Marco Martini Critica del soggetto finito e costruzione dell’Assoluto nella Fenomenologia dello Spirito di Hegel: l’odissea della coscienza.
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ANNO ACCADEMICO 2012/13 CONSORZIO INTERUNIVERSITARIO: Università di Roma “La Sapienza”- Bournemouth Polytechnic (UK) Università degli Studi di Udine – Università degli Studi di Foggia Università degli Studi del Molise – Università degli Studi di Torino Università degli Studi di Camerino – Università degli Studi di Sassari University of Chester – Università degli Studi “Guglielmo Marconi” Università degli Studi di Bari – Universitatea “Ovidius” di Constanta (Romania)
CORSO ANNUALE POST LAUREAM DI PERFEZIONAMENTO IN FILOSOFIA
“L’INSEGNAMENTO DELLA FILOSOFIA: ELEMENTI DI DIDATTICA”
TESI DI PERFEZIONAMENTO IN FILOSOFIA
MATERIA: FILOSOFIA MORALE
CRITICA DEL SOGGETTO FINITO E COSTRUZIONE DELL’ASSOLUTO NELLA “FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO” DI HEGEL: L’ODISSEA DELLA COSCIENZA.
PERFEZIONANDO: DOTT. MARCO MARTINI DOCENTE TUTOR: CHIAR.MA PROF. SSA MICHELA BARTOLOMUCCI
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Dediche, memorie, saluti e ringraziamenti.
Dedico questo lavoro alla memoria di mio fratello Paolo, papà, zio Nino, Fernanda, familiari, parenti e tutti i miei animali estinti, Bubi, Lucky, Attila e per ultimo il mio gattone tigrato Robespierre, con immenso affetto, Marco.
Voglio ricordare con sommo rispetto la memoria della Chiar. ma Prof. ssa Maria Moneti Codignola, Professore Ordinario di Filosofia Morale presso il Dipartimento di Filosofia della Facoltà di “Lettere e Filosofia” dell’Università degli Studi di Firenze, prematuramente scomparsa il 6 agosto 2011, già mia relatrice di Tesi di Laurea il 9 giugno 1986. E’ mio desiderio onorare con profondo e sincero affetto la memoria del mio Maestro, celeberrimo Chiar. mo Prof. Francesco Adorno, Emerito Professore Ordinario di Storia della Filosofia Antica presso il Dipartimento di Filosofia della Facoltà di “Lettere e Filosofia” dell’Università degli Studi di Firenze e Direttore del medesimo, venuto a mancare, ahimè, il 19 settembre 2010, umanissimo ed integerrimo faro morale ed intellettuale dei miei studi universitari, correlatore alla discussione della mia Tesi di Laurea il 9 giugno 1986, Presidente dell’Accademia Toscana di Scienze e Lettere “La Colombaria”, presso la quale ho svolto, sotto la Sua luminosa guida, per ben 3 anni, le mie ricerche su manoscritti e rari. Colgo l’occasione per salutare e ringraziare tutti gli amici, i colleghi di altre discipline, di materie affini e dei miei stessi insegnamenti, gli studenti, con i quali mi pregio di coltivare rapporti culturali ed umani anche quando, da anni, sono giunti al termine dei loro studi. Desidero ringraziare anche le 12 celebri Università ivi consorziate, delle quali 9 italiane e 3 europee ( 2 inglesi ed 1 romena ), da me menzionate in copertina, per l’ineccepibile organizzazione didattica dei Corsi e per avermi offerto l’occasione di un sì alto momento formativo. Infine, un particolare ringraziamento alla chiarm. ma Prof. ssa Michela Bartolomucci per l’assistenza fornitami con costante cordialità. Marco Martini Viareggio (Lucca), lì 3 dicembre 2012
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G. W. F. Hegel
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PREMESSA
Scopo di questo lavoro è ripercorrere l’itinerario della coscienza dal sapere ‘finito’, chiuso, limitato, al Sapere Assoluto: pertanto la struttura della tesi seguirà dettagliatamente quella dell’opera hegeliana presa in esame, una delle più complesse opere hegeliane e, si può affermare senza presunzione né esagerazione, di tutta la produzione del pensiero filosofico fino ai nostri giorni. Unico studio fondamentale di riferimento sarà quindi la Fenomenologia dello Spirito1 di Hegel, anche se, ovviamente, non mancheranno un’esauriente bibliografia critica di riferimento2, né la considerazione di altri testi di Hegel e di altri filosofi; tuttavia si tratterà quindi di un lavoro, essenzialmente, di analisi del testo hegeliano. L’opera è stata scritta nel 1806 durante la battaglia di Napoleone a Jena, nella quale vengono annientate le truppe prussiane: Hegel non mostra qui alcun sentimento nazionalistico, ma la dimensione temporale, storica, è ivi una coordinata fondamentale. La storia della Filosofia per Hegel non sarà e non potrà mai essere una semplice “filastrocca di opinioni”, bensì il percorso che la Verità segue nel suo manifestarsi nel tempo. Le diverse filosofie non sono altro che tasselli di uno svolgimento che lo Spirito Assoluto compie per trovare sé stesso; la storia è quindi una progressione teleologica verso l’autocoscienza e la libertà. La Filosofia è allora essa stessa storia della Filosofia. Su questa base, come risulta evidente, cade completamente l’opposizione tra verità ed errore; ogni filosofia è necessaria allo svolgimento della verità e nessuna è stata confutata. Al più si può parlare di dialettica tra verità parziali, ognuna delle quali conserva un suo valore intrinseco. Nell’ottica hegeliana tutte le filosofie che lo hanno preceduto non hanno quindi fatto altro che fondare la consistenza della sua stessa filosofia, intesa come manifestazione più alta della Verità; in questo senso possiamo affermare che la Fenomenologia dello Spirito è anche una riflessione critica sulla storia, quindi una filosofia della storia. 1
Cfr. G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, a cura di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze, 1979, 2 voll. Si tratteranno, come testi critici, esclusivamente opere in italiano, dato che il ventaglio delle pubblicazioni in proposito risulta essere estremamente ampio ed esauriente.
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Nell’opera hegeliana assistiamo quindi ad una progressiva critica del soggetto finito che si muove contemporaneamente ad una parallela costruzione del Sapere Assoluto. Si è scelto, infine, il presente argomento come tesi di perfezionamento in Filosofia con l’intento di proseguire il lavoro già iniziato nel 1986 con la tesi di laurea in Filosofia all’Università degli Studi di Firenze, ove si era svolto un lavoro di analisi dei testi hegeliani dai primi Scritti teologici giovanili alla Logica e Metafisica di Jena (1804/05), sotto la guida della Prof. ssa Maria Moneti, già allieva del Chiarissimo Prof. Cesare Luporini (1909-1993); con questo studio si vuole quindi portare a compimento il problematico rapporto tra soggetto ed oggetto nel periodo di Jena, il più proficuo nella produzione hegeliana, arrivando alla trattazione della Fenomenologia dello Spirito (1806). Il presente lavoro seguirà quindi l’itinerario hegeliano dalle prime “figure” della coscienza fino al raggiungimento del Sapere Assoluto e si articolerà in capitoli, paragrafi e sottoparagrafi. Nelle “Considerazioni conclusive” si cercheranno solo di intravedere i successivi sviluppi di quello che sarà il pensiero hegeliano nelle opere della cosiddetta “maturità”, vale a dire nella Scienza della logica (1816) e nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1817), scritti hegeliani del periodo di Heidelberg. Per quanto riguarda l’analisi della Prefazione e dell’Introduzione, si citeranno, piè di pagine, i paragrafi del testo hegeliano, mentre per quanto concerne il corpo dell’opera di Hegel considerata, si farà riferimento alle pagine dell’edizione presa in esame.
