Vecchia, zitella, felice

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Vecchia, zitella, felice

[Note per La storia dell'amore]

Un sabato pomeriggio di primavera, ero seduta con mia madre al tavolino di un caffè all'aperto, proprio nella bella Piazza Grande di Modena, beandomi di chiacchiere leggere che salivano verso il tiepido azzurro velando appena i marmi bianchi e rosa del miracoloso Duomo romanico, quando sento, alle mie spalle, una signora alzare la voce esclamando che lei gli immigrati li ucciderebbe tutti. Mi volto e la guardo in faccia: ha una certa età, forse tra i 60 e 1 70, molto tirata, capelli mesciati freschi di parrucchiera; vestiti di marchio, si vede; sta al tavolino in un gruppo di signori e signore del suo rango, gente danarosa e notabile, domenica in chiesa e casa al mare e in montagna. Io, scema, casco nella provocazione e invelenita la guardo con disprezzo e sibilo a mia madre qualche mala parola che si possa ascoltare fin là e concludo, climax, con «quella vecchia!». Mia madre, senza alcun risentimento polemico, ma in una semplice felice osservazione, mi spiazza «guarda che anch'io sono vecchia», cogliendo il senso dell'ingiuria come la peggiore che secondo me potevo vomitare nella mia rabbia. Ho cercato di pasticciare qualche frase per mettere una pezza, ma non c'era pezza: una vera lezione. Quanti anni fa sarà successo? Non più di 10, forse meno. Io non ero ancora arrivata ai 50, mia madre era attorno ai 70. Quindi io non ero ancora vecchia, nella mia testa, ma mia madre lo era: come mai allora quella parola era esplosa come la più cattiva? Perché agiva in me il giudizio maschile che vede nella vecchia lo spettro della morte, non tanto della morte in sé, quanto della morte del desiderio maschile stesso, che per stare in piedi si nutre di carne fresca: dato che il desiderio maschile è invischiato nel narcisismo suicidiario, deve trovare nelle donne uno specchio che lo sostenga e, come si sa, le donne hanno nei secoli fatto bene il loro lavoro di stampelle, altrimenti addio, questi si spappolavano ancora più nel lutto. Allora la vecchia, come specchio, cosa mostra, agli occhi di chi vive il lutto di non potere dare la vita col suo corpo? Proprio lo spettro di questo impossibile. La vecchia non può più fare figli biologicamente, il suo corpo è sterile, solo Dio fa fare un figlio a Sara. Eh, per gli uomini la vecchia (come anche la suora, per molti) svela, come fantasma della propria impotenza, la fragilità di un desiderio che nella storia si è eretto su un piedistallo, quello dello sguardo altrui per stare su. Son faccende note, ma le ricordo per scoprire altro sulla Vecchia. Dato che io non sono sposata, parlo anche da Zitella, intrecciando i fili del discorso, ma vale, per prima la qualità di Vecchia, a cui il rimanere zitella aggiunge, nel luogo comune, un'ombra ancora più inquietante: donna sola, mina vagante, non ha trovato nessuno che la completasse, che tenesse in ordine il suo desiderio nel mondo. Insomma, la Zitella è come una lente per mettere meglio a fuoco, per certi versi, la Vecchia. L'episodio narrato all'inizio è stato per me una rivelazione; da lì ho cominciato a fare attenzione a tutto quello che accadeva, fatti e parole, quando c'era di mezzo la figura della vecchia, sposata o no, madre o no. Scoprivo, con un'evidenza mai prima consapevole, solo strisciante testa di Medusa, che io ero vecchia: l'aspetto ancora giovanile, il modo di vestire e di atteggiarni, non ingannava certo chi aveva vent'anni. Quando si hanno vent'anni già chi ne ha trenta va per la vecchiaia. Capivo anche che la differenza fra uomini e donne si mostrava impressionante: è vero che anche «vecchio» detto a un uomo poteva diventare un insulto, ma poteva, non scattava automatica l'ingiuria. E poi notavo come i ragazzi, gli uomini giovani mantenessero con quelli più anziani una complicità