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1 - orientamento “Ma inutilmente mi sono messo in viaggio per visitare la città: obbligata a restare immobile e uguale a se stessa per essere meglio ricordata, Zora languì, si disfece e scomparve. La terra l’ha dimenticata.” Calvino - Le città invisibili

il santuario shintoista di Ise. Viene ricostruito identico ogni 20 anni per evitare di attaccarsi nostalgicamente alla sua immagine materiale e non alla sua essenza culturale

La memoria è un’entità da cui è impossibile prescindere, una presenza costante con la quale ci troviamo a confrontarci continuamente. Memoria di un evento, di una persona, di un oggetto o, più interessante, memoria di uno stato, di una percezione, di una sensazione. Nella contemporaneità il confronto con la memoria è essenziale, vitale, intenso e tormentato. Il rapporto costante con essa è qualcosa di sublime ma corre il rischio di diventare esclusivamente un lucchetto mentale, qualora essa venga affrontata in modo superficiale. Il rischio assomiglia molto alla certezza se questo avviene in un paese come il nostro in cui la cultura del passato domina. Il termine “memoria” diventa spesso solo uno strumento inflazionato dai molti che tentano di porsi in questo modo ai più alti vertici della cultura, risultando però, se non ridicoli, almeno goffi. La semplicità apparente del racconto di Calvino riportato in apertura vuole, in modo molto sensibile, metterci in guardia. Il sentimento che è più facile associare ad un ricordo è la nostalgia. E’ insito nella nostra natura umana, è comprensibile, ma si rischia di invertire l’ordine di importanza delle cose. Si deve cercare di captare l’essenza di un concetto, la sua natura ed il rapporto che ha con l’animale uomo. Questo andrà ricordato e non la sua immagine. La cosa risulta però molto più difficile di quanto sembra. Degli esempi potrebbero essere utili per

comprendere il discorso. I santuari shintoisti vengono distrutti e ricostruiti identici ogni vent’anni. Perché questo? Perché ciò che deve essere tramandato è l’essenza di quel luogo: una zona staccata dal mondo nel quale l’unica cosa che conta è la meditazione e l’avvicinamento alle divinità. Ogni attaccamento nostalgico e materiale all’edificio non farebbe altro che allontanare il fedele dall’essenza di quello spazio. In questo modo è stato scongiurato il rischio di attaccarsi ad un’immagine (il tempio) che rimane esclusivamente un contenitore, non il contenuto da ricordare. Oppure potremmo pensare alle sculture classiche tibetane, fatte di burro. Sciogliendosi al sole ricordano la caducità della vita e la fugacità del presente se confrontato al perdurare della divinità. Indipendentemente dalla validità del credo religioso, penso che l’atto di abbandonare una propria creazione in favore del perdurare dello spirito della dottrina, sia quantomeno un atto coraggioso, sicuramente valido in senso culturale. Bergson però ci ricorda che “il puro presente è il processo impercettibile in cui il passato avanza divorando il futuro. A dire il vero, ogni percezione è già ricordo.” Il pericolo di una sbagliata valutazione e di un’anteposizione del passato al presente, attimo in cui viviamo, è dunque reale. Ogni concetto od azione, per quanto inconsapevolmente, deve però passare il vaglio ed il filtro della memoria. Questo contrasto credo sia vitale. E l’estetica o l’architettura subiscono necessariamente lo stesso trattamento. Anzi, quando si toccano certi temi la memoria assume sicuramente un plusvalore. Che cos’è in fondo la bellezza se non il soddisfacimento delle nostre aspettative estetiche archetipe? La memoria, coniugata in senso percettivo, è dunque una sorta di iperuranio delle idee, per quanto annebbiato sia, dal quale attingiamo costantemente per, sostanzialmente, vivere. Dunque anche per esperire uno spazio. L’architettura ha il dovere di confrontarcisi, è inevitabile. Il mio desiderio

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è stato dunque quello di inserirmi in questo scenario complesso e di aggiungere una voce su un tema così caro ad un tempo come il nostro: evanescente, effimero o liquido (se preferiamo usare termini di baumaniano sapore). Lo stimolo successivo è stato: come ci si comporta quando si ha a che fare con una memoria “ferita”? Da qui la sfida ad addentrarsi in un mondo tortuoso che ci porta ai confini della nostra materia, per quanto multidisciplinare essa sia. In questi casi il contenitore si pone garbatamente in secondo piano rispetto al contenuto poiché esso, con la sua forza viscerale irrompe sulla scena gridando. Il rischio di invertire questo ordine di importanza è però reale e va necessariamente scongiurato. Quando la memoria è ferita porta con se ulteriori rischi: inibizione, paura, negazione e, ancor peggio, non curanza. Questo perché decidere di affrontarla significa spesso mettere in gioco se stessi e le proprie certezze. Basti pensare a cosa significhi oggi entrare in un campo si concentramento o semplicemente assaggiarne il significato con un film o un libro. Spesso si preferisce voltarsi, evitare un confronto troppo doloroso o coinvolgente, o meglio, scardinante. Questo è quello che mi ha fatto avvicinare all’ormai ex ospedale psichiatrico S. Lazzaro di Reggio Emilia.

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1.1 l’ospedale psichiatrico S. Lazzaro a Reggio Emilia Il S. Lazzaro non è un semplice ospedale, bensì una entità parallela, un micro cosmo di quasi 450.000 m2 di superficie. Posizionato fra la linea ferroviaria (a Nord) e la via Emilia (a Sud) si trova ad Est del centro storico, inghiottito dallo sviluppo della città. Nonostante la posizione attualmente strategica, nasce come luogo totalmente staccato dall’agglomerato urbano data la sua originale funzione: un lebbrosario. L’origine dell’edificio è datata 1442, anche se i primi malati di lebbra risalgono al 1200. Dovremo aspettare il 1536 per l’internamento del primo “pazzo” ed il 1759 per il primo tentativo di conversione dello stabile in una ospedale psichiatrico permanente. Nella seconda metà del 1800 subisce numerosi ampliamenti fino a divenire uno dei più rinomati centri di assistenza e di ricerca sulla malattia mentale in tutta Europa, ottenendo anche la medaglia d’oro all’esposizione internazionale di Parigi del 1900. Con la successione dei vari direttori si sono alternati periodi di elevatezza metodologica e di ricerca ad altri maggiormente bui e barbari, fino alla chiusura definitiva del 1997, a seguito della legge 180 (del 1978). Attualmente l’intera area è stata destinata ad uso universitario con l’intendo esplicito di sfruttare un polo così strategico per la città per sviluppare Reggio Emilia come capitale locale dell’eccellenza e per dare ossigeno alla giovane università di Modena e Reggio Emilia. E’ un’area molto vicina al centro storico, ottimamente servita dai mezzi pubblici e fortemente interessata da tutte le sfaccettature della viabilità. Tutto questo, aggiunto all’elevata superficie occupata, amplifica il carico storico ed umano che il comparto si porta dietro ed iscrivono di diritto il S. Lazzaro alla lista di siti da sfruttare fortemente per far competere Reggio Emilia a livello regionale, con

inquadramento urbano del S. Lazzaro

foto storica (primi ‘900) dell’ex manicomio S. Lazzaro a Reggio Emilia

<sculture tibetane in burro che, sciogliendosi al sole, vengono offerte agli Dei


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il fine di ottenere risorse umane ed economiche. Il sito si configura come una mancanza nell’arazzo cittadino poiché, anche se vi sono costruzioni storiche, esse non sono mai state coinvolte nella vita sociale della città. Molti dei padiglioni da cui è composto il complesso sono già stati interessati da questa trasformazione: una volta restaurati sono stati affidati infatti all’università. Una piccola parte degli edifici, unita al parco storico, entità caratterizzante l’intero ospedale, non sono però stati toccati ed attualmente giacciono in stato di rovina, principalmente per motivi economici. La mancanza di una successione organica degli interventi sta però seriamente rischiando di compromettere il buon fine dell’operazione. Attualmente infatti la rigenerazione urbana dell’area sembra lontana dal compimento. Obbiettivo principe è la restituzione di questo luogo al tessuto cittadino, sia in senso fisico che vitale. Riportarlo all’interno dello scacchiere urbano da un punto di vista funzionale ed estetico è un obbligo. Il mio incontro con il luogo è stato intenso, forse devastante. Lo stato di fatiscente abbandono dei padiglioni non ancori occupati dall’università, il forte caldo estivo e l’assenza pressoché completa di vita hanno contribuito a restituirmi l’immagine di un luogo sospeso e parallelo, dominato completamente dalle leggi del tempo più che da quelle dello spazio e questo, a mio avviso, è molto contemporaneo. Lo stato attuale delle cose, unito alla constatazione delle forti potenzialità mi hanno portato verso l’accoglimento della sfida. Elaborare un complesso scenario futuro, strutturato ed evanescente al tempo stesso, confrontandosi con la memoria dei luoghi per la definizione (o non definizione) degli aspetti architettonici, con l’unico fine di portare a vivere in senso compiuto quel luogo.

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2 - analisi storica Il S. Lazzaro costituisce per Reggio Emilia un episodio fondamentale. La sua storia, di quasi 10 secoli, segna profondamente il territorio ed il rapporto dei cittadini con questa istituzione. Il manicomio è un amalgama ancestrale fatta non solo di caratteristiche architettoniche ed urbanistiche ma di studi e (più spesso) paure della natura più intima e fragile dell’essere umano. Le costruzioni sono andate di pari passo con i progressi, o regressi, della medicina psichiatrica e rispecchiano il modo di vedere una malattia. Ritengo dunque interessante abbracciare il fenomeno nella sua interezza, senza scindere le questioni morfologiche da quelle umane poiché una lettura separata potrebbe distogliere l’attenzione dalla complessità del tema. Gli aspetti architettonici e soprattutto il rapporto del S. Lazzaro con la città sono infatti troppo intimamente collegati al confronto con il “cerchio del contagio” per non essere trattati contemporaneamente. La lettura (non solo di questo scritto ma dell’intero episodio S. Lazzaro) potrebbe risultare più tortuosa ma sicuramente più significativa e affascinante.

2.1 la nascita del S. Lazzaro (1179_1820) 2.1.1 il Lebbrosario Durante il periodo medioevale numerose categorie sociali riottengono dignità poiché iniziano a cadere barbari tabù come quelli del sangue, del denaro o delle impurità. Mentre vengono dunque riabilitati alla vita sociale macellai, chirurghi o lavandai, una nuova cerchia comincia ad essere additata come “diversa”, “anormale”: si tratta degli ebrei, degli eretici, dei giullari e, per noi più interessanti, lebbrosi e pazzi. In questo contesto culturale prende vita il lebbrosario di S. Lazzaro la cui nascita è attestata come

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2 <raffigurazione medievale del cerchio del contagio. Tratto caratterizzante il S. Lazzaro per svariati secoli

-> Miniatura tratta da La Franceschina, codice del XV secolo, raffigurante un lebbrosario gestito da personaggi ecclesiastici, come era d’eso a quel tempo

- analisi storica

antecedente al III consiglio lateranense del 1179. La posizione urbana è significativa e tipica per un lebbrosario. I malati devono rimanere “a un tiro di pietra dalla città”, in modo da escluderli dalle dinamiche cittadine ma averli al contempo a portata di mano. Questo poiché la dottrina cristiana imponeva misericordia, opere di bene e, in questo modo, la carità fraterna dei “normali” poteva facilmente esercitarsi su di loro : “Pii cittadini guidati dal sentimento religioso ed anche dall’esempio altrui, si dedicarono fra noi alla cura dei poveri lebbrosi, ed a questo scopo si costituirono in sodalizio accomunando i loro beni, sottoponendosi soltanto per la direzione dell’ospizio alla autorità del Vescovo, che nominava i massari, e vegliava all’adempimento delle pratiche religiose”. L’area sul quale si instaurava il fabbricato era alla braida del vescovado, anche se non ne rimane traccia, essendo stato demolito nel XVI e XVII secolo. Nel 1217 il S. Lazzaro viene posizionato nell’area che ricopre anche attualmente, prima dedicata alla fiera, ed è costituito da una chiesa e da un rifugio per i malati di lebbra ad essa accostato. A ridosso della via Emilia, principale veicolo verso la città fortificata, si rafforza questo ruolo “in between” dell’ospedale, a metà strada fra la città vera e propria e la piena campagna. In questo modo il lebbrosario poteva inoltre svolgere il ruolo di filtro per i pellegrini che tornavano dalla Terrasanta (molti di loro erano infatti contagiati e l’ingresso in città era loro impedito). Una funzione apparentemente paradossale, ma alquanto significativa, era quella garantita dal portico di ingresso: punto di raccolta per letterati locali e stranieri. Anche la cultura e la creatività iniziano dunque ad unirsi a questo cerchio degli “anormali”. L’ospizio che fiancheggia la chiesa viene riedificato nel 1442 ed iniziano ad applicarsi politiche di autogestione per i malati, grazie soprattutto al benessere economico degli

stessi (numerose erano infatti le donazioni). Ciò che colpisce di questo periodo è il totale isolamento dell’istituzione lebbrosario rispetto alla città tanto che un ricoverato era consapevole di abbandonare definitivamente il mondo civile, con le sue regole e dinamiche, una volta entrato. Questo luogo si configurava come una sorta di corte dei miracoli, anche a causa della licenza con cui vivevano i malati (gioco d’azzardo, relazioni sessuali, frodi fiscali, ecc.). Le direttive degli Statuti continuavano però a rivolgersi ai cittadini “normali” vietando loro, ad esempio, di comprare carni dal lebbrosario e non ai malati di venderle. Estraneità e separazione dunque per l’incipit del S. Lazzaro. Condizione che perdurerà nei prossimi secoli.

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2.1.2 la povertà emarginata Nel 1453 viene sottratta al vescovo l’autorità sull’ospedale e si inizia a configurare un cambiamento di rotta dovuto alle mutazioni sociali di questo periodo. Mentre il patronato era dunque passato definitivamente al comune, la lebbra non era più il male dominante e nuove categorie iniziano invece ad essere considerate il cancro della società. Si uniscono infatti ai lebbrosi veri e propri mendicanti, poveri, infermi e pazzi. Nel 1536 viene attestato il primo internamento di “pazzerello” e nel 1678 sono segnalati, oltre ai poveri, “5 pazzi e 7 pazze”. Il S. Lazzaro inizia dunque a trasformarsi da struttura temporanea, collegata al dilagare delle epidemie, ad istituzione fissa. Nel XVI secolo la povertà era considerata un fenomeno temporaneo nella vita di un individuo mentre nel corso del XVII secolo inizia ad assumere, nell’immaginario collettivo, le sembianze di una malattia cronica, un contagio endemico che, come tale, doveva essere circostanziato e recluso. Il S. Lazzaro acquisisce dunque questo ruolo di Lazzaretto

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anche se, nel XVI secolo, produce più di quello che riesce a consumare. Questo è attestato dalla vendita, in tale periodo, di prodotti agricoli o di allevamento, grazie alla gestione a mezzadria, su di terreni generalmente donati da benefattori. Il ricovero continuava ad essere una nuova vita, o non vita più correttamente, ma era garanzia di un pasto caldo e di un luogo nel quale pernottare. Per frenare l’eccesso di ricoveri, soprattutto di infermi e pazzi, si è ricorso all’introduzione di un economo che aveva il compito di sequestrare ogni bene all’ingresso in ospedale ed amministrarli per il benessere comune. Abbiamo notizie circa le caratteristiche dell’impianto costruito grazie al catasto realizzato nel 1673 da Aurelio Scaltriti e lo stato patrimoniale fatto nel 1702 dal perito agrimensore Carlo Zambelli. Giungendo da est la prima cosa che si intravedeva era l’abitazione del fattore. Adiacente ad essa si trovava la chiesa che costeggiava la via Emilia con un porticato. I degenti erano invece internati in strutture a corte che insistevano su 3 cortili interni, di cui quello centrale era

-> veduta del S. Lazzaro nel 1702, redatta dal perito agrimensore Carlo Zambelli

incisioni di Jacque Callot (Les Gueux, 1622) che, con freddo distacco, esprimono disprezzo per questo tipo di umanità mutilata, lurida, emarginata. La stessa che nel S. Lazzaro ha trovato una rifugio


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sicuramente porticato sul lato settentrionale. Poco si sa invece sull’assistenza medica e, di conseguenza, sulle condizioni dei malati anche se queste erano sicuramente tutt’altro che ottimali: “era sempre angusto e malsano specialmente al pian terreno, umido, privo d’aria e di luce, onde il più delle volte i ricoverati aggravavano i loro mali”. Un fattore doveva occuparsi in toto dei malati e sorvegliare gli edifici, un cappellano offriva appoggio spirituale mentre una cuoca e due servi preparavano il cibo. Il chirurgo ed il barbiere, pur essendo stipendiati, non risiedevano all’interno del complesso. Nel 1700 aumenta l’afflusso di invalidi e dementi, concentrati in una parte del fabbricato ma l’occupazione tedesca, fra il 1704 e il 1706, ha fatto peggiorare le condizioni finanziarie e conseguentemente di decenza dell’istituto. La soluzione è stata quella di aumentare il numero di accettazioni, soprattutto di forestieri, in modo da rimpinguare le casse.

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2.1.3 le case dei pazzi Il meccanismo di segregazione seicentesco e settecentesco ha individuato dunque nei folli i nuovi soggetti da circoscrivere e rinchiudere. La follia incuteva timore, essendo qualcosa che difficilmente poteva essere gestita e non avendo ancora i medici del tempo inquadrato le cause o la natura di questi mali. Nel 1755 il Duca decreta che il S. Lazzaro dovesse essere abitato solo dai malati mentali, liberando il luogo da poveri ed invalidi. L’intento rimane a lungo sulla carta (si è verificato solo dopo il 1827) dato che nel 1788 si contavano a Reggio 4.925 poveri (su un totale di 17.000 abitanti), dato destinato a crescere. 10 anni dopo i poveri erano divenuti infatti 7.000. I motivi vanno inquadrati nello scenario storico e nelle difficoltà economiche del tempo. La chiesa non si poneva il problema di eliminare questo pauperismo, mentre l’assistenza pubblica muoveva i primi passi all’insegna del liberismo, arrivando però a scarsi risultati pratici. Nel 1756 si decide di internare nel S. Lazzaro anche i malati di Modena. Intento reso difficoltoso data “l’angustia del suddetto pio luogo, nel quale sarebbe indispensabilmente necessario accrescere l’abitazione, che sappiamo essere presentemente incapace e insufficiente anche per il solo ricovero dei sudditi di questo distretto e ducato (Reggio)”. Il capomastro Domenico Castellani si impegna in alcune trasformazioni dello stabile fra le quali possiamo annoverare la disposizione (in locali già esistenti) di 12 camere per malati mentali, maggiormente salubri rispetto alle precedenti poiché rivolte a sud. Nel 1757 l’accordo con Modena viene rispettato grazie all’ultimazione delle suddette camere. Fra i successivi lavori di manutenzione va annoverato, poiché più interessante da un punto di vista umano, l’innalzamento delle mura esterne per meglio isolare i pazienti dalla via Emilia (1765). Nel 1768 vengono poi costruite 5 stanze ex novo. Per quel che riguarda le condizioni dei malati

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2 <pianta, databile attorno al 1773, che riporta la chiesa ancora nella posizione originaria

<rilievo della proprietà S. Lazzaro eseguita dall’ing. Domenico Marchelli nel 1813, utile per constatare le condizioni antecedenti alle riforme introdotte dal Galloni negli anni successivi

-> barbari metodi di contenzione utilizzati prima dell’avanzamento della medicina psichiatrica. Non era raro vedere malati nudi a terra, incatenati ad un ceppo

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si evince che in questo periodo essi venivano ricoverati in ampi dormitori collettivi con il servizio di cucina in comune. In un registro del 1764 si parla della follia come “fra le varie sorte molteplici di mali, cui è soggetta la troppo fragile umana nostra natura, quello è di tutti il maggiore, che togliendo all’uomo l’uso della ragione, e il retto discernimento delle cose: o fatuo il rende, ed alle più insensate bestie lo pareggia: o da strano furor compreso, delle bestie medesime peggiore il fa…”. Il lato essenziale da cogliere è che a quel tempo si vedeva la malattia mentale come un male cronico, inguaribile, soggetto solo a miglioramenti momentanei, escludendo dunque la concezione di metodi di guarigione o la possibilità di dimissioni. Gli strumenti di contenzione sono ancora pochi, per lo più manette a piedi e polsi. Per quel che riguarda i dati, nel 1758 vi sono 49 internati (di cui 6 pazzi poveri e 14 dozzinanti). Il segretario di stato richiede nel 1772 6 stanze letto per i pazienti furiosi poiché era impensabile che venissero inseriti in normali carceri, rimanere a carico della propria famiglia o, addirittura, liberi per strada. Nel 1773 risultano 22 posti disponibili in più (11 reggiani e 11 modenesi, a seguito dell’accordo) mentre nel 1782 i pazzi reggiani paganti sono 13, i modenesi 20 ed i poveri 38. Una pianta non firmata del 1773 riproduce la situazione dell’impianto in questo periodo. Negli anni successivi i problemi principali sono di carattere economico e vengono prese delle misure secondo le quali la qualità, o meglio lo stato, della degenza dovesse essere proporzionale all’ammontare pagato per il ricovero. Nel 1785 vengono effettuati i lavori per la costruzione di un nuovo dormitorio ed in questo frangente viene demolita l’antica chiesa (troppo ampia, umida e malsana), poi ricostruita ed ultimata nel 1789. Negli anni va segnalato un crescente interesse per le condizioni dei malati; interesse prevalentemente esterno che si scontrava spesso con i pareri dei medici interni. Si assiste

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infatti ad un aumento delle misure di contenzione, mentre i locali rimangono inadatti al ricovero di malati e le porzioni di cibo sono spesso insufficienti e di scarsa qualità nutrizionale. Nel 1792 si costruiscono altre stanze ma: “i locali, in specie il pianterreno, continuarono umidi, oscuri, sudici; prevaleva lo scorbuto ne’ degenti, ed il nostro Istituto, più che ospedale, medievale prigione, giacque per molti anni ancora nel più completo abbandono senza alcun scientifico indirizzo”. Nel 1811 Domenico Marchelli provvede ad alcuni accorgimenti di sicurezza per scoraggiare i tentativi di fuga, senza aumentare l’altezza del muro di cinta, dato il cattivo arieggiamento dei locali al pian terreno. Sotto il governo francese la situazione non migliora e si assiste a numerose diatribe fra il prefetto ed il medico. Il primo vorrebbe, ad esempio, giungere al “rilascio” di alcuni pazienti e che non si abusasse “dell’umanissima istituzione” ammettendo pazienti non realmente malati. Il 18 Maggio 1814 si assiste al primo suicidio; numerose erano le fughe ed elevata la mortalità. Nonostante le pressioni esterne il trattamento dei malati rimane infatti inumano: “(…) il disordine e le sevizie andavano man mano aumentando. Niuna classificazione de’ malati giusta le varie qualità e gradi di follia; niuna cura igienica, terapeutica e morale contro la demenza; un medico che visitava il luogo incostantemente (…); pochi volgari inservienti agli ordini di un Preside nobile non dimorante nella casa. Le stanzette dei rinchiusi con finestre sempre aperte ad ogni intemperie, e soltanto munite di grosse inferriate; per tutte masserizie e per giaciglio una cassa ripiena di paglia con solo una rozza coperta (…). Niuna traccia era di notturna illuminazione; non bagni di sorta, né bagnature ed abluzioni a rimuovere con regolare servizio le sordidezze sia della stanza sia della persona (…)”. Nel 1814 termina l’esperienza della Repubblica Cisalpina e si rinstaura il trono degli Estensi che si occuperanno da vicino delle condizioni del S. Lazzaro.

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2.2 Antonio Galloni: una svolta per il S. Lazzaro 2.2.1 la direzione Galloni (1820_1855) La svolta avviene con la nomina di Antonio Galloni a direttore dell’istituto, nel 1820. Egli aveva visitato i più rinomati ospedali europei, fra i quali quello di Anversa da cui era rimasto colpito. Le parole chiave che egli utilizza sono “comodità”, “salubrità” e “umanità”, iniziando a pensare che il manicomio dovesse diventare un luogo nel quale essere “meno infelici” e percorrere la via della guarigione. Grandi meriti vanno al suo protettore, l’illuminato Francesco IV, duca di Modena, responsabile della sua alta formazione ed assunzione. Galloni viene incaricato di redigere il nuovo regolamento dell’istituto, anche per quel che riguarda i requisiti del personale, trattamento dei malati e loro ammissione: “D’ora in poi non si potranno più ammettere nello Stabilimento altri infermi di qualunque sorta essi siano, non vecchi non inabili non imbecilli, ma sarà unicamente destinato ad accogliere i pazzi veramente tali, e quelli specialmente la cui pazzia riesca più incomoda e dannosa alla Società. Saranno soltanto ammessi i frenetici, i convulsi abituali, e precisamente quelli che nell’accesso del loro male si rendono furiosi e bisognosi di cura (…)”. Altro compito del Galloni è stato quello di guidare gli architetti per i lavori di risanamento ed ampliamento del costruito. Nel S. Lazzaro assistiamo ad una ridefinizione dei ruoli di progettista e committente poiché è il medico che definisce gli spazi, guidato dai risultati ottenuti dalla medicina psichiatrica. L’architetto si pone in secondo piano, donando conoscenze tecniche e/o estetiche come supporto ai piani del medico. Anche le caratteristiche materiche delle lavorazioni assumono dunque una connotazione di economicità, poiché soggette a logiche di riscrittura spaziale continua e parallela agli avanzamenti della

-> il progetto di ammodernamento del complesso, firmato dall’architetto Paglia nel 1821 (solo parzialmente eseguito). Apertura delle corti e rappresentanza sulla via Emilia


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medicina. La situazione antecedente era stata immortalata dal rilievo di Domenico Marchelli del 1813 in cui viene evidenziata la disposizione delle stanze su due piani, attorno ad un cortile chiuso. La connotazione assomiglia molto a quella di un carcere, essendo stata privilegiata la concezione di spazio chiuso. Un cortile lungo e stretto si poneva come filtro fra la costruzione ed il muro di cinta che separava l’ospedale dalla via Emilia. Nella nuova logica riformatrice va annoverato il progetto del Paglia (1821) che, coadiuvato dal Galloni, ridefinisce gli spazi sviluppando gli elaborati nell’arco di pochi mesi. Lo schema chiuso viene rotto in favore di cortili aperti (ora solo 2 lati vengono adibiti a stanze) ed il progetto rimane aperto a future trasformazioni. Vengono infatti prolungate le ali in modo indefinito e viene utilizzato un modulo facilmente ripetibile. Sono inoltre ampliate le superfici delle stanze di degenze e dei cortili, recuperata la casa del mezzadro e le pertinenze della tenuta agricola. Dopo questo episodio sarà Domenico Marchelli a ricevere l’incarico di architetto ufficiale per le successive lavorazioni. Farà, ad esempio, erigere la parte non completata dal Paglia, e cioè quella a Nord della chiesa e firmerà un progetto per l’alloggio del direttore, la scala e l’abitazione del cappellano, gli uffici ed i bagni utilizzati per l’idroterapia. Il progetto del Paglia prevedeva una semplice divisione fra maschi e femmine mentre la nuova tendenza imposta dal Galloni portava verso una sempre maggiore suddivisione dei degenti a seconda della particolarità della malattia (chiassosi, suicidi, ecc.). Galloni si adopera per configurare anche l’intorno urbano dell’ospedale; farà ad esempio chiudere tre finestre ad una villa di fronte per evitare di vedere i malati e si opporrà al sorgere di una bottega da fabbro e di una fornace. Nel 1832 viene anche eretta una sala per il divertimento e per i balli (attuale sala Galloni), segno che la qualità della vita era destinata ad aumentare. Tema particolarmente

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caro al direttore era quella dell’ergoterapia e cioè dell’utilizzo del lavoro come metodo di cura per i malati. Siamo sempre in uno spazio segregante e totalizzante come il manicomio ma la psichiatria cerca di entrare maggiormente nel campo dei diritti umani. Questo tipo di terapia, introdotta nel 1822, serviva a far uscire il malato dal suo isolamento, spostando la sua attenzione verso qualcosa di appagante e utile. Non va infatti dimenticato che una conseguenza diretta delle lavorazioni effettuate dei malati era di tipo economico. Il compenso veniva in parte dato al malato lavoratore (paghetta) ed in parte, sempre maggiore, utilizzata per il bene comune dell’istituto. Nel 1841 i lavori sono di “facchinaggio, ortolano, postino, sellaio, canapaio, muratore, fabbro, sartori”. I successivi lavori di ampliamento e ammodernamento sono firmati da Pietro Marchelli, figlio di Domenico, e sono datati 1842. Va però considerato che egli altro non fa che dare dignità architettonica ad idee ben precise del Galloni, che si avvale,

nella formulazione delle sue proposte, dell’aiuto dell’infermiere-architetto Carlo Fornaciari. Alla vigilia di queste lavorazioni Galloni descrive, in lingua francese, lo stato del manicomio: “Da ogni punto della costruzione – scriveva il direttore dell’Ospizio – si godono viste pittoresche: a sud ci sono bellissime colline; all’ovest la città di Reggio, ed est il piccolo fiume Rodano sul quale si innalza la villa del celebre Ariosto, delizioso ricordo per tutti i buoni italiani. La costruzione: i camminatoi, e gli orti sono circondati da un muro, tranne quelli dei convalescenti, che lo sono da siepi. La costruzione è divisa in due rami (uno per gli uomini, l’altro per le donne) ognuno a due piani: si è tentato di diminuire le difficoltà del servizio, che è inscindibile in una simile costruzione da scale comode e frequenti, e non pericolose ai malati. Ogni ramo è diviso in tanti settori, tenenti conto delle differenti classi di malati, ed a ciò che il Direttore

interno della sala Galloni, utilizzata per feste e balli interni all’istituto, in una fotografia del 1900

-> l’importanza dell’ergoterapia nella cura dei pazienti. Qui vediamo uno dei lavori maggiormente svolti: quello dell’”ortolano”

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ritiene conveniente al suo metodo di cura. Gli appartamenti di ogni ordine consistono di una fila di camere tanto per gli uomini, che per le donne, e di un corridoio che conduce alle nominate camere. Questi corridoi sono a giorno alle loro estremità, montanti griglie di ferro artisticamente lavorato. Hanno tante crociere da una parte che porte dall’altra. Ogni camera è provvista di finestre di cui una è sempre di fronte alla porta, di modo che aprendo quest’ultima, l’aria può rinnovarsi continuamente. Le corsie dei settori di ogni ramo sono divise da piccole rastrelline di legno, escluse quelle dei furiosi, e dei chiassosi che lo sono da muri. Le camere dei furiosi hanno anche una finestra dalla parte del corridoio. Le finestre di queste corsie, e delle camere, sono di grandezza normale e di altezza comune: esse sono fornite di intelaiature, di vetri e di inferriate. L’intelaiatura è fatta in modo che i malati non possano mai aprirla, se il

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medico ritiene opportuno che i malati non vedano per niente il giorno. Quelle dei furiosi, o di quelli che hanno la tendenza al suicidio, non hanno vetri, al massimo hanno una tela o della carta, che li difendono dall’aria fredda: gli altri malati hanno le finestre con i vetri. Le inferriate sono così sottili, ed artisticamente lavorate, che non risvegliano l’idea di una reclusione forzata; e per questo che le stesse sono colorate di chiaro. Le porte delle camere sono semplici, lucide, grandi, ben lavorate e dipinte; hanno una serratura, che si chiude a chiave, solo quando si rende necessario: con mezzo giro si chiude, con un mezzo giro si apre, in modo che non si fa mai rumore, che spaventa i malati. In numerose camere degli alienati, che sono in osservazione, o di quelli che si sospettano traditori, hanno nella porta un marchingegno d’ottone, che dà modo al medico, ed agli infermieri di vedere i malati, ed osservarli,


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<elaborati del Marchelli (planimetria e lato destro) per i lavori voluti dal Galloni