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CAPITOLO I: I CAPISALDI DEL PENSIERO HEGELIANO
I.1 Il titolo dell’opera e la Prefazione. Il termine “fenomenologia” deriva dal greco “fainomai”, che significa “vera manifestazione”, nel senso reale, ma anche “apparizione”, “falsa apparenza”, “parvenza”; Hegel tiene presenti entrambe le accezioni. Per “Spirito” si intende invece l’Assoluto, ossia l’identità, la sintesi di soggetto ed oggetto, infinito e finito. “Fenomenologia dello Spirito” significa quindi “manifestazione vera e falsa (al tempo stesso) dell’Assoluto”. Tale doppio significato del termine greco “fainomai” corrisponde a un duplice punto di vista che anima l’intera opera: quello finito, limitato, della coscienza, cioè del singolo soggetto, quello individuale, che Hegel definisce “per la coscienza”, e quello del Sapere Assoluto, della scienza, che Hegel definisce ”Per Noi”. Oltre ad essere un’opera di filosofia della storia, come si è detto, la Fenomenologia dello Spirito è anche un’opera di pedagogia, in quanto vuol essere una guida per la coscienza, alla quale si vuole mostrare come si arriva alla Scienza. La coscienza deve compiere una serie di esperienze per arrivare al Sapere Assoluto. Tali esperienze si risolvono tutte, a prima vista, in una serie di veri e propri smacchi, sconfitte, che tuttavia non producono il “puro nulla”, ma costituiscono il formativo “calvario” della coscienza; sono infatti, per il soggetto finito, limitato dalle sue presunzioni di sapienza, un “fuoco rigeneratore”, sono delle “negazioni determinate”, che costituiscono anche un progresso, un superamento delle esperienze precedenti. Questo “calvario” della coscienza ha consentito a studiosi di Hegel di paragonare quest’opera all’Odissea omerica: la coscienza infatti, come Ulisse, compie il suo viaggio verso la Verità, un viaggio doloroso, nel quale la coscienza avverte, di volta in volta, soltanto il suo fallimento, non si rende conto che tale tormentato itinerario avrà una fine aurea. Solo “Noi”, cioè il punto di vista della Scienza, sappiamo che le singole “sconfitte” costituiscono anche delle “vittorie”, dei “superamenti”, e questo perché “Noi” abbiamo già compiuto questo doloroso itinerario, abbiamo già versato “molto sangue”.
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Tale “superamento” è definito da Hegel, in tedesco “Aufgehoben”, letteralmente “tolto come conservato”, ovvero ogni esperienza è “tolta”, eliminata come elemento di limite, ostacolo al processo conoscitivo, ma anche “conservata” come momento positivo di crescita. L’opinione distingue il vero ed il falso come due entità nettamente separate, a causa dell’intelletto, che opera tali distinzioni, ma nell’Assoluto vero e falso fanno parte insieme della vita dell’Intero, in quanto il falso è un momento del vero, e i due termini non possono essere considerati separatamente, “come l’olio e l’acqua, che, senza mescolarsi, si trovano insieme solo esteriormente”3. Tali esperienze, che Hegel chiama “figure”, sono storicamente collocate nella storia del genere umano e trovano pertanto una precisa corrispondenza in periodi storici determinati, dalla preistoria al Romanticismo4. L’autore distingue “esperienze”, cioè “figure” teoretiche e pratiche; tali esperienze sono a loro volta collocate in raggruppamenti logici, astratti, che non hanno quindi corrispondenza storica, i “momenti”. Il principale esponente dell’Idealismo tedesco ci presenta cinque “momenti”, dei quali tre teoretici (coscienza, autocoscienza, ragione) e due pratici (religione e spirito); segue il Sapere Assoluto come conclusione dell’opera. I due punti di vista dell’opera corrispondono come a due “storie”: vi è una storia essoterica, esteriore, falsa, della coscienza, ed una storia “esoterica”, interna, nascosta, vera, che solo la Filosofia riesce a vedere ed a rendere manifesta. Questa è la nota “dialettica” hegeliana, e si consideri che Hegel uso esplicitamente pochissimo questo termine, che non compare mai negli Scritti teologici giovanili e solo due volte nell’intero capolavoro jenense. La dialettica è come il processo che porta il boccio prima al fiore e poi al frutto5: ogni fase è stata necessaria alla vita della pianta, alla costruzione di quello che Hegel chiama “Intiero”, nel senso di Assoluto, Vero, Verità, Spirito (Geist), Sintesi di Soggetto ed Oggetto, “in sé” e “per sé” (“an sich und fur sich”), attività Teoretica e Pratica, Filosofia, Lavoro, “Resultato”. Si tratta di arrivare ad una piena conoscenza, da parte del soggetto, dell’oggetto, ossia di rendere razionale tutto ciò che è reale, concreto, empirico, è quindi, come sostiene Franco
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Ibid., Prefazione, par. 35. Questa corrispondenza storica, accettata da tutti i critici, è in particolare la tesi espressa da S. Landucci in Hegel: la coscienza e la storia, La Nuova Italia, Firenze, 1976. 5 Ibid., par. 2 4
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Chiereghin, una “dialettica dell’assoluto ed una ontologia della soggettività”6, cioè una razionalità di ciò che è reale ed una realtà, ovvero una con concretezza, di ciò che è razionale, poiché, per citare una celeberrima frase dello stesso Hegel, “tutto ciò che è reale è razionale e tutto ciò che è razionale è reale”. Il lavoro dello Spirito è dunque “lungo e lento”7, ed in tali lentezza e lunghezza consiste la sua ricchezza. Tra il Sapere Assoluto e la coscienza finita Hegel introduce un terzo termine, l’ “astuzia della Ragione”, che riprenderà, con accezione diversa, anche nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, la grandiosa e superba opera della maturità, pubblicata durante la sua docenza all’Università di Heidelberg. L’ astuzia della ragione consiste nel “lasciar fare la coscienza”8, cioè nel permettere alla coscienza di compiere le proprie esperienze, sia pure fallimentari, per poi indirizzarla ed incoraggiarla a riprendere il sentiero luminoso della Verità. Da quanto premesso, ci si rende immediatamente conto che la filosofia hegeliana ivi espressa è fondata sull’esperienza, non può prescindere quindi dall’empirismo: per questo motivo l’opera hegeliana oggetto di studio in questo lavoro è stata definita anche come “l’anti-critica della Ragion pura”, con riferimento, per antitesi, alla filosofia trascendentale di Immanuel Kant. Il sottotitolo dell’opera è infatti “Scienza dell’esperienza della coscienza”. Nel suo capolavoro, inoltre, Hegel distrugge le categorie kantiane di quantità, qualità, relazione e modalità come categorie della finitezza, della separazione tra soggetto ed oggetto, modi di giudicare dell’intelletto, e non della ragione, e paragona esplicitamente la filosofia kantiana “a colui che pretende di imparare a nuotare prima di buttarsi nell’acqua”, cioè a priori, indipendentemente dall’esperienza, per poi porsi, assurdamente, a fondamento della conoscenza. La Filosofia intesa come Assoluto, Logos, Ragione, è Dio, ma non il Dio delle religioni rivelate, né quello delle religioni naturali, è un Dio identificato con la Ragione stessa. Per questo l’Idealismo hegeliano, universalmente noto come
“Idealismo panlogico” (un
apparente ossimoro), è stato anche definito come un “panlogismo ateo”, e ciò porterà, dopo la morte del filosofo, ad interpretazioni diverse e talvolta di segno addirittura opposto del suo pensiero, tra le due correnti che ne seguiranno, vale a dire destra e sinistra hegeliana; in 6
Cfr. F. Chiereghin, Dialettica dell’assoluto e ontologia della soggettività in Hegel. Dall’ideale giovanile alla Fenomenologia dello Spirito, Pubblicazioni di Verifiche, n° 6, Trento, 1980. 7 Ibid., par. 29. 8 Ibid., par. 54.