omosociale che invece non osservavo tra donne giovani e anziane. Ovviamente molto ci sarebbe da ripensare su tutta la questione del conflitto di generazioni, che non nego, ma che trovo, a partire dal primato della differenzerenza sessuale come orizzonte per capire la storia umana, assolutamente secondario, messa in scena tattica per la strategia del disordine simbolico. Anche oggi è copione riciclato, largo ai giovani, ecc., con reazioni anche astiose dei maschi giovani: c'è anche da ridere a pensare che poi i giovani sono quelli che desiderano diventare vecchi, ma intanto per molti funziona, vedi gli homines novi che vengono messi a capo di qualcosa dai vecchi. E ha funzionato nei secoli e nei decenni ultimi: ora leggo questo giovanilismo anche come tecnica di seduzione maschile verso i ragazzi e verso le ragazze, in modi e per fini diversi. Do per scontato che il rapporto fra generazioni è una questione reale, qui mi limito a coglierne gli aspetti strumentali e


contraddittori, per seguire il filo della Vecchia. Allora cosa mi si presenta agli occhi: che gli uomini insistono, nella seduzione delle giovani, sulla contrapposizione con la Vecchia. E funziona. Anche qui do per scontato che la realtà è in trasformazione, che non devo generalizzare e così via, ma ancora pesano parole e azioni che hanno come scopo nascondere la differenza sessuale e proclamare il neutro come valore attraverso l'idolo dell'uguaglianza. E per questo la seduzione delle donne giovani, nelle varie forme in cui avviene, assume grande importanza, anche se tutte lo sanno, che gli uomini e le donne non sono uguali. Luisa Muraro fece centro, anni fa, smontando il nucleo del pensiero libertino di De Sade, nella Filosofia del boudoir, in cui la seduzione della giovane avveniva tentando di sottrarre la figlia dall'autorità della madre (se ricordo bene); in senso ampio, vigendo l'ordine simbolico della madre, la seduzione delle ragazze rispetto alle donne più vecchie acquista proprio questo fine. La misoginia maschile, infatti, pur armata contro le donne in generale, per invidia e paura del loro potere di vita, si accanisce proprio, spudoratamente contro la Vecchia e raggiunge la più acuminata virulenza verso la Vecchia che, per ogni motivo, non ha trovato un uomo da sposare, la Zitella. La Zitella, poi, viene insignita di una qualità proverbiale: lei infatti è andata a male, è scaduta, insomma è acida. Anche le mogli lo possono essere, nel gran bar della maldicenza maschile, vedi Santippe o la moglie di Tolstoi, che pure ha ricopiato a mano non so quante volte Guerra e pace, o la mamma di Leopardi, che però lui riveriva e la cui economia allo spillo gli ha permesso di vagare per l'Italia e vivere di rendita andando in carrozza a Napoli a mangiare gelati e confetti, mica rimanere sempre tra i volumi che il padre reazionario comprava a mani bucate dalle biblioteche dei monasteri dissolti dai sedicenti rivoluzionari francesi. Però l'acidità, si sa, è umore della Zitella: la sua lingua brucia, corrode, eh, non ha trovato marito perché non le va mai bene niente. Ed è vero che la Zitella rischia di cadere nella trappola del malcontento, se rimane irretita ancora dalla seduzione del narcisismo maschile, facendolo proprio, rimanendo fissata a un risentimento che, pur muovendo da un fondo oscuro di giuste ragioni, non si dissolve nella chiarezza attraverso la libertà del desiderio femminile: troppo poco gli uomini desiderano da se stessi, è un gioco al ribasso, che livella e mortifica la realtà dei rapporti fra uomini e donne. Le donne che pure, brave anche loro, hanno mediato, accettando quel che c'è come scommessa e rischio, percorrono altre strade, non necessariamente contrarie o fallimentari. La faccenda delle relazioni fra donne può qui essere sospesa per ora all'insegna dell'impresa «ci sono scoperte che non finiscono mai», frase coniata