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senza che se ne accorgano: all’esterno il marchingegno assomiglia ad un piccolo pomello, che si impugna per chiudere la porta. Le corsie e le camere sono quasi tutte a volta: le camere variano in grandezza: sono comode, ampie e, se vogliamo, c’è sempre abbastanza luce ed aria: in certe c’è un letto, in altre due, ecc. Ce ne sono che ne contano fino a dieci; sono tutte pavimentate con mattoni: quelle dei furiosi e degli indecenti lo saranno in lastre: queste ultime sono in pendenza o declinanti, in modo che l’urina, e le sporcizie colino facilmente nel buco dei tubi; l’acqua dei serbatoi che sono in cima alla costruzione bagna coi tubi questi appartamenti. Non esistono latrine nelle camere: i pazzi si recano a dei gabinetti comuni che sono al momento inodori, vale a dire ben bagnati d’acqua, e divisi dalle corsie da correnti d’aria, unico metodo che l’esperienza ha trovato il più sicuro per garantire gli appartamenti d’Ospedale dai vapori incomodi. Le camere che ho appena descritto sono abitate solo di notte: ce ne sono altre, che si riempiono durante la giornata. Sono le camere di società, o di conversazione, le camere per i lavori che non fanno rumore, quelle per i lavori rumorosi, le camere dei sudici, degli inquieti, ecc. ecc. C’è un grandissimo refettorio: ce ne sono anche di piccoli: c’è un eccellente stabilimento di bagni tiepidi e freddi, le docce diversificate in tanti modi, una chiesa ecc. ecc. Il colore dei muri dell’esterno è giallastro, ed all’interno verdastro, in modo che la luce non è riflessa con troppa forza. I mobili sono semplici e di piccola quantità. Nelle camere dei tranquilli ci sono solo sedie, qualche tavolo ed un letto completo. I letti sono tutti composti da un pagliericcio, da un materasso, da lenzuola, e coperte secondo la stagione, su delle assi comuni e colorate. Nelle camere dei sudici, e dei furiosi c’è un letto a cassa da quattro piedi di dimensioni convenevoli con il fondo piegato verso il buco, sotto il quale c’è un cassetto deve colano le sporcizie. Sul fondo, c’è una sbarra di legno

che sostiene il pagliericcio o la paglia: tutte le parti interne sono foderate di piombo. Nelle camere dei debilitati o degli ammalati c’è una latrina portatile: non se ne usa che per quattro o cinque individui su cento. Nelle camere di società c’è una stufa in pietra, che riscalda anche per mezzo di tubi gli appartamenti vicini. Durante l’inverno le gallerie chiuse e riscaldate servono alla passeggiata: con il tempo piovoso, ma che non fa freddo o con la temperatura eccessivamente calda, ci sono delle arcate a doppia fila. Ci sono anche parecchi cortili alcuno non ancora terminati, per dividere gli alienati come negli appartamenti. Questi cortili hanno un tappeto verde attraversato da vialetti ben folti di siepi e alberi, ovviamente verso i muri volti a mezzogiorno. In tutti c’è una fontana artificiale. Al di là dei cortili vi sono grandi orti: uno dalla parte esterna per i convalescenti, altri due all’interno per i alati tutti solcati da vialetti pieni di alberi e di vasi di fiori disposti in modo piacevole: si ha avuto cura di piantarvi alberi sempre verdi per dare sollievo in inverno la vista afflitta dalla campagna nuda. In alcuni angoli vi sono degli attrezzi ginnici, per allenare le forze del corpo e per divertirsi allo stesso tempo”. I lavori prevedono invece la sopraelevazione di un piano e la trasformazione della seconda testa sulla via Emilia, già prevista nel progetto del Paglia, secondo il gusto neoclassico del tempo con scopo puramente celebrativo. Voleva configurarsi come uno specchio esterno della mutata qualità interna nella gestione dei malati. Nel 1849 Galloni decide di sfruttare anche le pertinenze della colonia agricola per fini ergoterapeutici. Si pensava infatti che il miglior lavoro possibile per i pazienti fosse quello all’aria aperta, contrariamente a precedenti convinzioni che vedevano nel lavoro ripetitivo e meccanico la migliore soluzione. Il direttore trova comunque delle difficoltà nell’avviamento di queste pratiche. Il numero dei pazienti sale rapidamente

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fino a toccare le 219 unità nell’agosto del 1850 (questo era dovuto all’estensione del S. Lazzaro a manicomio per tutti gli Stati Estensi). Il sovrappopolamento porta però problemi soprattutto nella gestione dei pazienti con tendenze suicide od omicide. Il Galloni prende in mano la situazione e si attiva per la costruzione di nuove celle singole ed idonee per questo tipo di soggetti, in modo da poter garantire loro un minimo di libertà senza precludere la sicurezza propria e degli altri malati. L’alternativa sarebbe stata quella di ritornare all’utilizzo di barbari mezzi di reclusione forzata, sicuramente economici ma contrari alle linee tracciate dal Galloni negli ultimi trent’anni. I lavori, per i quali sarebbero stati impiegati anche malati, tardano ad avviarsi tanto che Galloni, scomparso nel 1855, non vede mai il cantiere. Dietro alle difficoltà burocratiche ed economiche si celava un momento di riflusso, di stanchezza e di ripensamenti, comuni a tutta la sua generazione, circa la possibilità di concedere libertà ai malati. Questo del mandato Galloni va considerato comunque come un periodo di grande innovazione, poiché il S. Lazzaro tenta di accodarsi alla rivoluzione avvenuta nel campo della psichiatria (Tuke in Inghilterra, Pinel in Francia, Reil in Germania, Daquin in Savoia), introducendo la ricerca e la “clinica psichiatrica” all’interno dell’ospedale. Il complesso, sostenutosi grazie al nuovo sistema delle dozzine, si trasforma ed adatta a queste nuove esigenze anche se, lasciando da parte giuste ed oneste celebrazioni al suo operato, va comunque ricordato che restiamo all’interno di una gigantesca operazione di istituzionalizzazione. La nuova strada è sì quella di una maggiore “umanizzazione” ma, attraverso lavoro, regole e punizioni quello che avviene è un addestramento all’ordine e all’obbedienza, mirando alla “normalizzazione” degli individui. Con le parole dello stesso Galloni, si tratta di assoggettare “tutti gli alienati ad un governo e ad una disciplina domestica generale”.

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2 <progetto per il prospetto di rappresentanza sulla via Emilia, duale a quello della chiesa, firmato Pietro Marchelli (1844). Approvato da Francesco IV e realizzato, voleva essere specchio esterno delle mutate condizioni dei malati

alcuni dei mezzi di contenzione reintrodotti dal Biagi nell’ennesimo periodo buio del S. Lazzaro: (da sinistra a destra)casco del silenzio, guanti senza dita e forca per immobilizzare gli agitati al muro

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2.2.1 la direzione Biagi (1855_1870) Dopo la morte di Galloni del 1855, Luigi Biagi diviene direttore e mantiene la carica fino al 1870, portando con sé un momento di indubbia decadenza. Le condizioni di vita peggiorano, anche a causa dell’aumento consistente del costo della vita, portando all’innalzamento della dozzina richiesta. Il S. Lazzaro continua ad imporsi come “Stabilimento generale per l’Emilia” e, nel 1861, assume il nome di “Frenocomio di S. Lazzaro nell’Emilia”. A causa del rapido incremento del numero dei pazienti saranno necessarie nuove costruzioni e Pietro Marchelli riceve, nel 1865, la nomina ad architetto d’ufficio dell’istituto. Quello che rimane della gestione Biagi, da un punto di vista architettonico, è la proposta per l’ingrandimento dell’istituto. Essa prevedeva la creazione di un corpo centrale in cui collocare tutti i servizi (uffici, economato, portineria, ecc.) che facesse da unità di controllo sulle restanti ali periferiche in cui alloggiavano i pazienti. Ai fianchi del comparto centrale dovevano essere creati due blocchi, per i due sessi, serviti entrambi da un cortile. Solo il corpo ad est sarebbe stato costruito ex novo, mentre il secondo sarebbe stato ricavato dall’ammodernamento

e ristrutturazione degli spazi esistenti. Doveva essere “modesto” ma anche “allegro, senz’ombra di severità”. I malati, distinti fra curabili e non curabili, dovevano essere suddivisi in quartieri (tranquilli, epilettici, agitati, succidi, sorveglianza continua e delinquenti), diversificati a seconda delle esigenze. Questo progetto, con data sicuramente posteriore al 1866, rimane tale. Durante questo periodo di direzione il S. Lazzaro acquisirà villa Trivelli (1860) che dapprima verrà destinata ad abitazione dell’economo. Lo stabile verrà appositamente ristrutturato una prima volta nel 1863-1864 con lavori guidati da Pietro Marchelli. Vengono eretti una serie di muri al posto delle cancellate per garantire un maggiore isolamento dalla strada e si procede, in quest’occasione, anche all’erezione dei bagni come collegamento fra la villa vera e propria (poi padiglione Esquirol) e villa Marchi (poi padiglione Conolly). Nel 1868, a causa del rapido aumento dei degenti, lo stabile verrà destinato ad infermeria ed accoglienza dei dementi. Nel 1869 l’architetto Pietro Marchelli, senz’altro più influente di Biagi nei confronti della Presidenza, prende l’iniziativa contro la sterilità produttiva del direttore, per gettare

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le basi della ristrutturazione del S. Lazzaro. Egli prevede diversi ipotesi per il collegamento dell’impianto storico (attuale padiglione Morel) con villa Trivelli. La prolificità del suo lavoro genera 4 progetti. Nel primo, datato Aprile 1869, Villa Trivelli e gli spazi annessi vengono specchiati verso nord, generando un complesso praticamente autonomo, grazie alla presenza di una seconda direzione, di un refettorio e di locali di servizio. I vari edifici vengono collegati con gallerie coperte. Il tema dei collegamenti di elevata qualità sarà molto caro all’architetto. La seconda versione di questo progetto prevede sempre una specchiatura ma una conformazione ad “U” rivolta parallelamente alla via Emilia, risultando, in questo modo, maggiormente aperta al collegamento con il complesso storico, realizzato mediante percorsi tortuosi ed ampi spazi verdi. Nel terzo progetto (3 Giugno 1869) l’area di villa Trivelli non viene particolarmente sviluppata mentre il comparto storico subisce un raddoppio della superficie, grazie ad una specchiatura verso nord. L’addizione viene collegata alla preesistenza mediante un lungo edificio mentre la zona ovest vede l’inserirsi puntuale di edifici minori, tanto cari a Marchelli, come sale da biliardo, musica o divertimento. Giardini ed alberature sono segnati da percorsi minori minuziosamente disegnati. Un ultimo progetto restringe il campo di azione allo stabilimento principale, con un ampliamento verso est ottenuto grazie alla predisposizione di nuovi volumi serviti da cortili. Le proposte risultano dunque molto diversificate fra di loro ma mantengono dei punti comuni come la costituzione di una camminata di piacere puntellata da chalet o piccole case in stile svizzero nelle quali ricchi signori potessero soggiornare e portare liquidità alle casse dell’istituto. Il terreno incastrato fra Villa Trivelli ed il padiglione Morel sarebbe stato coltivato ed accudito dai malati che, in questo modo, avrebbero trovato svago e soddisfazione lavorativa. L’attuale cascina

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2 <alcuni dei progetti del prolifico Marchelli, sotto la direzione Biagi. Sviluppi dimensionali, sistema disseminato e collegamento con villa Trivelli. Rimarranno sulla carta ma diverranno base per interessanti ragionamenti futuri

- analisi storica

doveva inoltre divenire una colonia agricola ed essere utilizzata dai malati ritenuti idonei. Il complesso S. Lazzaro assume sempre più una visione urbana parallela ed alternativa alla città vera e propria, cercando quasi di emulare una condizione di vita “normale”. Anche questi progetti, realizzati autonomamente rispetto al medico, rimangono però irrealizzati ed il mandato di Biagi rimane ai posteri come poco vitale e quasi senza ideali, caratterizzato da immobilismo e dal ritorno a metodi repressivi. Anche l’ergoterapia, brillantemente avviata sotto la direzione Galloni, subisce una drastica frenata. Lo rileva lo Zani mentre, nel 1869, ispeziona il S. Lazzaro. A seguito di questo controllo verranno presi dei provvedimenti: separazione delle donne povere da quelle ricche, una scuola per degenti analfabeti, l’allestimento di spazi per la macellazione bovina e di un forno per la panificazione ma Biagi conclude il suo mandato con le dimissioni del 1870, aprendo ad un ulteriore rinnovamento dell’istituto.

2.3 sviluppo del S. Lazzaro: il sistema disseminato 2.3.1 la direzione Zani (1870_1873) Lo Zani succede a Biagi nel 1870 ed invertirà questo trend negativo. Il dottor Livi infatti, durante un ispezione, rileva che “i malati son tutti liberi e sciolti; il lavoro, questo conservatore per eccellenza della salute, …, occupa piacevolmente una gran parte della famiglia, uomini e donne”. Anche il Grasselli riporta giudizi positivi: “Una serie di giudiziose proposte sottopose sino dal novembre 1870 all’approvazione degli Amministratori: ampliamento dei fabbricati, costruzione di padiglioni, di passaggi coperti, di opifici, acquisto di mobili e specialmente di letti di nuova foggia, miglioramenti nel cibo e nel vestiario dei ricoverati, aumento nel personale degli inservienti e del loro stipendio e acconcie gratificazioni per i migliori...”. Era stato dunque aumentato il numero del personale ed

-> con lo Zani, Villa Trivelli, acquistata sotto la direzione Biagi, diviene una sezione di degenza esclusivamente maschile. Ribattezzata padiglione Esquirol

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eliminati i metodi di coercizione (reintrodotti dal Biagi). I malati sono stati inoltre divisi a seconda del particolare disturbo ed utilizzati, se possibile, in utili lavori configurando il S. Lazzaro come entità autarchica autosufficiente; stato che lo caratterizzerà nei prossimi decenni. In campo architettonico Zani seguirà poi la direzione indicata dal Marchelli proponendo un sistema disseminato di edifici, sparsi nel verde e collegati da viali alberati, pensando anche al coinvolgimento del fronte opposto della via Emilia per le abitazioni dei dipendenti. E’ evidente in questo caso il defilamento di logiche di contenzione ed economiche (c’è un palese dispendio di forze e denaro per la gestione e sorveglianza di un sistema diffuso) in favore del benessere dei pazienti, dell’innalzamento della loro qualità di vita. Per sua iniziativa villa Trivelli, rinominata casino Esquirol, diviene, nel 1871, una sezione esclusivamente maschile. Acquisisce anche villa Cugini, nel confine est dell’area manicomiale, destinata, dal 1868 al 1878 ad abitazione per l’economo. Diverrà poi padiglione di degenza con il nome di villa Chiarugi. Questa costruzione viene così descritta da Tamburini: “Questa vasta e bella palazzina [...] dista un centinaio di metri dal Manicomio centrale e col lato che dà sulla via Emilia prospetta le fertili campagne e le ridenti colline reggiane. La facciata dà su una vasta corte messa a giardino, mentre il lato nord prospetta un bellissimo parco. La Villa consta di due piani. Si accede al primo per una scalinata esterna a due rampe e si entra in una vasta ed elegante Sala di riunione, fornita di tre grandi finestroni fino a terra, con pavimento a mattonelle colorate; indi si passa in altra sala che è quella del bigliardo. Di lato altre belle stanze offrono un comodo e decente alloggio a Signori tranquilli e convalescenti. Il secondo piano è destinato ai lavoratori più tranquilli della classe povera. Per una scala interna si scende al piano terreno ove è una saletta da bagno particolare e il

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salotto da pranzo, che dà sul parco”. Per il padiglione centrale si adopera nella sistemazione del gran cortile e per il riassetto funzionale del comparto (fra il 1868 e il 1871). Egli non riuscirà però a completare il suo progetto diffuso che avrebbe elevato il complesso a vera e propria cittadina parallela. Questo a causa della brevità temporale del suo mandato (1871-1873) e del tempo che ha dovuto dedicare a difendersi dalle accuse (probabilmente infondate) pervenutegli circa i metodi “curativi” utilizzati. Nel 1873 un degente, addetto alla colonia agricola, uccide 3 dipendenti con un potatore con il risultato di inasprire le polemiche. <continuano le pratiche ergoterapeutiche. Nell’immagine un torchio per paste alimentari ed una macchina per la cottura della polenta

-> il villino Pompeiano in un’immagine di progetto ed in una foto di inizio ‘900. Iniziava la politica delle piccole pensioni per il soggiorno di singoli ricchi pazienti


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2.3.2 la direzione Livi (1873_1877) A Zani subentra, nel 1873, l’amico Carlo Livi che difende il predecessore dalle accuse ma ne critica il progetto di espansione disseminato, ritenendo che si estendesse su troppa superficie, diminuendo così la qualità del servizio offerto. Anche Livi infatti, durante il breve mandato dello Zani, aveva ispezionato il sito; questo il suo resoconto alla Presidenza: “Questa vasta e bella palazzina [...] dista un centinaio di metri dal Manicomio centrale e col lato che dà sulla via Emilia prospetta le fertili campagne e le ridenti colline reggiane. La facciata dà su una vasta corte messa a giardino, mentre il

lato nord prospetta un bellissimo parco. La Villa consta di due piani. Si accede al primo per una scalinata esterna a due rampe e si entra in una vasta ed elegante Sala di riunione, fornita di tre grandi finestroni fino a terra, con pavimento a mattonelle colorate; indi si passa in altra sala che è quella del bigliardo. Di lato altre belle stanze offrono un comodo e decente alloggio a Signori tranquilli e convalescenti. Il secondo piano è destinato ai lavoratori più tranquilli della classe povera. Per una scala interna si scende al piano terreno ove è una saletta da bagno particolare e il salotto da pranzo, che dà sul parco”. Egli, durante il suo mandato,

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mantiene quindi villa Trivelli ma diminuisce l’estensione del complesso, potenziando la colonia agricola, sempre nell’ottica dell’ergoterapia come principale via di guarigione. I 9/10 dei malati poveri sono infatti impiegati in lavorazioni all’interno dell’istituto mentre i paganti ed i ricchi generalmente non lavoravano. Questo sta ad indicare che dietro ai solidi principi positivi del lavoro come cura si celavano anche intenti di disciplina e sfruttamento economico dei pazienti (fenomeno che sarà in evidenza nel secolo successivo). Il sistema funzionale proposto da Livi era quello di una serie di villini, concepiti per un solo paziente ricco, ricalcando dunque le linee guida dei progetti del Marchelli. Ne viene costruito solamente uno, il villino pompeiano, nel 1874. Si assiste anche all’erezione del piccolo edificio “delle stuoie” sempre utilizzato per lavori terapeutici dei pazienti. L’esecuzione di questo piccolo immobile, sito all’estremità ovest

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del comparto, è da attribuire al periodo che va dal 1874 (data del preventivo) al 1880 (datazione di una pianta pubblicata dal Tamburini nel quale appare). Con il Livi il S. Lazzaro diviene sede della clinica psichiatrica dell’università di Modena, rafforzando in questo modo il legame, già precedentemente delineato dal Galloni fra ospedale e ricerca. La cattedra di Freniatria viene istituita al S. Lazzaro nel 1874, facendo divenire quest’istituto un centro d’insegnamento e di perfezionamento psichiatrico all’avanguardia. La biblioteca del frenocomio cominciava intanto ad espandersi: nel 1881 conteneva più di 2000 volumi, fra libri tecnici e quelli di semplice svago per i pazienti. Va anche sottolineata la fondazione nel 1875, per iniziativa dei colleghi Morselli e Tamburini, della «Rivista Sperimentale di Freniatria», organo di diffusione dei saperi psichiatrici all’avanguardia che ha fatto di Reggio Emilia una capofila su questi temi.

lo stato del complesso nei primi anni del mandato Tamburini (mancano ancora molti padiglioni da lui edificati). Pianta catastale e vista a volo d’uccello databili 1820


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2.3.3 la direzione Tamburini (1877_1907) Nel 1877 la direzione passa ad Augusto Tamburini che la mantiene per 30 anni. Assistiamo ad un grande sviluppo dimensionale del complesso, guidato da una visione globale ed unitaria, parallela agli sviluppi della medicina psichiatrica. Viene fatta finalmente una distinzione nelle varie malattie e gravità, con il conseguente innalzamento di padiglioni moderni ed adatti ad accudire i malati. Gli stili sono eterogenei e le costruzione verranno continuamente rimaneggiate non costituendo quasi mai un modello ripetibile per quelle future. Abbiamo inoltre numerose viste che ci consentono di datare i padiglioni ed avere finalmente una visione d’insieme dell’istituto e del suo rapporto (non rapporto) con la città. Nei primi anni del suo mandato va segnalata l’erezione del padiglione Pinel (in seguito denominato Donaggio). Non si hanno date certe circa la data precisa ma

sappiamo che non è presente nei progetti già citati del Marchelli (1869) mentre compare nella vista aerea pubblicata nel Tamburini attorno al 1880. Inoltre degli atti del 1880 parlano di un appalto per delle costruzioni da aggiungere al padiglione degli agitati, che deve essere dunque stato già terminato (i nuovi lavori porteranno ad una capienza di 80 posti). Guardando la vista appena menzionata troviamo, nell’area occidentale, anche il casino Dasquin, già casa colonica e, dal 1871, succursale della colonia agricola. Mentre nella parte est si segnalano Villa Chiarugi ed il casino Guislain. Tamburini provvede anche al completamento del villino Stuoie e di quello pompeiano, destinato alla classe agiata. Nel 1878 i Bagni, edificio collegante il casino Esquirol e Conolly (precedente villa Marchi), giungono alla forma ancor oggi mantenuta e si realizza così un complesso pienamente funzionante nella zona occidentale dell’area. Esso, come detto, viene

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creativa dapprima utilizzato per questioni amministrative, per poi divenire luogo di degenza dei malati maschi tranquilli. Durante il III congresso freniatrico italiano, la commissione che visita l’ospedale utilizza queste parole per descrivere il nuovo innesto: “tra i due casini Esquirol e Conolly sorse in questi ultimi due anni la Sezione dei Bagni, che si palesa elegantissima per un portico prospiciente il giardino dei signori, e a cui si accede agevolmente anche dal Casino Esquirol. Le proporzioni di questo comparto sono modeste ed eleganti nel tempo stesso, ma senza lusso, stuccate a lucido le sale, di cui una per vasche, un’altra per doccie diverse, senza arredi esuberanti; è il puro necessario; due doccie verticali; un semicupio con varie doccie; una doccia frontale molto semplice e molto pratica; tutto opera di artisti reggiani, i quali con ottimo consiglio, vi schivarono sempre quei soverchi congegni, che ne rendono la spesa gravissima in altri Manicomi. Né vi mancano d’altronde camere da bagno particolari pei Signori, e spogliatoi per essi come pei comuni”. Come già riportato, nel 1880 è avviata la ristrutturazione del casino Pinel, secondo disegni dell’ing. Angelo Spallanzani che, successivamente, diverrà anche Preside dell’istituto. Nel biennio 1881-82 è realizzata la sezione agitati; quella per i furiosi nel 1887-88. Sappiamo che nel 1882 questo padiglione è occupato da 50 malati (agitati e sudici), confermandoci la tendenza verso la frammentazione della malattia in sottocategorie alle quali far corrispondere ambienti idonei. Viene poi proseguita la campagna avviata dal Marchelli nel 1869 con la costruzione del villino svizzero, per soddisfare le continue richieste di entrata da parte di malati di classe agiata. Va infatti considerato che il S. Lazzaro sta assumendo sempre più rilievo internazionale sia per l’avanzamento nelle cure sia per lo stato dei suoi padiglioni, costantemente aggiornati e moltiplicati. Si cercava dunque di donare una connotazione più familiare per gli edifici

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<il villino stuoie (in alto), utilizzato per il lavoro dei pazienti, ed il complesso dei bagni (in basso), che va ad unire Esquirol e Connoolly. Entrambi completati da Tamburini

-> altri due edifici, essenziali per le dinamiche del S. Lazzaro, voluti e realizzati da Tamburini: il casino Pinel, poi Donaggio (in alto), e il casino Galloni, poi padiglione Lombroso (in basso)


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destinati ai ricchi pazienti europei. Questo è appunto il caso del villino svizzero che non costituisce dunque un esperimento stilistico anomalo fine a se stesso. Esso era concepito per servire in modo indifferente uno o due pazienti, correlati di servitù, grazie allo sdoppiamento di tutti i locali ed impianti ed alla creazione di due ingressi autonomi. Era possibile dunque avere due appartamenti gemelli (7m x 7m di dimensione) che garantivano ingenti introiti alle casse dell’ospedale. Nel 1891 si decide poi di innalzare un nuovo padiglione che si rivelerà fondamentale nelle dinamiche dell’istituto: il casino Galloni (poi Lombroso, attuale sede del museo della psichiatria). I lavori vengono affidati al figlio di Angelo Spallanzani, Domenico. Da notare che non è la prima volta che avviene una successione diretta padre-figlio per il ruolo di architetto ufficiale del S. Lazzaro. Il volume semplice parallelepipedo è caratterizzato da un portico nell’ingresso a sud ed è disegnato e realizzato (velocemente) per contenere 50 pazienti “cronici tranquilli” su due livelli (Guicciardi, successore di Tamburini, lo destinerà poi all’accoglienza di pazienti prosciolti e violenti, portando alla costruzione di due nuove ali nel 1907). Dopo il 1897, su invito della commissione amministrativa, si spostano le officine in un luogo indipendente dalla colonia agricola, a est del comparto, non lontano dalla via Emilia. Anch’esso sarà successivamente trasformato negli anni successivi per fa fronte alla mancanza di letti. Va fatto un appunto a riguardo: è vero che il mandato Tamburini è caratterizzato da una visione ampia sia per il trattamento dei malati sia per le scelte di trasformazione materiale del comparto ma troppo spesso ha dovuto fare i conti con le contingenze (anche economiche) del momento, perdendo dunque, almeno in parte, l’organicità della primitiva visione. L’800 si chiude con la costruzione di Villa Rossi (il nome originale era padiglione Charcot), destinata a infermeria uomini. Nel 1897 partono i lavori, guidati

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ancora dall’ingegner Spallanzani, dell’edificio costituito da due blocchi rettangolari a due piani, paralleli e collegati da un volume centrale, inizialmente pensato ad un solo piano ma poi portato alla quota dei due blocchi. Il mandato del Tamburini si protrae nel nuovo secolo per 7 anni, portando alla costruzione di quattro nuovi padiglioni: Il Guicciardi e il Verga (poi Biffi e, in seguito, Bertolani), per cronici tranquilli a Nord dello stabilimento centrale; il Marchi (poi Golgi) a nord del Charcot e ad esso allineato; e il Vassalle, vicino alla via Emilia. Gli ultimi 2 sono destinati ai malati di tubercolosi (femmine al Marchi e maschi al Vassalle), anch’essi entrati a pieno titolo nel “cerchio del contagio”, esiliati dalla città e visti con diffidenza e paura da dipendenti e restanti pazienti. In questo lungo trentennio innovativo da un punto di vista architettonico

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lo stile di vita dei malati continua ad essere dominato dall’ergoterapeutia e lo stesso Tamburini sottolinea che “nessuno costringe forzatamente i malati a lavorare”, anche se ora la maggior parte dei ricavi sono sfruttati dall’opera pia e non dai lavoratori. I degenti lavoratori continuavano ad avere, in un sistema totalizzante come il manicomio, una posizione di maggiore forza rispetto agli altri. L’attività dei malati era poi sostenuta da mostre ed esposizioni; utilizzando questi eventi come specchio dell’elevatezza ottenuta a livelli psichiatrici e come rivalutazione economica del lavoro dei degenti. Va segnalata la presentazione, nel 1889, dei lavori ritenuti migliori all’Esposizione internazionale di Parigi, conquistando una medaglia d’oro. Vengono avviate anche attività senza scopo di lucro come corsi di canto o di pittura ma, rispetto al mandato del Livi, la percentuale di


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veduta a volo d’uccello, datata 1920, che, se raffrontata alla precedente, mostra come il complesso si sia fortemente ampliato sotto questa direzione

-> Tamburini ha anche il merito di introdurre la neonata microfotografia, per fini medici e di catalogazione. Nell’immagine l’apparecchiatura utilizzata dagli addetti

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malati interessati cala drasticamente e molti vengono utilizzati in lavori umili e mal accetti come le pulizie (ben 32). Questo deriva dal rapido aumento del numero dei degenti (dagli 827 nel 1891 ai 992 nel 1898) e dall’aumento della tecnologia dei macchinari che ha reso più difficoltoso l’accesso dei malati a certi tipi di lavorazioni. Tamburini introduce la neonata fotografia, nel 1878, per ritrarre i malati con lo scopo di “fissare a permanenza le fisionomie dei…malati nelle varie fasi delle loro malattie, allo scopo di costruire un elemento di studio per la semeiotica delle malattie mentali”. Le foto superstiti, eseguite dal responsabile della fotografia Emilio Poli, sono 192 di diversi formati. Alla morte del Poli l’incarico viene affidato ad un degente: Giovanni Morini. Numerose sono le foto utilizzate per gli album del frenocomio da presentare alla varie esposizioni internazionali che costituiscono oggi un forte strumento di testimonianza delle condizioni dei malati e dello stato degli edifici. Sicuramente durante il mandato Tamburini il S. Lazzaro è divenuto un polo di attrazione per pazienti (divenuti oltre un migliaio, provenienti da tutti i ceti sociali) e medici che al S. Lazzaro trovavano competenze di alto livello e molto “materiale umano” su cui fare pratica. Con Tamburini è avvenuta infatti un ulteriore maturazione scientifica dell’istituto che ha portato all’individuazione di nuove metodologie di internamento e di assistenza (viene ad esempio fondata la Società di assistenza per i malati dismessi o convalescenti). Egli ha saputo sicuramente allinearsi alle più evolute teorie appena nate in Europa sulla malattia mentale. Si parla ad esempio delle teorie degenerative di Magnan, dei deliri sistematizzati di Sèglas, dell’ebefrenia, ecc. Egli si rifà soprattutto alla grande clinica tedesca, introducendo una “interpretazione fisiologica del quadro clinico e dell’interrelazione dei sintomi” ed quest’ottica può essere valutata l’introduzione della fotografia. La novità sicuramente più rilevante

da un punto di vista umano è però costituita dalle valutazioni sul rapporto fra malattia e socialità: la città “normale” ha paura di quella “alienata”, vista come contagiosa ed ereditaria. Si instaura un legame quasi indissolubile fra malattia mentale e pericolosità sociale che porterà alla legge di riforma “sui manicomi e gli alienati” del 1904. Negli ultimi anni di direzione assistiamo dunque ad un progressivo isterilimento della pratica clinico-terapeutica, all’emarginazione della ricerca, e ad un mutamento profondo nell’istituzione manicomio, chiamato ancora una volta a svolgere un ruolo repressivo ed emarginante a “difesa” della società. Questa tendenza negativa per le sorti dei malati verrà accentuata durante la direzione successiva. Nel 1907 Augusto Tamburini lascerà Reggio Emilia per Roma ove occuperà la cattedra di Clinica Psichiatrica.