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proposito, si segnala l’esistenza anche di un “centro hegeliano”, il cui massimo rappresentante, Karl Rosenkranz, allievo di Hegel alla “Von Humdoldt Universitat” di Berlino ed anche autore di una Vita di Hegel, cercherà di mediare tali divergenti posizioni emerse dopo il 1831, anno di morte del filosofo. Si tenga sempre presente, inoltre, che la ragione (Vernunft) di cui parla Hegel non è quella degli illuministi, che Hegel definisce invece “intelletto”: questo è astratto, pretende di dare lezioni alla realtà ed alla storia, stabilendo, ad esempio, cosa dovrebbe essere giusto, ma solo in teoria, non nella vita pratica concreta; l’intelletto pertanto separa teoria e pratica, soggetto ed oggetto, definisce i concetti in modo astratto, mentre la ragione comprende il nesso dialettico della storia e delle idee. La ragione di cui parla Kant nella Critica della ragion pura9 è in realtà l’intelletto degli illuministi, quindi Kant confonde e scambia la ragione con l’intelletto, che divide e sclerotizza, l’intelletto è la legge morale della Critica della ragion pratica10 che non tiene conto dei sentimenti, della realtà, delle inclinazioni sensibili individuali, è quindi un soggetto isolato ed astratto dalla realtà storica ed umana concreta, che Hegel vuole combattere senza mezzi termini. Hegel critica inoltre, di Kant, la separazione del processo conoscitivo in sensibilità, intelletto e ragione, l’esistenza del noumeno o cosa in sé (Ding an sich), definito da Kant “esistente, ma inconoscibile” e la sua separazione dal fenomeno che invece, in quanto tale, appare. In sostanza, si può dare ragione a Guido De Ruggiero quando ha scritto che la Fenomenologia dello Spirito “è un viaggio di esplorazione attraverso tutto il territorio della coscienza, non solo teoretica, ma anche morale, sociale, politica, religiosa”. Ma le critiche di Hegel sono forti anche nei confronti del Romanticismo (sebbene la sua filosofia si muova sempre nell’ottica romantica), di cui Hegel critica gli strumenti di conoscenza immediata, quali l’arte, la fede, il sentimento: l’Assoluto non è immediatezza, ma essenzialmente mediazione, dialettica appunto; l’intellettuale romantico è un narcisista che si rifugia nella sua legge del cuore. L’Assoluto, afferma infatti Hegel, “non è un colpo di pistola”.11 In particolare, all’interno dell’opera sono presenti esplicite ed implicite polemiche contro Fichte e Schelling, i due più alti esponenti dell’Idealismo tedesco, dopo lo stesso Hegel; Fichte ci ha fornito una morale repressiva e titanica, del dominio (Herrschaft) del dover essere 9
Cfr. I. Kant, “Dialettica Trascendentale”, in Critica della ragion pura, Universale Laterza, Bari, 1987. Cfr. I. Kant, Critica della ragion pratica, Universale Laterza, Bari, 1986. 11 Cfr. G. W. F. Hegel, Fenomenologia…, cit., Prefazione, par. 27.
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sull’essere, cadendo così, nella Dottrina della Scienza, nello stesso errore compiuto da Kant nella Critica della ragion pratica; in ambito politico, ci ha fornito l’idea di uno Stato tirannico e repressivo, che infatti troverà fortuna nei regimi totalitari e nel pensiero di Giovanni Gentile, che, da neoidealista italiano del primo ‘900, interpreterà l’hegelismo come Attualismo12 e aderirà al fascismo. La filosofia speculativa fichtiana è poi una filosofia del “cattivo infinito” o falso infinito, che mai si realizza e tende quindi “all’infinito”, essendo, il compito dell’io e la “missione”, sia del dotto che dell’uomo13, quello di concepire il mondo come una “palestra morale” sulla quale esercitarsi nel continuo superamento di non-io, di ostacoli, e, quel che è più grave, è che la stessa Natura viene da Fichte “degradata” di qualsiasi velo romantico (si pensi a Goethe, che l’aveva divinizzata) e ridotta ad una funzione meccanica e meccanicistica, di stampo cartesiano ed illuministico, a differenza dell’operazione di Schelling14, già difeso, in proposito, da Hegel contro Fichte in una sua precedente opera, sempre del periodo jenense. Ma anche Schelling è esplicitamente accusato da Hegel nell’importantissima Prefazione all’opera, posta al termine, e non all’inizio della Fenomenologia dello Spirito, proprio perché “il particolare non può sostenere l’Universale”: la filosofia di Schelling è “la notte in cui tutte le vacche sono nere”15, cioè la filosofia del caos, nella quale l’artista crede illusoriamente di unirsi alla realtà, mentre è separato da essa da una profonda lacerazione, in quanto la presunta idealità dell’arte ha prodotto un’unità o un’identità indifferenziata tra il soggetto (l’artista) e l’oggetto, il mondo terreno, caduco, temporale, che è una caduta, una differenziazione rispetto all’assolutezza dell’artista romantico, che si auto-considera come una sorta di Assoluto, come l’arte in sé. Quella di Schelling è quindi una “filosofia della riflessione e della soggettività”16, nella quale il soggetto si ripiega narcisisticamente su sé stesso. La Filosofia è invece essenzialmente lavoro17, fatica, movimento, “via crucis”, dolore,18 e “lo spirito ha rotto i ponti” sia con il sapere immediato, sia con il “buon senso”19, che
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Cfr. G. Gentile, La riforma della dialettica hegeliana, in Opere complete, ed. Le Lettere, Firenze, 1987. Cfr. J. G. Fichte, Dottrina della scienza, a c. di F. Costa, Laterza, Bari, 1993; Missione del dotto, a c. di N. Merker, Studio Tesi, Napoli, 1991. 14 Cfr. F. Schelling, Sistema dell’idealismo trascendentale, a c. di G. Semerari, Laterza, Bari, 1990. 15 Cfr. G W. F. Hegel, Fenomenologia…, cit., Prefazione, par. 16. 16 Cfr. G. W. F. Hegel, Fenomenologia…, cit., Prefazione, par. 17. 17 Cfr. M. Moneti Codignola, Il verbo “arbeiten” e i suoi composti nella Prefazione alla “Fenomenologia” hegeliana, in Critica marxista n. 6, 1986. 18 Ibid., parr. 18/19. 19 Ibid., par. 68. 13
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dell’Assoluto coglie solo “punti luminosi”20 e che trova il suo massimo rappresentante nella speculazione, meschina e volgare, di Jacobi; il “buon senso getta sul mercato una serie di arbitrarie combinazioni nate da una fantasia per la quale il pensiero è solo un elemento di disorganizzazione: immagini che non sono né carne né pesce, né poesia né filosofia”21 e che “si trovano da secoli nel catechismo e nei proverbi popolari,”22 ma “la filosofia non si fa in maniche di camicia”23. La filosofia del “buon senso”, infatti, ci presenta un surrogato dell’ Assoluto “come si decanta la cicoria quale surrogato del caffè”24. Hegel critica anche Aristotele25, per il quale l’Assoluto era il “motore immobile”.26 In realtà l’artista romantico ha prodotto una doppia scissione: da un lato, tra sé, Assoluto, ed il suo prodotto, già inferiore, e tra sé, il prodotto e l’oggetto, ovvero il mondo terreno, che non potrà mai avere piena consapevolezza dell’Assoluto contemplando una sua produzione, che, in quanto tale, è inferiore all’Assoluto; ciò ha provocato il doppio atteggiamento, da parte dell’artista, prima di ironia, nella visione del suo prodotto, ed immediatamente dopo di scoramento, nell’amara constatazione che il mondo non potrà mai avere piena consapevolezza dell’Assoluto nell’osservazione di un suo prodotto. Hegel conclude la sua importantissima Prefazione esaltando il Parmenide di Platone, che definisce “senza dubbio la più grande opera d’arte della dialettica antica.”27 Le figure, in quanto esperienze, vengono quindi come a “depositarsi” nella storia dello Spirito quali gradi di una via già tracciata e spianata che la singola coscienza è chiamata a ripercorrere.