forse per altri motivi, ma che calza a pennello, qui. Può dunque una Vecchia e Zitella essere felice? Sì. Uno dei personaggi più straordinari nati (non creati) dalla penna di Jane Austen è senz'altro la Miss Bates di Emma, anche se tutti i personaggi dei sei romanzi per me più felici di tutta la narrativa occidentale sono strordinari per potenza di realismo e di immaginazione insieme. Miss Bates, bruttina (Jane non dice così), povera, incolta, stupida, noiosa, vecchia e zitella, col candore di una benevolenza verso tutto il mondo che trascende la buona educazione, è una lezione vivente di come si può essere felici se ci si affida alla capacità di godere di quel nonnulla che ad ogni istante ci si offre come pane quotidiano. Personaggio di profonda spiritualità nella sua semplicità di bambina che loda la realtà come dono inatteso di meraviglia, ci si presenta come un esempio di realismo simbolico che incarna la virtù dell'umiltà senza umiliarsi, che senza giudicare rende giustizia a ogni minima parvenza di bene in ogni altro personaggio, che sembra vivere quella assoluta fiducia nel bene della realtà che Simone Weil individua come legge del nostro stare al mondo. Jane Austen, regina della lingua materna, parla del suo libro Emma come di un bimbo o bimba: lei, vecchia zitella a 40 anni (per quei tempi), mette al mondo, più che libri, esseri vivi. Come, dove? Anonima, in un cottage modesto, senza neppure una stanza tutta per sé, scrive perché si diverte, scrive per puro piacere romanzi felici che parlano di quell'amore che solo il bene nutre di ragione. Come Miss Bates, Miss Austen gode dell'intelligenza dell'amore: lei è diversissima in tutto il resto dal suo personaggio, ma questo, lei lo sa per esperienza, non importa: una donna che ama la realtà non va a male. E che dire di quell'altra Vecchia Zitella che pochi decenni dopo, negli Stati Uniti dilaniati dalla guerra civile, genera la lingua della poesia contemporanea? Emily Dickinson, sposa dell'amore in


una realtà trasfigurata, che nulla negando del tremendo storico, lo soccorre animata dalla bellezza originale che la natura rivela della natura umana. Gli anni di maggiore fecondità poetica coincidono proprio con quelli della guerra, dal 1861 al 1865; ma non si tratta di una coincidenza: lei pure mette al mondo la bellezza della lingua, mentre la guerra fa macello di corpi, case e parole. Emily vede oltre: non può fermare lo scempio, ma agisce dando nuova vita alla madre stessa dell'umano, la lingua che nutre le relazioni vitali. E mi fermo qui, ma quanti altri esempi di vecchie, zitelle e no, felici! Queste due regine le conosciamo tutte, ma quante ce ne sono, senza titolo, che conosciamo nella nostra storia personale. Jane ed Emily però mi aiutano nel cammino per il prossimo passaggio: erano due spinsters, cioè zitelle, parola che deriva dall'attività della tessitura nel passaggio fra mestiere domestico e manifattura. Donne che lavoravano duro, che evidentemente spesso non erano sposate, ma che mandavano avanti la casa, sostenendo la famiglia: non la propria in senso stretto, ma madri, padri anziani, fratelli, sorelle, nipoti. Quindi, come in Inghilterra, così in altri paesi, la zitella si è sempre resa utile per altre persone: Miss Bates, che Jane Austen chiama old maid, più vicino a zitella che spinster, parola più popolana, accudisce la vecchia madre, cioè fa da madre alla mamma ormai dipendente da lei; quando mia sorella ha attraversato un periodo di malattia grave, io mi sono presa cura di sua figlia e così via per tante donne ormai non più giovani, che zitelle o no, sono state fondamentali per tenere insieme la realtà vitale delle famiglie e della società. E' importante che nel discorso la parola zitella non sia sostituita da un'espressione eufemistica o edulcorata: perché è parola che circola nella lingua comune, con un significato negativo, anche