggio di Dio nel mondo. Il mondo che pativa nelle tenebre ora è l'orizzonte dell'alba, perché l'alba viene per le tenebre. Dio glorifica il nulla della carne umana che la donna partorisce, carne della sua carne, godendo di quel nulla perché dare la vita è dare alla luce il mondo nuovo che l'essere, nascendo, offre a chi lo genera per amore. Nel prologo compare il verso «e la vita era la luce degli uomini», riferito alla Parola: in che senso la vita può essere luce? Non intuiamo forse più facilmente che la luce è la vita? Ci sembra più naturale capire che la luce sia la vita, perché la Terra riceve dal Sole quella luce che accende e nutre la vita fisica, biologica. Ma nel prologo il discorso è rovesciato: in che senso allora la vita è luce? Proprio perché la Parola è vita e dà la vita viene la luce nel mondo: la vita fa conoscere la verità e illumina di grazia, è l'esperienza dell'essere esposto ad altro essere che ci dona la conoscenza della nostra verità umana. Quando nasciamo, nasciamo da donna, che ci dà la vita e, come nel prologo, ci dà alla luce perché viva ama la vita in sé, amando dal suo nulla la vita divina per la sua essenziale bontà, quel bene primo che non può mai essere pervertito del tutto perché il male non lo può capire, non lo può possedere. Noi il bene primo lo riceviamo dalla gioia della donna che chiamamo mamma, una fiducia nella realtà del nostro vivere che ci guida come oriente nella nostra umanità. Indelebile. Ora, Dio, incarnandosi, glorifica la gioia della donna. Gioia di miracolo quotidiano: un essere che non c'era ora eccolo, il mondo non è più lo stesso. Dio, incarnandosi, glorifica l'opera della donna: con l'Incarnazione la carne umana viene assunta da Dio e glorificata dal suo amore. Per questo, con Gesù Cristo, si rivela che ogni ferita inferta alla carne umana è ferita inferta a Dio. Se Dio nasce da donna, ogni violenza alla carne è stupro a Dio. Così ogni guerra è guerra a Dio e alle donne. Ma il Figlio di Dio nato da donna assume su di sé il peccato del mondo, mettendo fine alla legge del sacrificio della carne. Lui così vince il mondo, come dice alla fine del saluto agli amici. I discepoli Gli dicono che adesso hanno capito, che ora credono: Gesù li avverte, viene la vostra ora, mi abbandonerete, non cedete alla seduzione dell'onnipotenza, come potreste sopportare la


vostra caduta? Li avverte e li libera dal tormento del senso di colpa, legato a doppio filo con il senso di onnipotenza: non sarò solo, il Padre è con me, ve lo dico perché abbiate pace in me. Nel mondo troverete tribolazioni «ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo». Chi ama Dio soffrirà del male che nel mondo serpeggia, ma il mondo è stato vinto da Dio, cioè sottratto al male per sempre. Quando Gesù dice che ha vinto il mondo non intende che lo ha sconfitto e basta, no: lo ha vinto, è suo, lo ha vinto a Sé. Il mondo è salvo se Dio si incarna nascendo da donna. Con l'Incarnazione Dio fa storia di sé nella storia umana e l'eternità irrompe nel tempo, rendendolo tempio. La creazione avviene dal nulla, prima della creazione Dio non era in relazione con l'essere altro da sé nel tempo. Ora l'essere dell'umano lo attira sulla Terra : Dio desidera per amore venire al mondo, salvarlo dal peccato, dare sollievo ai cuori e alle menti travagliate dalle tenebre, dare pace. Che infine la gioia della donna che dà la vita trovi la via aperta, che una buona volta la grande opera dell'amore, di gioire di un nulla, di gioire di sé, possa trovare la misura della sua grandezza nella Parola. Quello che Eva ha scoperto e inventato e impararato è che il male, il dolore, l'angoscia non possono distruggere la radice del bene, natura stessa dell'essere umano creato come immagine di Dio, secondo la sua somiglianza maschio e femmina, nell'apertura ad una alterità irriducibile. Questa differenza non si colma, non si ricompone in un intero originario: è abisso che solo l'amore attraversa, sorgente di realtà che viene nuova e cresce senza fine in un nascere dell'essere a se stesso. Certo, la conoscenza del bene e del male è mistero che si rivela nella caduta, nella sofferenza, nella sventura: l'acqua è insegnata dalla sete, come insegna Emily Dickinson. Ma il tesoro che si trova nella rovina, nella miseria, nella perdita non è forse che nessun male può farci smettere di amare il bene? E proprio a Eva avviene quello che Dio le predice: partorirai nell'affanno. Ma Dio non le ha detto: e dopo sarai nata alla gioia. Questa è la sorpresa che Eva non si aspetta, questa la prima sapienza della felix culpa. Dio aspetta questa gioia, la desidera e la ama; Dio è gioia e la gioia di Eva chiama Dio a sé, a Sé anche, insieme. Per questo volo di Dio alla donna e della donna a Dio, Dio genera da una donna e nasce da una donna. La creazione era necessaria a Dio per la sua libertà, perché il suo essere si liberasse. La generazione è