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Ibid., Jacobi era inoltre già stato aspramente criticato da Hegel nei Primi scritti critici, e particolarmente in Fede e Sapere, parte III, a c. di R. Bodei, Mursia, Milano, 1981, nella quale era stato definito “un nano che si permette di criticare i giganti”, con riferimento alle critiche che Jacobi aveva mosso sia a Spinoza, accusato di ateismo per aver identificato Dio con la Sostanza e la Natura nel suo razionalismo panteistico (che per Jacobi è sinonimo di ateismo), sia a Kant. Contro Spinoza Jacobi aveva infatti scritto le Lettere sulla dottrina di Spinoza. 21 Cfr. G. W. F. Hegel, Fenomenologia…, cit., ibid., par. 68. 22 Ibid., par. 69. 23 Ibid., par. 70. 24 Ibid., par. 68. 25 Cfr. Aristotele, Metafisica, l. XII, in Pensatori antichi e moderni. Antologia, n° 49, a c. di R. Mondolfo e D. Pesce, La Nuova Italia, Firenze, 1965. 26 Cfr. G. W. F. Hegel, Fenomenologia…, cit., par. 22. 27 Ibid., par.71.
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I.2. L’Introduzione. L’introduzione è concettualmente meno importante della Prefazione. E’ infatti più breve ed è stata scritta da Hegel all’inizio dell’opera, e non alla fine, a differenza della Prefazione, come già precisato. L’autore critica qui ancora il dualismo kantiano tra fenomeno e noumeno28, chiarisce i due punti di vista dell’opera29, quello della coscienza e quello della Scienza (per Noi), contesta la separazione tra vero e falso, in quanto entrami i poli costituiscono insieme la vita dell’Intero, ossia dell’Assoluto30, e ribadisce il carattere aporetico, scettico e dialettico che ogni sano e genuino sistema filosofico deve avere31. Tale scetticismo non porterà al “puro nulla”32, ma all’Assoluto.
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Ibid., par. 4. Ibid., par. 5. 30 Ibid., par. 3. 31 Ibid., par. 6. Già in un precedente scritto, sempre del medesimo periodo di Jena, Hegel aveva insistito su questo nesso, si tratta del noto articolo hegeliano Rapporto dello scetticismo con la filosofia (1802), in cui si contrappone il vero scetticismo, antico, dialettico, quello del Parmenide di Platone, allo scetticismo dogmatico di Schultze, che, accusando Kant nel suo Enesidemo, ricade poi negli stessi errori e considera finito non solo l’intelletto, ma anche la ragione. Lo scetticismo di Sesto Empirico, ma ancor più quello del Parmenide platonico, è uno “scetticismo genuino, il lato libero di ogni filosofia”. 32 Ibid., par. 7. 29
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CAP. II°: I MOMENTI TEORETICI
II.1 La Coscienza.
II.1.1 La certezza sensibile. Le prime esperienze del momento “Coscienza” sono storicamente collocate da Hegel nella preistoria: sono le figure più “basse” perché ricercano la verità in ciò che immediatamente, e senza quindi alcuna mediazione dialettica, si trova fuori di loro. Il punto di partenza della coscienza è la certezza sensibile, la prima figura; questa appare, a prima vista, come la certezza più ricca e sicura, ma in realtà è la più povera33. Crede di trovare l’Assoluto in ciò che immediatamente si trova di fronte, come “questo albero o questa casa”34, ciò che è presente qui e adesso davanti a noi. Con tale primitiva esperienza la coscienza crede che l’Assoluto sia quindi “nel questo e nell’ora”35, ma ben presto si rende conto che la soluzione del problema non è così semplice.
II.1.2. La percezione. Dalla certezza sensibile si passa alla seconda esperienza della coscienza, la percezione, in cui, con il medesimo semplicistico atteggiamento di immediatezza, si crede di trovare l’Assoluto in ciò che si percepisce con i sensi, in ciò che si vede e si tocca36. Le prime due figure del momento “Coscienza” sono storicamente collocate nella preistoria, ed esattamente nel paleolitico, in cui l’uomo primitivo conosceva attraverso i sensi bestiali. Anche questa esperienza risulta però ben presto uno smacco per la coscienza, che, constatata l’inutilità di rapportarsi con ciò che si trova immediatamente fuori di sé, guarda ora dentro sé stessa, ma con il medesimo atteggiamento di superficialità e di immediatezza: la terza figura è quindi quella della forza e dell’intelletto.
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Ibid., p. 81. Ibid., p. 85. 35 Ibid. 36 Ibid., p. 97. 34
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II.1.3. Forza e intelletto. In questa figura la coscienza, scrutando nel suo interno, nel quale, in realtà, non c’è che lei stessa, crede, illudendosi, di vedere una forza da sconfiggere e si pone come un intelletto, che, all’interno della forza, vede due componenti: un fenomeno ed un noumeno, che in realtà non esiste37. Hegel critica qui, quindi, esplicitamente, ancora l’intelletto, che opera una separazione dell’oggetto da conoscere in fenomeno e noumeno: l’accusa, implicita, è ora da Hegel mossa a Kant, che ha appunto distinto fenomeno e noumeno. Guardando dentro di sé, afferma Hegel, “la coscienza ha giocato allo specchio”38, ha cioè visto soltanto sé stessa come in uno specchio, ma non se ne è resa conto, ha creduto di vedere una forza esterna da sconfiggere. Hegel accusa, in proposito, anche Fichte, Schelling e tutta la “filosofia della riflessione”39 (Reflexionsphilosophie). In realtà, dentro la coscienza non c’è che lei stessa, con le sue presunzioni e la sua vacuità. Accortasi della propria vacuità, la coscienza torna in sé e si dà come Autocoscienza, in questa operazione di autoriflessione su sé stessa. Anche la figura “forza e intelletto” è collocata nella preistoria, ed esattamente nel neolitico, la fase più evoluta. Il momento “Autocoscienza”, molto importante, contiene le figure più celebri e più commentate dell’intera Fenomenologia dello Spirito, quali “Signoria e servitù” e “Coscienza infelice”.
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Ibid., pp. 113-114. Ibid., pp. 144-145. 39 Ibid., p. 152. 38
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II.2 L’Autocoscienza.
II.2.1 Indipendenza e dipendenza dell’autocoscienza; signoria e servitù. La prima figura del momento “Autocoscienza” è la più celebre e la più commentata di tutta l’intera opera hegeliana, Indipendenza e dipendenza dell’autocoscienza; signoria e servitù, meglio nota come “dialettica servo-padrone”. Questa figura è storicamente collocata nelle dispotiche società orientali, nelle quali il sultano, divinizzato, aveva diritto di vita e di morte sui sudditi. Un’Autocoscienza è tale solo se viene riconosciuta40 come tale da un’altra Autocoscienza, di cui ha ora quindi bisogno41: l’autocoscienza postula quindi l’esistenza di un’altra autocoscienza in grado di darle la certezza di essere tale, dunque di riconoscerla come tale. E’ un agire “doppio”42, è un agire “davanti allo specchio”43, da parte dell’autocoscienza. L’autocoscienza cerca, nell’altra autocoscienza, ciò che l’altra cerca da lei: ognuna cerca la verità di sé nell’altra, ognuna ha bisogno dell’altra per essere riconosciuta, ciò che può darle tale riconoscimento è un’altra autocoscienza identica44. Il riconoscimento una categoria giuridica, della filosofia del diritto, nella quale ci riconosciamo come soggetti di diritto. In tale sfera le due autocoscienze sono uguali, ognuna riconosce il diritto dell’altra. Ma il riconoscersi solo come soggetti di diritto è un riconoscimento parziale, inferiore a riconoscersi come autocoscienze. Si tratta, inizialmente, di un’autocoscienza “duplicata”: è l’agire davanti allo specchio, ognuna fa ciò che fa l’altra. Tale duplice rapporto non è però l’amore (Feuerbach criticherà Hegel proprio su questo punto), come potrebbe inizialmente sembrare, né un patto di riconoscimento (nozione giusnaturalistica e contrattualistica), ma la via da seguire per essere riconosciute è l’antagonismo. Ritorna in Hegel il concetto di Hobbes dello Stato di natura, che viene prima dell’istituzione pubblica: lo stato di natura è quello dove regnano, come affermava Plauto, ripreso da Hobbes e qui da Hegel, il “bellum omnium contra omnes” e l’ “homo homini lupus”.