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2 fotografie dei pazienti, raggruppati a seconda della particolare devianza mentale. Si credeva infatti che questa fosse direttamente associabile ai tratti somatici del malato

-> corridoi interno del neonato padiglione Lombroso, per malati violenti

- analisi storica

2.4 il primo novecento ed un nuovo declino per l’istituto 2.4.1 la direzione Guicciardi (1907_1928) Nel 1907 Augusto Guicciardi succede a Tamburini, suo maestro sia nel S. Lazzaro sia in campo universitario, ed apre il suo ventennio di gestione (fino al 1928). Anch’egli prenderà la via dell’aumento delle superfici per la degenza a causa del costante aumento dei pazienti ricoverati. La prima iniziativa, già lapidariamente citata, è stata la richiesta di uno spazio atto a contenere i pazienti più pericolosi: i prosciolti e i violenti. La decisione positiva viene presa a causa dei continui episodi dolorosi dovuti al sovrappopolamento e alla mescolanza di soggetti violenti e non (Galloni era stato il primo a denunciare questo tipo di situazioni) e il padiglione prescelto è il preesistente Galloni al quale, su disegno di Domenico Spallanzani, si aggiungono due ali mono piano con le celle di contenzione. L’apertura avviene il 31 Ottobre 1910, dopo lavori che avevano superato ampiamente il budget preventivato. Viene poi sopraelevato il corpo delle officine nel 1909 con l’obiettivo di creare nuovi spazi di degenza, andando dunque a contraddire le esigenze dell’amministrazione precedente di dislocazione delle officine rispetto agli altri edifici. Nello stesso anno i Bagni fra Esquirol e Connolly vengono rimodernati per dar vita a pratiche idroterapeutiche maggiormente all’avanguardia. Nel 1912 vengono ristrutturate Villa Valsava e Villa Chiarugi per garantire il soggiorno delle pensionate e, nello stesso anno, sempre per la stessa esigenza di posti letto, si cambia drasticamente la destinazione d’uso del villino Stuoie. Questa pratica ergoterapeutica viene spostata nel padiglione centrale mentre per il futuro del piccolo edificio si aprono due strade: o ospitare limitati pazienti facoltosi pensionati (sulla scia del villino svizzero) o divenire dormitorio per una trentina di pazienti

comuni. Il carattere urgente della situazioni ha fatto optare per la seconda ipotesi (probabilmente è stata destinata a 35 ragazzi frenestenici). Anche questo edificio segue gli stilemi compositivi del villino svizzero e si configura come una sorta di chalet alpino. Oltre a queste trasformazioni/ ampliamenti, prima dello scoppio della prima guerra mondiale, assistiamo a 3 nuove costruzioni: il villino inglese, il padiglione tamburini e il padiglione Livi. Il primo, il cui progetto viene consegnato da Spallanzani nel 1908, vuole sopperire alla mancanza di posti letto per pensionati facoltosi (dato che il villino Stuoie aveva intrapreso un’altra strada) e si configura come un’abile operazione economica. Abbiamo numerosi disegni, molti dei quali acquerellati, con l’intento non troppo celato di rimpinguare le casse dell’istituto, attraendo 4 pazienti

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paganti. Domenico Spallanzani descrive così il suo progetto: “Il piccolo villino che si progetta è disposto in modo da servire all’abitazione di due o anche di un solo pensionante. E’ diviso in piano terreno in cui ampio vestibolo, due stanze, stanzetta per un infermiere, bagno e latrina; solaio in cui tre stanze e sottotetto. Un solo sotterraneo sotto al bagno e stanzetta per infermiere serve per la cucinetta il calorifero e il deposito di carbone. Una scaletta in legno a chiocciola mette in comunicazione i diversi piani. Il piano terreno è rialzato di m. 0,90 sul piano di campagna e vi si accede dall’esterno a mezzo di due scalinate. L’abitazione dei pensionanti è il piano terreno, il solaio è per sgombero e per abitazione di un infermiere. La pianta del villino è a T orientata come nel disegno ossia con l’asta del T disposta da levante a ponente e la testa del T disposta verso ponente. [...] Le due stanze principali verso mezzodì verranno adibite a stanze da letto. […] La decorazione interna ed esterna del villino è in stile moderno, uno stile

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floreale deciso all’interno, sobrio all’esterno”. I lavori, comprendenti oscuramenti verdi a terra, sono ultimati definitivamente nel 1912, andandosi a collocare sullo stesso filo del villino pompeiano. Probabilmente dopo la prima guerra mondiale non è stato più utilizzato andando incontro ad un inesorabile declino (ne verrà poi deciso l’abbattimento). Anche se mancano dati certi, la data di completamento del padiglione Tamburini non dovrebbe essere oltre il 1912. Anch’esso sarà poi sottoposto ad interventi di riparazione post bellici (nel 1922). Le fonti circa il padiglione Livi sono ancora più scarse. Dati del 1913 ci riferiscono di un edificio pensato per alloggiarci i semitranquilli, garantendo un totale di 150 posti, oltre a 15 infermieri. Il periodo post bellico, fino al 1929, rimane invece povero di interventi anche a causa della stabilità del numero dei pazienti. Deve essere però sottolineata la creazione della colonia-scuola Antonio Marro per bambini deficienti emendabili. Tutto parte dalla trasformazione di Villa Levi, oltre la ferrovia; intervento che si costituisce dunque come primo (e unico) tentativo di oltrepassare questo confine. La scuola, inaugurata nel 1921, viene affidata alla dottoressa Maria Bertolani Del Rio che si adopera per la creazione di un programma educativo per i giovani pazienti. Anche in questo caso l’ergoterapia svolge un ruolo chiave, soprattutto poiché, puntando sulle mansioni più in voga del momento, si pensava alla reintroduzione futura dei ragazzi nella società “normale”. Vengono anche realizzate delle abitazioni popolari per i dipendenti, costituendo nel dopoguerra un piccolo villaggio nell’estremità occidentale del comparto, oltre l’attuale via Doberdò. Il progetto prevede 24 unità a 3 piani (poi saranno realizzate a 2 piani), servite da 4 strade interne e corredate di un giardino. Quest’intervento deve suscitare immediatamente una riflessione poiché ha una grande importanza da un punto di vista culturale. Avere delle agevolazioni sulla casa, in un periodo decisamente

<un’altra operazione di marketing per il S. Lazzaro: il villino Inglese per facolotosi pensionati

-> l’attività nella scuola Marro dei giovani pazienti dell’istituto, in una fotografia storica


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- analisi storica

povero, rendeva il posto al S. Lazzaro molto ambito. Questo porta almeno a due conseguenze: la prima è l’avvicinarsi al manicomio di personale guidato più dall’aspettativa di un buon salario e di un’abitazione che dalla passione per un mestiere così complesso, con un inevitabile calo nella qualità del servizio. La seconda è la dimensione, soprattutto sociale, che sta assumendo il S. Lazzaro. La vita di queste persone, anche dei lavoratori, rimane infatti spesso solo fra queste mura, ponendo dunque il manicomio come istituzione totalizzante non solo i pazienti, ma anche il personale. Le dinamiche di gestione hanno risentito fortemente dell’instaurarsi, nel 1922, di una nuova commissione amministrativa, di stampo fondamentalmente fascista. Il manicomio si andava infatti delineando come comunità chiusa, regolata da leggi precise ed organizzata secondo rigorose partizioni (benestanti, poveri, tranquilli, puliti, agitati, sudici, cronici, ecc.), subordinata ad un ineguale distribuzione dei poteri.

2.4.2 la direzione Bertolani (1929_1950) Alla morte di Guicciardi, sopraggiunta nel 1929, Aldo Bertolani diviene il nuovo direttore e lo rimarrà fino al 1950. Egli rispetta il programma spaziale diffuso, preannunciato dallo Zani, e poi attuato dal Tamburini e dal Guicciardi ma pone attenzione all’aspetto paesaggistico degli edifici (sia dei nuovi che delle trasformazioni). Subito dopo la nomina sono eretti tre nuovi padiglioni: il Morselli (1929-30), il Tanzi (1930-32) e il Buccola (1930-32). Questi sono situati nella fascia più a nord ancora libera e delimitata dalla ferrovia. I primi due edifici nascono come spazi per l’accettazione di uomini (Tanzi) e donne (Morselli); come corpi gemelli progettati dall’ingegner Getulio Artoni, esponente del fascismo locale. Va ricordato che le vicende politiche hanno condizionato molto gli sviluppi del S. Lazzaro. In questo caso le tendenze politiche fasciste configurano anche esternamente gli edifici, abbandonando l’eclettismo precedente, in favore di un ritorno alla tradizione. Semplificazione linguistica, altezza modesta e compattezza dei volumi. Il Buccola era invece destinato alle ammalate tranquille lavoratrici. Qui si ritorna agli aspetti scenografici che avevano caratterizzato l’architettura nei secoli precedenti: paraste, bugnati, decorazioni, ecc. Anche questo edificio viene tripartito e cioè diviso in due ali gemelle collegate da un blocco centrale. Nel 1933 si apre un concorso per la sistemazione del complesso villino PompeianoVillino inglese-Villino Svizzero, in evidente stato di abbandono. I vincitori saranno Giuseppe Bertani e pellegrino Spallanzani che eseguiranno l’attuale padiglione De Sanctis, mentre ad Artoni, secondo classificato, viene commissionato l’attiguo Besta. Il primo edificio riflette le tematiche razionaliste allora in auge (basti pensare all’assoluta mancanza di decorazioni e alla solidità e semplicità dei volumi). Sul fronte occidentale, nel padiglione Pinel, il

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fronte nord viene innalzato di un piano per il contenimento di pazienti pericolosi. La data delle lavorazioni dovrebbe essere il 1928, poiché da alcune note si evince che questa trasformazione era necessaria a rinchiudere i pazienti pericolosi al momento ricoverati in altri padiglioni a causa dell’insufficienza di posti letto. Per evitare di prendere soluzioni temporanee anche in altri padiglioni si è infatti pensato di sistemare con questo intervento il Pinel che già ospitava questo tipo di degenti. Ecco una nota del direttore Bertolani: “‘La sezione Pinel destinata ai malati agitati e pericolosi, dopo l’ultimo ampliamento, consistente nell’aggiunta di un reparto di sorveglianza speciale continua, ha raggiunto la capacità di 116 posti. Per un così cospicuo numero di malati, molti dei quali esigono bagni tiepidi prolungati quale mezzo sedativo o frequenti bagni di pulizia, trattandosi spesso di malati che si insudiciano, la sezione dispone di due sole vasche da bagno, collocate in un ambiente che, a motivo della copertura in vetro e ferro, praticamente si è rivelato caldissimo d’estate , difficile e costoso da riscaldare d’inverno. Appare quindi necessario e urgente migliorare sotto questo punto di vista l’attrezzatura della Sezione, aumentando il numero delle vasche da bagno e rendendo l’ambiente meno sensibile alle variazioni termiche esterne. L’unito progetto che porta a 4 il numero delle vasche e munisce di materiale più coibente al calorico il soffitto della stanza corrisponde bene allo scopo e risolve anche il problema della scarsità dell’acqua per i bagni, frequentemente lamentata...”. Successivamente (sicuramente dopo il 1936 poiché non compaiono nell’ultima veduta aerea) completano il fabbricato due nuove ali, ad 1 e 2 piani, addossate al fronte nord e contenenti ulteriori celle di reclusione. Completano il mandato del Bertolani trasformazioni sull’esistente di poco valore ad eccezione della demolizione della Marro in favore di un campo di manovra per l’aviazione militare. I giovani pazienti sono stati dirottati nel nuovo padiglione

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De Sanctis e sono stati per loro avviati corsi decorativi denominati “ars canusina” (poiché si rifacevano a scritti dell’epoca di Matilde di Canossa) che rappresentano indubbiamente un passo indietro rispetto alle pratiche dell’ergoterapia. Vengono riordinati i laboratori scientifici e viene ampliatala la “Rivista sperimentale di Freniatria”, mantenendo vivo il rapporto con organi universitari (Bertolani tiene corsi a Parma e Modena) ma il S. Lazzaro cessa di essere un istituto all’avanguardia da un punto di vista terapeutico. Si ritorna a metodi coercitivi, a violenze ed esperimenti. A partire dagli anni ’30 si cominciano infatti ad utilizzare tecniche terapeutiche di dubbia efficacia e di carattere, oltre che disumano, sicuramente sperimentale. Fra queste vanno segnalate la piretoterapia e la malarioterapia, la produzione di convulsioni per mezzo di cardiazol, la provocazione di shock insulinici e la pratica dell’elettroshock inventato dal prof. Cerletti.


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- analisi storica

2.5 il secondo dopoguerra e la chiusura del S. Lazzaro

<strumentazione per bagno elettrico quadricellulare. Va introdotta nella scuola di pensiero di questi anni (‘20-’40) che vedeva nell’elettroterapia la soluzione definitiva alla malattia

-> un altro dei celebr regressi della scienza medica: l’elettroshock, inventato dal prof. Cervellati

L’area manicomiale mantiene il suo assetto pressoché inalterato anche nel corso della seconda metà del 900 con la direzione di Virginio Porta (1953-56) e Antonio Mazza (1956-64). Comincia in questi anni ad essere praticata al S. lazzaro la psicochirurgia, dal carattere eminentemente brutale e dagli scarsi risultati. Successivamente viene avviata anche la sperimentazione degli psicofarmaci, basati sugli studi di Delay, Deniker e Laborit. Nel resto del mondo stava prendendo vita una profonda rivoluzione in campo psichiatrico che scardinava le precedenti convinzioni coercitive e di sperimentazione, in favore di tendenze liberalizzatrici che auspicavano la creazione di comunità e centri di recupero più che di ospedali chiusi. Nel S. Lazzaro dovremo aspettare gli anni ’70 per assaggiare queste nuove proposte poiché, come detto, questo ventennio rimane caratterizzato da terapie disumane, coercizione, psicochirurgia e psicofarmaci. Da un punto di vista architettonico va segnalato il cambio di destinazione d’uso del padiglione Esquirol poiché, in seguito ai danni bellici, si è trasformato l’immobile in una raccolta di appartamenti per lavoratori. Nel 1956 viene aperto il reparto Villa Marchi presso quello che era detto Casino Conolly. Vengono inoltre eretti alcuni padiglioni in sostituzione di altri che giacevano in evidente stato di degrado (anche e soprattutto a causa del secondo evento bellico) ricalcandone però la posizione in pianta: il Bertolani sostituisce il Biffi nel 1960, il nuovo Biffi al posto delle scuolette (1967) e l’unità di abitazione e cura (1970). Va segnalata anche la demolizione, nei primi anni ’70, della parte storica del padiglione Donaggio che ha lasciato l’edificio con l’attuale conformazione a “U”. Dal 1964 la direzione dell’istituto passa a Piero Benassi e si assiste ad un fenomeno culturale

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molto interessante. Le condizioni dei malati erano infatti oggetto di dispute e riflessioni in un clima in cui lo scardinamento dell’istituzione manicomio veniva preso come paradigma di una più generale battaglia per la libertà e per i diritti di cittadinanza, tipici di quegli anni. Nel pieno dei conflitti politici, nel 1969, si decide di andare verso una politica di dimissione per i ricoverati che passano da 2400 a circa 1000 nel giro di pochi anni. Vengono abbandonate le vecchie forme di contenzione ed adottati nuovi modelli terapeutici. Nel frattempo era entrato in funzione anche il Servizio Psichiatrico provinciale ed il Centro di Igiene Mentale (che inizialmente lavorava in modo autonomo). Il percorso di liberalizzazione dei manicomi, ora condiviso, sfocia nella legge Basaglia, n.180 del 1978, che impone la chiusura definitiva di questi istituti. Vengono abbattuti i muri di cinta del complesso in un apparente impeto di libertà e riappropriazione dello spazio dell’ospedale da parte della città. Apparente poiché il S. Lazzaro non cesserà mai di essere visto come buco nero nell’impianto urbano, una realtà parallela, un micro-cosmo che deve rimanere ben delineato e rintanato nei suoi confini. L’abbattimento dei recinti costituisce dunque un’apertura fisica ma non dinamica e tantomeno funzionale. Alcuni padiglioni vengono poi restaurati mentre le strutture di degenza vengono progressivamente abbandonate mano a mano che venivano predisposte nuove sedi a norma di legge. Nel 1990, infine, Il nuovo Dipartimento Igiene Prevenzione Sanità sostituisce volumetricamente la colonia Guislain e viene edificato il Guicciardi, recente scuola tecnica. L’istituto S. Lazzaro chiude definitivamente nel 1997, e la città inizia a pensare a come sfruttare un sito così strategico dal punto di vista di inquadramento territoriale pesato con la grandezza dell’area. Il terreno è dunque stato lasciato libero: una nuova storia sta per essere scritta...

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sul muro che sarebbe stato demolito capeggiava la scritta: il manicomio è la nostra cattiva coscienza un limite materiale era stato distrutto, non si poteva ancora dire lo stesso per quello culturale...


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- analisi storica

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3 inquadramento a grande scala di Reggio Emilia, pienamente inserita nello scacchiere, funzionale ed infrastrutturale, emiliano e nazionale

prospettiva satellitare dell’agglomerato cittadino ->

- analisi del sito

3 - analisi del sito 3.1 inquadramento territoriale Prima di entrare nel vivo del discorso S. Lazzaro va analizzata la posizione della città che lo ospita all’ interno dei giochi di forza regionali. Reggio Emilia entra a pieno diritto nelle dinamiche delle città sviluppatesi lungo la via Emilia anche se il ruolo da essa interpretato non è quello del protagonista. La dimensione dell’agglomerato urbano è infatti inferiore a quella delle limitrofe Parma e Modena e, soprattutto, a quella di Bologna, potenza egemone emiliana e nodo di interscambio vivo e vitale per la zona. Ciò nonostante gode dei benefici di tutte quelle arterie di circolazione (pubbliche e private) che caratterizzano questa parte d’Italia. E’ infatti raggiungibile via auto, oltre che ovviamente dalla storica via Emilia, dall’autostrada A1 che, collegando Milano a Napoli, si caratterizza come la principale via di scorrimento veicolare nazionale. Dal casello autostradale il tragitto per giungere in centro città è rapido e si avvale della tangenziale nord che si snoda ed articola in una proliferazione di vie minori facendo risultare la viabilità non eccessivamente congestionata. Altro elemento forte è ovviamente la linea ferroviaria: la città si inserisce infatti nella rotta Milano-Bologna, risultando dunque perfettamente ancorata ai due maggiori poli di smistamento del nord Italia. La stazione è a Nord-Est rispetto al centro storico ma si inserisce nel cuore del tessuto urbano, intimamente collegata alle principali dinamiche della città. Ovviamente questo causa numerosi effetti collaterali: una forte cesura con la parte Nord dell’agglomerato, aspetto tipico di molte città emiliane. Discorso differente va fatto per la recente via dell’Alta Velocità. Reggio Emilia ha lungamente lottato per poter affacciarsi sulla

tratta Milano-Bologna ed ha ottenuto una propria stazione, attualmente in fase di cantiere. La stazione è celebre poiché è stata affidata ad un ingegnere ormai caro ai reggiani: Santiago Calatrava. Essa rimane nell’estremità nord della città, poiché la linea ferroviaria rimane, in questo tratto, parallela all’A1 e verrà collegata alla parte vitale del tessuto urbano mediante una metropolitana di superficie già esistente. Essa è attualmente scarsamente utilizzata a causa della pressoché inesistente attrattività dei suoi nodi (fra i quali la stazione appunto ed il polo tecnologico delle ex officine reggiane, attualmente in cantiere, ed il complesso del S. Lazzaro, nel vivo di dinamiche di rinnovazione lontane dall’essere pienamente compiute), ma risulterà fondamentale per i successivi sviluppi progettuali poiché dobbiamo guardare non allo stato delle cose, bensì al probabile scenario futuro su cui si instaurerà il nostro programma. Passando dalle linee ferrate all’aria, possiamo notare come il campo volo, nonostante la posizione strategicamente rilevante e le dimensioni tutt’altro che contenute, non rivesta un ruolo essenziale nella dinamica dei trasporti, essendo attrezzato solamente per velivoli leggeri. Come si può notare dalle immagini, la posizione del San Lazzaro è ad est del centro storico e completamente chiuso a qualsiasi tipo di espansione: dalla via Emilia a Sud, dalla linea

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inquadramento urbano del comparto all’interno della città reggiana

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- analisi del sito

ferroviaria a Nord, dal fiume Rodano ad Est e dalla città maggiormente strutturata ad Ovest. Come ricordato nel capitolo precedente, in realtà, il complesso manicomiale in passato aveva varcato i limiti Sud e Nord ma questi sono stati episodi puntuali e circostanziati, certamente non ripetibili mentre il villaggio oltre via Doberdò, nel limite ovest, era inizialmente destinato ai lavoratori interni al S. Lazzaro. Questo era stato il passo definitivo verso la formazione di una città parallela, chiusa e completamente staccata dalle dinamiche più propriamente cittadine. La storia del rapporto con la città è alquanto bizzarro poiché si è passati dalla cittadella del

cerchio del contagio, esiliata e dimenticata, ad un ruolo contemporaneo molto forte nel gioco di forze della città. Il S. Lazzaro infatti è posizionato a 15 minuti a passo d’uomo dal centro storico, adagiato sulla principale arteria veicolare della città e pienamente inserito nella rete dei trasporti sia cittadini che regionali e nazionali. La dimensione è notevole; inferiore a quella del centro storico ma sicuramente comparabile con esso ed è interamente di proprietà pubblica. Risulta dunque ovvio che questo è e sarà un tassello fondamentale per la città all’interno delle sfide regionali per l’appropriazione di risorse umane ed economiche.

-> vista satellitare del S. Lazzaro. E’ già percepibile la sua chiusura netta con il resto della città

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3.2 viabilità Nell’inquadramento territoriale era inevitabile far riferimento alle principali linee della viabilità che caratterizzano la città ed il suo rapporto con i centri limitrofi. Abbiamo infatti già parlato dell’importanza nazionale dell’autostrada A1 (il casello è distante 4,5 km dal S. Lazzaro) e dell’afflusso che essa garantisce a Reggio Emilia, tramite la tangenziale nord (distante 2,5 Km) e tutte le strade minori. Ma se ci soffermiamo sulle arterie che, non solo segnano, ma delimitano anche fisicamente il comparto l’elemento protagonista è, senza dubbio, la via Emilia che ne costituisce il limite Sud. Oltre ad essere il principale vettore da e verso il centro storico, essa collega Reggio Emilia con i comuni limitrofi ed ha un immenso valore storico e testimoniale, soprattutto per il polo manicomiale. Quando infatti, nel XII secolo, è stato insediato il lebbrosario “ad un tiro di pietra” dalla città si è scelto di farlo lungo la via Emilia, ricca di passanti e pellegrini, in modo da far svolgere al neonato S. Lazzaro anche il ruolo in beetween di filtro urbano (soprattutto per i malati di lebbra). Il rapporto con questa strada è stato sempre intenso anche se, da un punto di vista percettivo, spesso è stato caratterizzato da cesure e recinti rafforzando il ruolo di città parallela e invalicabile, di microcosmo autosufficiente. Se da un lato questa cesura eminentemente visiva rimanda ai temi della contenzione e della prigionia va detto che su questa strada si sono attestati negli anni gli edifici più significativi, come il nucleo storico (attuale padiglione Morel) e Villa Trivelli (attuale padiglione Esquirol) configurando quello sulla via Emilia come il fronte storico di rappresentanza. Numerosi ed ambiziosi sono stati, nei secoli, i progetti sul lato Sud e non sono mancati affacci e contaminazioni oltre questo limite. Oggi, come vedremo, il rapporto percettivo

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è rimasto pressoché invariato ma questa arteria va considerata senza dubbio per il suo potenziale in termini di spostamenti umani: affacciarcisi significa infatti una garanzia di essere percepiti e potenzialmente raggiunti. Su questa lunghezza d’onda va letta l’appropriata (a mio avviso) idea comunale di predisporre, immediatamente a Sud, un parcheggio scambiatore di elevata capienza. Questo permetterà a chi arriva in città di parcheggiare immediatamente fuori dal centro storico, evitando le tipiche congestioni, e di avvalersi dei servizi di trasporto pubblico e/o delle numerose piste ciclabili per raggiungerlo. E’ ovvio che questa condizione al contorno risulti fondamentale per l’economia del S. Lazzaro. Non solo sarà molto agile il raggiungerlo e posteggiare l’automobile ma anche chi non avrà questa intenzione, volendo semplicemente recarsi in centro, godrà dello scorcio visivo del comparto e potrà esserne convogliato all’interno grazie all’attrattività (al momento mancante o quantomeno celata) dello stesso. Stiamo già iniziando a capire come il S. Lazzaro sia al centro di un complesso mosaico multi layer di spostamenti. Da un punto di vista dei trasporti pubblici, l’ex ospedale psichiatrico è attualmente servito da due linee di autobus TPL, entrambe sulla via Emilia, e, lungo il suo sviluppo, si trovano 5 fermate ad esso addossate e 6 immediatamente raggiungibili. Dopo l’ipotetico instaurarsi del programma presentato, potrebbe essere ragionevole considerare la possibilità di aumentare il flusso di trasporto pubblico da e verso il S. Lazzaro, senza alcun tipo di problema di congestione. La via Emilia rappresenta un caso emblematico anche per un’atra politica del comune: quella del trasporto ecosostenibile. Essa è infatti dotata di un ampio marciapiede e di una pista ciclabile in grado di connettere l’area sia con il centro storico che con il resto della città dato che l’estensione delle piste ciclabili la ricopre interamente. Queste sono però maggiormente raffittite, ovviamente, in prossimità di vie ecologicamente rilevanti come quelle fluviali ad

-> Analisi della viabilità: il S. Lazzaro è al centro di un complesso msaico dei trasporti


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- analisi del sito

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ovest del centro storico. Quello che attualmente manca è un corridoio naturale di connessione fra nord e sud della via Emilia lungo il torrente Rodano (vincolato ai sensi del decreto legislativo 42/2004, ex legge Galasso), limite naturale del S. Lazzaro. Cambiando nuovamente la scala possiamo analizzare l’importanza per il comparto della linea ferroviaria. Come ricordato, da un punto di vista urbano, essa garantisce il collegamento ferrato fra i due maggiori poli di smistamento di persone e merci del nord Italia: Milano e Bologna. La stazione si trova a ridosso del centro storico, leggermente spostata a nord est, e dista 2,5 km dal S. Lazzaro, facilmente ricopribili sia con cicli che dai pedoni. Nonostante l’importanza che ogni stazione ferroviaria ricopre nelle medio grandi città, per il complesso manicomiale,

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l’aspetto più interessante è il tracciato vero e proprio, dato che con esso confina a nord. La presenza di questa linea, costruita nel 1869 insieme al tratto Reggio-Dinazzano più ad ovest, ha guidato lo sviluppo longitudinale dell’istituto, lungo la via Emilia, ma si è spesso dimostrato un confine fittizio e labile. Da un punto di vista percettivo, infatti, questa cesura non viene evidenziata dato che il paesaggio della tipica campagna emiliana che caratterizza la parte nord del S. Lazzaro si protrae anche oltre la ferrovia, nell’aeroporto, restituendoci l’immagine di un grande orizzonte aperto. In aggiunta, nel corso degli anni, alcune importanti attività, come la colonia per bambini e ragazzi ritardati Marro, erano state dislocate oltre la linea ferrata. Purtroppo, a seguito dello scoppio della seconda


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le principali arterie comunicative della città, che risulteranno fondamentali per il nuovo S. Lazzaro: (da sinistra a destra) l’autostrada con i celebri ponti di Calatrava, La nuova stazione dell’alta velocità (Calatrava), l’attuale stazione FS, la metropolitana di superficie e la via Emilia (ampiamente dotata di piste ciclabili

- analisi del sito

guerra mondiale, lo sviluppo dell’industria bellica che si era impossessata dell’aeroporto, immediatamente a nord del tracciato, impose la chiusura della scuola e, per il S. Lazzaro, la ferrovia divenne un limite invalicabile. Decisamente più rilevante per il funzionamento del complesso è però la metropolitana di superficie che corre parallelamente alla ferrovia, leggermente spostata verso nord. Questa struttura di trasporto è attualmente poco usata, ma diverrà fondamentale quando verranno aggiunti alcuni tasselli molto importanti al tessuto urbano. Essa infatti collegherà il S. Lazzaro con la stazione FS (link attualmente esistente) ma soprattutto con la stazione dell’Alta velocità progettata da Calatrava (nel limite nord della città) ed il tecno-polo delle ex officine

reggiane (a ridosso della stazione), attualmente in fase cantieristica. In particolare le ex officine reggiane diverranno un importante centro di ricerca avanzata ospitando anche un nodo intermodale di interscambio e del terziario avanzato. Dato che la misura dell’intensità e della portata di un generico spostamento è direttamente proporzionale all’attrattività dei poli, possiamo immaginare che in un prossimo scenario urbano quest’arteria diverrà molto utilizzata e sicuramente essenziale per il collegamento del S. Lazzaro con il resto della città. Attraverso uno zoom possiamo infine analizzare la viabilità interna del complesso, recentemente modificata dal PRU del 2011. Essa è caratterizzata dai due viali principali longitudinali (est –

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<analisi della viabilità interna, così come è prevista dal PRU 2011 (già in fase attuativa)

- analisi del sito

ovest) che tagliano interamente il comparto e che, uniti alle vie minori trasversali, creano la griglia su cui sono adagiati i vari padiglioni, staccati gli uni dagli altri. Le dimensioni delle carreggiate sono ridotte e alcuni tratti, limitrofi agli edifici abbandonati, risultano in pessime condizioni. Questa situazione, nonostante la speranza di un predominio del trasporto pubblico, era inconciliabile con le dinamiche di un Campus universitario ed in quest’ottica si è mosso il PRU. E’ stata inserita una rotonda sulla via Emilia, non ancora realizzata (attualmente è un incrocio regolato da un semaforo), in prossimità di via Doberdò, limite ovest del S. Lazzaro. Questa strada, nuovo accesso principale, penetra il comparto in prossimità del padiglione ex Biffi, circonda il deposito farmaceutico (vuoto difficilmente spiegabile nello sviluppo dell’istituto) e continua nel limite nord, parallelamente alla linea ferroviaria, per poi morire in un cul-de-sac. Essa serve una numerosa schiera di parcheggi posizionati ai suoi lati e permette l’arrivo dei visitatori nel cuore del comparto mediante una lunga serie di vie pedonali perpendicolari (gli ex viali minori, con alcune aggiunte). Alcune strade interne, come il viale principale parallelo alla via Emilia, rimangono carrabili ma si configurano solo come strade di servizio, necessarie al funzionamento universitario. In questo modo è stato possibile ciclo-pedonalizzare completamente, o quasi, la parte interna del Campus; decisione senz’altro più sintonizzata su frequenze contemporanee. Questa breve analisi mi ha permesso di capire che, con pochi accorgimenti, il S. Lazzaro ha le carte in regola per inserirsi a pieno titolo nei giochi di forza cittadini ed ultra cittadini, essendo pienamente ancorata a tutte le via di trasporto, da quelle a piccolo raggio come le piste ciclabili a quelle nazionali come la linea dell’Alta Velocità e l’A1.