libertà di Dio oltre la necessità, verso il puro desiderio dell'amore: che l'amore si espanda, spazi, muova l'essere nella danza del respiro divino, nel venire al mondo dell'anima come carne dello Spirito. Gesù Cristo, Dio che si incarna in un corpo maschile nascendo da donna, compie e adempie la legge della Genesi rovesciandola nel mistero della gioia: partorirai nell'affanno. Con il loro riso dopo ogni pianto, Eva e le sue figlie, godendo del nulla della carne a cui danno la vita, vanno oltre la morte e offrono a Dio il loro latte oltre ogni sangue che si versa per sacrificio. Dio viene a loro, alla loro festa, alla casa che della festa quotidiana è tempio, grande opera in cui il cosmo si versa come luce nel suo specchio, dove il lavoro dell'amore, energia che si alimenta anche del nulla facendone realtà di sogno, vince l'entropia della morte con gesti umili, pazienti, forti, ardenti di mani dalla presa decisa e delicata. Dove la polvere scende, l'azione liturgica dell'attrito fa chiarezza, nitore, splendore: cosi che la luce entri nel mondo e si trovi a casa. La nuova ed eterna alleanza si fonda sull'amore che accoglie nella libertà l'essere che viene alla realtà, sull'amore materno cioè che dà la vita a rischio della propria per la pura gioia di darla senza condizioni, grazie a un potere che proprio lasciando all'essere la libertà necessaria si sottrae alla tentazione dell'onnipotenza. L'amore materno non ha bisogno di dominare, possedere, controllare: il suo potere è talmente oltre l'angoscia che neppure il pensiero lo sfiora. Non ha bisogno che la carne, il sangue siano vincolo, riconoscimento mondano: troppo forte è ciò che passa fra la donna e la creatura da lei nata per sentire la mancanza di un sigillo di proprietà. La libertà è il frutto dello Spirito


di verità che conosce la realtà attraverso l'amore materno, capace di dare la vita per pura gioia senza chiedere nulla in cambio. Certo, lo Spirito che aiuta e sostiene e consola la vita è amore materno. E Gesù, come tante donne hanno detto e come tutte le donne che lo amano sentono, è uomo materno. Nel Vangelo di Giovanni questa sua virilità materna si mostra sempre più sovrabbondante nel discorso di saluto, per fortificare i suoi bambini e mandarli nel mondo ricolmi della gioia che nessuno può togliere neppure nella tribolazione. E sulla croce Egli diventa come la donna che dà la vita quando è venuta la sua ora: allora Gesù Cristo è qui Dio Uomo materno, nel travaglio dell'impotenza. Come la donna non può evitare il travaglio, così Gesù per dare la vita accetta l'ora delle tenebre, accogliendole in sé per farne materia di luce. Ciò che è necessario può fare male, ma l'amore è quel Bene che nella nuova alleanza è più forte della morte perché sorgente stessa della vita, eterna. Lieto fine senza fine, come la gioia della donna che dà la vita è senza fine lieto fine. La madre di Gesù e le altre donne stanno ai piedi della croce: il travaglio di Gesù è assistito dalle donne, è l'ora di Gesù ed è l'ora delle donne che lo amano intimamente. C'è chi dice che il discepolo che Gesù amava è in realtà Maria Maddalena, la donna che secondo una nuova spiegazione del nome può essere chiamata, dalla radice di una parola ebraica, colei che è resa grande, la Magnificata. C'è chi dice addirittura che il Vangelo di Giovanni da una donna, lei, è stato scritto. Io non lo so e non lo sapremo forse mai da documenti storici. Ma non è questo quello che conta: certo è invece che uno spirito profondamente femminile coglie la maternità di Gesù nel modo da Lui annunciato nella parabola della donna che dà la vita, sia quando la attribuisce direttamente ai discepoli sia quando la rivela indirettamente per sé. E infatti nel Vangelo di Giovanni, a differenza degli altri, le parole di Gesù sono rivolte al piccolo gruppo che sta vicino alla croce, non a distanza: alla madre «Donna, ecco tuo figlio!» e al discepolo che Egli amava, del quale non compare un nome maschile, neppure nelle parole pronunciate da Gesù, «Ecco tua madre!». Questo è l'unico Vangelo in cui Gesù sulla croce non si rivolge al Padre, ma alla madre. E dopo queste due frasi il testo continua così «Dopo questo Gesù, sapendo che tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura, disse "ho sete"». Che cosa, dunque, si è compiuto che il compimento della Scrittura deve coronare? Come è stato notato, Gesù dà un figlio a sua madre, un figlio che da quel momento la prende con sé come madre, non per vincolo di sangue, ma per quello dell'amore in Gesù. Gesù dà un figlio alla madre e una madre a chi Egli ama. Sulla croce Gesù genera chi ama, affidandoci alla donna da cui Dio desiderò nascere. Si compiono qui le parole del prologo «a quanti però lo hanno accolto / ha dato potere di diventare figli di Dio: / a quelli che credono nel suo nome, / i quali non da sangue / né da volere di carne / né da volere di uomo / ma da