40
Ibid., p. 153. Ibid. 42 Ibid., p. 154. 43 Ibid., p. 155. 44 Ibid. 41
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In questo rapporto, “tutto è identico ed opposto”45, è una situazione paradossale tra queste due autocoscienze, l’altro è identico ed opposto. In questo rapporto abbiamo quindi due poli: l’alterità e l’identità. Segue un esercizio di bravura della speculazione hegeliana, c’è una duplice valenza, filosofica e letteraria46: io non sono io, ma sono un altro, è lo smarrimento tra l’io e l’altro, io sono un “doppio”47. C’è un “doppio doppiosenso”48: la prima autocoscienza vuole togliere l’altro, ma l’altro è lei stessa, ed inoltre, l’altro fa ciò che fa la prima autocoscienza. E’ il “gioco delle forze” aveva detto Hegel nella figura precedente, “Forza e intelletto”, è un continuo passaggio dalla prima alla seconda, e viceversa. Ciascuna autocoscienza è mediante l’altra: è la perfetta reciprocità dell’operare allo specchio. Tale dualità delle autocoscienze è un rapporto di contesa49, è un duello mortale, in cui, inizialmente, ciascuna autocoscienza cerca la morte dell’altra. Il rapporto originario è quello, quindi, di guerra, gli altri rapporti seguono dopo solo come freno del primo (le istituzioni civili). Ma Hegel non fa qui una filosofia della storia, né una filosofia del diritto o un trattato giusnaturalistico, Hegel sta soltanto facendo una fenomenologia della coscienza e al filosofo non interessa, in questo caso, la storia dell’origine delle società o degli Stati. Per Hegel la guerra ha molta importanza, sia come guerra intersoggettiva che come guerra vera e propria, in senso pratico: la pace è un “non senso”. Muovendosi in un orizzonte di pensiero completamente diverso dal cosmopolitismo pacifista ed illuminista di Kant, Hegel attribuisce alla guerra non solo un carattere di inevitabilità (quando non vi sono le condizioni per una pacifico accordo tra gli Stati), ma anche un alto valore morale. Infatti, sostiene il filosofo tedesco con un noto paragone, “come il movimento dei venti preserva il mare dalla putredine, nella quale sarebbe ridotto da una quiete durevole”50, così la guerra preserva i popoli dalla fossilizzazione alla quale li ridurrebbe una pace durevole o perpetua.
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Ibid. Cfr. F. Doestoevskij, Il sosia. 47 Hegel tiene presente, in proposito, la letteratura francese sul “doppio”. 48 Cfr., G. W . F. Hegel, Fenomenologia…, cit., p. 154. 49 Ibid., p. 155. 50 Cfr. G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, ossia diritto naturale e scienza dello Stato in compendio, par. 324, Berlino, 1821. 46
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Tale duello delle autocoscienze è una negazione: ogni coscienza è certa di sé, e naga tutto ciò che è fuori di lei, compresa l’altra autocoscienza. In tale duello tra le due autocoscienze s’inserisce un terzo termine, che è la vita51. Ciascuna autocoscienza proclama sé stessa come tale e l’altra come vita: la vita è considerata inferiore all’autocoscienza, poiché lo sbocco naturale della vita è la morte, la vita è quindi destinata a morire, a differenza dell’autocoscienza, che, credendosi assoluto, non è destinata alla morte. Ogni autocoscienza, in questo duello, cerca quindi di mostrare che solo lei è l’autocoscienza e che l’altra è vita: per far questo ciascuna autocoscienza cerca di uccidere l’altra. Per dimostrare di essere tale, ogni autocoscienza deve però dimostrare di non interessarsi alla propria vita, mettendola a repentaglio, rischiandola, affrontando la morte, per dimostrare che essa non è vita, e di conseguenza non muore. Le autocoscienze devono dimostrare di essere libere dai condizionamenti della vita52 e devono quindi affrontare questa lotta: Hegel fa qui l’apoteosi del samurai, figura tipica del mondo orientale, in cui questa figura è collocata. Tuttavia ogni autocoscienza non vuole, in realtà, che questo rapporto conflittuale si risolva con la morte dell’altra, perché, in tal caso, avrebbe dimostrato di essere autocoscienza, ma non avrebbe nessuno che la riconosce come tale53, avendo ucciso l’altra: verrebbe meno il riconoscimento. Ecco che sorge la paura54 come esperienza metafisica: è la rinuncia alla lotta, l’arretrare di fronte alla morte. Un’autocoscienza si arrende, esce dalla lotta, per aver salva la vita. Due sono quindi atteggiamenti, contraddittori, di questa contesa: 1) la paura per la morte; 2) il disprezzo, al tempo stesso, per la morte. L’autocoscienza che ha vinto prende l’altra e ne fa il suo schiavo: s’instaura così un rapporto di dominio (Herrschaft) e nasce così la figura del servo e del padrone55. All’autocoscienza vinta basta la vita e consegna quindi la sua libertà nelle mani dell’altra. Chi ha perso ha dimostrato di non essere autocoscienza perché ha dimostrato di non sapersi staccare dalla vita. 51
Cfr. G. W. F. Hegel, Fenomenologia…, cit., p. 156. Ibid., pp. 157-158. 53 Ibid., p. 158. 54 Ibid., pp. 158-159. 55 Ibid., p. 159. 52
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Su questa figura si è scritto moltissimo: il filosofo marxista sovietico Alexandre Kojéve, che ha visto il Hegel il più grande filosofo ateo56 , ha detto che Hegel esprime qui, in termini speculativi, la lotta di classe, anticipando così Marx. Tuttavia molti altri marxisti hanno negato una presunta anticipazione di Marx in questa figura hegeliana, sostenendo che la presente non è che un “gioco di bravura” della speculazione hegeliana, anche se hanno apprezzato che Hegel conferisce al lavoro ed alla configurazione dialettica della storia, nella quale, grazie all’esperienza della sottomissione, si generano le condizioni per la liberazione. Hegel, secondo Kojéve, parteciperebbe per il servo, identificato con il proletariato che lotta contro il capitalista. Mar stesso, tuttavia, nell’Ideologia tedesca, vede in questa figura soltanto una “robinsonata”, astratta e borghese, e non intravede alcuna lotta di classe: è solo il rapporto astratto tra Robinson Crosue ed il suo fedele servo Venerdì, che lo chiama “padrone” e si sottomette a lui spontaneamente. Invece la categoria hegeliana di “dominio” (Herrschaft) è stata molto usata da Hegel anche negli scritti del periodo francofortese e vuole esprimere una cattiva unificazione dei due termini, in cui uno soverchia l’altro. Hegel, a Francoforte, ha infatti applicato tale categoria a molti aspetti religiosi, morali e filosofici: la stessa filosofia pratica kantiana era stata considerata una “morale del dominio” della legge sulle inclinazioni individuali. Altra forma di dominio era il rapporto dell’uomo ebraico con il suo Dio e della natura con l’uomo ebraico: il primo termine è sempre schiavo del secondo, nel mondo ebraico si era così consumata la duplice frattura tra Dio e uomo e uomo e natura, il Dio dell’Antico Testamento schiaccia l’uomo, dal quale è separato, e l’uomo opprime, a sua volta, la natura. La religione ebraica è quindi basata su una doppia scissione. Anche la filosofia fichtiana era una filosofia di dominio assoluto dell’io sul non-io. Hegel inserisce, come si è detto, questa figura nel dispotismo asiatico, orientale, perché il despota non è un re: ha diritto di vita e di morte su tutti i suoi sudditi, che non sono cittadini, ma appunto sudditi. Hegel ha ben presente anche il diritto antico di guerra, quando in guerra un popolo si arrende ad un altro popolo perde la libertà e diventa schiavo: Aristotele, infatti, nella Politica aveva affermato che si è schiavi per due ragioni:
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Cfr. articolo su “La Repubblica” di domenica 2 giugno 2002, p. 27.