3.3 verde Il verde, visto come elemento naturale e soprattutto paesaggistico, è fondamentale per il S. Lazzaro. Se si legge questo aspetto con gli occhi evocativi della memoria e della sensibilità verso l’anima del luogo ci si accorge di come il verde interno, inteso proprio come alberature, viali alberati, siepi, prati, frutteti, ecc., abbia un peso, a mio avviso, largamente superiore rispetto a quello che troviamo fuori. E’ nel rispetto della sua essenza di cittadella parallela ed incontaminata che affermo questo. E sono dell’idea che vada affermato per questo aspetto e non per altri. E’ infatti ovvio che questa visione introspettiva vada a braccetto con quello che quest’area ospitava e cioè un luogo di emarginazione come un ospedale psichiatrico. Riproporre però questa logica in uno scenario di oggi, sia per la mobilità che per il funzionamento del programma da instaurare, sarebbe un fallimento, una decisione stucchevole ed anacronistica. Ma questo non vale per il sistema naturale poiché, nonostante debba essere necessariamente interconnesso alle dinamiche urbane, esso vive di una propria storia percettiva, intima e staccata. E mi è sembrato dunque legittimo soffermarsi maggiormente sullo studio di questo microcosmo verde, rispetto a quello che ci circonda. Questo anche perché la precedente analisi sulla viabilità mi ha permesso di notare come tutte le zone destinate a parco o simili siano fortemente ancorate al sistema ciclabile e dunque facilmente raggiungibili e collegabili con questo comparto. Per quel che riguarda il verde esterno all’istituto va però evidenziata la presenza di un canale ecologico fondamentale: quello del torrente Rodano che storicamente sancisce il limite est del S. Lazzaro e, più in generale, della città con la campagna. Questa arteria verde, oltre che collegata inossidabilmente con il parco storico, dovrà

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creativa essere necessariamente valorizzata. A parte queste considerazioni, il link con le restanti aree verdi della città dovrà essere ovviamente di tipo fisico (attraversamenti pedonali, piste ciclabili, ecc.) ma soprattutto di tipo visuale e percettivo, andando ad indagare un tema fondamentale per questo luogo; quello del recinto. Questo andrà inteso sia come impossibilità fisica di raggiungere un luogo, seppur solo visivamente, ma anche come protezione, rifugio, ventre materno. Per rimarcare lo squilibrio nelle gerarchie di importanza fra verde interno ed esterno va fatto notare come non siamo di fronte alla scelta sul creare o meno un nuovo nucleo verde per la città. Abbiamo invece davanti agli occhi un parco storico, peraltro interamente vincolato per il valore paesaggistico e documentale, già esistente e che era intimamente connesso con il tema della malattia e della sua guarigione. Esso nasce infatti dalle scelte di fine ‘800 di abbandonare un sistema chiuso carcerario in favore di uno aperto e disseminato. Si sono infatti lasciate ai margini politiche di facilità di gestione e risparmio economico per dotare ogni padiglione di ampi spazi verdi e migliorare conseguentemente la qualità della vita di pazienti e lavoratori. Abbiamo un riscontro di questo dalle parole di uno degli amministratori del S. Lazzaro, rilasciate nel 1917: “Soprattutto fare, nel nostro ambito, quanto è possibile perché (…), in armonica fusione con la bellezza del verde ovunque sapientemente profuso e con il calmo sorriso del cielo, sia assicurata ai degenti quella tranquillità spirituale che è loro indispensabile per riacquistare l’equilibrio delle attività mentali: sì da ridare a tanti infelici il senso ineffabile della coscienza rinata, restituendoli utilmente alle gioie del lavoro, della famiglia e della vita”. Per analizzare le tipologie di essenze arboree e lo stato di quest’ultime ci si è avvalsi del rilievo effettuato nel 2005 dallo Studio di Consulenza Ambientale del Per. Agr. Mauro Chiesi, effettuato su incarico

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<il verde come barriera. inizialmente pensato per “umanizzare” le cesure, è oggi un grande limite per il collegamneto con la città. Viste dall’interno, dalla via Emilia e da via Doberdò

-> analisi sulla dislocazione delle principali specie arboree presenti nel S. Lazzaro (elaborazione a partire dal lavoro del Per. Agr. Mauro Chiesi)


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- analisi del sito

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dell’Amministrazione comunale di Reggio Emilia. Oggi il numero di esemplari è minore poiché, negli anni, si sono resi necessari degli abbattimenti di alberature in precarie condizioni di sicurezza, ma rimane tuttavia un valido strumento cognitivo. Sono stati rilevati 2227 soggetti, in grande prevalenza arborei, suddivisi in 47 specie e si è notato che il rapporto fra alberi sempreverdi e caducifoglie è nettamente a favore dei secondi (ben 4/5). Probabilmente la scomparsa di numerosi esemplari sempreverdi è dovuta alle continue lavorazioni che hanno subito i padiglioni, soprattutto per quel che riguarda la realizzazione di parcheggi. Il lavoro è ampio e tenta di ricostruire l’evoluzione storica del parco avvalendosi di descrizioni dei passati direttori (Tamburini), delle visuali a volo d’uccello già analizzate nel capitolo precedente e delle ortofoto dell’ultimo secolo. Le fonti sono scarse ed in un clima come il nostro è difficile stabilire a

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posteriori per quali motivi la situazione si sia continuamente modificata: ad esempio potrebbero essere state esigenze terapeutiche o gli effetti di un rigido inverno a seguito di un decennio tendenzialmente mite. Ritroviamo comunque numerose alberature di grande valore, storico ed estetico, tutelate sia a livello provinciale che regionale. Di questo rilievo, di cui mi sono avvalso per un orientamento conoscitivo nell’immensa parentesi verde del S. Lazzaro, riporto solo alcune tabelle e schemi per fini eminentemente esemplificativi ma vorrei rimarcare come l’aspetto importante sia la comunione fra quello che ci troviamo come testimonianza e la vita, intesa soprattutto come cura, svolta all’interno di questo recinto. Mi riferisco ad esempio all’ampio frutteto coltivato dagli ex pazienti, in evidente stato di abbandono, immediatamente ad ovest del Morel, o al microparco dal sapore semi ludico di fronte a Villa Marchi (apprezzabile da alcune foto storiche) che,


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- analisi del sito

come molti altri esempi, contribuivano a determinare la qualità della vita dei degenti. Altro aspetto è quello delle siepi che in anni recenti sono state preferite ai muri in alcuni padiglioni poiché considerate più umane ed evocative nei confronti dei pazienti. Molti poi sono gli esemplari che si pongono come testimonianza del passato. Un esempio su tutti è costituito dalle robinie posizionate davanti a ciò che resta del padiglione Donaggio. Esse, unite al vuoto che le circonda, ci riporta immediatamente l’immagine della corte costituita dalle celle di contenimento ora demolite. Va però fatta molta attenzione poiché il rischio di eccessiva esaltazione è reale e va scongiurato. I sontuosi viali alberati (realizzati prevalentemente da tigli) ad esempio, seppur gradevoli, non erano quasi mai attraversati dai malati. Sicuramente non lo erano in un passato meno recente poiché i degenti rimanevano rinchiusi nei rispettivi

padiglioni non comunicanti con l’esterno. Lo stesso vale per le già citate robinie del Donaggio che, essendo destinato a pazienti violenti, era per lo più costituito da celle di contenzione singole con pazienti che raramente si recavano all’esterno. Per tutte queste premesse mi sento di osteggiare da un punto di vista culturale l’atteggiamento dell’Amministrazione Comunale nella redazione del PRU 2011. Essa si è avvalsa di questo studio di rilievo e ricerca per invocare un ripristino del parco storico, andando a ripiantare essenze ormai perse o ad eliminare esemplari antiestetici. Credo che lo stato attuale del verde interno, non certo ottimale in senso classico, sia frutto del tempo in tutte le sue connotazioni (dai fini terapeutici ad una sorta di selezione naturale) e sarebbe ingiusto tentare di riordinare le cose, ricristallizzarle come erano in un momento, non troppo definito, del passato. Il complesso intero, ma anche il parco nello

<l’importanza del fattore naturale nella cura dei pazienti. Alcune foto storiche tratte dall’album del frenocomio di Reggio Emilia, del 1900

-> due degli ampi viali alberati del comparto manicomiale. Oggi tratto caratteristico, un tempo mai attraversati dai malati

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specifico, hanno una storia da raccontare e la difficoltà nel leggerla, causata dalla nebbia degli anni, deve, a mio avviso, essere visto come plus valore. La parte non ancora toccata da questo tentativo di ripristino si configura come un immenso giardino in movimento, seppur in condizioni spesso fatiscenti, e sarebbe corretto, da un punto di vista culturale, rispettarlo. Si può tentare magari di orientarne l’evoluzione inserendo operatori differenziali del cambiamento (per rendere l’idea potremmo pensare a dei

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parassiti), senza pretendere di governarla in toto. Trovo l’atteggiamento dell’Amministrazione più moderno che contemporaneo e penso che celi numerose insidie, fra le quali quella della manutenzione. E’ infatti sotto gli occhi di tutti lo stato attuale e va capito che è stato l’abbandono a renderlo tale anche se si è partiti da una situazione quasi immacolata. Sarà il motore del processo evolutivo a dover cambiare e non l’aspetto.


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- analisi del sito

3.4 le aspettative della città (PRU del 2011)

stato attuale della vegetazione nelle aree abbandonate che rivelano, anche qui, il loro potenziale

Le premesse sono molte affinché questo luogo, a lungo dimenticato, divenga un nuovo centro pulsante all’interno della scena reggiana. Non a caso, negli ultimi anni, sono state spese ingenti somme per trasformare il complesso manicomiale in un polo scolastico-universitario di eccellenza. L’ambito è stato interamente tutelato con vincolo ministeriale del 1993 ed il PRG 1999 ha sottoposto l’area a Programma di Riqualificazione Urbana, poi redatto dal Comune nel 2011. L’obiettivo è quello di recuperare e riusare il patrimonio storico-architettonico e ambientale per insediare nuove funzioni pubbliche, legate al mondo dell’istruzione. La speranza è che queste possano radicare nella città l’istituzione universitaria e collegare questa nuova sede con quelle già esistenti (caserma Zucchi e chiostri di San Pietro) e con il tecno-polo che si insedierà nella zona delle ex officine reggiane (fra il S. Lazzaro e la stazione FS). A parere del comune l’instaurarsi di queste nuove funzioni è perfettamente adatto per gli edifici esistenti, rendendo possibile il non stravolgimento delle tipologie edilizie presenti. L’obiettivo principale è dunque il recupero edilizio, anche se sarebbe più corretto parlare di restauro, di tutti i padiglioni con diversi livelli di conservazione proporzionali all’interesse storico-architettonico degli stessi. Questo però prevedendo nuove costruzioni e volumetrie in grado di migliorare la funzionalità del complesso. Sono stati inoltre previsti, nelle strutture attualmente in disuso e non accessibili, servizi per la collettività di carattere privato (commercio e terziario), uno studentato (attualmente in fase di cantiere) ed uffici pubblici. L’obiettivo è dunque chiaro: conservare e sfruttare le potenzialità del luogo per far ingranare l’università di Modena e Reggio Emilia e questa parte di città, molto importante sia per

la vicinanza al centro sia per la presenza di zone a forte valore storico-documentale ed ecologiconaturalistico. L’AULS, originario proprietario dell’area, riserverà per se esclusivamente le strutture di recente realizzazione per uffici e ricoveri mentre ha già ceduto gran parte della superficie (e dei padiglioni) alla provincia. I padiglioni più ad ovest (Buccola, Morselli, Tanzi, Tamburini, Besta, De Sanctis, Livi) sono già stati restaurati ed occupati dalle facoltà di Ingegneria, Agraria e Medicina. Alcuni sono divenuti le sedi di queste facoltà, mentre altri ospitano funzioni complementari alla didattica come laboratori e biblioteche. Il Bertolani, il villino svizzero, L’unità di abitazione e cura ed il Ziccardi sono ancora in mano all’AUSL mentre diversa è la condizione del nucleo storico del complesso, il padiglione Morel, poiché oggi ospita gli uffici dell’AUSL ma l’intenzione è quella di convertirlo progressivamente, parallelamente ai bisogni ed ai fondi trovati, ad uso universitario. E’ attualmente in cantiere il processo che trasformerà il vecchio padiglione neurologico in uno studentato, fondamentale per il funzionamento del campus. Il Padiglione Lombroso poi ha recentemente subito un ottimo (e caro: 3,5 milioni di euro) restauro critico conservativo ed è stato inaugurato nella sua nuova veste di museo della storia della psichiatria. L’esposizione del numeroso materiale, ottenuta anche attraverso l’uso di dispositivi digitali altamente tecnologici e suggestivi (curata dallo studio Fuse creative lab) non è ancora ultimata, sempre a causa della mancanza di fondi. Futuro meno definito invece per i padiglioni attualmente abbandonati ed in stato di rovina: la colonia agricola, il Golgi, il Donaggio, il villino Stuoie ed il complesso Esquirol-Marchi. Il PRU, -attualmente in fase attuativa, prevede ad esempio usi universitari per il Donaggio; usi che in realtà cambiano con cadenze temporali molto brevi, governati dalle contingenze del momento. Per il 700esco padiglione Esquirol (ex villa dei conti Trivelli) si

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prevedono invece strutture terziarie, commerciali e, soprattutto, di accoglienza. L’obiettivo di quest’ultima mossa è strettamente economico poiché, essendo un edificio simbolo adagiato sulla via Emilia, non dovrebbe aver problemi ad attrarre investitori privati, anche se a discapito dell’efficienza dell’operazione pubblica. Interessante e già ultimata è la nuova viabilità: l’accesso principale diviene quello di via Doberdò (servita da una nuova rotatoria sulla via Emilia) e la strada, ad uso esclusivo del comparto, rimane marginale, parallela alla rete ferroviaria, e su di essa si posizioneranno i nuovi parcheggi. In questo modo l’area risulterà quasi sgombra da automobili (rimarranno alcune strade di servizio) rendendo possibile la pressoché completa ciclopedonalizzazione del S. Lazzaro. A mio avviso gli intenti sono molto ambiziosi e corretti anche se il buon fine dell’operazione è tutt’altro che vicino. Quello che manca, principalmente, è un piano strategico complessivo ed organico che possa guidare il futuro sviluppo del polo. Un’idea che possa tener le redini di tutto il processo, affinché ovviamente l’operazione risulti possibile (economicamente) ma anche che questo stralcio dell’arazzo urbano possa finalmente essere donato alla città, rafforzando il ruolo di Reggio Emilia come capitale regionale dell’eccellenza. Mentre infatti alcuni punti rimangono fissi ed invariati (ad esempio le sedi

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delle facoltà già instaurate) molti sono i punti interrogativi ed ancor più gli aspetti che, senza definizione alcuna, continuano a cambiare costantemente nel tempo, spinti da correnti principalmente economiche. Il fattore fondi è senz’altro fondamentale poiché qualsiasi discorso che non consideri questo aspetto rischia di divenire stucchevole e sicuramente staccato dalla realtà dei fatti. Ma, secondo me, esistono molte possibilità per far funzionare e migliorare il Campus senza, ad esempio, privarsi di un edificio fondamentale per il comparto come l’Esquirol, solo per basse questioni finanziarie. Sarà fondamentale l’apporto dei privati da un punto di vista dei finanziamenti, ma la gestione ed i fini dovranno rimanere eminentemente pubblici e sociali, per non perdere lo spirito iniziale che ha animato il comune al momento del progetto. Mancano ancora molti pezzi nello scacchiere ma, attualmente, l’apporto dell’università non sembra aver vitalizzato l’area che risulta ancora totalmente staccata dalla scena urbana più strutturata. I padiglioni sono cristallizzati e manca qualsiasi tipo di contaminazione fra di essi (non solo materica ma soprattutto sociale e funzionale). La cittadella parallela sembra essere rimasta tale, ma non da un punto di vista emotivo o evocativo, bensì di funzionamento e una chiusura quasi totale sta continuando a caratterizzare questa parte di città. Ultima nota di tipo culturale: a mio avviso l’approccio all’esistente è, se non sbagliato, almeno pericoloso. Poiché, leggendo le numerose pagine di relazione, ho percepito un morboso attacco alla materialità dei fatti e non all’essenza dei luoghi. Il carico umano è enorme ed il valore storico e documentale ingente ma il riconoscimento di questi valori deve avvenire ad un livello più profondo. Se invece si attacca solo al mattone e all’impianto tipologico storico corre il rischio di divenire solo un lucchetto, fossilizzando e mummificando dei corpi ormai privi di vita…speriamo non faccia la fine della calviniana Zora.

elaborazione grafica mirata a presentare punti certi e lacune decisionali dell’attuale PRU. Una base di partenza per attaccarsi alla realtà del comparto

<il nuovo studentato per il padiglione neurologico (in cantiere). Sarà fondamentale per le dinamiche del PRU


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- analisi del sito

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4 il fronte di via Doberdò. Il limite rimane l’unica entità definita, mentre lo sfondo, sfumato e denso, si configura come spazio aperto a possibili interpretazioni personali

-> Selbstportrait (Selfportrait) di Gerhard Richter. La mancata definizione del dipinto ci spinge necessariamente oltre l’immagine

- analisi del luogo

4 - analisi del luogo 4.1 il recinto Tentare di approcciarsi al luogo è alquanto complicato. Innanzitutto è difficile capire quanto ciò che si prova sia dovuto al background umano dell’istituto e quanto alle reali condizioni materiche e percettive dell’area. Sicuramente la prima cosa che si avverte avvicinandosi è una barriera. Non conta molto se questa è costituita da una siepe, un edificio o un muro di pietra sciolta alternata a corsi di mattoni; rimane una barriera. Ciò è chiaramente riconducibile al passato del complesso ed alla sua ormai nota struttura a microcosmo staccato (sia per dinamiche che materialmente) dal resto della città. Ma il significato va oltre poiché non sempre si riesce ad essere lucidi e guardare le cose con gli occhi oggettivi della storia. Un recinto è un dispositivo che impedisce il passaggio, sia esso fisico o solamente visuale, e cela numerosi retroscena emotivi. Il S. Lazzaro infatti è dapprima immaginato dal visitatore sia che giunga dalla via Emilia, sia che si infiltri da via Doberdò. Ci si ritrova completamente schiacciati dalla visuale, pienamente immersi nel vorticoso ritmo di auto, impossibilitati a trovare una via di fuga per lo sguardo, un attimo di respiro. Non è una parte di città bensì uno scrigno che nasconde dietro una scorza non si sa bene cosa. La fantasia svolge qui un ruolo fondamentale anche se probabilmente è più corretto parlare di sensibilità e background culturale. Le immagini riportate sono state appositamente ritoccate digitalmente per far comprendere che solo il limite (siepe o muro che sia) rimane definito e immobile per sua definizione, mentre lo sfondo va oltre l’immagine. La sfocatura non è reale ma percettiva, se si ascolta bene quasi emotiva. La non definizione dello scenario apre a possibilità

molto interessanti, soprattutto se risuonano a frequenze contemporanee e non nostalgiche. Si è combattuti fra la volontà di entrare e la paura (legittima) di scardinare le proprie certezze. Sì perché questo è un luogo, o almeno così ce lo immaginiamo, in cui le paure e le angosce umane hanno raggiunto in passato livelli inauditi, così elevati da prendere il predominio dello spazio e soprattutto del tempo. Il microcosmo S. Lazzaro è nell’aria, ma è solido nella sua presenza. Le immagini sfocate infatti fanno non solo diminuire la definizione degli spazi ma ne amplificano anche

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le dimensioni rendendoli densi; non pesanti ma comunque densi. Come una sorta di mousse. Solo con l’immaginazione possiamo provare a pensare cosa quel recinto volesse dire per i degenti. Sicuramente però siamo a conoscenza di fatti alquanto curiosi. Quando i malati erano segregati nei padiglioni, impossibilitati ad uscire, spesso tentavano (e a volte riuscivano) la fuga mentre quando per legge si dovettero aprire le porte dei manicomi i pazienti rimasero all’interno degli edifici, timorosi nell’uscire. Il significato di questo è duplice. Da una parte va ricercato nella trattazione culturale del fenomeno anormalità: essi erano ormai stati istituzionalizzati e, mentre erano sicuri di essere considerati malati e trattati di conseguenza all’interno, si approcciavano con timore al mondo esterno soprattutto per paura di non essere capiti e

dunque emarginati ad un diverso livello rispetto al precedente. Ma d’altra parte va ricercato nell’aspetto materico e simbolico del recinto visto, questa volta, come protezione tutt’altro che soffocante; come un ventre materno. La percezione degli spazi e del rapporto fra i padiglioni è stato necessariamente falsato rispetto al passato poiché, ad esempio, sono state tolte quasi tutte le recinzioni massive che li avvolgevano ma, a mio avviso, questo non è un problema. Il discorso si riallaccia a quanto detto in precedenza a proposito del verde interno: la mancata definizione di una percezione universale è altamente vera per il nostro tempo. Ogni visione è sicuramente differente e questo è assolutamente un plusvalore. Circumnavigare il complesso assomiglia molto alla visione di quadro di Gerhard Richter: estremamente interessante.

<vista dalla via Emilia. Cambia il punto ed il recinto ma la percezione emotiva rimane la medesima: chiusura ed universo parallelo

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4.2 la surrealità della conservazione Per ovvi motivi funzionali l’ingresso all’interno non è impossibile e si riesce ad entrare. Questa volta il paesaggio risulta altamente diverso a seconda dell’accesso che si sceglie. Da quello principale, sulla via Emilia a ridosso del nucleo storico (padiglione Morel), ho visto tramutare in realtà le mie aspettative, ma con un risvolto tutt’altro che aspettato. Non ho trovato edifici decadenti bensì immacolati; non ho trovato muri a cingere strettamente i vari padiglioni ne tracce del passato ferito del comparto. Eppure ho trovato il microcosmo parallelo che mi immaginavo. I padiglioni recentemente restaurati sembrano mummie in formaldeide. Corpi morti immersi in giganti teche che ne impediscono il minimo interscambio con l’esterno. L’assenza di vita è pressoché

totale ed i flussi di studenti, informazioni e conoscenza sono inesistenti. Gli edifici hanno perso completamente il rapporto con l’intorno, probabilmente a causa della demolizione dei muri di cinta che li configuravano come castelli murati. Abbandonando le originarie condizioni al contorno, sembrano avvolti da un’atmosfera surreale, completamente staccata dalla realtà. Le distanze fra un padiglione e l’altro appaiono siderali e questi si configurano come unità a loro stanti, monoliti ricristallizzati e spolverati per l’occasione. Ovviamente ci sono delle eccezioni, come ad esempio il tortuoso e complesso padiglione Morel, non restaurato per questioni economiche, che trasuda memoria, ma, nel complesso, il mio incontro con il sito non è stato gratificante. E’ stato però molto intenso poiché ho iniziato a capire che lo spazio aveva

-> The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living di Damien Hirst. Pura potenza imbalsamata, immobile nello spazio e, soprattutto, nel tempo

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padiglione Tanzi. Immagine elaborata per mostrare i risultati degli ultimi interventi culturali: teche impenetrabili confinano i padiglioni in spazi dalle dimensioni difficilmente definibili

- analisi del luogo

perso una sfida con il tempo per il predominio delle dimensioni tangibili. L’immagine che mi si è concretizzata è piuttosto criptica e, pensandoci a posteriori, penso che possa inserirsi nelle dinamiche di indeterminazione che caratterizzano l’intero S. Lazzaro. Sì, queste potenzialità, seppur ottimamente celate dai restauri, sono ancora esistenti ma possono essere percepite solo se si guarda attraverso lo spesso schermo dell’apparenza. Questo, sicuramente, non è stato ancora fatto dato che nelle lavorazioni dell’ultimo decennio si è deciso di privilegiare in modo netto il contenitore rispetto al contenuto. Qui infatti troviamo come gli intenti declamati nel PRU abbiano preso vita (in realtà questi interventi sono antecedenti ma lo spirito che li ha animati è il medesimo) e sono stati messi in evidenza i limiti di questo approccio culturale. Non è una questione soggettiva: è un dato di fatto che attualmente il complesso universitario non brilli ne per funzionamento ne per qualità della vita degli studenti che sono semplicemente stati dislocati in un’altra parte della città. Per continuare il parallelismo con il mondo dell’arte, iniziando precedentemente citando Richter, potrei dire che guardare uno di questi padiglioni mi ha ricordato il celebre squalo in una gabbia di paraffina di Damien Hirst intitolato “l’impossibilità fisica della morte nella mente di qualcuno in vita”: un animale, potente e temuto, a cui è stata tolta la vita intesa soprattutto come la possibilità di cambiare configurazione nel tempo, restituendo invece un’immagine fissa da un punto di vista spaziale. Questa teca, come ho cercato di rendere nell’immagine editata digitalmente, è immersa in questo universo parallelo, nella densa sfocatura che trapelava dai recinti del comparto. Credo dunque che si debba rivolgere la propria attenzione solo alle spighe di grano mosse costantemente dalla minima brezza per ridare l’anima a questo luogo; nulla è ancora perduto.

4.3 l’abbandono come potenzialità Raggiungendo la parte ovest del comparto (o entrandoci direttamente da via Doberdò) le frequenze cambiano decisamente. Quello che si trova, infatti, è un insieme di padiglioni abbandonati in stato pressoché fatiscente. L’Esquirol ed i bagni annessi, Villa Marchi, il villino Stuoie, il dopolavoro ed il Donaggio si rivelano per quello che sono: dei contenitori che si stanno sfaldando sottoposti agli attacchi del tempo. Questa cosa è molto significativa, ed interessante, da più punti di vista. Per prima cosa, finalmente, si intravede il contenuto. Sì perché, nonostante gli edifici siano principalmente murati, la memoria trasuda dai muri malconci e dalle finestre appena aperte: gli edifici sembrano urlare per le ferite riportate, anche se si stanno lentamente rassegnando al loro destino. E’ evidente che lo stato raggiunto sia dovuto alle incurie ed alla mancata manodopera e non alla reale condizione manicomiale ma questi hanno un’immagine molto più consona a quello che ospitavano. Fra l’altro, come possiamo apprendere dai racconti, gli ambienti nei quali vivevano i pazienti erano molto più simili, soprattutto nei secoli scorsi, a questi rispetto ai padiglioni appena restaurati ed imbalsamati. Diciamo che il legante con il resto dell’area è questa atmosfera surreale, che qui persiste e si amplifica. Finalmente però i contenitori sembrano essersi posti in secondo piano rispetto al contenuto. Fra le inferriate del Donaggio si intravedono le stanze di contenzione (solo le più recenti dato che quelle storiche sono state demolite negli anni ’70) e sono queste, molto più delle modanature o delle paraste, che segnavano la vita dei pazienta. Un altro aspetto è quello del tempo. Entrando in questa porzione del S. Lazzaro è evidente come ci muoviamo all’interno di un’altra dimensione rispetto a quella cui siamo abituati fuori. Non se ne riescono a capire bene

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le leggi (la mancata definizione come leitmotiv) ma sicuramente qui il tempo ha un predominio rispetto allo spazio. Questa affermazione non dev’essere fraintesa poiché non stiamo parlando di rovine fini a se stesse e la mia non è semplicemente una passione piranesiana ne una contemplazione del sublime ruskiniano. Il tempo ha dettato le sue leggi modificando ed alterando morfologicamente gli edifici ma non si è fermato qui. Perché quest’atmosfera di cui stiamo parlando è molto simile ad un attimo nucleizzato di tempo, una sorta di sospensione temporale che può essere letta ed usata come si vuole. Trovo che questo sia molto contemporaneo. Nei nostri giorni infatti è il dominio del tempo e non dello spazio che l’uomo desidera. Basterebbe pensare alle guerre che non avvengono più con schiere di uomini e corazzate per conquistare nuovi territori, bensì con attacchi lampo mirati ad abbattere qualsiasi tipo di barriera temporale. Qualsiasi attrito alla

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circolazione di informazioni ed input deve essere tassativamente eliminata. E’ il tempo la nuova dimensione che cerchiamo di governare, spesso con insuccesso. Questo succede anche nella nostra quotidianità: la velocità con la quale scorre la nostra routine, gli impegni, gli spostamenti veloci (immediati se pensiamo al broadcasting o ai social network) e la complessità dei collegamenti governano le nostre esistenze. Poter entrare nel S. Lazzaro è stato una sorta di sollievo dato che solo i rumori provenienti dalla via Emilia ricordavano il mio attaccamento alla realtà. Questa sensazione credo debba essere preservata e rafforzata il più possibile. Soprattutto poiché in linea con il carattere staccato insito nella memoria del comparto manicomiale. Un ultima considerazione va al verde, quello però abbandonato. Un tratto curioso è che, in questa parte del S. Lazzaro, qualcuno si è finalmente occupato del link percettivo (ovviamente non di


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i principali comparti abbandonati del S. Lazzaro: (da sinistra a destra) l’Esquirol, Villa Marchi, il Donaggio ed il frutteto storico

- analisi del luogo

quello funzionale) fra i vari padiglioni: la vegetazione. Essa ha, per sua natura, rotto gli schemi instaurati in passato (quando è stata prima progettata e poi piantata) e si è appropriata delle superfici dei vari padiglioni nonché, spesso, degli spazi aperti che li separavano gli uni dagli altri. Questo è un esempio che si dovrà seguire per la progettazione successiva. Ovviamente di questo “atteggiamento verde” si dovrà capire e riportare il senso di appropriazione, di parassitismo e di ponte e non fermarsi ad una becera traduzione molto simile morfologicamente. Anello di congiunzione fra i temi dell’abbandono e della vegetazione è sicuramente costituito dal parco storico frapposto al Morel ed al neurologico. Questo ex frutteto ha subito grossi cambiamenti a causa del suo mancato utilizzo: alcuni alberi sono stati abbattuti e la natura ha seguito solamente le sue leggi e non altre dettate dallo sfruttamento dei suoi prodotti. Il risultato

è, attualmente, un “parco” non utilizzato ed in stato di rovina, se così si può parlare per quel che riguarda l’elemento naturale. Se Gilles Clement potesse però guardarlo probabilmente lo sceglierebbe come nuovo manifesto del terzo paesaggio. Sì perché è un luogo anch’esso dominato dal tempo e dal caso (non dal caos!). L’indeterminatezza è vista ancora una volta come plus valore poiché le leggi naturali seguono fluttuazioni imprevedibili (come l’alternarsi di inverni miti e rigidi o l’impollinazione dovuta al vento) ed il cambiamento continuo è il vero protagonista della scena. Non dobbiamo fare l’errore di sciogliere questo ordine (o non ordine se preferite) per instaurarne e cristallizzarne un altro. Come già riportato, sarà necessario sintonizzarsi su queste frequenze per provare a governarne lo sviluppo in senso urbano e, finalmente, compiuto dell’area.

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- anormalità come memoria

5 - anormalità come memoria 5.1 il potere disciplinare

studi morfologici e proporzionali su un ragazzo tacciato di anormalità. Per quant isforzi possano essere fatti la sua sagoma continuerà sempre a sbordare dalla griglia

Leggendo Foucault ci si accorge di come certi fenomeni come la scuola, il carcere, l’esercito, la famiglia e, soprattutto, il manicomio possono essere capiti solamente se ci si sofferma sulla nozione di potere disciplinare. Questo concetto è opposto a quello classico di potere della sovranità, quello che noi ci prefiguriamo in testa se pensiamo al potere ed il suo avvento è da far risalire alla modernità. Nella lezione del 21 Novembre 1973 Foucault utilizza 3 metafore per distinguere il potere della sovranità da quello disciplinare, indagando quello che questi due tipi di potere hanno, nei loro tempi, stabilito (non concordato ma stabilito!). Questi 3 elementi, presenti solo nella forma classica del potere, sono: “prelievo-spesa”, “anteriorità fondatrice”, “rapporti non isotopici”. Il primo descrive il rapporto che il sovrano ha con i sudditi. Egli preleva raccolti, oggetti, tasse e forza lavoro (raccolto) in cambio di un servizio (spesa) di protezione e privilegi. La seconda parla del diritto divino a governare, un potere derivante direttamente dall’alto e che non può sicuramente essere messo in discussione. Il terzo è sicuramente il più importante perché descrive pienamente questo modo di governare: il sovrano regna su realtà disomogenee, non regna su individui ma su entità diverse, su una sorta di amalgama umana. In questo sistema, se ci pensiamo, l’unica individualità è quella del sovrano. Con l’avvento del potere disciplinare assistiamo ad una completa riscrizione dei ruoli poiché questo sistema si avvale di regole e dogmi preimpostati e predefiniti, ovviamente non pattuiti con la popolazione. Il potere è visto come una identificazione totalizzante, come un controllo costante che si ramifica fino a

cingere l’intera società. Assistiamo alla nascita dell’individuo, totalmente assoggettato al potere disciplinare, ma individuo. Questo tipo di sistemi ha però un difetto: creano sempre dei residui, l’inclassificabile…nasce l’anormale. Il gioco diviene dunque contorto: il sistema crea l’individuo -> L’individuo può essere anormale -> il sistema ha il compito di trovare il modo di poterlo far tornare alla normalità. Dunque una duplice proprietà quella di questo nuovo modo di fare potere: una proprietà anonimizzante che riduce ai margini, produce l’anormalità e dice che cosa e chi è anormale e un’altra, quella normalizzatrice, che inventa nuovi sistemi di recupero. E’ solo in quest’ottica che possono essere letti fenomeni come le carceri o, nel nostro caso, i manicomi. Quest’ultimo, nonostante fosse chiamato “spazio medico”, non lo era affatto. Si trattava solo di istituzionalizzazione e disciplinamento con il medico come unico detentore del potere disciplinare appunto. Non a caso gli ospedali in genere nascono come prigioni militari durante la repubblica veneziana. Il riscontro dell’arrivo di numerosi malati provenienti via mare ha reso necessaria la loro suddivisione in categorie a seconda delle similitudini nelle patologie. Questi malati venivano dunque segregati in spazi differenti, costantemente controllati dal medico che svolgeva una vera e propria funzione di guardiano. Questi aspetti possono essere tranquillamente riscontrati anche osservando solamente la suddivisione in padiglioni del nostro complesso manicomiale. Qui però non venivano trattati semplici malattie bensì individui considerati anormali, deformi, incurabili e spesso incomprensibili. L’ansia di capire o forse domare quello che usciva dai rigidi confini sociali ed etici portò alla reclusione forzata di migliaia di pazienti nel solo S. Lazzaro. I progressi

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medici avanzarono e dalla fine dell’800 si iniziò a parlare di “corpo neurologico” e si passò da una categoria di follia omnicomprensiva ad una molteplicità di categorie specializzate (vedi suddivisione nei vari padiglioni reggiani). Folle, imbecille, ritardato, idiota. I malati furono divisi, da Lombroso in primis, nelle diverse tipologie di malattia mentale esclusivamente sulla base della morfologia del proprio viso. Vennero codificate delle regole dunque anche da un punto di vista estetico e le eventuali deformazioni segnavano per sempre la vita di queste persone: emarginazione. Lo sviluppo normale è fondamentalmente visto come soggiogamento dell’istinto (considerato come “volontà che vuole non volere” - Seguin). E proprio l’istinto è stato il più grande vettore del problema dell’anormalità; tentare di ingabbiarlo una sfida (persa in partenza) durata secoli. La cultura moderna ha continuato ad elaborare modelli (ad esempio il Panopticon di Bentham) per la contenzione e l’istituzionalizzazione di questi individui. Spesso quello di cui privati, oltre allo spazio, era il tempo...