Dio sono stati generati»: è Dio quindi che non più crea l'umano, ma lo genera, dando la vita nel suo divenire umano. Chi ama vive la realtà in pienezza d'essere perché nella gioia della realtà ama Dio mettendo al mondo Dio. Chi ama Dio a Dio si volge, quando Dio rivolge la propria Parola a chi sospende sé nel silenzio dell'ascolto: «Non è forse scritto nella vostra Legge: “Io ho detto: voi siete dei”?» (Gv, 10, 34). Secondo la parabola, i discepoli danno la vita a Gesù col loro amore, come la donna; come la donna, Gesù dà la vita quando viene la Sua ora, ma la vita che Lui dà è la vita eterna: nella relazione amorosa la vita divina pervade l'umano, attirandolo a Sé fino a compenetrarlo, a renderlo partecipe della sua natura. Diventare Dio è l'azione di Dio quando genera l'umano in sé in Sé. Ecco che dopo risorto Gesù dice a Maria Maddalena «va' dai miei fratelli e di' loro “salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”»: da servi ad amici, da amici a fratelli, figli di Dio, frutto del travaglio che avviene sulla croce quando Dio dà la vita


per libero amore. Ma perché mai Dio, allora, non si incarna in una donna? Se l'essere umano è creato a Sua immagine, secondo la Sua somiglianza maschio e femmina, perché Dio non si incarna in un uomo e in una donna? C'è chi dice, seguendo una logica non priva di ragioni, che Dio si incarna in un uomo perché le condizioni storiche del patriarcato non avrebbero permesso a una incarnazione femminile di agire liberamente. In verità, visto che Gesù viene crocifisso, avrebbero potuto farla pagare cara allo stesso modo anche a una donna, no? Ma l'obiezione più sensata mi sembra questa, abbastanza ovvia per la fede, che certo Dio non si lascia fermare dai rapporti di forza nella storia. Se nell'economia dello Spirito c'era bisogno dell'incarnazione femminile, non ti preoccupare che succedeva così. C'è qualcuna che dice che Maria, la madre di Gesù, è incarnazione femminile di Dio. Posso intuire perché questa visione è suggestiva, ma mi sembra rivelazione incomparabile che Dio nasca al mondo da una donna, assolutamente donna pura e semplice, che trova grazia presso Dio in quanto tale. Lei è capace di concepire senza macchia, perché nell'economia dello Spirito è ora che la nuova alleanza si realizzi oltre la legge, nella grazia. Maria non è infatti sola fra le donne, pur essendo unica: ma la sua unicità esemplare illumina sull'unicità come qualità essenziale della nostra relazione con Dio. Dio esalta la nostra unicità umana, la nostra singolarità perché il rapporto di Dio con l'essere umano si svolge e si compie come celebrazione in Dio della originalità insostituibile di ogni anima incarnata nella vita dello Spirito. Nell'economia dello Spirito, semplicemente, non c'era bisogno di una incarnazione di Dio in un corpo di donna. Anzi, una simmetria in questo senso era superflua. Le donne godono del potere umano supremo, quello di dare o no la vita. Qual è la persona che ha più potere su di te nella tua vita? A questa domanda credo che la risposta raramente possa essere diversa da «mia madre», se si pensa proprio al potere più nudo e crudo possibile (la risposta seconda, che non smentisce, ma verifica la prima potrebbe scaturire come «mia figlia, mio figlio»). Perché mai quando una madre uccide la sua creatura si scatena in noi un'angoscia senza paragoni rispetto all'orrore sgomento che causa un padre quando uccide? Perché se una madre uccide la terra si apre sotto i nostri piedi, l'aria ci manca, il pensiero va a fuoco e un diluvio di sangue ci inonda il cuore: la madre ci dà la vita una volta per tutte in ogni momento della nostra esistenza. Il suo amore fonda la realtà del nostro essere al mondo, la nostra fiducia nell'orientarci agli altri esseri. Perché la madre non ci dà la vita solo in senso fisico, biologico, corporale, no, ci nutre di amore attraverso la lingua che da lei impariamo, insegnandoci in un gioco di voce e sguardo il nostro nome nei nomi del mondo, chiamando a noi le cose perché noi possiamo esistere nel molteplice senza smarrirci. La madre ci dà la vita grazie all'amore libero che trascende ogni vincolo chiuso di istinto: questo è il principio di quello che è stato detto genio femminile. Ma l'espressione genio femminile, pur così giusta nel momento in cui esalta il potere di generare realtà radicandolo nella concretezza della differenza sessuale, non basta per capire il potere di quel potere: è necessario osare la parola Spirito, per fare luce del mistero che Gesù Cristo annuncia nascendo da donna. Lo Spirito femminile è materno, a partire dal fatto che ogni donna che desidera essere madre lo diventa in spirito, senza necessità di una procreazione fisica, perché ogni donna partecipa del potere materno che la madre dà quando una donna genera una donna. Una donna è madre per amore, animata dallo Spirito che dà vita alla carne. Questo Gesù glorifica, Lui incarnazione di Dio che nasce da donna: la libertà della carne dalla carne schiava del dominio patriarcale che impone la purezza per legge, per paura della purezza che l'amore materno libera nell'essere umano aperto alla grandezza di Dio. Amsterdam, dicembre 1941: Etty Hillesum si scopre incinta e abortisce con metodi