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1) per generazione, in quanto il figlio di uno schiavo è sempre schiavo; 2) per battaglia persa57. Hegel applica tale antico diritto di guerra alla contesa tra le due autocoscienze: un’autocoscienza si è offerta come serva nelle mani dell’altra, l’unica, tra le due, che ha dimostrato di essere autocoscienza. Il signore, a questo punto, ordina al servo di lavorare gli oggetti, le “cose”58 per lui: il servo lavora ed il signore si gode il lavoro del servo e resta appagato da tale godimento. Il signore si rapporta alle cose, quindi, mediante il servo, non direttamente, ma con la necessaria mediazione del servo, al quale garantisce, come si è detto, soltanto la vita. Il signore non potrebbe infatti godere delle cose senza il lavoro del servo: la verità del signore è quindi una verità servile59, non degna di un’autocoscienza. Tuttavia, argomenta Hegel con una penetrante analisi dialettica, la dinamica del rapporto servo-signore è destinata a mettere in atto una paradossale inversione di ruoli, ossia ad una situazione per la quale il signore diviene servo del servo: ed il servo diviene signore del signore. Infatti, il signore, che inizialmente appariva indipendente, nella misura in cui si limita a godere passivamente del lavoro altrui, finisce per rendersi dipendente del servo. Invece quest’ultimo, che inizialmente appariva dipendente, nella misura in cui padroneggia e trasforma le cose da cui il signore riceve il proprio sostentamento, finisce per rendersi indipendente. Ecco quindi spiegato il titolo complessivo di questa figura: “indipendenza e dipendenza dell’autocoscienza”: “Come la signoria mostrava che la propria essenza è l’inverso di ciò che vuol essere, così la servitù nel proprio compimento diventerà piuttosto il contrario di quel che essa è immediatamente [ . . . ] e si volgerà nell’indipendenza vera”60.
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Si tenga però presente che in Aristotele emerge il vecchio pregiudizio razziale degli Elleni: sono ricondotti in schiavitù solo i nemici vinti in guerra, ma stranieri, non Greci: se un ateniese veniva sconfitto da uno spartano o da un tebano o viceversa, restava libero, cosa che non accadeva, ad esempio, nel caso di un persiano. 58 Cfr. G. W. F., Hegel, Fenomenologia…, cit., pp. 160-161. 59 Ibid., p. 161. 60 Cfr. G. W. F. Hegel, Fenomenologia…, cit. p. 161.
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Più in particolare, questo processo di acquisizione di indipendenza da parte del servo avviene attraverso tre esperienza formative: 1) la paura della morte; 2) il servizio; 3) il lavoro61. La paura è un sentimento già provato dal servo nel momento in cui si era arreso al signore, nel corso del duello, per timore appunto di perdere la vita, ma questo secondo tipo di paura è del tutto diverso, è un’esperienza metafisica. Infatti lo schiavo è tale perché “ha tremato” dinanzi alla morte. Ma proprio in virtù di siffatta paura, che non è paura di questo o di quello, ma della perdita assoluta della propria essenza, lo schiavo ha potuto sperimentare il proprio essere come qualcosa di distinto o di indipendente da quel mondo di certezze naturali che prima gli apparivano come qualcosa di “fisso” e con le quali, in qualche modo, si identificava. Ecco le parole con le quali Hegel descrive il “fluidificarsi” della realtà per mezzo dell’angoscia della morte e la correlativa conquista, da parte dell’individuo, della propria autocoscienza: “Tale coscienza non è stata in ansia per questa o quella cosa e neppure durante questo o quell’istante, bensì per l’intiera sua essenza; essa ha infatti sentito paura della morte, signora assoluta. E’ stata così, intimamente dissolta, ha tremato nel profondo di sé, e ciò che in essa v’era di fisso ha vacillato. Ma tale puro e universale movimento, tale assoluto fluidificarsi di ogni momento sussistente, è l’essenza semplice dell’autocoscienza, è l’assoluta negatività, il puro esser-per-sé che, dunque, è in quella coscienza”62. Hegel, in proposito, cita la Bibbia “La paura del Signore è l’inizio della Sapienza”. Tale paura è un’esperienza radicale, quella di essere nelle mani di un signore che in qualunque momento può annientarmi. La paura fa “vacillare” il servo in tutto il suo essere, la paura educa, perché spezza tutti i vincoli della coscienza servile, che diventa così autocoscienza, “staccandosi” dalla vita. Nella seconda esperienza, quella del servizio, la coscienza si auto-disciplina mediante una dura disciplina ed impara a vincere, in tutti i singoli momenti, i suoi impulsi naturali.
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Cfr. M. Moneti Codignola, La nozione di lavoro in Hegel – contenuti tematici e collocazione sistematica, parte I, in Quaderni di Verifiche n. 1-2, Trento, anno 2000, pp. 28-58; parte II, in Quaderni di Verifiche n. 3.4, Trento, anno 2000, pp. 163-194. 62 Ibid., p. 162. Cfr. anche J. Hyppolite, Genesi e struttura della “Fenomenologia dello Spirito” di Hegel, La Nuova Italia, Firenze, 1972.
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Infine nella terza ed ultima esperienza, quella del lavoro, il servo, trattenendo il proprio appetito e non usufruendo dell’oggetto, imprime nelle cose una forma, dando luogo ad un’opera che permane e che ha una sua indipendenza o autonomia, la quale rappresenta il riflesso, nelle cose, della raggiunta indipendenza o autonomia del servo rispetto agli oggetti. In altre parole, “formando (bilden) e coltivando le cose, il servo non solo forma e coltiva sé stesso, ma ancora imprime nell’essere quella forma che è dell’autocoscienza, e così trova sé stesso nella propria opera63”. Il lavoro è stata quindi una grande esperienza formativa per il servo: il lavoro è la dimensione costitutiva dell’autocoscienza. In tal modo, egli arriva a comprendersi, ad auto-concepirsi come essere indipendente, come scrive Hegel, in termini non facili: “Il lavoro è un appetito tenuto a freno [ … ] è un dileguare trattenuto; ovvero: il lavoro forma. Il rapporto negativo verso l’oggetto diventa forma dell’oggetto stesso, diventa qualcosa che permane; e ciò perché proprio chi lavora l’oggetto ha indipendenza. Tale medio negativo o l’operare negativo costituiscono in pari tempo la singolarità o il puro essere-per-sé della coscienza, che ora, nel lavoro, esce fuori di sé nell’elemento del permanere; così, quindi, la coscienza che lavora giunge all’intuizione dell’essere indipendente come di sé stessa64”. La figura hegeliana del servo-padrone, che è senza dubbio “tra le cose più belle della Fenomenologia dello Spirito65” presenta una notevole ricchezza tematica, che dimostra l’ampio e solido bagaglio culturale dell’autore, dati tutti i riferimenti storico-culturali addotti. La figura hegeliana non si conclude con una rivoluzione sociale o politica, ma con la coscienza dell’indipendenza del servo nei confronti delle cose e della dipendenza del signore nei confronti del lavoro servile66. La figura in questione contiene anche taluni spunti di tipo esistenzialistico: ad esempio, il raggiungimento della consapevolezza di sé tramite l’angoscia della morte, come riprenderà Martin Heidegger in Essere e tempo, o il rapporto originariamente conflittuale che lega le coscienze tra loro, come affermerà Jean Paul Sartre, massimo esponente francese dell’Esistenzialismo, capace di fondere Esistenzialismo e marxismo. Ecco come, alla fine di questa figura, il rapporto si è capovolto: ciò che la coscienza credeva essere il signore si è rivelato servo, dipendente dalle cose e da quello che inizialmente credeva essere servo, vita servile, e viceversa, il servo è diventato signore, lavorando le cose, 63
Cfr. J. Hyppolite, Genesi…, cit., p. 214. Cfr. G. W. F. Hegel, Fenomenologia…, cit., pp. 162-163. 65 Cfr. N. Hartmann, La filosofia dell’idealismo tedesco, a c. di V. Verra, trad. di B. Bianco, Mursia, Milano, 1983. 66 Cfr. G. W. F, Hegel, Fenomenologia…, cit., p. 163. 64
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emancipando sé stesso ed acquistando la propria la propria indipendenza come autocoscienza67. Si tratta quindi di un “mondo capovolto, invertito”, quale è quello hegeliano, come afferma Maria Moneti68. “Per Noi” qui è già sorto lo Spirito, ma non per la coscienza, per la quale questa figura è stata soltanto un’altra esperienza negativa, un’altra sconfitta: ma la coscienza, che continuamente si auto-inganna, ha bisogno di passare per tutte queste esperienze.