per donne giovani che in teoria non dovrebbero assecondare il giudizio misogino. Bisogna far valere queste due parole, vecchia e zitella, come moneta pregiata, nel discorso comune, con seria ironia, rovesciando il senso comune in buon senso. Certo, mi va bene anche la parola anziana, ma non come alternativa politicamente corretta, che serve a ribadire la maledizione: per svelarne il valore simbolico non c'è altra via che cambiare musica, non evitare, censurare e interdire, altrimenti rimane lapsus, sintomo. Cos'è capitato all'attuale vescovo di Roma, il pontefice Francesco I? la lingua batte dove il dente duole, per tradurre Lacan parlando come si mangia e dicendo pane al pane e vino al vino. Poco dopo la sua elezione, va a parlare a un numeroso gruppo di suore e le invita a non essere «zitelle», ma «madri spirituali»: capisce di essere scivolato su una buccia di banana e si scusa anche, ma ormai l'ha detta. Quindi un uomo che viene considerato da quelle donne il vicario di Cristo sulla terra le esorta a essere in un certo modo: allora, mica c'è bisogno di far studi teologici di esegesi, vuol dire che per lui quelle donne non sono ancora come dovrebbero essere. Cioè, non sono ancora feconde di Spirito, no, sono sterili zitelle, a dire che le zitelle sono donne escluse dalla maternità simbolica, non sono capaci di essere madri spirituali. Le suore hanno applaudito. Poverelle, che altro potevano fare? Ma io dico, invece: quando sarà che questi uomini di Chiesa, che vanno ripetendo che la Chiesa è madre, è donna, è femminile; che vanno predicando il genio femminile; che esaltano il carisma mistico e rivelativo delle donne; quando, una volta, faranno silenzio e ascolteranno la Parola del ministero femminile? Non sarà mai troppo presto, soprattutto per loro, perché il riconoscimento della differenza sessuale in Dio le donne l'hanno già compiuto con Gesù Cristo, invece questi non hanno il coraggio dell'amore di Dio e non l'avranno finché si tengono in piedi grazie a un regime omosociale. Non saranno nella libertà di Dio finché non rinnegheranno loro stessi. Siamo nel nocciolo duro di quella storica antropologia maschile che invidia e teme il potere dell'amore e del desiderio femminile e si difende dalla sua grandezza cercando invano di controllare corpo e anima delle donne. Questo uomo, Francesco I, non sa di che cosa parla quando parla delle donne. Ecco perché importa che le parole vecchia e zitella cambino senso al discorso, senza che si cambi discorso se scappano dette. Ma certo io non ho in mente una manovra linguistica studiata a tavolino: io guardo a quello che succede in Italia, con occhiali rosa. Allora, c'è la crisi, la povertà avanza, i problemi si moltiplicano e così via, non ripeto tutto quello che si dice, nei discorsi dei profeti di sventura che anunciano solo cattive notizie. Ora, il potere delle parole è tale che esse veramente fanno realtà. Se si lasciasse


perdere il nichilismo secondo cui le parole non sono le cose, forse si potrebbe fare un po' d'ordine nell'ordine del discorso. Sì, le parole non sono del tutto le cose, ma lo sono anche, in senso dinamico: sono azioni. La parola è l'azione più potente, non è una novità. Allora, noi come soggetti del discorso, siamo fatte/i anche dall'oggetto del nostro discorso: per le donne poi la faccenda è anche più intrigante, perché noi siamo soggetti del discorso e soggette al discorso, nel senso che viviamo le parole con una carnalità simbolica più intima, che ci viene dalla madre. Per queste ragioni mi avventuro in una lettura di quello che avviene oggi in Italia a prima vista strampalata, ma chissà: parlo della realtà nuda e cruda, in cui però fa luce un legame profondo fra materiale, simbolico e immaginario non scissi fra loro, ma in relazione imprevedibile e giocosa, carnevalesca. La crisi è trasformazione, ben si sa. Tanto per cominciare, guardiamo