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5.2 il racconto degli infermieri Questa trattazione culturale correva il rischio di rimanere troppo astratta, forse troppo accademica. Il sistema di reclusione ed istituzionalizzazione manicomiale doveva trovar riscontro nei racconti raccolti in passato ed è per questo che mi sono avvicinato al mondo delle testimonianze dirette dei protagonisti del S. Lazzaro, pazienti e personale sanitario. Tutto questo per ottenere una descrizione veritiera della vita quotidiana all’interno del comparto manicomiale; sia quella dei sorvegliati che dei sorveglianti. Ho letto numerose interviste ed ho avuto la fortuna di poterne fare direttamente una a due ex infermieri del S. Lazzaro, uno dei quali, che preferisco far rimanere nell’anonimato, ha vissuto in simbiosi con l’ospedale sin dalla sua nascita, nel 1940. Ho preferito restituire un resoconto, seppur frammentato, diretto e vero, riportando senza filtri le parole degli intervistati (non solo dei miei). Per una visione più strutturata e completa di questi racconti consiglio la lettura dei lavori curati da Pina Lalli, Maria Alberici e Verusca


5 -> le chiavi: simbolo del potere disciplinare gerarchico che governava il San Lazzaro. Per gli infermieri arma ed incubo al tempo stesso

- anormalità come memoria

Fornaciari di cui mi sono avvalso per questa sintesi. Abbiamo prima parlato del parallelismo fra l’istituzione manicomiale e quella carceraria, da cui deriva direttamente. Non sono mancati racconti e particolari che hanno confermato quest’analogia, ma quello che ha colpito la maggior parte degli intervistata è stato il rigido sistema gerarchico esistente fra i lavoratori. L’emblema di questa situazione era sicuramente costituito dalle chiavi: S.E. “sono arrivato al S. Lazzaro verso le 11 del mattino e un sorvegliante mi ha dato due chiavi dicendomi. “Queste chiavi sono come il fucile per il militare, se le perdi, tutte le conseguenze, penali e civili, della loro perdita ricadranno su di te!””.

<padiglione Lombroso. La rigida successione delle celle di contenimento vista dall’esterno e dal corridoio interno

V.F. “ un particolare che mi ha colpito molto, cioè i vari tipi di chiavi che si usavano: la chiave piatta senza tagli, con becco a destra o a sinistra, a seconda che fosse per gli uomini o per le donne, era per l’infermiere generico; poi c’era la chiave a due giri; quella a tre giri usata in certi reparti pericolosi, come il Lombroso, il Donaggio…che gestiva il caporeparto; poi c’era la chiave dell’ispettore, dei medici, dei portieri, che apriva tutte le porte e c’era anche una chiave per gli operai che permetteva l’accesso a tutti i reparti. All’interno dell’istituto esisteva una gerarchia molto rigida”. A. “(riferendosi alle chiavi) questo è il tuo pane. Se perdi le chiavi perdi il tuo pane”.

<-<Presidio Modelo prison in Cuba, basata sul Panopticon di Bentham che, impossessandosi del tempo dei detenuti, si prende anche le loro vite

Assieme a “rigido” il termine maggiormente ricorrente nelle interviste e riferito agli anni ’50 è “duro”. La maggior parte degli intervistati concorda sul fatto che le loro prestazioni non erano tipicamente infermieristiche bensì di pura contenzione (tranne qualche rara eccezione). Le condizioni dei malati sottolineano come quello del

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S. Lazzaro non fosse uno spazio medico bensì uno di reclusione forzata: B.A. “a quei tempi non c’erano molti mezzi, si usavano soprattutto fasce e corpetti; in certi reparti si cominciava a legare nel pomeriggio, verso le 15/15.30, per la notte”. V. “Ricordo, quando ero alle agitate, nella sezione fissate, che tutte le mattine era una lotta quando andavi ad alzare le malate; erano a letto tutte con il corpetto di forza, per cui le dovevi slegare, poi le dovevi portare in bagno, rimettevi i vestiti di forza e le legavi ad un pancone che era fissato a terra nei cortili interni al reparto.” A. “non mi attentavo più a fare le notti perché avevo sempre paura di trovare qualcuno impiccato”. B.A. “Al Donaggio c’era l’osservazione e bisognava fare la veglia dentro, insieme ai malati, perché lì erano pericolosi e potevano farsi del male; gli infermieri quindi si mettevano in un angolo e badavano tutto lo stanzone”.

R. “si iniziava a legare verso le 3 del pomeriggio e si finiva verso le 6 del pomeriggio, al Donaggio, perché c’erano 20 stanze e tutti gli ammalati al letto erano ammalati pericolosi. Ma non sempre sarebbe stato il caso di legarli. Venivano fissati i pericolosi, poi si fissavano anche i dementi o gli oligofrenici perché succedeva che mangiavano le loro feci”. R. “Il primo giorno che sono entrato son andato al Lombroso. C’era un muro di 3 metri (era impossibile guardare fuori) con tutti malati pericolosi, molti provenienti dal criminale… era il reparto più brutto perché quando faceva brutto tempo si stava 12 ore in un camerone e gli ammalati camminavano per 12 ore intorno a un palo, oppure stavi 12 ore davanti a un gabinetto a controllare i malati che entravano. Al Donaggio, al piano superiore, c’erano 20 posti letto dove si faceva osservazione; c’era un gran camerone con un vetro. L’infermiere si metteva dietro al vetro e guardava i malati, poi scriveva quello che succedeva”. R. “tranne i lavoratori tutti gli altri erano in ozio tutto il giorno, qualsiasi diagnosi avessero. Era solo diverso il tipo di sorveglianza.” F. “i problemi grossi li davano i malati al Donaggio, che non uscivano mai. Era un reparto molto lugubre e gli infermieri appena entrati li mandavano lì perché si facessero le ossa, chi non resisteva se ne andava.” R.M. “ricordo che i primi tempi a casa mi svegliavo di notte e sentivo il rumore delle chiavi, perché il manicomio aveva due suoni particolari: o il silenzio più assolto, con il solo rumore delle chiavi, o il rumore più inverosimile, non un vociare normale, ma dei versi quasi di animali.” Sappiamo poi, anche solo guardando le foto o

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-> fermatesta. utilizzato, ancorato al letto mediante cinghie, per evitare che il malato si ferisse o lacerasse la tela in cui era avvolto

<camicia di forza a doppia tela. il più rapido mezzo di controllo dei pazienti


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piante storiche, che il manicomio si è sempre posto come cittadella chiusa alla città e che i vari padiglioni erano imbrigliati da questa griglia soffocante che eliminava le contaminazioni ed i rapporti fra essi. E’ interessante vedere come questo veniva percepito dai lavoratori: V. “…quando i cancelli erano tutti chiusi ed entravano solo i famigliari che però si fermavano in portineria (…), gli altri cancelli erano per il personale, quindi il contatto qui con l’esterno non c’era”. V.F. “i reparti sembravano tanti collegi, perché erano tutti autonomi; il S. Lazzaro non era un cubo dove tutto era uguale, come qualcuno poteva immaginare, anzi ogni reparto era una realtà diversa da un’altra”. Quello che impressione è però il rapporto culturale che i “normali” cittadini avevano con l’istituzione S. Lazzaro. Negazione, non curanza, pregiudizi, lontananza. Il trattamento non cambia, anzi si amplifica se si considera poi il rapporto fra i malati e le relative famiglie:

P.B. “ma lo stigma del malato di mente – del pazzo per definizione pericoloso – era difficile da estirpare in quanto archetipo – tabù – radicato nella cultura dell’umanità, da secoli o da millenni”. A. “mi sono spesso sentita dire: “ma dai, taci, che lavori in manicomio!”, non mi sentivo presa sul serio”. B.P. “ quando tenevamo le porte chiuse con la chiave tutti volevano scappare fuori, non appena abbiamo aperto le porte, non andava più fuori nessuno; molto probabilmente i malati avevano paura che non li riprendessimo più dentro o forse non sapevano dove andare”. B.M. “il dott. Romani aveva proposto aveva proposto ai parenti di prendere a casa il loro congiunto almeno un’ora alla settimana, insieme ad un’infermiera ovviamente, tanto per abituarli un po’ alla loro presenza; nessuno ha accettato per il timore di riavere a casa il proprio malato”. G.Z. “molti parenti venivano a trovare i loro famigliari al S. Lazzaro solo una volta all’anno, proprio il giorno dei morti, perché come si visitano i morti al cimitero così si visitavano i malati al manicomio, che erano come dei sepolti vivi”. M.V.L. “nelle case dei parenti dei pazienti, che si presumeva potessero essere dimessi, non trovavamo nemmeno il letto, dimostrazione palese che i malati erano stati completamente cancellati e dimenticati. La cultura di allora, delle famiglie, era la vergogna, l’umiliazione perciò questo atteggiamento non si poteva neanche biasimare del tutto”. Quello che impressiona e che conferma ogni apparenza (o meglio evidenza) di reclusione degli emarginati e delle persone ritenute pericolose

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per la società è il criterio di ammissione dei “malati”. Si parla di un numero incredibile ed agghiacciante di persone che non avevano la minima ragione di trovarsi in uno spazio del genere: B.A. “Devo anche dire che non tutti erano malati seri, circa l’80% erano sani di mente ed erano ricoverati per motivi diversi; tante persone erano state messe alla scuola Marro appena nate o perché non avevano famiglia o perché non li potevano tenere a casa, così hanno vissuto tutta la loro vita in un istituto anche se non erano malate. Questo era una specie di lazzaretto all’inizio, ci venivano messi gli zingari, le persone “da poco”, i “poveri diavoli”, tutti quelli che davano fastidio fuori”. B.P. “c’erano più di 2000 pazienti e di questi, 1500 non sarebbero dovuti neanche entrare; allora chiunque avesse avuto un problema veniva messo dentro il manicomio e abbandonato e la cosa più incredibile era che spesso le persone arrivavano con un certificato medico scritto da un dottore che non li aveva neppure visitati”.

se erano solo mute. La P. era stata messa dentro perché dava un cattivo esempio alla figlia della contessa, la cartella clinica diceva “…Bimba di 7 anni molto vivace e e dava male esempio alla figlia della contessa…”, i genitori erano custodi nella villa di questi conti. Va onestamente detto che non tutti gli aspetti erano negativi. Spesso si instauravano anche rapporti, se non di amicizia, almeno di collaborazione fra personale sanitario e degenti. Certamente questo si riscontrava più facilmente quando l’infermiere era motivato da passione nel proprio lavoro. Quest’aspetto, che potrebbe risultare ovvio, non lo era affatto perché la maggior parte dei lavoratori aveva cercato un’occupazione nell’enorme macchina S. Lazzaro solo per avere una forte sicurezza economica che in questo periodo non era certamente da dare per scontata. E’ comunque giusto almeno accennare a questo tipo di persone e situazioni anche per riuscire a cogliere gli aspetti positivi, se così si possono chiamare, della malattia e dunque della memoria del luogo, sperando di riproporli, in qualche veste, nel futuro progetto:

V. “c’erano una volta persone ricoverate anche

<letto di contenzione. Fissato al pavimento mediante occhielli, era dotato di face e fori per immobilizzare il malato

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M.N. “alcuni malati aiutavano gli infermieri, a volte bastava soltanto trattarli con un po’ di umanità e in cambio si ottenevano grandi risultati”. M.V.L. “spesso alcune pazienti apparivano pericolose soltanto perché avevano bisogno di affetto”. M.V.L. “E’ stato Guicciardi a iniziare a impiegare i malati, che prima giravano tutto il giorno in un cortile, in vari lavori; in questo modo i pazienti si sentivano responsabili, a parte il guadagno stesso”. B.P. “la cosa che ha dato maggiori risultati è stata quella di aprire le porte, dare più fiducia ai malati e al tempo stesso rischiare”. V. “quando, nel ’77, si è deciso di aprire il S. Lazzaro, si fecero allora i famosi murales del Donaggio, (…), c’è stata quella famosa festa durata 7 giorni in cui tutta la gente è venuta dentro. Per me questa apertura è stata una delle cose più belle che ho vissuto.”

5.3 il racconto dei pazienti Leggere le interviste o le lettere degli ex pazienti è stato sicuramente più difficoltoso poiché le storie si configurano spesso come racconti fantasiosi, quasi sempre criptici. Credo che sia comunque fondamentale dare una voce anche a chi ha subito l’istituzione. Non solo per ricordare o rabbrividire ma anche per cercare di comprendere i meccanismi della mente umana, seppur “anormale”, messa crudamente di fronte a questo tipo di disciplinamento. Ritroviamo, ad esempio, seppur filtrate da menti deviate, conferme sui metodi barbari di contenzione e sulla filosofia di reclusione forzata adottata: Lettera di una malata allo zio (1949) “…ho il diritto di essere libera (…), sono un cristiano anch’io, non sono mica una bestia da fare a questo modo; qui è il manicomio e trattano male e sbeffano in giro. Io non sono mica lo zimbello di tutti e quindi venitemi a prendere fuori subito perché sono stanca di questa vita rinchiusa (…) e se potete ritirare le voci (che calunniano a tutte le maniere) perché io non le voglio perché io devo vivere per mia figlia essere libera”. E. “il 6 gennaio cambia il direttore, ma le cose restano le stesse, i reparti restano chiusi: il cielo, il sole, si vedevano dalle finestre o dai cortili in mezzo a mura alte”. E. “3 mesi dopo mi hanno trasferita all’interno, cioè in un reparto chiuso da mura, come se fosse una prigione”.

-> sedile di contenzione a due posti. I pazienti più volenti venivano legati qui durante il giorno, soprattutto per il consumo dei pasti

E. “per ordine del direttore non erano permesse passeggiate lungo i viali”. R2. “sono stata ricoverata per sempre nel ’44, perché non stavo bene. Sono stata legata per 9 mesi”.

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A. “passavamo la giornata nel cortile, stavamo per terra…” Sicuramente poi la chiusura del manicomio rispetto alla città era percepita anche e soprattutto dagli ammalati che con il mondo dei “normali” spesso non avevano niente a che fare. Questo non sempre è stato vissuto come un trauma da parte dei degenti perché, per alcuni di essi, il recinto era visto anche come riparo, in questo caso dalla società che li aveva emarginati e rinchiusi:

<fotografia storica di una paziente del S. Lazzaro. Realizzata per studio dei tratti morfologici dei malati, con lo scopo di associare loro le relative devianze comportamentali

A. “ C’è tutta un’area circoscritta, non si può andare fuori dal S. Lazzaro, non si può più andare in Italia, nell’altra Italia…c’è un’altra Italia, con Coppi, Bartali, Magni, Pietrucci…Loro sono nell’altra Italia mica nell’Italia sotto San Lazzaro! Sono nell’Italia sotto il duce, sotto Badoglio! (…) perché ce ne sono due di Francia, una sotto San Lazzaro”. L- “quando sono entrato nel ’62 da S. Lazzaro non si poteva uscire. I malati uscivano poco, le porte dei reparti erano chiuse”. M. “non mi piacerebbe essere fuori, non ho un mestiere, non so guidare, non ho una guida; sono venuto qui da bambino! Non ho invidiato gli altri quando sono usciti.” M2. “la gente fuori è peggio di noi, adesso questa qui è diventata un’oasi”. Vi sono poi altri estratti che ci restituiscono un’immagine del rapporto che i pazienti avevano con la propria malattia, relazionata al S. Lazzaro e alla propria famiglia: R2. “ sono stata meglio, però ero sempre malata, ma io stavo bene” R. “io sarei stata a casa di più ma mia mamma non

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-> le finestre sbarrate del Lombroso (a sinistra) ad interrompere un graffito realizzato con il cucchiaio del rancio, e quelle del padiglione Donaggio (a destra)


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voleva…ai genitori, si sa, bisogna obbedire”. R2. “il mio desiderio era accontentare ancora una volta i miei genitori perché mio padre mi veniva sempre a trovare con mio fratello, mia mamma non veniva, diceva che lei non veniva perché le faceva male la macchina…” R2. “ma si viene al mondo per stare male. Ho pianto tanto, ora non piango più. Volevo annegarmi nel pozzo con i miei figli perché non stavamo bene. Poi mio figlio più grande mi ha detto di no, che non ne valeva la pena”. Come dicevo, è difficile interpretare queste parole poiché spesso sono dovute a malattie mentali e, dunque, risultano non certo lucide ma certamente significative. Ritengo poi utile, per comprendere meglio il fenomeno della malattia e, ancor più, il rapporto che i pazienti avevano con

essa, riportare un breve estratto di un rinomato studioso che ci spiega più chiaramente quali sono gli effetti dell’istituzionalizzazione assoluta dei manicomi su questo tipo di rapporto: “crearsi un’immagine fantastica della propria vita da comunicare agli altri, ma in cui probabilmente si finisce per credere, o si tenta di credere, anche quando si è soli, può essere l’indispensabile reazione di difesa per sopravvivere nella disumanità totale di un’istituzione totale, psichiatrica o non psichiatrica. (…) se il paziente vive o è per tanti anni vissuto in un’istituzione totale, il suo modo di vedere le cose è, naturalmente, autogiustificante della sua condizione: se si intendere descrivere questa fedelmente, bisogna dar credito a quello ch’egli sente e racconta”. Bruzzone, 1979.

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5.4 i risvolti morfologici nel S. Lazzaro Con il manicomio si è cercato di allontanare l’anormalità dalla vita urbana. Il S. Lazzaro si è sempre posto come agglomerato urbano parallelo al centro storico ma senza possibilità di interazioni e/o contaminazioni con esso. Questo microcosmo autosufficiente ha da sempre ospitato infatti gli anormali, gli emarginati, i soggetti ritenuti pericolosi per la società. Questo è avvenuto sin dalla sua nascita attestata come antecedente al 1179: ha ospitato prima i lebbrosi, poi i poveri, per diventare infine un manicomio permanente. Non a caso, dunque, come si diceva nel capitolo precedente, quello che si percepisce raggiungendolo è un recinto, un confine netto, praticamente invalicabile. La prima chiusura netta e ben definita è dunque quella con la città e le sue dinamiche urbane. Lo è oggi ma lo è sempre stato. La griglia che tentava, nelle pagine precedenti, di imbrigliare, senza per altro riuscirci, il ragazzo ritenuto anormale può essere facilmente rintracciata anche nel S. Lazzaro. La sua prima azione è stata quella di dividere in modo netto il comparto nei vari padiglioni, attraverso cesure che ne impedissero contaminazioni ed interscambi gli stessi. Iniziamo dunque a capire come la visione satellitare sia fuorviante poiché tutto lo spazio caratterizzato da fitta vegetazione che si può notare dall’immagine spesso non veniva vissuto dai pazienti, rinchiusi nei vari edifici a seconda della tipologia di malattia mentale che presentavano. Questa cesura ha dunque ragioni mediche e di istituzionalizzazione. A fine ‘800 si iniziò a pensare che fosse giusto collocare i degenti in spazi separati a seconda delle peculiarità della loro malattia: dementi, ritardati, idioti, sudici, suicidi, furiosi, ecc. Questo è stato fatto soprattutto per evitare episodi spiacevoli causati dai pazienti “violenti” e “agitati” ma anche per controllare meglio le

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<schemi planimetrici che mostrano la genesi morfologica del S. Lazzaro, costituito da una proliferazione di padiglioni completamente staccati gli uni dagli altri

schemi assonometrici che evidenziano come i padiglioni siano stati sviluppati, per volere dei medici, partendo da rigide griglie di imbrigliamento. Creazione di topos architettonici estremamente regolari e circostanziati


5 -> L’interno di una cella di contenzione doppia nel padiglione Lombroso

- anormalità come memoria

dinamiche di funzionamento del ricovero. Questo esempio (ne potremmo fare molti altri) pone in evidenza un fenomeno costante nel S. Lazzaro: era il medico, guidato dalle conoscenze scientifiche del momento o da proprie convinzioni, a governare lo sviluppo morfologico del complesso e dei singoli padiglioni. L’architetto era rilegato ad un ruolo marginale, una sorta di supporto tecnologico e/o estetico. Muri, barriere e viali (inaccessibili ai pazienti) hanno dunque ingabbiato i vari padiglioni che, a loro volta, hanno seguito regole morfologiche ferree e ripetitive. Questa griglia soffocante è stata appositamente creata non solo per contenere, ma anche per regolarizzare ed imbrigliare la pazzia, la malattia. Basti pensare alla rigida sequenza di celle di contenimento del padiglione Donaggio o del Lombroso, o alla configurazione a corti chiuse del padiglione storico, il Morel. L’esito

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creativa è però inaspettato ed interessante: nasce infatti un conflitto fra le caratteristiche geometriche del contenitore e la natura della sua esperienza da parte soprattutto dei pazienti. Risse o aggressioni, passeggiate interminate attorno ad un pilastro o ad un albero in un cortile, urla e graffiti sui muri realizzati con il cucchiaio del rancio racchiudono l’essenza della fruizione di quegli spazi. Era comunque l’anormalità a governare dunque la percezione di questi topoi architettonici così rigidi e regolari. I pazienti esperivano quindi quegli spazi seguendo un’altra “regola” e cioè quella del loro mondo. Essi filtravano la realtà e lo spazio attraverso la loro sensibilità, memoria, ma soprattutto malattia ed associazioni mentali e cognitive. Il disobbedire a rigide regole imposte era l’unico modo di sopravvivere a se stessi, l’unico modo di far convivere l’uomo istituzzionalizzato con l’animale uomo, istinto puro. La memoria ferita di questi luoghi è impregnata nei muri, ma è di contenuti e non di contenitori: questa va capita, questa va rivissuta, questa va ri-declinata…in senso creativo, contemporaneo, e, soprattutto, positivo. L’anormalità deve tornare ad impossessarsi del luogo.

“Non è rinchiudendo il vicino che ci si convince del proprio buon senso.” Dostoevskij

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<foto storica raffigurante un ambiente comune interno (sempre nel Lombroso). Lo spazio è regolare ed il pilastro diviene la base per l’esperienza percettiva di molti malati

i pazienti vivevano questi topos filtrandoli con la loro sensibilità e, soprattutto, malattia. Ciò che dominava la percezione di questi spazi era l’anormalità


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- anormalitĂ come memoria

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6 <programma urbano in stretta collaborazione con il tecnopolo delle ex officine reggiane e con le reti dirette di trasporto locale e nazionale

- anormalità come programma

6 - anormalità come programma Abbiamo già detto come il programma che dovrà essere steso ed instaurato dovrà sopperire a tutte quelle mancanze e lacune presenti in questo momento nel neonato Campus universitario S. Lazzaro. Gli obiettivi sono tanti ma il principale è sicuramente la restituzione, fisica e vitale, di questo stralcio di tessuto all’arazzo cittadino. Io penso che questo debba avvenire però riconiugando la propria memoria, proprio quel passato che l’ha portato all’esilio. Sì perché L’anormalità crea emarginazione, persecuzione, abbandono, elettroshock...ma anche scoperte scientifiche, filosofiche e capolavori artistici. Anormalità dunque per il passato del S. Lazzaro, ma anche per il suo futuro.

6.1 anormalità come eccellenza Anormalità può essere letta anche come eccellenza, a cui Reggio Emilia aspira. Il sindaco Del Rio ha infatti affermato che: “i territori e le città del pianeta si trovano, come noto, in competizione per procurarsi risorse umane e finanziarie sempre più contese e finite, in competizione per attirare persone e finanziamenti. A giudizio di molti studiosi, nei prossimi 2030 anni si configureranno, in tutto i l mondo, pochi centri di eccellenza. Le grandi capitali dell’innovazione, ovvero i luoghi propulsori della crescita economica globale, saranno solamente le megalopoli e le grandi città internazionali. Accanto a questi centri, se ne costituiranno altri a dimensione territoriale più ridotta, assimilabili a capitali regionali o provinciali e l’ambizione di Reggio è quella di diventare una di queste. Perché la capacità di competere si misura sempre più sulla possibilità di eccellere in termini di conoscenza, creatività ed innovazione.

Una città competitiva, infatti, investe sulla cultura, sulla formazione, sulla ricerca, sulla qualità e valorizzazione del capitale umano in termini di creatività e talento, elementi determinanti per il benessere economico e sociale e per il futuro di una società moderna”. L’intento è chiaro, così come la strada percorsa. Basti pensare alle ex Officine Reggiane, sito anch’esso (al pari del nostro) strategico per la città. Sono già iniziati i lavori che lo trasformeranno in un tecnopolo per la ricerca e lo sviluppo sui temi della meccatronica, efficienza energetica, sostenibilità delle costruzioni. In aggiunta, data la sua posizione praticamente confinante con la stazione FS, sarà anche un importante nodo intermodale e base per l’instaurarsi di terziario avanzato. Anche le ex officiane reggiane sono immerse in quella rete di spostamenti e trasporti precedentemente descritta e verranno collegate direttamente al S. Lazzaro mediante la metropolitana di superficie. Questa recente infrastruttura di trasporto leggero, attualmente pressoché inutilizzata, costituirà anche un link veloce con la stazione dell’Alta Velocità, a nord dell’agglomerato urbano, permettendo la libera e veloce circolazione di persone, di ricercatori di alto profilo, di studenti e, in generale, di idee. Dato che la connessione (essenziale) con questo polo è dunque già stata pensata e realizzata, sarebbe inutile imitare questo tipo di funzioni che lì si manifesteranno a pieno regime. Dovranno però ovviamente essere prese in considerazione. Ed è per questo motivo che ho pensato di trasformare l’area dell’ex colonia agricola, dove è possibile costruire nuove volumetrie, in un welcome point, aula magna, spazio polifunzionale da condividere con imprese e ordini professionali, nonché centro di accesso e smistamento per l’area universitaria. Questi spazi, fondamentali per il funzionamento dell’università, al momento mancano ed è dunque lecito avvalersi di metri cubi resi disponibili

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dalla conferenza di servizi per instaurarle in questa posizione. La creazione di un’aula polifunzionale messa a disposizione degli ordini professionali interessati (quello dei farmacisti in primis) potrebbe poi contribuire alla risoluzione del problema economico. Questi potrebbero infatti investire capitali, che attualmente mancano al comune, in un progetto anche a loro dedicato e che li vedrebbe fortemente intrecciati alla vita universitaria, fondamentale per il mondo del lavoro. Ovviamente questi spazi vivrebbero anche del rapporto con le ex officine reggiane: nulla vieta che possano essere utilizzati, ad esempio, per lezioni di professionisti e ricercatori esterni provenienti dal tecnopolo. Il sedime dell’ex colonia agricola, in aggiunta, si trova adiacente al sottopassaggio, previsto dal PRU, che collegherà il S. Lazzaro con la propria stazione della metropolitana di superficie, necessariamente posizionata oltre il limite nord della linea ferroviaria. Quest’aspetto, unito al fatto che essa si trova anche alla fine del principale percorso pedonale di accesso dalla via Emilia, rende questo sito perfettamente adatto all’instaurarsi di queste attività.

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6.2 Anormalità come creatività Ritornando a guardare le previsioni del PRU ci accorgiamo di come la parte caratterizzata maggiormente da grandi punti interrogativi sia quella ovest, confinante con la città più strutturata(il limite più labile). Per questa indeterminatezza attuale, per il potenziale degli edifici abbandonati che qui si trovano e per il suo configurarsi come punto di attracco con la città dei “normali” ho deciso di instaurare in questa zona la maggior parte del mio programma. L’anormalità che prenderà piede qui è di altro tipo rispetto alla precedente ma ugualmente importante. Creativa, culturale, artistica. Reggio Emilia ne ha bisogno. Mi sono appoggiato ai lavori e constatazioni di due “soggetti”. Il primo è “Reggio Nova” (www.reggionova.it), network telematico che si fonda sulla collaborazione di tutti i professionisti e non che vivono e lavorano nella scena culturale di Reggio: mass media, arti visive, musica, design, architettura, ecc. Il secondo è “OPERA – think, research, create” (www.rumoreweb.it), organo di ricerca sui temi dei new media e della creatività, nato in seno al Dipartimento di Scienze Sociali Cognitive e Quantitative dell’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia e coordinato dal prof. Fabrizio Montanari. Essi sostengono che la creatività sia la merce più ricercata nell’economia di oggi, con un’industria associata paragonabile per tassi ai settori industriali e dei servizi. Più il capitale umano creativo è concentrato, inoltre, più le imprese ne traggono profitto. L’obiettivo? La creazione di un distretto creativo, di un network: connessioni e collaborazioni. Un loro spot è “la creatività è sociale”. Non male per rifarsi all’anormalità come connettore sociale ed urbano. Questo progetto di Reggio Emilia come distretto creativo è già partito: numerosi soggetti hanno mostrato interesse ed hanno aderito (quelli riportati nelle immagini). Il mio intento è

-> Reggio Emilia come distretto creativo. Sono evidenziati i protagonisti della scena culturale della città che hanno aderito al network reggionova e le reti fisiche di collegamento (fra di loro e con il S. Lazzazo)

<il cantiere che trasformerà le ex officine reggiane in un tecnopolo, nodo di interscambio modale e sede di terziario avanzato


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- anormalitĂ come programma

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dunque quello di creare uno spazio in cui rendere materiali ed ancora più ancorati alla realtà questi link. So che sembra una contraddizione, ma non lo è. Perché non voglio cristallizzare le dinamiche fluide e liquide tipiche dei new media e dei social network: tutti i collegamenti via etere non solo rimarranno, ma verranno implementati poiché questa parte del S. Lazzaro comunicherà costantemente con ognuno dei protagonisti della scena culturale di Reggio Emilia (vedremo poi come). Vorrei però creare, in agiunta, una possibilità, un evento urbano, uno spot pubblicitario non solo per l’esposizione, ma anche per la produzione di cultura creativa. Un polo culturale nel tessuto urbano di Reggio Emilia, ovviamente aperto a tutta la comunità. Penso soprattutto a start up, incubatori di idee in cui professionisti esterni e non (vedi “reggio nova”) possano contribuire alla realizzazione del singolo progetto. Il loro ritorno sarà in termini di immagine, andando a sponsorizzare Reggio Emilia come quartiere creativo. Non mancheranno spazi di accoglienza, esposizione di opere e lavori in genere, ristorazione, laboratori ed uno stretto legame con residenze temporanee (in collaborazione con lo studentato-foresteria adiacente). I lavori

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verranno continuamente esposti. Diverrà una tappa nel circuito artistico di Reggio (vedi “Invito a” o “Spazio Gerra”) a cui tutti potranno partecipare. Aspetto particolarmente interessante che va a rafforzare questo tipo di intervento è la recente nascita di uno degli oltre 100 Fab Lab di tutto il mondo proprio a Reggio Emilia. Alla domanda “che cos’è Fab Lab?” ritengo giusto rispondere con le parole riportate sul sito dell’organizzazione: “Fab come fabbricare, costruire, fare. Lab come laboratorio, bottega, officina. E’ questo il moderno luogo del fare tecnologico, dove i nuovi artigiani digitali danno corpo alle proprie idee. Fab Lab Reggio Emilia è il primo laboratorio digitale ad aprire in Emilia Romagna e a trovare sede all’interno di un centro di cultura contemporanea. Per un intero anno una delle stanze dello Spazio Gerra si trasformerà in un vero e proprio laboratorio a disposizione di scuole, aziende, designer e tutti coloro che vorranno cimentarsi con i nuovi metodi del disegno e della stampa 3d. ma anche con tutto l’universo del DIY applicato, al design, alla moda, al design interattivo e a tantissime altre discipline. Una tecnologia ormai alla portata

link di collaborazione e scambio creativo: attestati attualmente (www.reggionova. it) e futuri, grazie all’instaurarsi del programma nel S. Lazzaro


6 -> alcuni frame del video di presentazione del network creativo Reggionova (www. reggionova.it)

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di tutti permette a creativi, designer e artisti di creare oggetti e prototipi di ogni genere e a prezzi contenuti avvalendosi di macchine come stampanti in 3d, laser cutter o plotter vinilici. L’universo open source e la stretta collaborazione tra gli oltre 100 Fab Lab in tutto il mondo rendono possibile un sostegno reciproco e l’impiego di software e progetti disponibili in rete e liberi da diritti, che ognuno può realizzare, modificare, migliorare e condividere.” (www.fablabreggioemilia.org) Trovo quest’occasione fortemente sintonizzata sulle frequenze di Reggio Emilia come distretto creativo e penso che possa contribuire enormemente a rendere fattibile ed ancorato alla realtà il mio programma. E’ stato infatti spiegato che l’attuale sede si trova in una stanza all’interno di un importante centro della cultura contemporanea reggiana. Oltre ad auspicare future collaborazioni con Spazio Gerra, il S. Lazzaro potrebbe divenire la nuova sede a tempo indeterminato di questo laboratorio. In questo modo il fenomeno creativo continuerebbe ad alimentarsi e a porsi realmente e fortemente come polo attrattivo per la città, una cerniera dominata da dinamiche di difficile definizione ma in grado di aumentare enormemente la vita sociale all’interno del comparto: si configurerebbe finalmente come attracco fra la città più strutturata, ad ovest, ed il Campus universitario, ad est. L’attaccamento urbano verrà poi evidenziato dal suo costituirsi come porta per il parco storico “rimaneggiato” e dal suo collegamento con il padiglione Lombroso, sede del museo di storia della psichiatria. Oltre che luogo di incontro, scambio di idee, spazio pubblico per studenti e non, potrebbe essere la sede, data l’ampiezza degli spazi, di eventi collaterali temporanei che richiamerebbero persone ed alimenterebbero un circuito economico (basti pensare alla ristorazione o alle residenze temporanee) fondamentale per la realizzabilità dell’intervento.