rudimentali ma efficaci, quelli che le donne hanno sempre conosciuto e si sono tramandate per millenni. Non vuole mettere al mondo un essere che per lei è destinato alla sofferenza. Non pensa alla guerra o ai campi di concentramento, ha in mente la sua storia familiare, ha negli occhi la scena del fratello minore Mischa, giovane pianista prodigio, portato a forza in una casa di cura per una grave crisi di schizofrenia. Lei giura a se stessa in quel momento che dal suo grembo non nascerà mai un essere così infelice. Eppure proprio lei scrive un diario, che per me è già libro della nuova Bibbia in cui Dio è Amore, Bibbia a cui Dio ci guida per le Sue vie misteriose. Etty, sempre più avventurandosi in Dio, scopre ad ogni istante la bellezza e la bontà della vita e testimonia con la sua fede nell'amore verso tutte le creature la grandezza divina. Esemplare azione di maternità spirituale, per cui anche l'essere abortito nasce. Così scrive l'8 dicembre «Sì, Etty, la vita è molto buona (…) E poi non dimenticare: stamattina alle sei è nato il bambino mai nato». Una donna non ha bisogno di “avere” figli per sapere che cosa vuol dire generare: questo è il potere materno. Il suo corpo stesso sa, è quel sapere. Il corpo della madre, delle madri, vive nella sua stessa carne, in un modo oscuro e insieme così folgorante che si rivela come esperienza al di qua e al di là dell'esperienza personale: pura trascendenza della carne, insomma. Non è forse questo, infatti, che Gesù conosce e riconosce come il proprio della maternità, il suo essere maternità spirituale in primo luogo per le donne stesse, quando fonda su questa radice la famiglia di Dio, oltre ogni legame di sangue? Da Marco (3, 3335 «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? (... ) chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre») a Giovanni (19, 26-27 «Donna, ecco tuo figlio!» (…) «Ecco tua madre!»): è sull'amore in Dio che Egli fonda la sua famiglia, non sull'identità biologica. La donna che dà la vita non gioisce perché la creatura è “sua”, ma proprio perché non lo è, perché non le appartiene, non la possiede, perché la libera dal possesso. L'amore materno va oltre ogni istinto di sopravvivenza, libera addirittura dall'istinto: il vincolo tra la madre e la creatura è la libertà. Alcune donne molto istruite hanno detto che Gesù libera le donne dal legame della maternità biologica e dona loro il senso della maternità simbolica. No. Una idea simile caccia Dio nella solitudine: perché così Dio fa tutto da Sé e le sue creature altro non appaiono che ombre. Invece Dio desidera nascere da una donna per essere pienamente umanità. Perché la sorpresa di Eva alla nascita del suo primo frutto, che pure sarà lo sventurato Caino, non sorprende solo Eva: «Ho acquistato un uomo grazie al Signore» (Gn, 4, 1). E quel «grazie» che la madre di tutti i viventi pronuncia orienta la prima donna nella storia, oltre il dolore, verso l'amore. E Dio si volge a lei perché a Dio lei si volge. Quanto a me, una volta sola nella vita ho creduto di essere incinta, dopo averlo desiderato per anni: quei pochi giorni sono stati pura sovrabbondanza di Grazia. E da allora so che cosa vuol dire dare la vita, perché l'esperienza del desiderio materno è già esperienza dell'amore materno. Nel Vangelo di Giovanni maternità spirituale e maternità carnale si nutrono a vicenda: questa sarebbe l'unica vera prova che lì una donna ascolta Gesù e scrive ipsissima verba da ipsissima vox. Gesù accoglie in Sé, nella Sua carne, lo spirito dell'amore materno delle donne. Nell'economia dello Spirito, che è essenzialmente materno, era necessario che Dio si incarnasse in un corpo maschile, portando a compimento nel mondo l'immagine divina che l'essere umano realizza nella irriducibile differenza sessuale di cui la vita carnale e spirituale si alimenta. Gli uomini soffrono di un senso di impotenza rispetto al potere umano supremo di cui le donne godono. Questo potere è talmente enorme, riflesso di quello divino, da suscitare angoscia, perché si manifesta come generazione della carne dalla carne nella libertà di