II.2.2. Lo stoicismo. Il raggiungimento dell’indipendenza dell’io nei confronti delle cose, che è il “Resultato” della dialettica tra servo e signore, trova la sua manifestazione filosofica nella figura dello stoicismo, ossia in un tipo di visione del mondo che celebra l’autosufficienza e la libertà del saggio nei confronti di ciò che lo circonda. Ma nello stoicismo l’autocoscienza, che pretende di svincolarsi dai condizionamenti della realtà (passioni, affetti, ricchezze, eccetera), ritenendo di essere libera “sul trono o in catene”, raggiunge soltanto un’astratta libertà interiore, giacché quei condizionamenti permangono e la realtà esterna non è affatto negata.
II.2.3. Lo scetticismo. Chi pretende di mettere completamente tra parentesi quel mondo esterno da cui il filosofo stoico si sente indipendente (e che lascia invece sussistere) è lo scetticismo, ossia un tipo di visione del mondo che sospende l’assenso su tutto ciò che è comunemente ritenuto per vero e reale (di conseguenza, lo scetticismo è “per sé”, ossia in modo consapevole, ciò che lo stoicismo è “in sé”, ossia in modo inconsapevole; esattamente come lo stoicismo è “per sé” ciò che la servitù è “in sé”. Tuttavia, in virtù del suo esasperato “atteggiamento negativo verso l’alterità”, lo scetticismo dà luogo ad una situazione contraddittoria ed insostenibile, che si manifesta nella scissione tra una coscienza che vorrebbe innalzarsi sull’accidentalità e non-verità della vita, ed una coscienza che si scopre vittima, essa stessa, della inessenzialità e non verità della vita, come si evince dal testo hegeliano:
67
Ibid. Cfr. M. Moneti Codignola, Hegel e il mondo alla rovescia, La Nuova Italia, Firenze, 1986, ed anche Moralità e soggetto in Hegel, ETS, Pisa, 1996. 68
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“profferisce l’assoluto dileguare, ma il profferire è [ … ] profferisce la nullità del vedere, dell’udire, ecc., ed è proprio lei che vede, ode, ecc.; profferisce la nullità delle essenze etiche, e ne fa le potenze del suo agire. Il suo operare e le sue parole si contraddicono sempre”.69 In altre parole, Hegel non fa che usare, contro lo scetticismo, l’argomento tradizionale: quello secondo cui lo scettico si auto-contraddice poiché da un lato dichiara che tutto è vano e non vero, mentre dall’altro pretende di dire qualcosa di reale e di vero. Paradosso tanto più grave se si pensa che la coscienza di cui parla lo scettico è una coscienza singola, la quale non può fare a meno di entrare in urto con altre coscienze singole, come scrive l’autore: “In effetti il suo chiacchierare è un litigio da ragazzi testardi, dei quali uno dice A quando l’altro dice B, per dir B quando l’altro dice A; e così ciascuno
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restando in contraddizione
con sé stesso, si paga la soddisfazione di restare in contraddizione con gli altri”. Le figure dello stoicismo e dello scetticismo sono storicamente collocate da Hegel nel tardo Impero Romano e rappresentano quasi “un passo indietro” per la coscienza, che è fortemente scissa; sembrerebbe dunque essere in tal modo negato il principio della “negazione determinata” che anima l’intera opera, ma in realtà non è così. Lo stoicismo, volendo liberare l’uomo da tutte le passioni, lo isola dalla vita, creando così una scissione tra vita e passioni; lo scetticismo, negando ogni certezza, svuota la coscienza e la porta alla scissione di sé con sé: la coscienza scettica, ad esempio, nega la certezza della percezione, ma percepisce, nega la certezza del pensiero, ma pensa, nega la certezza dell’agire morale, ma agisce. Queste sono, in sostanza, le contraddizioni di queste due figure, che, nel contesto dell’opera hegeliana, rivestono una funzione abbastanza transitoria.
II.2.4. La coscienza infelice. La figura della coscienza infelice è l’ultima dell’importantissimo momento dell’ “Autocoscienza” ed è storicamente collocata da Hegel nel Medioevo; qui la coscienza è però consapevole della sua “infelicità”, della sua scissione, e questo ribadisce l’importanza della “negazione determinata”71, filo conduttore dell’intera ultima opera del giovane Hegel.
69
Cfr. G. W. F. Hegel, Fenomenolgia…, cit., p. 173. Ibid. 71 S. Landucci nel suo studio La contraddizione in Hegel , La Nuova Italia, Firenze, 1978, parla esplicitamente di “contraddizione necessaria”, in quanto il soggetto deve “negare la negazione”, ed è questa la “potenza del negativo” che fa dell’antitesi la fase più importante della dialettica hegeliana. 70
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La scissione, presente nello scetticismo, tra una coscienza immutabile ed una mutevole, diviene esplicita ( o “per sé”) nella figura della coscienza infelice ed assume la forma di una separazione radicale tra l’uomo e Dio. Tale separazione si manifesta dapprima sotto forma di un’antitesi fra l’ ”intrasmutabile” ed il “trasmutabile”. E’ questa la situazione propria dell’ebraismo, nella quale l’essenza, l’Assoluto, la realtà vera è sentita come lontana dalla coscienza ed assume le sembianze di un Dio trascendente padrone assoluto della vita e della morte, ovvero di un Signore inaccessibile di fronte al quale l’uomo si trova in uno stato di dipendenza. Si consideri, in proposito, che il giovane Hegel aveva già fortemente accusato la religione ebraica di eteronomia e di scissione negli Scritti teologici giovanili. Come si può notare, la coscienza infelice ebraica rappresenta la traduzione, in chiave religiosa, della situazione sociale espressa dal rapporto servo-padrone. Nel secondo momento il trasmutabile assume la figura di un Dio incarnato. E’ questa la situazione propria del cristianesimo medievale, il quale, anziché considerare Dio come un Padre o un giudice lontano, lo prospetta sotto forma di una realtà “effettuale”. Tuttavia, la pretesa di cogliere l’Assoluto in una presenza particolare e sensibile è destinata al fallimento. Fallimento di cui sono un simbolo eloquente le crociate, nelle quali l’inquieta ricerca di Dio si conclude con la conquista di un “sepolcro vuoto”. Inoltre Cristo, di fronte alla coscienza, continua a rimanere qualcosa di diverso e di separato. Tanto più che egli, come Dio trascendente, esprime pur sempre “il momento dell’aldilà”72 e, come Dio incarnato, vissuto in uno specifico ed irripetibile periodo storico, risulta pur sempre, per i posteri, inevitabilmente lontano. Scrive in proposito Hegel: “Accade necessariamente ch’esso sia dileguato nel tempo e nello spazio, e che sia stato lungi e senz’altro lungi rimanga”73. Di conseguenza, con il cristianesimo la coscienza continua ad essere “infelice”
e Dio
continua a configurarsi come un “irraggiungibile al di là che sfugge”74, anzi, che è “già sfuggito nell’atto in cui si tenta d’afferrarlo”75. Manifestazioni di questa infelicità cristiano-medievale sono le “sotto-figure” della devozione, del fare e della mortificazione di sé. 72
Ibid., p. 178. Ibid. 74 Ibid., p. 180. 75 Ibid. 73
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La devozione è quel pensiero a sfondo sentimentale e religioso che non si è ancora elevato al concetto ( e quindi alla coscienza speculativa dell’unità tra finito ed infinito). In altri termini, come scrive Hegel in una sorta di prosa poetica volta a ricreare certa “atmosfera” medievale dalle tinte romantiche, il pensare della devozione “resta un vago brusio di campane o una calda nebulosità, un pensare musicale che non arriva al concetto”76.