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creativa

6.3 la definizione del programma Innanzitutto ci sarà un funzionamento ordinario ed uno occasionale, temporale, straordinario poiché… “essere moderni significa non tanto essere ma divenire, restare perennemente incompiuti e indefiniti” nella consapevolezza che “l’unica costante è il cambiamento e l’unica certezza l’incertezza” Bauman - modernità liquida Nel primo domineranno i box degli startupper, vero motore del comparto. Essi si porteranno dietro le residenze connesse, le postazioni esperti, i laboratori e le sale prova per musica e film. La logica dell’operazione è legata ovviamente alla corrente dell’open source, ma non si ferma qui perché questo luogo sarà uno spazio per riflessioni, condivisioni e collaborazioni; ovviamente con la creatività come leitmotiv. Vi sarà una residenza temporanea d’artista, il quale parteciperà sia in modo indiretto (la sua esperienza a favore degli utenti) che attivo (“manipolando” parti del comparto a lui assegnate). Questo tipo di attività non sono rare nella scena contemporanea e stanno dimostrando nel tempo il loro successo, soprattutto in termini di credibilità dell’operazione. Ampio spazio sarà destinato all’accoglienza poiché fondamentale per un polo di incontri che ha nel rapporto con la collettività un punto cardinale. I visitatori, oltre ovviamente agli studenti e agli utilizzatori costanti dei vari dispositivi, verranno orientati e, in qualche modo, guidati nell’esperienza nel sito. Il grande afflusso previsto renderà possibile l’instaurarsi di numerosi punti di ristorazione nelle sue varie vesti, da quella pret a porter (spazio di ritrovo, incontro e svago) a quella di alto livello (supportata dal regime culturale instaurato nell’area). Verranno battezzati degli accessi “fissi” da e per la città, veri filtri del

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continuo scambio di persone, cultura ed idee. In aggiunta, molta rilevanza sarà assegnata ad una sede fissa di esposizione del numeroso materiale riguardante la storia della psichiatria che attualmente è in attesa di sorti più dignitose e consone alla sua importanza scientifica e culturale (biblioteca Livi, cartelle cliniche, foto storiche e dipinti dei pazienti). Questo punto sarà in collaborazione con il museo al Lombroso e con quello diffuso, di nuova concezione, che si insedierà sull’ex frutteto storico. Ci sarà poi un funzionamento straordinario. Qui si terranno workshops, mostre, esposizioni-installazioni, concerti, e cinema (la settimana del…?). Gli start upper saranno inoltre dotati di un apposito box in cui esporre i propri lavori alla collettività ed ovviamente questi spazi avranno un contenuto solo quando il lavoro (un brano, una pellicola, un modellino, …) sarà terminato. La collettività è invitata. Verranno poi predisposte delle residenze temporanee fortemente legate a questo tipo di attività. Se ad esempio assisteremo ad un’ipotetica settimana del cinema contemporaneo, i vari protagonisti o soggetti interessati potranno trovare un alloggio direttamente all’interno del S. Lazzaro. Potrebbe essere poi valutata la possibilità di una collaborazione in questo senso con lo studentato, attualmente in fase cantieristica, che prenderà vita nel vecchio neurologico. In relazione agli eventi poi muterà il rapporto con la città, il fronte strada in primo luogo. Si sarà spronati ad entrare o accolti o stimolati a passare o allontanati o isolati. Tutto in funzione del comportamento temporaneo dell’area. Il posizionamento delle attività in questa porzione del complesso manicomiale è stato studiato in relazione alle potenzialità funzionali dei vari padiglioni superstiti ed al rapporto con la città, favorendo alcune vie espositive e creando diversi percorsi tematici. Questo complesso mix funzionale sarà meglio evidenziato e spiegato quando si parlerà del progetto architettonico vero e proprio.

pragramma dettagliato delle attività proposte e loro sistemazione nel comparto


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- anormalitĂ come programma

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7 la genesi di un nuovo paesaggio anormale: schemi assonometrici

- anormalità come idea

7 - anormalità come idea 7.1 l’idea architettonica Il programma è complesso ed ha bisogno di un’idea architettonica forte per adempire alle numerose esigenze del fare e per poter esperire l’intervento in senso estetico. L’idea deve necessariamente attingere a quel brodo primordiale emozionale e sensoriale che ha caratterizzato l’incontro con il luogo e non può che riferirsi all’anima dello stesso, alla sua memoria. E’ inevitabile dunque che l’anormalità, ancora protagonista indiscussa del S. Lazzaro, si configuri anche come idea architettonica. Come detto gli edifici sono imbrigliati in rigide griglie e ne creano altre a loro volta. La ragione di questa traduzione morfologica, come ampiamente sottolineato nel capitolo 5, è da ricercare nell’applicazione del potere disciplinare che configura un apparente spazio medico in un carcere vero e proprio. File regolari ed equidistanti di finestre, cornicioni o le congiungenti degli alberi nei viali sembrano voler scandire il tempo in modo regolare, in netta contrapposizione con la percezione che noi esseri umani abbiamo di esso: continuo ma irregolare, rallentato o accelerato in modo diversificato, sfaccettato e personale. Queste norme materiche sono facilmente visibili oggi che parte del complesso è abbandonato ed è cessato il continuo vociare dei pazienti o il tetro rumore delle serrature che si chiudono una dietro l’altra. Gli edifici saranno mantenuti (anche perché vincolati in toto con decreto legislativo) ma ovviamente presentano carenze funzionali: non sono i contenitori adatti del nuovo fare. Sicuramente non sono stati progettati per questo. Andremo dunque ad inserire nuovi “dispositivi” diversificati. Alcuni saranno dei parassiti realmente attaccati agli edifici storici. Essi saranno dei plug-in, una sorta di protesi

per essi e ne miglioreranno la fruibilità. Potrebbero costituirsi semplicemente, ad esempio, come vano di collegamento verticale o come volumi emergenti pensati per indicare l’entrata del museo o il punto di ristoro panoramico. Vi saranno poi dispositivi fissi per le funzioni che non possono essere alloggiate negli edifici esistenti e, ancor più interessanti, dispositivi mobili in grado di cambiare configurazione e dare vita ad avvenimenti temporanei mutando continuamente il rapporto percettivo con la città e con il fruitore. Ognuno di questi elementi, in termini di funzionamento sistemico, si presenta come un parassita e cioè come un operatore differenziale del cambiamento. I parassiti si attaccano ad un corpo e ne cambiano completamente il funzionamento attingendo da esso linfa vitale ma instaurando, al tempo stesso, una nuova dinamica. Credo che questo approccio risulti corretto anche da un punto di vista culturale poiché ogni intervento parassita altro non fa che commentare il luogo che trova, imponendosi l’obiettivo di modificarlo. Ogni commento deve necessariamente, per propria natura, porsi ad un tempo diverso rispetto a ciò che è commentato e penso che sia giusto, sicuramente vero, da un punto di vista storico. Ma dove sta l’anormalità? La domanda risulta legittima soprattutto se ci soffermiamo sugli schemi proposti. I dispositivi presentati non sono infatti anormali poiché, essendo concepiti come cristallizzazione ed estrazione dei singoli topos costituenti gli edifici, si presentano come assolutamente regolari. Nemmeno il loro posizionamento o movimentazione (a seconda che siano fissi o mobili) è anormale. Essi infatti, nonostante l’apparente caos, seguono rigidamente la griglia o le sue linee generatrici per disporsi all’interno del comparto. Saranno invece anormali i rapporti (sia percettivi che funzionali) che intercorreranno fra i vari oggetti ma soprattutto sarà anormale l’esperienza del visitatore all’interno di questo artificio. Egli filtrerà il luogo attraverso la propria sensibilità, background e capacità associative,

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decidendo in toto come approcciarsi al luogo attraverso gli spot percettivi proposti. Il fruitore ha infatti piena libertà: si trova di fronte ad un gioco costruito su rigide basi geometriche ma la percezione che ne avrà sarà sfaccettata, complessa, dominata da suoni, luci, flussi e, necessariamente, non potrà essere incanalata nei binari della griglia. Anzi…per poter esperire in senso estetico il paesaggio sarà (al 99%) costretto a trasgredire queste regole. Regole peraltro messe ben in evidenza perché la griglia, oltre ad essere ovviamente ricercata, continuerà ad essere percepibile e verrà addirittura sottolineata. Questo per dimostrare la possibilità di raggiungere un paesaggio complesso, libero, contaminato e anormale anche mantenendo regole preimpostate ed autodeterminate. Anche se potrà essere tacciato di anormalità rispetto all’aspetto fisico del topos, starà seguendo un’altra “regola” e cioè quella che il suo filtro della realtà gli sta suggerendo. Esattamente come il malato che, nella stanza rettangolare, naviga attorno al pilastro centrale…

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Il fare ovviamente è cambiato, anche se è partito dalla stessa radice culturale riconiugata in senso positivo, ma il senso rimane lo stesso: “chi è l’anormale allora?” La relatività ci spinge a chiederci: “chi è il folle? che senso hanno dunque le regole?” Un aggancio potenzialmente utile per chiarire la mia idea è costituito da uno dei lavori di Paul Rudolph: l’analisi grafica del famosissimo padiglione di Barcellona firmato Mies Van Der Rohe. Le sue riflessioni, riportate nello scritto “The late work” e culminate nei vari disegni a mano(di cui riporto il più significativo), cercano di analizzare un capolavoro dell’architettura moderna, considerata da Rudolph molto “umana”. Quello che studia è la circolazione, le vie d’accesso, le visuali, le linee di forze esercitate dalle partizioni; semplicemente


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analisi grafiche di Paul Rudolph sul padiglione di Barcellona di Mies van Der Rohe

- anormalità come idea

l’avventura del visitatore all’interno del padiglione. La similitudine con il mio lavoro è data dal contrasto evidenziato dall’architetto fra il carattere geometrico rigido e regolare dell’edificio e la complessità della sua esperienza. Ho poi cercato di elaborare un immagine evocativa che chiarisse meglio i miei intenti percettivi ed emotivi. L’elaborazione grafica iper-reale (e surreale) qui proposta non vuole essere dunque intesa come una traduzione materica dell’idea bensì come una sua spiegazione concettuale e sensoriale. Eventi puntuali posizionati sulla griglia creano i presupposti per un’esperienza individuale e anormale. L’acqua e l’aria, qui scelti non come materiali di progetto ma per rappresentare l’avventura nell’area, sono mezzi che rendono possibile la trasgressione alle regole in senso totale. Essendo fluidi non hanno una forma cristallizzata bensì variabile nel tempo, vero protagonista delle scene contemporanee. Questi materiali Baumaniani sono gli unici messi a disposizione dei fruitori che se ne appropriano in modo differenziato a seconda

dei “gusti”. Chi nuota, chi prende la barca, chi scende in paracadute e chi saltella da un palo all’altro. Pali: echi e sedime della griglia sommersa dal fluido percettivo. Quello che si vuole mettere in evidenza con questo oltrepassare continuamente la griglia non è tanto il suo essere ridicola bensì il suo anacronismo. Queste regole e dogmi, come detto, nascono in climi culturali in cui grande attenzione è stata data alla definizione di normalità. Ma, nello studio di un ramo così oscuro come la malattia mentale, o, ancora di più, nei tempi in cui noi viviamo che senso possono avere? Queste considerazioni ci spingono a ribaltare, in modo molto efficace ed eloquente, la questione:

che cos’è la normalità oggi? Una domanda senza risposta ci fa capire che la libertà è totale, la relatività pure. E che il cerchio è finalmente chiuso.

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7 immagine evocativa dell’idea: i fluidi percettivi sommergono la griglia, ormai residuo emotivo nell’avventura nell’area

-> un tipico esempio di griglia anti-object in un video gioco. La città è il campo sul quale instaurare eventi di potenziale relazione con il protagonista

- anormalità come idea

7.2 la griglia come anti-object E’ già stato osservato come la gabbia morfologica si sia impossessata del S. Lazzaro a diverse scale: ha prima diviso i padiglioni e poi i singoli ambienti degli stessi. Nel lavoro di ricostruzione appena presentato ho infatti constatato la presenza di griglie diverse, per passo ed inclinazione, per ogni singolo comparto in cui è stato diviso il S. Lazzaro. Uno degli intenti progettuali dichiarati è stato però quello della creazione di un legante i vari padiglioni, una nuova sovrastruttura (o sottostruttura latente) che potesse essere vettore di collegamenti e network, non più di segregazione. Da qui l’idea di pensare alla griglia trovata come ground: un campo dunque sul quale poter agevolmente instaurare diversi episodi generici. Diventerà dunque una base, se pur residua percettivamente e se pur continuamente oltrepassata dal fruitore, su cui instaurare percorsi paralleli, finalmente di unione, ed avvenimenti architettonici e sociali. La logica, se vogliamo, assomiglia a quella adottata nella progettazione di alcuni video game in cui gli sforzi di programmazione per la creazione del protagonista sono nettamente inferiori a quelli profusi per la definizione del campo di gioco. Questo perché esso ospita i vari oggetti fondamentali per il funzionamento della simulazione; oggetti che ad esempio si illuminano al contatto con il personaggio o con esso interagiscono. E’ dunque evidente come la concezione di questo elemento, il ground come anti-object, legante e responsabile potenziale dei vari avvenimenti ed episodi, sia fondamentale. In quest’ottica sarebbe stato per me impossibile limitarmi alla ricerca delle griglie morfologiche dei vari padiglioni e pensarle staccate le une dalle altre. Un rafforzamento di questa concezione arriva poi direttamente dalla storia progettuale degli edifici. Spesso si andava a cercare un

modulo, generalmente quello di una cella o di un insieme di queste, facilmente ripetibile. Nel tempo si è abbandonata la conformazione a corte chiusa non solo per l’innalzamento della qualità della degenza ma anche per rafforzare le potenzialità di questo modulo. Creando infatti delle ali staccate si lasciava aperta la strada futura dell’ampliamento, utilizzando ovviamente il modulo come base. La griglia come legante dunque potrebbe essere vista anche come stadio finale di un ipotetico sviluppo dei padiglioni fino ad incontrarsi e comunicare. Sviluppo che ovviamente, per questioni di segregazione medica, non sarebbe mai avvenuto ma che è oggi auspicabile. Vedremo poi la traduzione progettuale ma per il momento ci fermiamo a pensare alla griglia come leitmotiv, immerso e residuo ma presente. Si di essa ogni singola micro area o episodio verrà risolto in modo site specific, utilizzando come criterio di scrittura l’idea architettonica proposta, ma avvalendosi anche di idee subordinate ricercate a partire dalle potenzialità dei singoli comparti. Dovranno risaltare come avvenimenti con una propria identità architettonica ma tutti sistematicamente immersi nel layer della gabbia.

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7.2 La ricerca della griglia storica Per poter instaurare questo artificio il passaggio successivo è stato necessariamente quello della ricerca della griglia, di quella gabbia che, storicamente, ha sempre avvolto il S. Lazzaro. Mi sono innanzitutto avvalso di alcuni rilievi: il mio e quello eseguito dal comune per l’elaborazione del PRU. Questa strada si è però rivelata debole ed il percorso è stato abbastanza tortuoso perché gli edifici abbandonati

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sono stati murati e cerchiati con recinzioni di sicurezza, dati i possibili crolli (già avvenuti in passato). Oltre a non poterci dunque entrare va constatato come la vegetazione (e lo si può vedere molto bene dalle foto proposte nei capitoli precedenti)abbia fortemente aggredito gli edifici rendendone a volte irriconoscibili i tratti somatici. Purtroppo prima di murarli, operazione resa necessaria sia per questioni di sicurezza che per tentare di arginare fenomeni di stazionamento clandestino o droga, non è stato effettuato un rilievo interno. In aggiunta l’archivio storico dell’ospedale, che dovrebbe conservare ogni tipo di pianata o pratica, sembra aver smarrito completamente questo tipo di materiale. Mi sono dunque dovuto avvalere di tutto quel materiale storico che sono riuscito a reperire e che, in parte, è stato proposto nelle pagine precedenti. Le viste a volo d’uccello, ad esempio, mi hanno permesso di capire l’organizzazione dei filari o dei giardini storici. Sono riuscito così a capire la logica con cui questi erano stati concepiti, rintracciando le direttrici lungo cui erano stati piantati, ad esempio, gli alberi da frutto (molti dei quali oggi non sono presenti per svariati motivi). Un fondamentale strumento è stato poi quello delle foto storiche, in particolar modo l’album del frenocomio presentato in occasione dell’esposizione internazionale di Parigi del 1900. In questo modo sono riuscito ad osservare sia padiglioni oggi non più esistenti (come la “C” frontale del Donaggio), ma anche i fronti di alcuni edifici attualmente ricoperti da una fitta vegetazione (mi riferisco ad esempio al retro del padiglione Esquirol). Eseguendo numerosi foto-raddrizzamenti ed incrociando questi con i dati, planimetrici e numerici, ricercati negli archivi comunali, provinciali e regionali credo di essere riuscito ad ottenere un risultato, il cui iter metodologico è riassunto nell’immagine presentata, veritiero e corrispondente alla storia dell’istituto ed alla sua evoluzione.

immag del m della

<la successione di celle di contenimento nel Donaggio: un caso applicato di griglia morfologica


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- anormalitĂ come idea

gine esempliďŹ cativa metodo di ricerca a griglia storica

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8 immagine planivolumetrica dell’intervento

- il progetto

8 - il progetto 8.1 l’impianto planimetrico Tutte le considerazioni precedenti hanno portato a questa traduzione materica degli intenti. Ovviamente solo con un tour dell’intervento, con una passeggiata ad altezza uomo, potremo averne una visione vera e soprattutto percettiva, ma credo che sia giusto evidenziare certi aspetti a questo punto della trattazione. La griglia storica, ricercata ed evidenziata, si pone infatti come layer latente e penso che questo sia fondamentale da un punto di vista di funzionamento sistemico. Le varie parti dell’intervento si configurano come unità singole e pienamente riconoscibili da un punto di vista architettonico ma risultano comunque legate dalla presenza di questo campo comune che riesce a portarci nel vivo di ogni episodio, per poi quasi scomparire. Ovviamente la gabbia non si è fermata ai singoli edifici o ai filari da cui proviene ma è scesa al suolo e si è moltiplicata e dilatata fino a coprire tutto il comparto. Non va ovviamente esclusa la possibilità di riproporre questa strategia anche nelle parti del S. Lazzaro da me non studiate. Ciò che è percepibile solo da questa vista satellitare è la differenza fra le varie griglie singole, in passo ed inclinazione. Queste, come detto, si propagano fino ad incontrarsi dando vita a cerniere assolutamente interessanti ed essenziali per il funzionamento dell’area. Un esempio su tutti è dato dalla cerniera principale, che troviamo a sud, nel centro dell’immagine. Questo dispositivo, posizionato vicino all’ingresso dalla via Emilia, si configurerà come welcome point indiretto, come centro di smistamento ed orientamento, un punto di sosta dall’equilibrio instabile e dalla grande energia potenziale. Energia che deriva sostanzialmente dall’arrivo (o partenza se preferiamo) di due direttrici che

vorrebbero portarci in due zone diverse del S. Lazzaro, contraddistinte da funzioni distinte. Non vale la pena soffermarsi ora su questa particolare parte del comparto (verrà fatto poi) ma credo valesse la pena notare questi aspetti, essendo fondamentali per l’intervento. Rispettando le premesse fatte le linee della griglia sono diventate, solo quando materializzate, dei percorsi pedonali o ciclopedonali dotati di sedute e strutture per l’alloggiamento degli impianti. Queste strade hanno una loro gerarchia poiché è stata ricercata, nella scacchiera proposta, una spina dorsale forte (ciclopedonale) che potesse collegare i vari episodi e dalla quale potessero partire una serie di proliferazioni di vie minori per il raggiungimento dei singoli oggetti (eventi puntuali) o per lo svolgimento delle singole funzioni. Quest’arteria principale vuole scorrere in modo parallelo, ma al tempo stesso intrecciato, al sistema viario già esistente in modo da migliorarne la fruibilità ed aumentare le possibilità di esserne coinvolti attraverso spot percettivi (come ad esempio protrazioni lungo i viali della griglia). Ultimo aspetto da notare in questa sede, per la sua importanza a livello urbano, è quello dell’apertura di un nuovo ingresso, anche se maggiormente sfaccettato, sul lato di via Doberdò. Una parte del muro di cinta storico è stato infatti sostituito da una macchina deputata alla modulazione del rapporto con la città. Ecco dunque spiegato il posizionamento di questo dispositivo al primo attracco vero e proprio con l’agglomerato urbano: su via Doberdò, appena spostato dal padiglione Esquirol ma assolutamente ben visibile dalla via Emilia. Riportate queste rapide riflessioni generali, ritengo giusto analizzare ogni altro tipo di aspetto trattando i singoli interventi in una ipotetica promenade architectural nel S. Lazzaro; innanzitutto per evitare di ripetersi ma anche per cogliere meglio gli aspetti funzionali ed estetici del lavoro attraverso una visione ravvicinata.

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8.2 il Padiglione Esquirol: una nuova sede museale Come si poteva già vedere dallo schema presentato parlando del programma (capitolo 6) l’Esquirol diverrà una nuova sede museale per il circuito storico-artistico di Reggio Emilia. L’edificio è stato investito di questo importante ruolo per le sue ingenti dimensioni, per il suo affacciarsi sulla via Emilia e per l’importanza storica che ha: fondamentalmente dunque perché è un simbolo del S. Lazzaro. Esso non si porrà come rivale del neonato museo di storia della psichiatria (padiglione Lombroso) ma come suo collaboratore, andando ad ospitare qualcosa di diverso. Verrà infatti esposto tutto quel copiosissimo materiale attualmente in attesa di miglior sorte. Mi riferisco, ad esempio, alle numerose cartelle cliniche dell’800, alle fotografie storiche di indagine medica e, soprattutto, a tutti quei lavori creativi effettuati dai pazienti durante i numerosi laboratori ergoterapeutici. Questi sono attualmente spostati in continuazione in giro per l’Europa, data la mancanza di una sede adatta nel S. Lazzaro, ma costituiscono un prezioso aggancio fra l’anormalità intesa come

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malattia e quella intesa come creatività. E’ mia intenzione spostare qui anche la biblioteca Livi, attualmente posizionata nel nucleo storico Morel. Questo perché le condizioni della sede attuale sono quasi fatiscenti, praticamente ridicole per l’importanza dei testi raccolti, e ritengo corretto favorire una collaborazione di questa istituzione con tutti gli impianti museali (nuovi e nuovissimi) presenti. Nella contemporaneità i musei e le biblioteche sono sempre più un polo di aggregazione urbano e quindi devono portarsi dietro necessariamente delle funzioni adatte al ruolo che incarnano. E’ per questo che ho pensato ad una caffetteria, da posizionare nel ricercatissimo ed elegante reparto bagni, e ad un ristorante, entrambi in collaborazione con il museo ma anche potenzialmente funzionanti in modo distaccato. Questo per evitare il susseguirsi costante ed impietoso di momenti di vita e di morte nell’arco della giornata. Purtroppo l’ex Villa Trivelli è uno di quegli edifici dei quali non sappiamo praticamente niente degli interni. Siamo a conoscenza di numerose lavorazioni e modifiche nel corso degli anni effettuate per adattarlo alle diverse funzioni da esso ospitate. L’ultimo intervento dovrebbe essere quello che, a seguito degli ingenti danni post secondo conflitto mondiale, ha visto trasformare l’edificio in un contenitore di alloggi sociali per lavoratori (l’infermiere da me intervistato ci abitava) ma purtroppo mancano piante e sezioni. L’unico elaborato ritrovato è stato eseguito dall’architetto Marchelli nel 1868. L’impianto è sicuramente cambiato ma mi sono avvalso di queste planimetrie contenute nell’archivio provinciale per capire l’organizzazione complessiva dell’edificio, soprattutto per quel che riguarda i collegamenti verticali e le cesure longitudinali costituite dalla doppia altezza della sala centrale. I pochi dati in mio possesso non mi hanno permesso di entrare nel vivo della questione architettonica per quel che riguarda gli interni ma ho comunque predisposto uno schema

-> schizzi morfologici e di funzionamento per il nuovo padiglione Esquirol

<inquadramento planivolumetrico del padiglione Esquirol


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- il progetto

di funzionamento tarato sulle constatazioni geometriche di cui sopra. Innanzitutto ritenevo essenziale dividere i due principali flussi: quello museale e quello della biblioteca. Questo perché, nonostante l’interesse di un potenziale collegamento, i curatori potrebbero prevedere, a differenza della biblioteca, un ingresso a pagamento per il museo ed ho quindi cercato di creare uno schema funzionale che si avvalesse delle già esistenti barriere materiche e funzionali senza la predisposizione di numerose stazioni di controllo. Anche per quel che riguarda caffetteria e ristorante è stato mantenuto lo stesso criterio. Vi è la possibilità di collegamento ma l’eventuale varco di accesso a questi si costituirà come limite per la validità del biglietto. Caffetteria e Ristorante si predisporranno verso l’esterno in modo da essere maggiormente comunicanti con la città anche negli orari di chiusura del museo. Il percorso museale prevede un welcome point nella sala centrale ma un inizio di visita al piano più alto, raggiungibile con ascensore. In questo modo il visitatore potrà godersi l’esposizione in modo più comodo: scendendo attraverso lo scalone principale e non salendo. L’edificio si presentava carente dal punto di vista dei collegamenti verticali, soprattutto per questioni di sicurezza. Per questo motivo sono stati inseriti dei plug-in, addossati all’involucro storico, utilizzati per questo tipo di spostamenti. E’ da uno di questi che si potrà accedere al ristorante, al primo piano, senza passare dall’interno del museo. Questi parassiti si configurano come volumi astratti, perfettamente regolari. Le loro dimensioni, coerentemente con l’idea architettonica, erano già praticamente stabilite dalla griglia morfologica dell’Esquirol ed io non ho fatto altro che sottolineare quest’operazione di addizione modulare tramite un leggero offset rispetto alla parete, al cui interno prenderà posto una fascia bianca rientrante con annesso

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8 <planimetria del piano terra raffigurante il nuovo comparto biblio-museale

-> vista dell’edificio dalla via Emilia. stato attuale

- il progetto

dispositivo luminoso. Questo evidenzierà la cesura fra vecchio e nuovo che, caratterizzato da un rivestimento in lamiera microforata in core-ten steel, si presenta come unico motivo di novità estetica in senso paesaggistico. Sì perché l’edificio, per il quale non mi sono addentrato in un vero e proprio progetto di restauro, verrà messo in sicurezza e reso adatto al nuovo fare ma, da un punto di vista esteriore, verrà lasciato identico, nel suo stato di rovina fatiscente. Questo perché non deve perdere tutte quelle potenzialità espresse nell’analisi del luogo e soprattutto la sua mancata definizione, aspetto esageratamente valido da un punto di vista contemporaneo. La scelta della lamiera naturalmente arrugginita potrebbe apparire come poco coraggiosa. In realtà è stata scelta per due principali motivi: porsi, come in una sorta di rispettoso rigato brandiano, in secondo piano rispetto al monumento e, secondo, allontanarsi dall’estetica astratta dei metalli chiari poiché questa doveva essere usata solo per la sottolineatura della griglia. L’unica altra manomissione effettuata è stata infatti l’aver addossato all’involucro esterno alcune fasce di acciaio bianco, di altezze irregolari e non sempre presenti, nello spazio fra le finestrature. Il motivo è un input inconscio che mira a sottolineare la gabbia morfologica e a disegnare gli spazi limitrofi, dato che queste, giunte a terra, continueranno il loro cammino in orizzontale e si uniranno agli altri episodi vicini rafforzando l’idea di griglia come campo. Ultimo aspetto estetico (intendendo l’estetica non in senso classico, semplicemente visuale, ma come quell’insieme complesso di coinvolgimenti sensoriali ed emotivi) è quello dell’accesso all’impianto museale. L’Esquirol, a sud, confina direttamente con la via Emilia mentre, a nord, presenta un muro di cinta continuo che lo separa dal resto del S. Lazzaro e che crea un cortile esterno di sua pertinenza. Ho innanzitutto deciso

di mantenere questo muro anche se, in alcuni punti, si arresta in favore del proseguimento a terra della fasce astratte provenienti dai prospetti. Ho inoltre offsettato il lato corto (verso via Doberdò) della recinzione mediante l’inserimento di un paramento semi-opaco sempre in lamiera forata. In questo modo, per entrare, si è costretti ad eseguire una sorta di zig-zag labirintico che intende ricordare il travagliato momento dell’ingresso in un padigl ione manicomiale. Nei vari edifici si trovavano infatti sempre due porte in serie, come nei palloni gonfiabili utilizzati per giocare a tennis in inverno. Il motivo? Il manicomio doveva sempre e comunque rimanere chiuso, anche quando si entrava. In quegli spazi filtro il rumore delle chiavi, oggi sostituite da pannellature metalliche scorrevoli verticalmente, diveniva tetro ed assordante.