alla forma dell'Italia rovesciando l'atlante: non più uno stivale che calcia un pallone, ma cosa? Un vestito femminile lungo, da sera, da festa, con graziosi accessori, un cappello alato, una pochette: insomma, tutto pronto per una serata di gala. Ma che sei matta? No, sono solo una donna felice, più felice ora di quando avevo vent'anni, perché più libera e più innamorata del Tutto. Quello che succede oggi in Italia è un evento, un fatto storico assolutamente nuovo, senza precedenti dalla preistoria di Lucy all'anno di grazia 2014. Di quella storia che si svolge come gioco d'amore e desiderio attraversando i corpi di donne e uomini, non solo fra donne e uomini ma anche fra donne e donne e fra uomini e uomini. Non nego nulla del tremendo che nella storia umana pretende di imporre come senso il lutto, non nego l'esistenza del male; ma come donna, la mia fede nella bontà dell'essere si alimenta proprio della fiducia nell'opera libera della madre. Per me, le donne hanno sempre goduto di una libertà spirituale, radicata nel supremo potere umano di dare (o no) la vita, tale da trascendere ogni violenza che la paura maschile infliggeva. Riconosco così il mio debito nei confronti delle antenate, delle madri biologiche e di quelle che mi hanno dato vita anche attraverso la loro anima (anima e corpo non separo). Mi fido e mi affido: la libertà femminile ha tracciato un cammino tra visibile e invisibile che percorre e orienta la civiltà umana, fin dal principio, sorgivo in un passato infinito, come principio. Una libertà che accorda amore e desiderio nel disegno misterioso di una rivelazione senza fine. Per la prima volta nella storia del genere umano, la cosiddetta piramide demografica si è rovesciata, le persone anziane sono sempre più numerose, le nascite sempre meno (nel Sud, l'anno scorso per la prima volta, le nascite sono inferiori alle morti); l'aspettativa di vita è altissima, oltre gli 84 anni per le donne. E' vero che anche in altri paesi tale cifra è addirittura superiore, ma solo qui nello stesso tempo la natalità è così bassa. Il paesaggio umano si presenta davvero come un unicum storico e geografico. Ma ancora: l'aspettativa di vita delle donne, negli ultimi anni della cosiddetta crisi, è addirittura aumentata di ben due anni, nonostante i problemi economici proprio di tante donne, pensionate anche vedove o sole, che sono in media, si sa, più povere degli uomini e nonostante i tagli alla sanità. Insomma, nonostante le difficoltà materiali e quelle psicologiche, le donne, sposate, vedove o zitelle, campano di più e più degli uomini: fino a quando sono autosufficienti, le vecchiette sono davvero arzille, si danno da fare, nonne indispensabili, si prendono cura delle malattie proprie e dei parenti, si dedicano ad attività culturali, vanno in palestra, fanno lunghe passeggiate, vanno a cena insieme, vanno a ballare, sperimentano la convivenza in condomini concepiti secondo il criterio del cohousing, sono sempre in gioco con una vitalità mirabile. Certo che si muovono tra mille problemi, non voglio nascondermeli, ma attorno a me assisto a questo fiorire e fruttare di esperienze di gioia di vivere che riconosco come mia stessa esperienza, inimmaginabile e sorprendente per me stessa. Per gli uomini, invece, si sa, la vecchiaia, dopo l'uscita dal mondo del lavoro fondato sul mercato e sul denaro, spesso comporta un senso di perdita di sé nella depressione che ricade poi sulle mogli: che fare col marito pensionato? Come tirarlo fuori dal divano e dal raggio ipnotico della televisione? Se lo chiedono addirittura inchieste sui giornali, tanto il fenomeno è diffuso e manifesto. La vitalità delle donne vecchie non consiste in un mero dato genetico: scaturisce da una capacità di desiderio e godimento della realtà oltre ogni seduzione dello sguardo maschile, libera da ogni oggetto di conquista e appropriazione.