un amore assoluto, che supera la morte spiritualmente. Una tale grandezza dà le vertigini, l'orizzonte fra cielo e terra sembra svanire se si dipende così abissalmente da un altro essere per essere reale senza una somiglianza che faccia terra sotto i piedi. Per gli uomini certo questo è un trauma, il loro trauma essenziale. Da qui la paura, l'invidia, il lutto, l'ansia di controllo del corpo femminile che il soggetto maschile manifesta nella storia universale. Gli uomini si sono difesi come hanno potuto, da quelle viscere femminili che li hanno messi al mondo, così aliene e insieme intime. Nascere da una donna, essere un pezzo di carne che viene esposto alla luce e tagliato via dalla matrice mai più raggiungibile in sé stessi, quale sofferenza ignota, inconcepibile, interdetta. Il potere di morte, fortezza in cui il maschile ha nascosto la sua miseria amorosa, è stata la risposta che la virilità umana ha tentato ricorrendo alla violenza della guerra, dello stupro (forse la più segreta ragione della guerra?), della legge astratta come il giudizio di Salomone imposta dallo stato con la forza per controllare il desiderio d'amore che guida le donne nella loro azione storica. Invano, tutto invano. Per le donne l'esperienza di realtà quanto è diversa! Certo anche per noi l'angoscia, l'ansia, la paura, ma in modo assolutamente diverso, pur nello stesso universo umano. Un modo misterioso alle donne stesse: già, perché le donne toccano con mano l'essere mistero a se stesse. Le donne sono diverse dagli uomini, tutte e tutti lo sappiamo: questa conoscenza si rivela la stella polare che ci permette di trovarci, singolarmente e comunemente. L'uguaglianza di fronte alla legge è una finzione che maschera la realtà, una messa in scena dettata solo dalla paura del libero gioco dell'amore, vero Spirito divino in noi. Le donne pure patiscono del taglio del cordone ombelicale, la prima e più tremenda ferita di cui portiamo la cicatrice come apertura a quella carne da cui sorgiamo. Ma noi ci possiamo riconoscere per forma e sostanza in quella carne originaria. Il nostro potere ci viene dato e noi lo diamo, non lo abbiamo mai, mai lo possediamo: il potere di vita che viene dalla madre, dalle madri carnali e spirituali passa attraverso noi, un fiume di cui siamo alveo, per andare oltre, verso le figlie carnali e spirituali. La vita ci attraversa e il suo potere è tale che possiamo abbandonarci, perché mai manca il contatto con quella matrice, quel vuoto che fa spazio e luogo all'essere nel tempo e ce ne rende tempio. La differenza fra donne e uomini ha la sua radice nella somiglianza fra umano e divino e il sesso ne è quel segno spirituale di cui la carne è materia viva. Nell'economia dello Spirito, Dio si incarna in un corpo maschile, in Gesù Cristo, che è Uomo materno. La virilità di Gesù Cristo offre al soggetto maschile un nuovo orizzonte dell'essere uomini, fuori dalle gabbie dei modelli eretti sulla forza, sull'onore, sul controllo, sulla difesa dall'amore. La sua lingua è la lingua dell'amore, la lingua materna delle donne quando insegnano alle loro creature la realtà della vita umana viva nel soffio della parola che respira il riso gioioso del gioco divino. Gesù infatti parla la lingua delle donne, quella lingua che agisce nel silenzio dei millenni fin dalla preistoria e che plasma la civiltà umana tra visibile e invisibile, senza bisogno di scuole, grammatiche, biblioteche, monumenti; quella lingua che trasforma l'anima in corpo e il corpo in anima, in un'alchimia amorosa che sola può farli essere uno di due e due di uno, senza amputare l'uno dall'altra. Nei Vangeli le donne Lo seguono e lo servono, Lo toccano e Lo baciano senza mai abbandonarLo. Mai una donna riceve da Gesù un rimprovero di durezza di cuore o di poca fede, come avviene invece spesso per gli stessi discepoli. Nei due soli episodi in cui Gesù discute rispetto a una donna, Egli cambia e accoglie le parole della donna riconoscendone la verità come Sua propria: questo accade nei sinottici con la donna pagana cananea (o siro-fenicia) che gli chiede di guarire la figlia. In Giovanni, Sua Madre, alle nozze di Cana, Lo avverte che il vino è finito, perché sa, ancor prima del suo manifestarsi divino, che Lui può benedire la festa nuziale con il segno della Sua gloria: allora ecco la famosa replica di Gesù, tradotta generalmente «Che c'è fra me e te,


donna? Il mio tempo non è ancora venuto»: ma Maria risponde a Lui parlando ai servitori e Gesù riconosce la giustezza dell'appello materno inaugurando il Suo tempo con un'azione che ci fa capire che cosa c'è, che cosa passa tra lui e la donna, quella da cui è nato e che Egli chiama Donna, non madre, perché la parola donna vale per ogni anima incarnata nel sesso femminile. Gesù e le donne s'intendono a meraviglia, perché parlano la stessa lingua, delle parole e del corpo: solo riguardo a una donna Gesù pronuncia una espressione formidabile come «Ha fatto una bella azione verso di me», tradotta di solito nel significato ampio di «buona azione», quando in Betania una donna compie l'Unzione prima dell'Ultima Cena e della Passione (Mc, 14, 6 e Mt, 26, 10). Alle donne Lui affida l'annuncio della Resurrezione, facendo di loro le Sue Apostole nell'annuncio di quella venuta dell'altro mondo in questo che glorifica la carne umana rendendola divina. Allora, proprio perché Gesù parla la