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8 rendering del padiglione Esquirol rimaneggiato visto dalla via Emilia (lato città)

-> fronte urbano su via Doberdò: inquadramento urbano

- il progetto

8.3 via Doberdò: il fronte dinamico L’affaccio su via Doberdò è un tratto saliente del mio intervento poiché rappresenta, forse più del padiglione Esquirol, l’attacco urbano del S. Lazzaro. E’ per questo motivo che ho deciso di instaurare qui quella parte di programma avente un forte carattere temporaneo, quasi effimero. La città deve poter capire cosa accade all’interno o quantomeno deve poter percepire che qualcosa sta avvenendo, per poi reagire di conseguenza. Il fronte strada deve riuscire a divenire una sorta di membrana con un diverso grado di permeabilità in relazione alle attività svolte in un particolare momento. In quest’area avranno luogo fenomeni estemporanei come concerti, cinema all’aperto, esposizioni artistiche, workshop ed, in generale, tutte quelle attività che non richiedono un impianto tassativamente rigido nel tempo. La sfida non era facilmente risolvibile perché quello che in realtà esiste ora è una muratura storica di contenzione, fatta in pietra a cui vengono alternati regolarmente due corsi di mattoni. La griglia che ho rintracciato nasce dal viale cieco parallelo e contiguo al muro di confine con l’Esquirol. Questo passo è stato riproposto sia a nord che a sud andando a disegnare nel terreno una serie di linee parallele con il compito preciso di regolare il rapporto di apertura/chiusura del comparto rispetto alla città. Nel titolo troviamo la definizione di “fronte dinamico”; perché? Semplicemente perché queste linee sono divenute binari sui quali poter movimentare box altamente regolari e modulari che si sostituiscono alla muratura storica. Questi hanno il lato corto in direzione perpendicolare alle direttrici e quello lungo parallelo ad esse. Il primo ha necessariamente la stessa dimensione del passo dei binari mentre il secondo è 1,5 volte più lungo. Questi saranno poi divisi in sottomoduli costanti (2 per il lato corto e 3 per quello lungo) aventi una dimensione pari a metà

del passo ferroviario. Questi step, soprattutto quelli longitudinali, garantiscono la possibilità di assumere infinite configurazioni planimetriche, essendo i box in grado di scorrere reciprocamente gli uni rispetto agli altri. Le linee equidistanti (il passo è quello dei sotto-moduli) continuano poi in entrambe le direzioni andando a regolare gli accessi fissi proposti: quello della casa d’artista, a nord, e quello museale, a Sud. Questi sono stati realizzati mediante pannellature in lamiera forata core-ten (il modulo è ormai noto) scorrevoli in verticale tramite un dispositivo a carrucole. Si può passare quindi dalla più serrata chiusura della via alla sua più completa apertura molto agevolmente, mediante la collaborazione dei dispositivi su rotaie e di questi varchi d’accesso fissi. Doveva poi essere risolto il passaggio, eventuale ma altamente probabile, fra un box e l’altro e questo è avvenuto mediante il progetto della pelle degli stessi. Questa ha un primo layer interno costituito da una vetrata continua scorrevole divisa in pannelli della stessa dimensione dei sotto-moduli. Lo scorrimento avviene su 2 o 3 guide (a seconda che si tratti del lato corto, con 2 moduli, o di quello lungo,

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8 <schizzi di progetto per il fronte dinamico su Via Doberdò

-> il tram, senza fili, di bordeaux

- il progetto

con 3) rendendo possibile la movimentazione indipendente di tutti i pannelli e, tramite essa, la più totale permeabilità dei limiti dei box. Il secondo strato è invece un dispositivo di oscuramento, realizzato mediante un telo che, fino all’altezza del box, scorre su guide fisse disposte in prossimità dell’interruzione delle vetrate. Queste pannellature tessili hanno dunque la stessa dimensione, in pianta, degli step di cui si può muovere longitudinalmente il box e sarà l’accoppiamento delle guide a rendere possibile il passaggio agile di persone da un dispositivo all’altro. Le motivazioni dei teli sono molteplici. Innanzitutto hanno ragioni climatiche poiché ogni singolo dispositivo, se pensato isolato, è completamente esposto al sole, avendo lati rivolti ad ogni orientamento. E’ stato dunque necessario pensare ad un sistema di oscuramento solare. Il rullo di avvolgimento si trova alla base ed il telo scorre dal basso verso l’alto rendendo possibile una configurazione molto apprezzata in ambito lavorativo e cioè con una piccola porzione sommitale di vetrata lasciata scoperta. Questa soluzione elimina quasi totalmente la presenza di distrazioni e la luce indiretta mantenendo comunque uno spazio per poter dar sfogo alla vista. Ogni libertà è comunque lasciata al fruitore che potrà avvalersi agevolmente della movimentazione elettrica del sistema, costituito da porzioni funzionanti in modo completamente autonomo. E’ poi ovvio che, in un sistema di esposizione, sia necessario provvedere all’isolamento visivo di parti, indipendenti le une dalle altre, del dispositivo in modo da poter dar vita alle più svariate configurazioni. I teli, raggiunta l’altezza del box e dunque il limite delle guide, possono ancora continuare la propria corsa mediante un sistema telescopico che ne può raddoppiare la dimensione. Questa tecnologia è stata introdotta per potersi agevolmente avvalere di ampie basi sulle quali proiettare filmati, il che è fondamentale in un percorso museale contemporaneo, ma lo è ancora

di più se si pensa ad un cinema. Fra l’altro, essendo il tessuto un materiale fonoassorbente, potrà essere utilizzato anche come schermo acustico rispetto alla città, in occasione dei concerti che qui avranno vita. Più tortuosa è stata la ricerca tecnologica che mi ha permesso di proporre questi dispositivi come scorrevoli su rotaie. Quella degli edifici su rotaie è una storia che da molti anni affascina i progettisti ma spesso una struttura progettata per essere totalmente variabile e flessibile nel tempo, se non funzionante perfettamente, diviene più rigida e limitante di un elemento pensato come statico ed invariabile. Questa premessa è doverosa perché la movimentazione su rotaie si porta dietro una serie di problemi legati ai costi, alla manutenzione, al funzionamento e agli impianti e solo motivazioni solide ed una lucida consapevolezza tecnologica possono motivarne la scelta. Mi sono dunque avvalso di due casi di studio per poter rendere fattibile la mia strada progettuale. Il primo è il tram di Bordeaux. Questo mezzo di trasporto sostenibile, quando passa nel tutelato centro storico, vede eliminarsi i caratteristici fili sospesi per questioni paesaggistiche. L’energia

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pianta del fronte dinamico. I dispositivi vengono divisi longitudinalmentein 3 parti per rendere possibile qualsiasi conďŹ gurazione di posizionamento reciprico per i box

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- il progetto

sezione verticale del dispositivo scorrevole su binari. Sono messe in evidenza la tecnologia di movimentazione e la pelle dinamica del box

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elettrica viene trasmessa al veicolo attraverso una fascia centrale, disposta a raso terra ed equidistante dai due binari. Nonostante sia portatrice di corrente risulta innocua per i passanti che la calpestano ma soprattutto pressoché invisibile esteticamente. Ho deciso dunque di utilizzare questo sistema poiché, da un lato, si inseriva perfettamente nel mio gioco della griglia, andando a disporsi nella mezzeria dei binari ed in corrispondenza delle guide dei teli, e, dall’altro, risolveva completamente la situazione impiantistica poiché l’energia elettrica apportata poteva essere usata, oltre che per la movimentazione, anche per il riscaldamento elettrico, l’illuminazione e l’audio-video. In questo modo si sono evitati cavi volanti (incompatibili con cinema e concerti) o fili retrattili a terra, di difficile manutenzione. Per quel che riguarda i binari, invece, mi sono

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<la sliding house dello studio britannivo dRMM, grazie alla copertura su rotaie, cambia aspetto in funzione del tempo atmosferico e delle attività svolte


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rendering di alcune configurazioni che, dando vita a diversi fare, mutuano il rapporto con la città: un’esposizione d’arte, un concerto ed un workshop

- il progetto

avvalso di un altro esempio: la sliding house degli architetti dRMM (http://drmm.co.uk/projects/ sliding-house/), piazzatasi nella top ten degli edifici britannici più innovativi secondo il Daily Mail. Stiamo parlando di un’abitazione in cui un dispositivo mobile di copertura (tetto più pareti laterali) si muove andando a creare diverse configurazioni abitative in relazione al clima ed all’uso. Lo studio di questa tecnologia, unito alla constatazione della sua praticità e velocità, mi ha spinto verso questa scelta. Mi rendo conto che questo tipo di soluzione non sia la più economica e che prevede sicuramente una maggior manutenzione rispetto ad altre più convenzionali, ma il mio intento progettuale principale per quest’area era la creazione di un vero e proprio fronte dinamico in grado di cambiare in tempi molto ravvicinati, rendendo possibile, ad esempio, un workshop nel pomeriggio ed un concerto

in notturna. Senza dimenticare che l’aspetto spettacolare della movimentazione porterebbe sicuramente stupore, curiosità e dunque afflusso nel comparto. Nella definizione del mio progetto non mi sono però spinto ad un livello esecutivo e sarà solamente una valutazione più accurata, in termini di rapporto costi-benefici, a far scegliere in futuro fra questa soluzione ed una semi-mobile. Con semi–mobile intendo la predisposizione di nodi sui quali poter agevolmente montare e smontare continuamente i box e con attacchi puntuali della corrente sparsi per tutta l’area. Anche con questa seconda possibilità, sicuramente meno performante e più resistente al cambiamento, il programma riuscirebbe comunque a sopravvivere. Il funzionamento percettivo appare evidente osservando i rendering. Il tessuto, leggermente corrugato, insieme alla lamiera forata si inseriscono nella griglia e, contemporaneamente,

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8 un’ultima configurazione proposta: il cinema all’aperto. le porte del S. Lazzaro si spalancano e tutta la comunità è invitata ad accomodarsi

inquadramento planivolumetrico del giardino mobile ->

- il progetto

la celano e la sottolineano, poiché si nota come questa sia la base necessaria per il loro funzionamento e, dunque, presenza. Il rapporto urbano risulta variabile nel tempo. Si può essere spinti ad entrare, anche se in modo tortuoso e sinuoso, come nel caso di un’esposizione. Qui, ad esempio, è evidente come sia facile trasgredire alle rigide regole morfologiche che hanno creato questo artificio: basta oltrepassare un binario, spinti da un suono non definito o da immagini proiettate all’esterno. Quello che si percepisce può però essere una chiusura: è questo il caso di un concerto che utilizza il limite di via Doberdò come sfondo e come base per la creazione del palco, rialzato e protetto acusticamente dai teli rialzati. I dispositivi potrebbero poi disporsi indipendenti gli uni dagli altri, per ospitare un workshop. Ogni stazione, come un micro padiglione, avrà piena libertà nella gestione degli oscuramenti ed un proprio spazio esterno di pertinenza, non definito: la visione sarà sicuramente sfaccettata e si creeranno canali prospettici nei quali insinuarsi per entrare nel vivo del S. Lazzaro. Un ultimo esempio proposto mostra una delle tante occasioni di socializzazione ed apertura urbana: un cinema all’aperto. I dispositivi, totalmente attaccati al viale, innalzano interamente le loro guide telescopiche dando vita ad un’enorme telo per la proiezione di un film. Solo i due box fissi deputati alla regolarizzazione delle entrate e all’accoglienza restano ovviamente fermi ma ne approfittano per presentare sui lati adiacenti alla strada la locandina del film: l’intera comunità è invitata.

8.4 il Giardino mobile Un viale collega centralmente l’Esquirol ed il Donaggio andando a dividere nettamente lo spazio interposto ai due padiglioni in due parti ben definite: quella ad ovest, contenente il fronte dinamico ed il villino Stuoie, e quella ad est, costituita da un ampio prato libero da ulteriore vegetazione. Quest’ultimo diverrà quello che ho chiamato “giardino mobile”. Data la grande dimensione dell’area ho pensato di ospitare qui diverse attività, sempre temporanee ed ancor più indefinite rispetto alle precedenti. Innanzitutto diventerà teatro di un ulteriore tipo di esposizione contemporanea: quello che ha nelle installazioni il suo evento saliente. Non importa di che tipo siano e chi le organizza; ciò che conta è la possibilità di farlo e, soprattutto, di farlo agevolmente. Questo spazio non verrà alterato eccessivamente anche perché si presenta già come una sorta di microcosmo tranquillo e pacificante, un piccolo vuoto che ha in alberi ad alto fusto la cornice e nel cielo lo sfondo. Credo dunque che la parola chiave sia, per questo lavoro site specific, “appropriazione”. Parola chiave che dovrà necessariamente trasformarsi in

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subordinata, collaborante con l’idea principale per la stesura della storia di questo luogo. Sì perché saranno gli utenti a decidere come approcciarsi a questo piccolo scrigno mentre il mio ruolo è stato solo quello di rendere possibile una serie di eventi e di fare sintonizzati con il programma, con l’idea architettonica e con l’anima del luogo. Come spesso accade la risoluzione progettuale di un ambizioso e complesso intento è stata molto semplice. La griglia che investe questo giardino ha due sorgenti: le regole morfologiche di Villa Marchi a est e quelle dell’Esquirol a sud. Questo spazio dunque si configura già come polo di incontro ed aggancio ed è nei nodi della gabbia che sono andato ad inserire dei nuovi dispositivi. Questi altro non sono che pannelli quadrati (1mx1m) adagiati a terra. Queste macro-piastrelle hanno un colore bianco, quello della maggior astrattezza possibile, essendo la materializzazione di un qualcosa di altamente concettuale, come è un punto di una griglia latente ma fisicamente invisibile. All’interno di questo quadrato trova però spazio una croce, ottenuta con linee congiungenti i punti medi dei lati e dirette come gli stessi. Vi è la possibilità di andare ad estrudere agevolmente questa croce in altezza attraverso una maniglia in sommità. Questo potrà avvenire con step prefissati: raso terra, 20cm e 50cm. Il primo è, chiaramente, la condizione di partenza (ma vedremo anche d’arrivo). La funzione del quadrato bianco è solo di calpestio e, ad un livello più alto, percettiva, segnalando questo la tanto famosa gabbia concettuale e materiale. Nulla vieta però alle persone di poterci fare esattamente quello che vogliono (sedersi, mangiarci, ecc.). Il secondo step ha invece fini espositivi. Allargando un attimo la visione andiamo a considerare 4 quadrati, presi a 2 a 2. Questi risultano essere i vertici di un rettangolo regolare che, allargando ulteriormente la vista, è chiaramente riproponibile, sempre uguale a se stesso, per ogni insieme di 4 piastrelle.

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8 <schizzi dei meccanismi di appropriazione del luogo

- il progetto

Andando dunque ad alzare le rispettive 4 croci di 20 cm, con un primo scatto, è possibile bloccare un pannello ligneo utilizzabile per il posizionamento di un’installazione. Nulla vieta che questa si appropri di più spazio e dunque di più pannelli e di più quadrati. Ogni esposizione risulta dunque facilmente allestibile secondo le esigenze del curatore. Impugnando nuovamente la maniglia scavata della croce possiamo innalzarla fino a quota 50cm, raggiunta la quale percepiamo nuovamente uno scatto. Questa dimensione è infine adatta a far configurare il dispositivo iniziale come un insieme di 4 sedute con schienale, totalmente immerse nel verde.

Proseguendo nella salita della croce, la caduta di un peso, esattamente come nei braccioli di un treno o di un autobus, la fa ricadere, facendola tornare a quota 0. Nessuno obbliga gli utenti a riposizionare a terra il dispositivo così come nessuno vieta di sedersi senza schienale. L’obiettivo è stato quello di creare possibilità, affinché, in una sorta di appropriazione ludica, le persone potessero continuamente e completamente cambiare il paesaggio, restituendoci un’immagine sfaccettata, personale e continuamente in movimento.

-> rendering notturno che mostra una delle infinite possibilità di utilizzo/ occupazione del giardino

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8 diverso momento della giornata, diversa installazione, diversa configurazione, diverso paesaggio

-> orientamento nel comparto per il padiglione Donaggio

- il progetto

8.5 il padiglione Donaggio: un nuovo polo di incontro Come si evince dalle fotografie storiche quello che ci è rimasto del padiglione è solamente la parte di più recente costruzione. La “C” antistante all’attuale fronte sud è stata infatti demolita negli anni ’70 ed ha dunque lasciato un ampio spazio vuoto a circondare le sontuose robinie, oggi liberate dall’accerchiamento della corte. Durante la conferenza di servizi, organizzata in occasione del PRU 2011, la sovrintendenza si è detta favorevole ad una nuova costruzione che possa ripristinare i vecchi volumi demoliti. La parola “ripristino” mi ha inizialmente lasciato perplesso ma ho successivamente capito che doveva diventare un punto di forza da utilizzare, in chiave ironica, come subordinata. Attualmente non vi è una funzione chiara assegnata al padiglione anche se le ipotesi più gettonate sono una biblioteca leggera (anche se non ho ancora ben capito cosa significhi) ed un laboratorio di medicina nel quale vengono costantemente portate carcasse di animali per essere vivisezionate e studiate. Adiacente allo storico fronte sud e perpendicolare ad esso si trovava poi l’edificio denominato “dopolavoro”. Di questo, attualmente in stato di rovina vera e propria, non sappiamo praticamente nulla dato il suo scarso interesse storico-culturale. Il PRU prevede per esso una ricostruzione sullo stesso sedime per ospitare funzioni associate alla manutenzione del parco storico. Io però penso che la possibilità di costruire un nuovo edificio (la “C” collaborante con il nuovo dopolavoro) in questa particolare area ed a ridosso di un reparto che ha segnato la storia del S. Lazzaro, avendo ospitato i pazienti furiosi e pericolosi, debba essere sfruttata per instaurare qualcosa di più interessante per la collettività. Penso che questo sia il terreno adatto per costituire infatti un nuovo polo d’incontro e di socializzazione, innanzitutto

per gli studenti, che attualmente non ne hanno, ma anche per gli abitanti della città in senso più ampio. La realizzazione dello studentato nel reparto neurologico rafforzerà sicuramente questo ruolo di punto attrattore e di socializzazione. Ho dunque pensato di portare qui due tipi di ristorazione: un bar-caffetteria ed un ristorante. Il primo, posizionato nella nuova testata al piano terra risulterà facilmente raggiungibile dai fruitori, ponendosi sul prolungamento del viale principale longitudinale e di quello collegante l’Esquirol con il Donaggio, in una posizione caldissima dal punto di vista del passaggio di persone (va fatta presente la totale pedonalizzazione dell’area). Oltre ad una sua pertinenza interna, potrà espandersi in uno spazio filtro, a metà strada fra l’interno e l’esterno, che vedremo meglio in seguito. Nulla vieta poi, anzi è auspicabile, di rifornirsi al bar (un panino? Una birra?) e di consumare le vivande appostandosi nel prato centrale, sotto l’ombra delle robinie. Il ristorante insiste sulla stessa porzione planimetrica del bar ma si trova al piano superiore. Anch’esso può avvalersi di un analogo spazio filtro e di uno totalmente all’aperto per il consumo dei pasti. Potrà essere

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8 <schizzi del funzionamento e della nascita dell’idea per il nuovo Donaggio

- il progetto

raggiunto in modo totalmente indipendente ma sarà anche collegato internamente alla caffetteria, mediante un ascensore. La motivazione è duplice. innanzitutto una collaborazione fra i due potrebbe portare ad interessanti situazioni come, ad esempio, consumare l’aperitivo al bar e poi salire ed essere guidati al proprio tavolo per la cena. Un altro motivo va poi ricercato nella collaborazione auspicata per il corretto e agile funzionamento delle due attività. Mi riferisco, soprattutto, alle cucine. Bar e ristorante si avvalgono di due strutture per la preparazione dei cibi staccate (stessa posizione in pianta ma piani differenti) ma al tempo stesso collaboranti mediante porta carichi. In questo modo si eviterà un dispendio eccessivo di metrature. Anche la dispensa principale sarà in comune e si troverà al piano terra, prossima alla strada e attaccata ai parcheggi per carico e scarico. Questa serie di constatazioni e collaborazioni ha come conseguenza diretta la necessità di un unico soggetto proprietario per le due attività, il che non è assolutamente da vedere come un limite. Gli spazi filtro di cui abbiamo parlato saranno strutture esterne parzialmente ricoperte dagli agenti atmosferici ed al loro interno potremo trovare dei “post wall” a tutta altezza. Questi totem altro non sono che display con il compito di materializzare quel link etereo con il distretto creativo reggiano di cui abbiamo ampiamente parlato. Essi riporteranno in continuazione immagini, brani o video postati in tempo reale dai protagonisti della scena culturale della città. Il risultato sarà quello della visibilità e pubblicità per questi, ma anche intrattenimento ed alimentazione di curiosità per i fruitori. Le due ali laterali della corte ospitavano, un tempo, una lunga serie di celle di contenzione tutte della stessa dimensione. A partire da foto storiche ho rintracciato questo modulo e ho trasformato questi topos da celle a box espositivi totalmente aperti, in una configurazione iniziale, lato corte e lato strada. Questi

spazi espositivi saranno assegnati ai singoli startupper, insieme al box lavoro (che vedremo in seguito). Ovviamente verranno utilizzati solamente quando questi giovani progettisti avranno qualcosa da far vedere. In questo caso essi posizioneranno il materiale (un brano, un modellino, un filmato, un capo d’abbigliamento, …) all’interno e chiuderanno, con un sistema a saracinesca, il lato rivolto all’esterno della corte. Questo tamponamento a discesa porterà stampata la faccia (o le facce) dello (degli) startupper, facendosi notare dalle principali vie pedonali e facendo capire che qualcosa è contenuto all’interno. In caso contrario rimarranno dei semplici vuoti aperti e completamente permeabili. Questo sistema, rafforzato da un porticato interno, vuole privilegiare una visione interna dei lavori, destando curiosità dalla strada. Vuole essere visto come una riconiugazione delle logiche manicomiali in chiave attiva poiché si spingono le persone ad entrare e a visionare completamente i lavori proposti dai giovani protagonisti creativi, esattamente come il vecchio padiglione aveva una vita ed una dinamica totalmente staccata dall’esterno. Non credo di penalizzare in questo modo la visibilità dei lavori poiché è fondamentale capire che le persone si troveranno già all’interno della corte per questioni non necessariamente legate a queste esposizioni. Il carattere attrattore e sociale di questo polo giustifica e valorizza infatti questa scelta percettiva. Per quanto riguarda l’edificio dell’ex dopolavoro posso dire di aver soddisfatto parzialmente le aspettative del PRU. Ho infatti diviso longitudinalmente il corpo in due parti. Quella rivolta su via Doberdò è stata destinata a magazzino per tutto quel materiale necessario alla manutenzione ed al funzionamento del parco storico (è qui, ad esempio, che verranno contenute le pannellature lignee di esposizione viste parlando del giardino mobile). L’altra parte doveva necessariamente ospitare un altro tipo di funzione, ponendosi essa come sfondo

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pianta piano terra. Sono evidenti il crocevia dei numerosi passaggi pedonali, il carattere attrattore del nuvo centro e la trasformazione culturale delle celle di contenzione

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pianta piano primo. Molto risalto viene dato al circuito verde sopraelevato in grado di costituire il Donaggio come circuito sia autonomo che integrato nel resto del S. Lazzaro

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8 <sezione tecnologica del fronte opaco e delle celle espositive. Risaltano i rapporti dimensionali delle parti e la loro stretta collaborazione funzionale

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prospettico e fine materica del viale principale longitudinale. Ho dunque previsto, oltre ad un vano di collegamento verticale, un negozio dove poter acquistare i prodotti appena visionati nei box di esposizione e prodotti dagli startupper. Qui troviamo anche un display a tutta altezza controllato direttamente dagli utenti. Tramite una fotocamera ed una tastiera potranno infatti esprimere pareri su una mostra o su un panino mangiato, salutare qualcuno o darsi appuntamento al prossimo concerto. Questo dispositivo è pensato anche per i ristoratori che potranno avvalersene per promuovere offerte o per gli startupper che lo utilizzeranno, ad esempio, per pubblicizzare il loro box espositivo. “andate a vedere il box 25, ne vale la pena!”, “Menù pranzo a 10 euro!”, “Quanto è sopravvalutato XXX!!” sono i commenti attesi. Al piano superiore dell’ex dopolavoro, ma anche delle celle espositive, troveremo un

ampio circuito verde realizzato da passerelle su di un giardino in continuo movimento. Le persone potranno dunque avvalersi di spazi naturali rialzati utilizzabili a piacimento. Essenziale è stata la creazione di un anello di percorsi senza interruzioni, sia al piano terra che al primo, rendendo possibile una passeggiata, collegante tutte le funzioni, autonoma ma al tempo stesso collaborante con il resto del complesso dato che, dai viali preesistenti, il fruitore è continuamente invitato ad entrare. Ultima nota, purtroppo solo funzionale, riguarda quella parte di padiglione superstite. Essa si configurerà come quell’insieme di residenze temporanee, relazionate alle attività momentanee presenti (la settimana del cinema contemporaneo? 3 giorni di workshop? Il concerto dei XXX?...) e fortemente auspicate dal programma, essendo esse opere calde e dunque portatrici di investimenti.

-> particolare tecnologico del pacchetto: un tamponamento ligneo a secco su di una struttura in acciaio

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8 il nuovo fronte archetipico del Donaggio, visto dal viale principale. Una collaborazione estetica e funzionale con la parte superstite mira alla definizione di un nuovo paesaggio, senza abbandonare le frequenze di partenza

-> vista dall’interno dello spazio filtro: totem wall e dispaly interattivi danno vita ad un articolato programma etereo

- il progetto

Come si può notare dalle elaborazioni tecniche proposte la struttura è interamente in acciaio, tamponata con una proliferazione di sistemi a secco: Vetrate, pannellature miste legnometallo per la parte opaca di bar e ristorante e teli ETFE per lo spazio filtro antistante. I grafici evidenziano come la trasmittanza sia ampiamente entro i limiti di legge e non sussistano problemi di condensa. In questo caso le soluzioni tecnologiche sono ampiamente documentate dalla letteratura tecnica ma vanno comunque riportate alcune osservazioni. La prima riguarda il pacchetto di tamponamento. La scelta delle successive stratificazione ha portato verso la creazione di un pacchetto estremamente leggero, ma anche attento alle problematiche di surriscaldamento estivo avendo cercato di introdurre materiali non solo isolanti ma anche dotati di una buona inerzia termica, permettendo l’accumulo di calore durante la giornata che verrà

poi espulso da meccanismi di ventilazione naturale di notte. Un ultima nota va fatta sulla scelta dell’ETFE per il rivestimento dello spazio filtro. Questo materiale plastico di recente concezione è assolutamente più leggero del vetro (99% in più), autopulente e resistente agli agenti atmosferici (pioggia, sole,…)ed è dunque apparso adatto a conferire a quello spazio l’importante ruolo “in between” che deve possedere. Avevamo prima accennato al fatto che la sovrintendenza auspicava un ripristino delle volumetrie demolite. Ho cercato di utilizzare questo fattore a mio vantaggio, rafforzando la mia idea secondo cui il contenuto è assolutamente più importante del contenitore, in termini di memoria. Ho dunque scelto il contenitore per definizione, quello più astratto possibile, quello presente nell’iperuranio platonico: un’estrusione dell’immagine della casa archetipica, quella disegnata dai bambini. Quest’idea ironica pone in

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creativa <la nuova copertura del dopolavoro: un giardino in movimento ad oltrepassare i fittizzi limiti della griglia, evidenziata dalle costolature strutturali

netto contrasto il nuovo con il vecchio ma tenta, al tempo stesso, di accumunarli nella relegazione rispettosa a meri contenitori. Questo solido è stato poi trattato, sempre su questa lunghezza d’onda, in modo diverso a seconda delle esigenze: opaco nel blocco ristorazione, semi-trasparente nello spazio filtro o scoperchiato per evidenziare l’anormalità del contenuto vegetale nel dopolavoro. Le aperture in questo maxi involucro astratto sono state pensate per fini funzionali (per invitare ad esempio i fruitori all’interno della corte) e percettivi (è questo il caso delle finestrature nel blocco ristorazione e degli squarci nel dopolavoro) e credo che quest’immagine archetipica, oltre ad essere ludica, sottolinei anche i contenuti proposti. Grande risalto viene dato, ad esempio, alla vegetazione inserita. Questa è stata progettata secondo i dettami del terzo paesaggio, proposto da Gilles Clement. Una natura in continuo movimento che sa prendersi cura

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di se stessa, evitando problemi di manutenzione. Un perenne stato di cambiamento e mancata definizione caratterizza questa anormalità vegetale che sa, abilmente, oltrepassare la griglia evidenziata (dai punti luce, dalle costolature,…), arrivando persino a schernirla. Dai rendering proposti possiamo notare come risaltino anche i post wall prima descritti o le facce degli startupper nelle ali della corte. La motivazione di queste è storica. Abbiamo già parlato di come molti medici, fra i quali spicca Lombroso, abbiano tentato di associare i lineamenti del viso e le caratteristiche morfologiche del corpo ai comportamenti, ma soprattutto alle devianze, mentali. Non mancano negli archivi storici campionari di visi a cui venivano associate le diverse malattie psichiche. Credo che la scelta di inserire nuovamente un viso sia molto potente, poiché queste facce sembrano voler legittimare il diritto ad essere anormali…di nuovo.

una vista sopraelevata della corte interna tornata a nuova vita. punto di incontro e socialità sono i nuovi filtri dell’esperienza Donaggio


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- il progetto

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8.6 la cerniera del comparto: equilibrio instabile ed orientamento Le griglie dei vari comparti risultano diverse le une dalle altre per passo ed inclinazione ma, dilatandosi ed espandendosi, finiscono con l’incontrarsi in cerniere fondamentali per il funzionamento del comparto e per la percezione di griglia come campo. La principale di queste si trova immediatamente ad est del padiglione Esquirol e di Villa Marchi, di poco distante dalla via Emilia. Per la sua posizione ricercatamente vicina all’accesso pedonale sulla strada storica, vuole configurarsi come welcome point indiretto. Indiretto significa senza personale deputato all’accoglienza in modo da evitare qualsiasi tipo di difficoltà di approccio fra lavoratori e fruitori e da rendere i visitatori immediatamente protagonisti anche all’ inizio dell’avventura nell’area. Si perché questa cerniera vuole configurarsi come potenziale punto di stallo, di sosta breve, ma dall’elevata energia potenziale. Come una palla sulla cima di una collina, anche l’utente, con una breve spinta, potrebbe partire velocemente verso l’esperienza percettiva del S. Lazzaro. In un complesso così articolato si correva però il rischio di perdere i punti di riferimento, soprattutto al momento dell’ingresso. Per questo motivo la cerniera vuole porsi anche come centro di orientamento e smistamento. Qui confluiscono due linee generatrici di due griglie diverse, materializzate in due percorsi ciclopedonali alternativi. Uno porterà, attraverso un’apertura creata con la sottrazione di un volume in Villa Marchi, all’area di esposizione appena descritta mentre l’altra potrebbe condurre il visitatore verso il percorso della memoria meno trasfigurata (il Lombroso ed il parco storico) nonché in direzione del polo universitario vero e proprio. Queste due diverse inclinazioni sono state utilizzate per costruire

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schizzi morfologici: dalle dichiarazioni d’intenti alla traduzione in forme e contenuti

<l’orientamento in planimetria evidenzia la posizione strategica della cerniera


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-> inquadramento planivolumetrico del comparto per start up

- il progetto

tutto l’impianto della cerniera sulla base di un modulo parallelepipedo 50x50cm. Innanzitutto sono stati innalzate due piccole strutture semi permeabili aventi, in pianta, i lati rivolti secondo queste due direttrici. Una delle due dimensioni si presenta però molto maggiore dell’altra, andando a sottolineare l’orientamento e dunque la direzione proposta dalla singola struttura. Questi due pseudo contenitori sono stati posizionati quasi perpendicolarmente ma sfalsati fra di loro, come si nota dalla pianta. Questo per riuscire a creare un nucleo centrale di sosta ed incontro, dal quale però si può rapidamente partire, come sottolineato dalle inclinazioni delle coperture delle due strutture. Queste coperture saranno poi ricoperte di pannelli fotovoltaici per poter donare energia elettrica agli utenti che, al loro interno, potranno avvalersi di prese di corrente per ricaricare telefonini o PC. Sono stati poi inseriti dei display sui lati dei due box visibili, grazie alla disposizione planimetrica, da entrambi i sensi del viale e che indicano i contenuti potenzialmente raggiungibili incamminandosi per le direttrici proposte. Nel nucleo verrà predisposto un touch screen interattivo, primo dispositivo vero e proprio messo a disposizione della collettività per prendere confidenza con il luogo. A terra, sia dentro che fuori, sono state predisposte delle sedute componibili aventi le dimensioni del modulo parallelepipedo base mentre delle fasce a terra sottolineano il ruolo di attracco e smistamento della cornice stessa. Per il rivestimento laterale delle due strutture si è scelta ancora una lamiera microforata. Il colore, questa volta, è però bianco assoluto perché, come più volte ricordato, questo è il colore prescelto per l’evidenziazione della griglia, per il suo carattere astratto e per il suo porsi come commento fuori dal tempo. Le grigie qui partono (o muoiono dato che il ragionamento è potenzialmente duale) ed ho trovato la scelta di questa tinta una conseguenza diretta del ruolo svolto dai box stessi.

8.7 i box start up Le attività degli startupper si legano inossidabilmente con Villa Marchi. Al suo interno troveranno spazio le residenze per i giovani progettisti, i laboratori, il box musica, la segreteria e la postazione esperti. Mentre dalla griglia nata proprio da questo edificio e dilatatasi a nord prenderanno vita i box assegnati ai singoli creativi. Nel caso di Villa Marchi il materiale tecnico sugli interni è risultato pressoché nullo e per questo motivo mi sono limitato ad una disposizione solo programmatica. L’unica azione architettonicamente forte è stata la rimozione del tratto centrale della “H”, resa possibile dalla relativamente recente addizione da demolire (stiamo parlando degli anni ’60), dagli spazi angusti da essa creati e dallo scarso valore documentale portato. In questo modo ho reso possibile l’attraversamento dell’edificio, che altrimenti si sarebbe configurato come un’enorme barriera, grazie al passaggio di un ampia via ciclopedonale (vedi sottocapitolo precedente) che termina nel giardino mobile. Il varco sarà eseguito al piano terra mentre superiormente troverà spazio un altro

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8 <schizzi di funzionamento e dei risvolti progettuali dell’area adibita a start up

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parassita: il box musica. La caratterizzazione architettonica è identica a quella dei plug-in dell’Esquirol (lamiera microforata in core-ten a formare un volume regolare parallelepipedo) mentre il suo aspetto fenomenologico sarà fondamentale per l’adempimento dell’idea: la musica realizzata in questa sala prove sarà diffusa mediante altoparlanti costituendosi come potente spot percettivo. Come detto i singoli box dei progettisti troveranno invece spazio nella porzione di parco antistante Villa Marchi. Ho cercato di creare l’ennesimo artificio che fosse in grado di sollecitare la curiosità del visitatore, spingendolo a trasgredire le regole della griglia in favore di un tour immerso nel verde alla scoperta dei lavori di questi giovani creativi. Le linee della griglia sono divenute percorsi pedonali con il compito di congiungere le strutture di produzione con il viale proveniente dalla via Emilia e su di essi si appoggeranno ovviamente i box stessi. La loro disposizione planimetrica, solo apparentemente caotica, è stata guidata da due criteri: la salvaguardia del patrimonio verde attualmente presente (oltre alla ragione culturale già esposta vorrei sottolineare come questi alberi sembrino cercare anch’essi un’evasione rispetto al soffocamento della gabbia morfologica) ed il rapporto fra interno ed esterno. Come si può notare dalla pianta, infatti, uno dei due lati lunghi, quello non addossato al percorso, è completamente costituito da una vetrata scorrevole. In questo modo è possibile il collegamento diretto dell’interno dei box con il parco sia da un punto di vista visuale che materico. Affinché il panorama percepito dall’interno fosse per tutti gradevole sono stato guidato verso lo sfasamento reciproco in pianta dei vari blocchi. Va fatto notare come questa ampia vetrata sia ovviamente una finestra da dentro verso fuori ma anche, e forse soprattutto, uno spot pubblicitario, una vetrina che permette a chi è fuori di sbirciare i lavori all’interno.