Quando lessi la storia della vecchia che Luisa Muraro riporta all'inizio del suo Al mercato della felicità, mi dissi: questo è proprio illuminante, sulla figura della vecchia e del suo desiderio che trascende la realtà trsformandola senza negarla. Il sensale le si rivolge ridendo con l'appellativo di «anima semplice», che mi sembra favoloso spiraglio allo Specchio delle anime semplici: lei va lì con il suo tesoro, con tutto quello che ha di più bello, come vera bambina al serio gioco della vita. Luisa Muraro la dipinge come figura di chi anela, col suo desiderio puro, a ciò che sa irraggiungibile e aggiunge che forse giungono tempi in cui questa figura ci rivelerà a noi stesse (semplifico il suo dicorso). La vecchia filatrice si spinge oltre sé proprio non per possedere, non per avere come proprietà privata; no, ma proprio per avanzare nella libertà di essere oltre l'avere o il non avere. Insomma, fuori da quel mercato in cui la misura è uguale per tutti e tutte, nel calcolo che vorrebbe soffocare l'imprevedibile della storia. La vecchia vince Giuseppe, anche se non lo può comprare, anzi, proprio perché non lo può comprare come schiavo: lei non può fare schiavo nessuno, perché non ha mai agito in vita sua per essere padrona della vita e dell'amore. Lei rivela che il vero gioco è quello in cui nessuna, nessuno perde: se Giuseppe, per intervento di Dio fosse all'improvviso libero, certo se ne andrebbe con la vecchia. Mi vien voglia di accostare e questa vecchia anche la figura della povera vedova che in Luca (21, 1-4) getta nel tesoro del tempio come offerta «tutto quello che aveva per vivere»: anche se nel racconto non viene definita vecchia, la sua condizione nella società era simile a quella di una donna vecchia. Anche questa donna mostra una tale libertà da ogni calcolo, da ogni preoccupazione, da ogni timore mondano che Gesù stesso la loda e la propone come esempio. Allora, alla luce della sapienza di queste due donne, che cosa si può scorgere nell'orizzonte della libertà femminile che si dispiega nel tempo e che agisce sempre, se torniamo al presente nostro personale di donne anziane, vecchie, in questa Italia apparentemente così disastrata (perché questo è discorso che va molto di moda)? Io dico che l'inedito paesaggio umano è opera della politica delle donne, frutto della libertà femminile che da sempre orienta la storia secondo il principio del primato dell'amore. La «verità effettuale», se apriamo bene gli occhi, è quella del rivelarsi dell'amore per la realtà che le donne vivono in una capacità di desiderio e godimento allo stato puro, oltre la necessità mercantile di possedere un oggetto la cui misura starebbe nel prezzo che si paga. La vitalità delle donne che nel discorso della seduzione maschile (seduzione che danneggia i seduttori non meno, anzi più che le sedotte, perché li rende ciechi) sono fuori gioco, fa luce sulla realtà: la gioia di vivere, il godere di un nulla, il sentirsi fertili e feconde spiritualmente delle donne che hanno passato l'età della procreazione biologica, nulla togliendo alla magnifica opera della generazione carnale, mostrano appunto, lo ridico, che l'azione storica delle donne, da sempre, è far l'amore con la realtà tutta perché essa si riveli nella sua grandezza senza fine. Nella specie umana il vincolo di necessità naturale fra desiderio, sesso e procreazione viene sciolto proprio dalla libertà dell'amore materno, che è libero perché nella libertà dà la vita, senza volontà di possesso, dominio o controllo della creatura messa al mondo. Tutto le donne hanno rischiato nel gioco dell'amore, la loro stessa vita; ma se anche hanno patito, sempre il loro amore le ha rivolte con totale fiducia alla realtà che può fare male, ma che è, in assoluto, Bene. A questo mira l'amore senza oggetto che trasforma il soggetto nella propria verità. Per me, io lo chiamo amore di Dio (nei due sensi dell'espressione), ma si può anche chiamarlo amore senza fine, quello che accende ogni istante del tempo umano in vita eterna, nel puro godimento della bellezza dell'Essere. Ce lo dice una donna di tanti secoli fa, quale è la sapienza dell'età matura, la sapienza che una donna vecchia distilla come alchimia di vita: è Hadewijch, in una Visione in cui Amore le parla e proprio come «vecchia» la interpella, lei che ha fatto esperienza dell'essere donna fino a che il suo corpo ha accolto in sé il tempo, perché divenga tempio d'Amore: Dopo, un giorno di Pasqua ero andata a Dio / ed Egli mi abbracciò dentro i miei sensi / e mi prese in ispirito / (…) / E una voce da quel Volto suonò così tremenda / da essere udita / per ogni dove / ed essa disse a me: / «Or guarda, vecchia, / che hai chiamato me e hai investigato / che cosa e chi Io Amore sono mille anni innanzi la nascita degli uomini; / guarda e ricevi il mio Spirito (…) / E quando tu mi ti compi, pura creatura umana, in me stesso (…) allora tu di me godrai Chi, Io Amore, sono (…) Va e vivi ciò che io sono. E torna / e recami deità intera, / e godi chi Io sono» (...)



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