lingua dell'amore, Egli é Uomo materno: vale a dire, nel senso pieno che questa Sua natura di Dio d'amore assume in Giovanni, è Uomo che dà la vita, per amore perché la vera vita solo per amore si dà, come accade per le donne. Eppure Egli è corpo maschile, ma la sua è la nuova virilità amorosa che libera il sesso maschile dalla schiavitù della violenza come difesa rispetto alla grandezza del potere femminile di dare la vita. Dio, incarnandosi in un corpo maschile, si fa passaggio al potere delle donne e permette agli uomini di partecipare, corpo e anima, all'esperienza di dare la vita, nella dimensione spirituale. Li salva così dal terrore del sacro che il dare la vita infonde loro, rivelandone lo splendore divino che prima essi non potevano vedere, nella cecità di quell'angoscia impotente che, priva del suo nome, si affidava, in una sfida di onnipotenza, alla morte perché troppo prigionieri del lutto per abbandonarsi alla libertà vitale dell'amore. Gesù dona loro la grazia di una fede nella vita terrena come via alla vita celeste. La generazione spirituale scioglie il vincolo del sangue, dissolve la catena della paternità patriarcale, bisognosa di controllare il corpo e l'anima delle donne per paura della contaminazione nel passaggio dal padre al figlio che si compie nella carne femminile: la generazione spirituale fa puri i corpi non per la legge della forza, ma per la legge del cuore. Un'amica mi chiede: ma dove sono poi nella storia questi uomini che hanno ricevuto da Gesù Cristo il potente dono della Sua maternità spirituale? Certamente non sono quelli che sono famosi nei libri di storia, tranne alcuni, potrei facilmente rispondere. E potrei anche aggiungere che anche se sembrano pochi quelli che hanno agito seguendo Lui, come possiamo noi sapere come sarebbe stata se Lui non fosse passato su questa Terra? Perché Gesù ha messo alla prova il sesso maschile praticando l'amore come solo le donne avevano fatto. La Storia non è finita. Grande è il travaglio maschile quando Gesù chiama. E chiama sempre, uno per uno, ognuno col suo nome. Come grande è stato il travaglio dei dodici, degli apostoli, dei discepoli: nei Vangeli spesso non capiscono e Gesù a volte li rimprovera, a volte li conforta. Alcuni lo abbandonano, uno lo tradisce, uno lo rinnega, uno ha bisogno di mettere un dito nella piaga. Se era così dura per loro, quando Lui era in carne e ossa sotto i loro occhi, figurarsi dopo. Eppure, potrei fare una lista di nomi lunga sempre, nomi ignoti, nomi anonimi: tutti quelli che hanno amato e hanno capito che niente era più potente dell'amore. Quanti sono? Io non li so contare. Penso solo ai disertori di tutte le guerre, che non per paura, no, non per paura di morire, ma per amore della vita hanno gettato le armi. Per amore della vita non hanno fatto guerra, rischiando la loro stessa vita: cioè, detta in altro modo, per timore di Dio, che è una delle facce dell'amore, non hanno potuto uccidere il corpo di un altro e la loro stessa anima. Quanto coraggio ci vuole per essere vigliacchi agli occhi del mondo? Quanta paura ci vuole per essere vigliacchi agli occhi di Dio. Non si deve dimenticare


mai che Gesù rovescia l'ordine dei valori mondani. Non c'è azione più audace che deporre le armi, andando contro l'istinto di sopravvivenza. Vivere, non sopravvivere. Però Gesù nella Sua maternità spirituale non chiede agli uomini sempre questo coraggio assoluto. Anche cercare di sopravvivere per un amore mediocre, anche questo non va buttato via. Quello che importa è, in assoluto, che uno senta di non poter vivere senza amore. Già questo è più di un seme, più di un germoglio, già è stelo che si muove al vento e risplende del verde nativo. L'esperienza dello Spirito materno di Dio è stata la prova grande a cui Gesù li converte: ogni fallimento, errore, scandalo da quel momento si misura con l'assoluto dell'amore. Se invece di leggere la storia come storia della forza, del potere di morte la leggiamo come storia dell'amore, del potere di vita, beh, forse spunta una visione nuova, il libro vivente in cui il gesto minimo di una carezza sgraziata lascia il segno sul granito di mille notti mute. Adesso quindi possiamo davvero capire le parole che Gesù, in questo Vangelo, di continuo dedica al Padre, sia parlando di Dio come Padre alla gente o ai discepoli sia rivolgendosi a Dio come Padre, in un discorso tessuto di infinite variazioni e sfumature dall'inizio alla fine. Certo, anche negli altri vangeli, Gesù si presenta come Figlio di Dio, anche se molto più predilige il titolo di Figlio dell'uomo; e Dio viene detto Padre, non solo di Gesù, ma di tutte le creature, in Matteo e Luca, nella preghiera che Gesù insegna come preghiera fondante della chiesa, il Padre nostro. Ma in Giovanni l'appellativo di Padre rivolto a Dio è così comune che questo motivo diventa uno di quelli essenziali per capire la diferenza fra il Vangelo