Non male per chi sta muovendo i primi passi in un ambiente così competitivo come quello della creatività. La strutturazione in pianta del box tipo è regolare e mira ad un agevole lavoro, sia singolo che di gruppo. Sono stati predisposti due punti di lavoro staccati ed un’ampia parete attrezzata si pone come contenitore ed espositore al tempo stesso. In uno dei due lati corti troverà posto invece una lavagna che, oltre a mostrare al pubblico note o schizzi prodotti, potrà agevolmente trasformarsi in una base su cui proiettare filmati di qualsiasi genere. La scelta della tecnologia è altamente strategica e verrà proposta sia nelle aule studio comuni che in quelle singole, presenti rispettivamente davanti al Lombroso e all’interno dell’ex frutteto storico. Data la semplicità geometrica del contenitore ho potuto optare per una struttura portante lignea costituita da pannellature in x-lam collaboranti fra di loro e collegate mediante fondamentali piastre metalliche. Le ragioni di questa scelta sono molteplici: la leggerezza della struttura, l’ottima resistenza alla forza sismica, l’eco sostenibilità della costruzione e la velocità dell’installazione. Si perché le pareti arriveranno in cantiere già pronte ad essere rapidamente assemblate e la proliferazione di un box tipo non farà altro che agevolare la fornitura e contenere le spese. Questa struttura verrà ancorata poi ad una platea di fondazione in calcestruzzo armato. Anch’essa, grazie alla ripetitività della dimensione dei blocchi, potrà essere prefabbricata e trasportata in cantiere già pronta per essere posizionata. Gli unici impianti passanti sono di tipo elettrico ed è stato dunque fondamentale, nella fase di progettazione del pacchetto di tamponamento, prevedere una fascia inziale interna di 5cm costituita da isolante ligneo ma utilizzabile per il passaggio di impianti. Con questa soluzione è stato possibile garantire, immediatamente all’esterno di questo spessore, la continuità

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pianta del box di produzione creativa. Ogni lato ha una propria configurazione percettiva, mentre il contenuto interno “anormale” viene svelato solamente se si accetta l’avventura del tour

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sezione verticale del blocco consegnato ai giovani startupper. Mostra la struttura in x-lam interamente risolta da un punto di vista tecnologico ed il diretto rapporto dei box con il parco antistante

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della guaina di barriera al vapore. Anche in questo caso poi la scelta del materiale isolante (lana di legno) deriva dal tentativo di associare ad una bassa trasmittanza anche un’elevata (relativamente) massa termica in modo da favorire l’accumulo di calore e migliorare il confort sia estivo che invernale. Predisponendo solo impianti elettrici, ho dovuto optare anche per un sistema di riscaldamento invernale a resistenza elettrica ed è per questo che ho cercato di curare ogni particolare costruttivo ed ogni nodo per ottenere una struttura il più possibile passiva da un punto di vista energetico. La continuità dell’isolante è garantita, come si vede in sezione, mentre un sistema di brise soleil scorrevoli unito all’ombra derivante dalle alberature evita il rischio di surriscaldamenti estivi. Ho più volte ricordato come il mio intento

fosse quello di rendere astratti questi oggetti ponendosi essi come commento al luogo. La maggior astrazione possibile di un volume si ottiene quando si riesce a lavorare per superfici staccate le une rispetto alle altre. In questo modo non si percepisce più un solido bensì un insieme di corpi bi-dimensionali. Dopo queste constatazioni sono partito dai percorsi pedonali che presentano, ai lati, dei piccoli parallelepipedi metallici (20cm x 20cm in sezione) di colore bianco. Il loro compito percettivo è quello di sottolineare la griglia mentre quello funzionale è il contenimento degli impianti che corrono fino ai box, evitando un’eccessiva invasività sul suolo. Quando questi volumetti raggiungono un blocco lo avvolgono completamente con una forma sinuosa, offsettata rispetto alla sagoma base del box di 20cm (la cornice così ottenuta verrà utilizzata come -> il cube mirror hotel, progettato Tham & Videgård Arkitekter, Svezia ->-> la mirror house, installazione artistica di Ekkehard Alteburger (1996), Gran Bretagna

<il pacchetto tecnologico dei box in x lam

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meccanismo di smaltimento dell’acqua piovana). La superficie aggredita, più gonfia rispetto alle restanti, si tinge di bianco e si segnala come ingresso alla struttura. E’ interessante il meccanismo di riconoscimento dell’avvenuta, o meno, appropriazione del box da parte dello startupper. Abbiamo infatti una grande porta che ruota attorno ad una cerniera verticale. Quando il box, e con lui questo pannello metallico, è chiuso il lato mostrato è di colore bianco, portando il dispositivo va a mimetizzarsi con la superficie sulla quale si instaura. Quando invece c’è qualcuno all’interno, la porta viene aperta ed appoggiata, ad incastro, alla parete. Il lato mostrato è quello opposto rispetto a prima e su di esso troviamo stampata, ancora una volta, il viso del proprietario. La stessa faccia che abbiamo visto prima nelle celle espositive. La motivazione

rimane dunque la stessa. I due lati corti vengono rivestiti con un materiale specchiante, del quale parleremo più esaurientemente in seguito, mentre il restante lato lungo è quello che mostra l’anormalità di contenuto. La scelta dei materiali gioca infatti sui contrasti fra contenitore (regolare e puro) e contenuto (anormale e complesso). Per gli interni è stato scelto un rivestimento organico, in pannelli di abete, che tentasse di restituire, con la sua grezza, profumata e naturale matericità l’immagine dell’anormalità. Approcciandosi alla superficie che dà sul parco ci troviamo di fronte ad un ampia vetrata trasparente e quello che percepiamo è dunque solo questa tinta lignea (sia essa quella dei brise soleil, del pavimento, delle pareti, dei mobili o del soffitto), restituendoci l’immagine pressoché bidimensionale che ricercavamo. Ogni

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creativa <una vista direttamente dal fulcro della cerniera (il touche screen interattivo). Sullo sfondo lo squarcio di Villa Marchi su cui sulla quale si è instaurato un nuovo parassita

anomalia rispetto alla superficie pura (ci saranno ad esempio ombreggiamenti reciproci) è da vedere come plus valore nella direzione dell’anormalità percettiva essendo questa la vetrina vera e propria del contenuto creativo proposto. Ritornando, per un momento, al rivestimento delle testate, possiamo dire che questo è costituito da lastre di alupanel specchianti, un materiale composto da strati di alluminio e polietilene che restituiscono un’immagine riflessa morbida e appena offuscata da una patina lieve. Le motivazioni che mi hanno spinto verso la scelta degli specchi sono molteplici e verranno svelate progressivamente. Per ora possiamo fermarci a dire che lo specchio è sicuramente il materiale più astratto in natura, restituendoci non la sua immagine ma quella dell’intorno. In aggiunta si rafforza l’idea di parassita come commento fuori dal tempo dato che questo speciale trattamento altro non fa che mimetizzare i volumi all’interno del parco. Un esempio interessante in questo senso è costituito dal famoso mirrorcube hotel in Svezia, progettato Tham & Videgård Arkitekter. Il cubo sospeso sembra infatti svanire all’interno del bosco conferendo

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un’immagine sfaccetta e complessa, seppur nella sua semplicità. Lo studio di questo caso emblematico è stato utile anche per le annesse questioni tecnologiche. Vale la pena citare un altro lavoro che mi ha accompagnato in questa scelta: l’installazione artistica mirror house di Ekkehard Alteburger (del 1996). Qui troviamo un modello di casa archetipico costituito interamente da vetri che, appoggiato in riva ad un lago britannico, riflette l’oceano atlantico nelle sue pareti. L’immagine della casa, pur perdendo il suo senso naturale, viene mantenuta grazie al rapporto degli secchi con il cielo. In aggiunta a queste valide considerazioni paesaggistiche, valide anche nel nostro caso, possiamo constatare come lo specchio, nei box, faccia veramente emergere solamente le superfici trattate in modo diverso (quella bianca e quella lignea) evidenziando il mio lavoro di scomposizione in superfici autonome. Trovo molto suggestivo, ad esempio, osservare una parete specchiante avvolta da una cornice che, partendo da terra ed avvolgendo il mio volume quasi invisibile, sottolinea la griglia e, forse, anche la sua assurdità.

una vista dell’area start up e della cerniera proveniendo dal viale principale. Il viso del proprietario del box ne indica la presenza


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una tipica scena quotidiana: un creativo al lavoro in vetrina, un pic-nic nel parco, Michelangelo Pistoletto che sceglie uno dei nostri specchi per una performance

-> il padiglione Lombroso, recentemente restaurato, sede del museo di storia della psichiatria. Il verde antisante si configura come spazio di nessuno

-> inquadramento del comparto delle aule studio comuni, davanti al padiglione Lombroso

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8.8 le aule studio comuni come propilei del Lombroso L’invasione dei blocchetti parallelepipedi, nati vicino a Villa Marchi per ospitare gli start up, avanza facendosi strada lungo est e trovando, nell’ampio spazio verde antistante al padiglione Lombroso un’altra tappa fondamentale. Nonostante la già citata volontà di pensare questo intervento come un collante i vari padiglioni, ci stiamo obiettivamente allontanando dal polo di produzione ed esposizione creativa ed addentrando nel vivo del funzionamento universitario. Ecco dunque che, in una sorta di progressivo passaggio dall’urbano all’individuale (che avrà il suo culmine nel parco storico), le attività ospitate, pur mantenendo la stessa radice, cambiano profondamente. Questi spazi sono infatti pensati come aule studio di gruppo utilizzabili per laboratori comuni, per preparare insieme un esame o per qualsiasi altra funzione simile. Vedremo poi come il loro ruolo sarà anche di altro tipo (come possiamo immaginare dal titolo). Innanzitutto penso che la scelta delle attività sia corretta per più ragioni. Uno degli obiettivi era quello di innalzare la qualità della vita universitaria all’interno del S. Lazzaro e dotarlo di questo tipo di strutture, accessibili 24 ore su 24 mediante badge, vada considerato come un passo in questa direzione. Se poi il collante tanto auspicato è realizzato mediante passaggi pedonali che raggiungono i vari padiglioni adibiti alla didattica e mediante l’introduzione di box contenenti attività così fondamentali per lo studente, credo che l’intento non si fermi al percettivo ma, passando ad un livello anche funzionale, ne amplifichi il valore e lo configuri come intervento vero, speriamo interessante, ma sicuramente vero. Come possiamo notare dalla pianta le superfici opache e trasparenti si sono invertite rispetto ai blocchi prima studiati. Il motivo è da ricercare nell’analisi del fare e nel suo soddisfacimento

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8 <schizzi progettuali per i “propilei” del Lombroso. studio percettivo e di funzionamento

-> alcune installazioni digitali di fuse* creative lab, curatori del museo della psichiatria presso il Lombroso

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in chiave estetica. Innanzitutto l’attività dello studiare richiede concentrazione ed è per questo che le superfici più ampie, su cui si addossano scrivania e sedute, rimangono opache. Le testate vetrate sono state pensate, oltre che per ovvi motivi di illuminazione e ventilazione naturale, come sfondo visuale, come svago momentaneo dallo studio. Una di queste è adibita all’ingresso ed è dunque prospiciente al passaggio pedonale, mentre la seconda dà direttamente sul prato, garantendo la possibilità di aprirsi completamente collegando inossidabilmente due entità architettoniche, come l’interno e l’esterno, oggi non più così definite e duali. E’ inoltre grazie a queste superfici che i potenziali fruitori potranno accorgersi dell’eventuale presenza di altri studenti all’interno. Come si evince dal titolo questi box volevano porsi anche come propilei del padiglione Lombroso, attuale sede del museo di storia della psichiatria. E’ da leggere dunque in questa chiave la disposizione planimetrica, nata dalla definizione di una griglia che ha nel passo fra gli alberi dei viali la sua genesi. Possiamo infatti notare un maggiore addensamento ai lati, in favore di una rarefazione centrale. Questo, tradotto in termini prospettici, porta ad una scoperta progressiva del padiglione di sfondo, mano a mano che ci si avvicina al centro e dunque all’ingresso. I criteri di questa disposizione, in realtà, sono molteplici. Abbiamo, ad esempio, detto che è dalle testate corte che ci si accorge dell’eventuale presenza di persone all’interno. Sfalsandole in profondità all’interno della griglia ho voluto creare la possibilità di avere punti visuali nei quali poter abbracciare completamente, o quasi, lo stato delle appropriazioni. In aggiunta, avendo pensato ad un rivestimento in copertura con fotovoltaico amorfo, il mantenere una certa distanza fra i box in direzione sud si è reso necessario per evitare ombreggiamenti reciproci. La tecnologia costruttiva utilizzata è la stessa vista in precedenza per i box start up così come

la risoluzione percettiva ed il rapporto con la griglia. Anche in questo caso nei percorsi a terra sono presenti delle fasce esterne, di colore più chiaro rispetto alla pavimentazione centrale, costituita da fasce longitudinali in materiale cementizio, che evidenziano l’artificio della riproposizione della griglia: volumetti estrusi porta-impianti per le vie minori e fasce raso terra larghe il doppio nel percorso principale. In questo secondo caso si amplifica la superficie calpestabile e si possono utilizzare le fasce per predisporci, in punti strategici, sedute sviluppatesi morfologicamente da queste. Quando queste fasce raggiungono il box avvolgono,

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pianta delle aule studio comuni. I lati vetrati sono quelli più corti per questioni percettive e per garantire il migliore svolgimento dell’attività

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sezione verticale dei box studio comune. Si può notare, oltre alla tecnologia utilizzata, come la griglia avvolga completamente il box tramite una cornice bianca di 20cm, unica entità tangibile, grazie agli specchi

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come nel caso precedente, una superficie, tingendola di bianco e segnalando l’ingresso alla struttura. Questo stratagemma, oltre a tutte le conseguenze già illustrate, conferisce anche una maggiore possibilità di orientamento in una selva dominata altrimenti da dinamiche di funzionamento di difficile comprensione. Questo è vero per quasi tutte le strutture, ma non per quelle addossate sul camminamento principale. In questo caso, infatti, la superficie aggredita è quella di maggiori dimensioni, quella con sviluppo longitudinale, che si trasforma in una base bianca sul quale poter lavorare per fini museali. I blocchi si presentano dunque come filtro per il museo anche da un punto di vista di funzionamento curatoriale. Su queste basi si potrebbero proiettare filmati storici, ad esempio, o dar vita ad installazioni digitali interattive curate dallo studio fuse creative lab che si è occupato dell’organizzazione della mostra interna. Questi progettisti sono infatti famosi per il loro utilizzo di tecniche altamente spettacolari

e coinvolgenti (http://www.fusefactory.it/) che qui potrebbero trovare un terreno fertile sul quale instaurarsi. Per quel che riguarda il rivestimento specchiato, qui le pareti interessate sono quelle di maggiore superficie. In questo modo l’unica cosa a risaltare è la morbida superficie avvolta dalla griglia ed una visione altamente complessa dell’intervento. Qui, forse meglio che altrove, si capisce cosa intendevo per anormalità nel rapporto percettivo fra i parassiti introdotti: Continue riflessioni reciproche unite alla pressoché completa smaterializzazione dei volumi contribuiscono ad annegare il comparto in un fluido percettivo, libero da qualsiasi vincolo, che travolge la gabbia morfologica, relegandola da protagonista materico e residuo emotivo. Credo che tutto questo amplifichi enormemente il ruolo di filtro di questi dispositivi per il Lombroso, rendendo più interessante e coinvolgente il rapporto degli utenti con questo padiglione storicamente ed attualmente essenziale per il S. Lazzaro.

visione prospettica che mostra il rapporto visivo fra box e padiglione, la griglia nella sua funzione di campo e la collaborazione funzionale fra i blocchi proposti ed il museo

<rendering dal quale possiamo captare la progressiva comparssa del Lombroso avvicinandosi verso il centro

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8 vista dalla quale è apprezzabile il funzionamento complesso dell’area: studio, svago, gioco. rigorosamente oltrepassando la griglia

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8.9 il parco della memoria diffusa Il tour prosegue incessantemente verso est e raggiunge, superato il Lombroso, il frutteto storico, delimitato dal padiglione Morel ad est, dalla via Emilia a sud, dal viale principale a nord e dal nuovo studentato ad ovest. Lo stato attuale è di completo abbandono, la vegetazione è incolta e difficilmente si vede qualche persona al suo interno. Il potenziale risulta comunque elevato perché, oltre a tutti i discorsi già fatti circa la sua importanza storica e circa la suggestione data dall’attuale stato del verde, è anche attraversato da quello che si configurerà come viale pedonale principale. Questo parte dalla via Emilia, dal tratto corrispondente al grande parcheggio scambiatore, e raggiunge l’attuale area dell’ex colonia agricola ma che un giorno diverrà aula magna, welcome point ed accesso alla metropolitana di superficie. Ho ritenuto dunque giusto cercare di sfruttare tutte le sue potenzialità instaurandoci un programma caratterizzato dalla forte partecipazione urbana intrecciata alla sempre presente, qui più che

altrove, dinamica universitaria. I box che hanno segnato l’appropriazione del S. Lazzaro qui si trasformano, in forma e dimensione, andando ad ospitare aule studio singole o al massimo per 2 persone. Ha così fine il percorso a cui prima avevamo accennato che va dall’urbano (box come vetrina pubblicitaria di interazione) all’individuale (box come spazio solo per noi stessi anche se immerso in un uso cittadino). In realtà sono stati inseriti anche altri tipi di blocchi, necessari per il funzionamento di un parco urbano: un box bagni, un box contenente tutte le attrezzature necessarie per il giardinaggio ed una proliferazione di box che si presentano esclusivamente come generici contenitori e che potranno essere usati nel modo più diversificato (penso a pic-nic, spazio giochi per bambini, …). Questi dispositivi, tutti insieme, si pongono culturalmente come parassiti in un verde incontaminato e lasciato tale. Ho ritenuto molto sbagliato l’approccio rilevato nel PRU e mirato al ripristino di una presunta armonia estetica passata. Questo è quello che il tempo ed i vari usi che si sono susseguiti (compreso

-> individuazione del frutteto storico all’interno del comparto

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8 <schizzi di funzionamento e di genesi per il frutteto storico

-> l’installazione luminosa the windmill project di Patrick Marold, utilizza l’energia eolica per creare effetti evanescenti (come il vento) di luce

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l’abbandono) ci hanno lasciato e trovo dunque corretto, da un punto di vista storico ma anche contemporaneo, considerarlo come punto di partenza. Senza contare l’enorme potenziale estetico che questo tipo di vegetazione può suscitare in un tempo come il nostro, indefinito per definizione e devoto al continuo cambiamento. Gli oggetti da me proposti possono essere dunque visti come ulteriori agenti del cambiamento che tenteranno di guidare gli sviluppi e gli usi futuri senza imporre ne nuovi schemi estetici ne la cristallizzazione di una nuova dinamica: questo sarebbe moderno, non contemporaneo. Pensiamo ad esempio all’importanza che potrà avere il box contenente gli utensili per il giardinaggio. Durante uno dei miei sopraluoghi ho visto una famiglia intenta alla raccolta dei frutti di uno dei numerosi alberi presenti. Se questo fenomeno non solo si estendesse ad un più alto numero di persone ma venisse addirittura invogliato (come ho intenzione di fare) porterebbe ad enormi cambiamenti paesaggistici. E questo è solo un esempio. Potremmo pensare anche al taglio di una porzione di prato per poter fare una partitella a calcetto con gli amici o a qualsiasi altro atto di appropriazione di questo luogo. Saranno le attività che le persone decideranno di portare e le dinamiche che decideranno, più o meno consciamente, di instaurare che delineeranno il futuro di questo frutteto. Qui assistiamo a due fenomeni: la pressoché completa smaterializzazione della griglia e la sua più forte manifestazione nel ruolo di campo potenziale. La griglia è stata ricercata partendo dai viali storici e dai filari di alberi (sia quelli da frutto che quelli lungo i viali). Su queste linee ho poi posizionato solo i percorsi ritenuti necessari per il corretto funzionamento del comparto come parco urbano, senza dimenticarmi, anche qui, della gerarchia degli stessi. Troviamo infatti una colonna portante ciclopedonale che attraversa longitudinalmente il frutteto e lo collega con i padiglioni limitrofi nonché con le aule studio

comuni. Da questa partono una serie di vie minori che raggiungono i vari punti di interesse e colonizzano il parco. Quando questi percorsi non sono presenti la griglia si smaterializza, sembra implodere. L’elemento geometrico senza dimensione alcuna è il punto: i nodi dovevano dunque cercare di rappresentare questa completa astrazione, aiutandosi con un’altra entità non dotata di materia: la luce. Ho dunque deciso di dare vita ad un’installazione luminosa, totalmente off-grid e staccata dall’illuminazione necessaria per il funzionamento notturno del parco. Ho dunque inserito, in prossimità dei nodi, dei dispositivi luminosi alti circa 2 metri. Esili cilindri si illuminano in sommità grazie all’energia eolica. E’ infatti presente, sul vertice alto di questi pali, una micro pala eolica collegata ad un rotore, sull’esempio di un’efficacissima, a mio parere, installazione site specific di Patrik Marold: the windmill project. Il fine non è l’illuminazione fine a sé stessa, anche perché essa non potrebbe essere garantita dall’aleatoria presenza di vento, bensì la smaterializzazione della griglia, andando ad aggiungere una forte componente estetica a quel museo multidimensionale che è la memoria. Mi immagino il soffio del vento,

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la pianta del box mostra la sua divisione , meno netta di quanto sembri, fra reparto studio e spazio ďŹ ltro. Grande rilevanza prospettica andrĂ , lo vedremo, alla nicchia di ingresso

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la sezione verticale dell’aula studio singola mostra un’anomalia rispetto agli altri box. La marcata inclinazione (canocchiale inverso) spinge l’utente verso la focalizzazione sul parco in senso percettivo, verso l’introspezione in quello emotivo

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creativa <rendering dal viale principale. I percorsi pedonali (inviti ad entrare) sono i residui più marcati della griglia, per il resto quasi completamente smaterializzata

il movimento dell’incolta vegetazione, la rotazione del dispositivo eolico e l’accensione della luce. Il coinvolgimento di numerosi sensi (vista, udito, tatto) donerà un’immagine sinestesica dal forte contenuto estetico e che ben si sposa con i meccanismi umani di archiviazione dei ricordi: quando l’input crea un’immagine multisensoriale entra più facilmente nella nostra memoria. Non è necessario vedere questi ognuno di questi pali come il ricordo di un vecchio paziente, anche se sono stati da me pensati con queste frequenze, ma credo che il risultato sia comunque fortemente evocativo, anche perché, vedremo poi, verrà molto aiutato dai box proposti. Quando questi cilindri trasparenti non sono presenti è perché o siamo in presenza di un percorso pedonale o sono stati inseriti, sempre nei nodi, i box di cui parlavamo prima. Da un punto di vista planimetrico i blocchi aule studio sono stati addossati al viale principale. Questo

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per un duplice motivo: il funzionamento universitario prevede un maggior afflusso di studenti dal viale rispetto che dalla via Emilia e, con questa configurazione, ogni box potrà godere di un lato vetrato completamente rivolto verso il parco rimaneggiato. Gli altri blocchi, di maggiore dimensione, sono stati invece posizionati, dualmente, vicino alla via Emilia e la ragione è a questo punto chiara: essendo caratterizzati da un più spiccato utilizzo urbano sono stati pensati più vicini al principale vettore di fruitori provenienti dalla città genericamente intesa. Osservando la pianta del box studio ci accorgiamo di come questi siano composti da due spazi collaboranti: uno più definito e maggiormente dedito allo studio ed uno filtro delimitato dalle vetrate interne e dai brise soleil scorrevoli all’esterno. La vetrata che separa questi microambienti è impacchettabile con un sistema a libro e dunque può essere garantita una maggiore

uno spazio “in between” per definizione. L’indeterminatezza dello spazio filtro emerge e ci trascina nel parco storico rimaneggiato


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apertura, in certe stagioni dell’anno, verso il parco vero e proprio. Ma anche pensando ad un funzionamento compartimentato, questo filtro, come ogni spazio in between, risulta molto interessante da un punto di vista percettivo. Utilizzabile per una pausa o per la lettura di un libro garantisce una suggestiva visione sul frutteto, potenzialmente modulata dai pannelli oscuranti in movimento. In aggiunta, mentre lo spazio interno è accessibile solamente mediante badge, questo è utilizzabile anche da qualsiasi altra persona che può dunque godere di un ambiente coperto (pioggia, sole) per il proprio svago. Guardando la sezione possiamo notare come la copertura abbia un’inclinazione molto pronunciata, al contrario dei casi precedenti, e la motivazione non è esclusivamente di natura energetica. Verranno sì alloggiati dei pannelli fotovoltaici, essendo rivolta a sud, che in questo modo risultato più performanti, ma i criteri sono soprattutto percettivi. Quello che ho voluto creare è una sorta di cannocchiale al contrario. L’altezza è

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maggiore sul lato prospiciente al viale e minore su quello maggiormente nel vivo del parco. In questo caso la vista non tende ad espandersi, come in un vero e proprio cannocchiale, bensì a focalizzarsi, a concentrarsi nel centro del frutteto. Il meccanismo si completa se pensiamo agli altri box presentati, quelli adiacenti alla via Emilia. Essi avranno un’inclinazione opposta creando un effetto imbuto e portando a termine il processo di focalizzazione ed introspezione proposto. Ovviamente, in un ragionamento duale, questi si configurano anche come cannocchiali veri e propri verso la via Emilia e dunque verso la città. Gli inquadramenti prospettici proposti verranno evidenziati andando ad eliminare il recinto verde adiacente alla strada in prossimità di questi box. Questi squarci si configureranno dunque come l’ennesimo spot percettivo, questa volta lato strada; dei piccoli quadri posizionati sull’omogenea parete del confine che hanno l’obiettivo, quasi la pretesa, di incuriosire e, dunque, fare entrare.


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lo specchio nell’arte contemporanea. Pillole dai lavori di (da sinistra a destra) Kapoor, Buren, Pistoletto e Eliasson

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Avevamo detto che l’effetto evocativo dei dispositivi luminosi sarebbe stato amplificato dalla collaborazione con i box. Questi si presentano infatti completamente specchiati con l’eccezione della superficie anormale di collegamento fra interno ed esterno e, soprattutto, del varco d’ingresso. Sì perché se si guarda la planimetria o un qualsiasi rendering del parco ci si accorge di come queste piccole aule studio presentino una nicchia per l’accesso scavata nel cristallino contenitore. Questo antro verrà completamente colorato di bianco, per ovvi motivi di collegamento concettuale con la griglia, ed ospiterà ognuno una diversa foto storica. L’immagine presentata non sarà casuale bensì tarata sulle frequenze introspettive verso le quali ci stiamo muovendo: il risultato è la proposizione delle fotografie storiche dei pazienti, realizzate a cavallo fra ‘800 e ‘900 e conservate nell’archivio storico del S. Lazzaro. Le teche ospitanti le immagini saranno illuminate andandosi a porre, ora lo capiamo

bene, come altra declinazione dei dispositivi luminosi puntuali. L’introduzione di queste foto dona senso all’utilizzo delle immagini dei volti degli startupper presentati negli altri reparti (di creazione ed esposizione), ponendosi come loro alter ego. Viene dato poi, e questo è il lato più interessante, un plus valore alla scelta degli specchi come trattamento materico. L’arte contemporanea non è nuova a questo tipo di soluzione: mi riferisco al già citato Ekkehard Alteburger, ad Anish Kapoor, a Daniel Buren senza dimenticare i lavori di Michelangelo Pistoletto e di Olafur Eliasson. Non riesco a dire quale di questi artisti mi abbia influenzato di più durante la mia ricerca ma posso dire di trovarmi molto sintonizzato, ad esempio, con le opere di uno dei padri fondatori dell’arte povera: Pistoletto. In un certo periodo della sua carriera egli ha realizzato quadri specchianti che proponevano, sulla superficie, anche altri personaggi. Questi andavano dunque ad interagire direttamente con l’utente, realmente divenuto protagonista

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percettivo ed emotivo dell’opera, essendo passato da osservatore ad attore (in realtà sta svolgendo entrambi i ruoli contemporaneamente). L’analogia con il mio lavoro credo sia visibile ma un’altra opera, più concettuale, è forse maggiormente rappresentativa dei miei intenti. Mi riferisco alle mirror bikes di Eliasson. Vecchie biciclette, incatenate a supporti, spesso in contesti tipicamente urbani, a volte fatiscenti, altre underground, presentano come ruote specchi circolari. L’immagine del paesaggio cambia radicalmente. Uno sguardo a questa anomalia percettiva si traduce immediatamente in uno spunto riflessivo. In fondo credo sia insito nella natura degli specchi, che io ho qui utilizzato nella versione leggermente deformante, per ottenere una mancata definizione dell’immagine, necessaria per poter passare ad un altro piano, quello del pensiero e del concetto. La visione di uno specchio si pone come attimo di tempo coagulato, come una sorta di sospensione temporale: è abbastanza anomalo, per l’essere umano, vedere la propria raffigurazione insieme al contesto. L’immagine proposta dovrebbe essere la più rassicurante, sicuramente quella che conosciamo meglio: noi stessi. Credo però che qui l’utente, divenuto attore, vedendosi riflesso in questo parco incontaminato, con la vegetazione in continuo movimento alle sue spalle e, soprattutto, accanto a persone tacciate un tempo di anormalità solo per il loro aspetto esteriore, ottenga una visione tutt’altro che rassicurante. Il mio intento percettivo, indiretto e latente ma potenzialmente scardinante, mira sicuramente all’emotivo. Non tanto per strazianti fini commemorativi bensì per spingere l’osservatore verso una riflessione, qualunque essa sia, che possa andare oltre l’immagine ed avvicinarsi al mondo dei contenuti, sia storici che contemporanei. Questo non è un semplice parco urbano. E’ portatore di memoria diffusa ed è stato configurato come spazio in cui poter ricevere, mediante una lenta velocità percettiva, un’elevata scossa emotiva.

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“Fino a che non verrà la mattina di lunedì, siete l’uno nelle braccia dell’altra, ad ascoltare il rumore del tempo che passa” Murakami Haruki – Kafka sulla spiaggia


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anormalità

creativa

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sitograďŹ a essenziale -

www.paedagogica.org www. wikipedia.org www. drmm.co.uk wem.altervista.org/iltramdiemili/propagazione www.ausl.re.it/biblioteca/html/1000.html www.landartgenerator.org www.inhabitat.com www.thermaltt.com www.architizer.com www.europaconcorsi.com www.mirrorcube.se www.books.google.it/paul rudolph www.calabriaonweb.it www.youtube.com/watch?v=XUuHxW7uKRA www.youtube.com/watch?v=6ir-92u-npM www.centrotrame.wordpress.com www.archdaily.com www.christies.com www.cultorweb.com www.municipio.re.it www.spaziogerra.it www.fablabreggioemilia.org www.reggionova.it www.unimore.it www.travelchinaguide.com www.archiviodistatoreggioemilia.beniculturali.it www.reggioparcheggi.it www.trenitalia.it www.piste-ciclabili.com/provincia-reggio_emilia www.reggionline.com www.gerhard-richter.com www.damienhirst.com www.anishkapoor.com www.olafureliasson.net www.danielburen.com www.pistoletto.it www.ccdprog.com www.fusefactory.it www.infotbc.com www.urbanrail.net

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