di Giovanni e gli altri tre canonici. E questa differenza riquarda proprio la questione del passaggio dalla creazione alla generazione, perché accogliendo le parole di Gesù Cristo si ottiene il potere di diventare figli e figlie di Dio. E qui certo si potrebbe anche vedere che cosa accomuna e che cosa invece distingue la visione della generazione divina in Giovanni rispetto a Paolo: in parole povere, siamo sempre di fronte alla faccenda della Umanità di Cristo, alla Sua Carne, al mistero dell'Incarnazione di Dio come corpo maschile che nasce da donna. Mentre in Giovanni l'umano si trafigura in divino, in Paolo la formula dell'adozione rivela una prudenza significativa sulla glorificazione della carne prima della morte. E quindi, gira e rigira, ecco che si torna alla parabola della donna che dà la vita, immagine inimmaginabile in Paolo per dire la grazia della fede. Davvero la parabola della donna che dà la vita segna la distanza fra l'apostolo Paolo e il Vangelo della Parola che si fa carne, perché la carne sia Parola. Gesù si presenta quasi sempre come Figlio nei Vangeli, con importanti eccezioni quando parla di Sé come Sposo. In Giovanni, diversamente dagli altri Vangeli, si annuncia fin dall'inizio come Dio incarnato e assume la Persona del Figlio di Dio nel mondo. Egli predica Dio sia chiamandolo Dio, ma spesso il discorso si incentra sulla Persona del Padre e sulla relazione fra Padre e Figlio. Solo in Giovanni troviamo questa insistenza su tale rapporto. In alcuni momenti Gesù afferma l'unità di Padre e Figlio, ma più spesso la relazione si pone come reciproca Presenza («come tu, Padre, sei in me e io in te» Gv 18, 22), come azione transitiva che procede dal Padre (dare, mandare), come azione intransitiva che il Figlio compie (venire/andare, uscire/ritornare). Una relazione quindi dinamica, che contempla diverse possibilità di stato, di passaggio, di moto. Padre e Figlio sono essenziali l'uno all'altro: il Padre manda il Figlio nel mondo, il Figlio porta nel mondo il Nome di Dio e glorifica il Padre compiendo la missione di salvare il mondo dalle tenebre. Il rapporto tra il Padre e il Figlio mostra una assoluta fiducia e intimità: Gesù non grida sulla croce l'abbandono di Dio, Gesù non prega in angosciosa agonia nell'orto degli ulivi; solo per un istante, necessario all'esperienza pienamente umana della Parola incarnata, Gesù prova turbamento (Gv, 12, 27), ma il Padre, invocato, subito si manifesta. Se la relazione viene così messa in primo piano, è chiaro che l'unità del Padre e del


Figlio non è identità. Il Figlio è tale perché non è il Padre. Quando Gesù parla ai discepoli chiamandoli figli e dicendo che non li lascerà orfani, ecco che la continua presenza del Padre di cui Gesù si proclama Figlio impedisce di intendere Gesù come Padre. A Gesù interessa rifondare il rapporto fra padre e figlio nell'umanità, come riflesso di quello che vale nella vita divina. Così come la relazione tra Gesù e il Padre è di intimità e fiducia amorosa, allo stesso modo l'amore deve reggere il rapporto della generazione maschile sulla Terra. E' stato notato che la paternità di Dio nei Vangeli è amorosa, che i padri delle parabole sono amorosi (basta pensare al figliol prodigo), che i padri presenti nella narrazione sono amorosi (nessuno di voi dà una pietra se un figlio chiede del pane). Non sono la prima a cogliere questa novità rispetto all'Antica Alleanza, in cui Dio, pur amando il suo popolo, non appare certo così aperto al perdono e alla comprensione. D'altra parte la parola Amore non riveste certo la stessa importanza che assume nella Nuova Alleanza, in cui l'Amore diventa l'unica Legge. In Giovanni l'esaltazione dell'Amore come Legge che regge la realtà divina e umana si compie. Il Padre, in questo Vangelo, in modo ancor più chiaro che negli altri, appare totalmente diverso rispetto alla figura di un padre patriarcale che impone il suo potere con la legge della forza. Il Padre di Gesù, come gli altri padri dei vangeli, è di fatto un padre materno. Del resto Gesù è Dio-Uomo materno, degno Figlio di un Padre amoroso: infatti la loro è relazione è di amorosa intimità, in cui, pur distinti, i due soggetti partecipano uno alla vita dell'altro senza fondersi in una identità indifferenziata ma anche senza perdere la comune ragione vitale che li lega indissolubile: né uno né due, due in uno e uno in due. Già, secondo quello che è proprio del legame fra madre e figlia. L'esperienza della maternità spirituale che Gesù offre agli uomini viene resa possibile da questa relazione di intimità amorosa che lega il figlio maschio al padre: la generazione spirituale può avvenire solo per amore e se il figlio gode di un amore materno, cioè libero e assoluto da parte del padre, allora può a sua volta dare la vita, il che significa accettare la vita senza lasciarsi schiacciare dall'angoscia. Questa è infatti la grande esperienza delle donne che, soggette liberamente alla legge dell'amore, diventano soggetti di un potere che le trascende, oltre ogni necessità di esercitare un dominio sulle creature che mettono al mondo. A questo punto è chiaro che lo Spirito di verità, quella verità che libera, è l'Amore materno in Dio. Il Padre è materno verso l'umanità nel momento in cui, attraverso l'Incarnazione della Parola di Dio, chi la accoglie diventa figlio, figlia di Dio, che nasce da donna. Nascere da donna non è più sotto il dominio del peccato, che l'Agnello di Dio è venuto a prendere su di sé chiudendo l'era sacrificale. Poiché la carne è glorificata in Gesù Cristo, nascere da donna significa nascere in Dio, Nascere al mondo è nascere a Dio, perché Gesù ha vinto il mondo, che ora è Suo. Forse allora nascere da donna è anche nascere da Dio, che come madre gioisce nel dare la vita? Può essere. Dio e il Padre non coincidono nel Vangelo di Giovanni, che come nessun altro rivela la realtà dinamica della vita intima di Dio nella visione trinitaria. Dio è Padre e Madre, insieme. L'umanità non è più creata ex nihilo, ma generata dalla relazione intima di Dio in sé, la cui immagine noi conosciamo come apertura abissale grazie a quella differenza irriducibile fra maschile e femminile che fonda la nostra somiglianza con Dio. Solo l'amore attraversa questo abisso. Con l'Incarnazione Dio si manifesta nella sua essenzialità di amore che le donne realizzano benedicendo l'opera divina. Questo è l'inizio della fine del patriarcato. Infine. Prima volevo fare di questa parte che segue un'Appendice, ma no, non lo è. Mentre mi avventuravo in Dio, a un certo punto ho chiesto «ma come mai Gesù non dice mai la parabola della donna che si scopre incinta?». Le parabole hanno spesso una


specie di titolo, come Il buon samaritano. La parabola della donna che dà la vita non ce l'aveva: allora io almanaccavo quale poteva essere il titolo giusto. Dire solo L'ultima parabola o la parabola finale poteva fare un certo effetto, ma non coglieva il senso profondo del perché proprio l'immagine della donna che dà la vita lo è a pieno titolo nel Vangelo di Giovanni. Il titolo La donna che partorisce ha certo una grande concretezza, ma la parabola presenta la gioia della donna come frutto reale del parto e questo frutto la donna lo gusta con Dio nella libertà che la vita dona all'essere che viene al mondo. Il titolo La donna che mette al mondo non rende l'idea del potere da cui la donna è attraversata e che viene da Dio mediante le madri che compiono l'opera divina. Insomma, mentre vagavo in Dio seguendo le parole di Gesù, mi viene alla mente che Gesù non ha mai detto una parabola che poteva far capire molto del Regno di Dio, la Parabola della donna che si scopre incinta. Poteva far capire molto sia in sé che in relazione al fatto che Maria di Nazaret rimane incinta di Dio, è chiaro. Nei Vangeli sinottici ci sono alcune parabole che sfiorano (appena) questa parabola assente: in modo particolare quella del lievito, in generale tutte quelle che hanno a che fare con il generare, il dare frutto nella vita della natura. Ci sono alcune, poche parabole in cui compaiono figure di donne. Insomma, la Parabola della donna che dà la vita rimane veramente unica e sorprendente. Adesso provo a dire le parole che Gesù non ha detto. «Il Regno dei cieli è come una donna che un giorno si scopre incinta, dopo averlo tanto desiderato» Sai perché Gesù non l'ha detta, che ci stava così bene? Perché solo le donne l'avrebbero potuta capire, godendola appieno. Perché questa esperienza, in corpo o anima, solo alle donne tocca. Per gli uomini sarebbe stata dura. Invece la parabola della donna che dà la vita mette la donna in relazione con l'essere umano che nasce come soggetto e gli uomini possono partecipare di questa esperienza essendo nati da donna, essendone anche loro il frutto. Perché Gesù Cristo sa. Sa quanto vale in Dio e nell'umano la differenza fra maschio e femmina, fra uomo e donna. Sa che solo attraversando l'abisso che mette in rapporto i due sessi Dio realizza la Nuova ed eterna Alleanza, che ha come unica legge l'Amore.

Grazie. A tutte le donne che mi hanno guidata e aiutata nel cammino dell'amore di Dio, cioè tutte le donne, in fondo. Oltre a quelle che vengono nominate, devo molto alle mistiche e alle sante, in particolare Hadewijch d'Anversa, Angela da Foligno, Margherita Porete, Julian di Norwich, Bernadette Soubirous, sì, ma l'elenco è troppo lungo. Alcune scrittrici mi hanno illuminata sul rapporto fra donne e uomini: Jane Austen, Carla Lonzi, Luce Irigaray, Luisa Muraro, Rosetta Stella e tante altre. A Lucia Fornieri e a Monica Giorgi, che conversano con me amichevolmente. Alle donne dell'Ordine della Sororità di Maria SS Incoronata in Mantova. Ma grazie anche agli uomini che hanno accolto Dio, che lo sappiano o no.



Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.