Il fare o l’operare della coscienza pia è il momento in cui la coscienza, rinunciando ad un contatto immediato con Dio, cerca di esprimersi nell’appetito e nel lavoro. Tuttavia la coscienza cristiana non può fare a meno di avvertire il frutto del proprio lavoro come un dono di Dio. Anzi, essa avverte come dono di Dio anche le proprie forze e le proprie capacità, che le sembrano concesse dall’alto “affinché ne faccia uso”. In tal modo essa si umilia e riconosce che chi agisce è soltanto Dio.
Tale vicenda prosegue e si esaspera con la mortificazione di sé, in cui si ha la più completa negazione dell’io a favore di Dio. Infatti, con l’ascetismo e le sue pratiche di umiliazione della carne, ci troviamo di fronte ad una personalità tanto misera quanto infelice e “limitata a sé ed al suo fare meschino”, ovvero, come aggiunge caratteristicamente Hegel, ad una personalità che “non riesce se non a covare sé stessa”77. Ma il punto più basso toccato dal singolo (il quale cerca un estremo punto di contatto tra sé e l’immutabile nella figura mediatrice della Chiesa) è destinato a trapassare dialetticamente nel punto più alto allorquando la coscienza, nel suo vano sforzo di unificarsi con Dio, si rende conto di essere, lei stessa, Dio, ovvero l’Universale o il Soggetto Assoluto78. Ciò non avviene nel Medioevo, ma nel Rinascimento e nell’età moderna. Anche la figura della coscienza infelice ha avuto una notevole fortuna nella storiografia, tant’è vero che talora non fu vista semplicemente come una semplice figura, ma come la chiave di volta di tutta la Fenomenologia.
76
Ibid. Ibid., p. 186. 78 Ibid., p. 193. 77
26
In sostanza, in questa figura l’Assoluto è identificato dalla coscienza (che si rende conto della propria scissione per cui soffre ed è “infelice”) con il Dio cristiano, che è però separato dalle sue creature a causa dell’ebraismo. Nelle crociate la coscienza ha ricercato soltanto un “sepolcro vuoto”. La coscienza è “infelice” perché è scissa, ma questa figura rappresenta “un passo avanti” rispetto alle precedenti in quanto la coscienza è consapevole della propria scissione. Rimettendosi nelle mani della Chiesa, la coscienza riconosce che tutto ciò che fa è dono di Dio: in questo modo la coscienza si umilia e si mortifica anche fisicamente, come è dimostrato dalle pratiche dei “battuti” o flagellanti medievali, come Jacopone da Todi. Avendo preso consapevolezza della propria infelicità, la coscienza, che non ha trovato l’Assoluto nel Dio cristiano del Medioevo, si offre ora alla ragione: siamo nel Rinascimento, nell’età moderna.
II. 3. La Ragione. Il momento “Ragione” è l’ultimo momento teoretico dell’opera hegeliana in questione. Le sue figure sono storicamente collocate tra il Rinascimento quattro-cinquecentesco ed il Seicento incluso. Il momento “Ragione” si articola, a sua volta, in due “sotto-momenti”, la “Ragione osservativa” e la “Ragione operativa”; quest’ultima a sua volta presenta figure che svolgono la loro funzione inizialmente “contro il mondo”, in un secondo momento “nel mondo”. Ogni sotto-momento ha le sue figure; iniziamo quindi la trattazione delle figure della “Ragione osservativa”.
II.3.1.La Ragione osservativa. E’ questa la fase del naturalismo rinascimentale e dell’empirismo. Qui la coscienza crede, bensì, di cercare l’essenza delle cose, ma in realtà non cerca ancora una volta che sé stessa; e quella credenza deriva dal non aver fatto ancora della ragione l’oggetto della propria ricerca. Si determina così l’osservazione della natura, ovvero le figure della ragione osservativa, come s’è detto, che, partendo dalla semplice descrizione, si approfondisce con la ricerca della legge e con l’esperimento, vale a dire con l’osservazione del mondo organico, per passare infine a quella della coscienza stessa con la psicologia.
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Hegel esamina lungamente, a questo proposito, due pseudoscienze che erano di moda ai suoi tempi: la fisiognomica79, che aveva la pretesa di determinare il carattere dell’individuo attraverso i tratti della sua fisionomia, e la frenologia80, che pretendeva di conoscere il carattere dalla forma e dalle protuberanze del cranio. In tutte queste ricerche la Ragione, pur cercando apparentemente altra cosa, cerca in realtà solo sé stessa in quanto cerca di riconoscersi nella realtà oggettiva che le sta dinanzi. Ma in questa ricerca esasperata di sé che, nella frenologia arriva al punto di proclamare che “lo spirito è un osso”81, la ragione osservativa sperimenta, alla fine, la propria crisi, riconoscendosi di nuovo come qualcosa di distinto dal mondo.
II.3.2. La Ragione operativa. Ma a questo punto si passa a ciò che Hegel definisce “l’attuazione dell’autocoscienza razionale mediante sé stessa”, ossia ad una Ragione attiva, operativa, in virtù della quale “non più la coscienza si vuole immediatamente trovare, anzi vuole produrre sé stessa mediante la sua attività”82, allorquando ci si rende conto che l’unità di io e mondo non è qualcosa di dato e di incontemplabile, ma qualcosa che deve essere realizzato.
II.3.2.1. La Ragione operativa contro il mondo. Tuttavia tale progetto, affinché assuma la forma di uno sforzo individuale, cioè di un’ iniziativa che scaturisca dalla singola coscienza, è destinato anch’esso a fallire, come testimoniano le tre figure della Ragione operativa. La prima, che Hegel denomina Il piacere e la necessità, è quella in cui l’individuo, faustianamente deluso dalla scienza e dalla ricerca naturalistica della Ragione osservativa, si getta nella vita e va alla ricerca del proprio godimento: “Le ombre della scienza, delle leggi, dei princìpi [ … ] scompaiono come inerte nebbia [ … ] l’autocoscienza prende la vita a quel modo che vien colto un frutto maturo”83. Ma nella ricerca del piacere l’autocoscienza ricerca la necessità del destino, che, incurante delle sue personali esigenze di felicità, lo travolge inesorabilmente: “Egli prendeva la vita, ma con ciò afferrava piuttosto la morte”84, scrive Hegel, evidenziando il limite e la finitudine dell’individuo. 79
La fisiognomica di J. K. Lavater (1741-1801). La frenologia di F. J. Gall (1758-1828). 81 Cfr. G. W. F. Hegel, Fenomenologia…, cit., p. 287. 82 Ibid., p. 289. 83 Ibid., p. 302. 80
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L’autocoscienza cerca allora di opporsi al corso ostile del mondo appellandosi alla legge del cuore85. Nasce in tal modo la seconda figura della Ragione attiva contro il mondo, che Hegel denomina la legge del cuore e il delirio della presunzione, nella quale l’individui, dopo aver cercato di individuare e di abbattere i responsabili dei mali del mondo (“preti fanatici, despoti corrotti”), entra in conflitto con altri presunti portatori del vero progetto di miglioramento della realtà, come afferma: “La coscienza che propone la legge del suo cuore avverte dunque la resistenza da parte di altri, perché essa contraddice alle leggi altrettanto singole del cuore loro”86. Ai vari fanatismi di parte, l’individuo contrappone allora la virtù, ossia un agire in grado di procedere oltre l’immediatezza del sentimento e delle inclinazioni soggettive. Nasce in tal modo la terza ed ultima figura della Ragione operativa contro il mondo, che Hegel denomina il cavaliere della virtù e il corso del mondo. Ma il contrasto tra la virtù, che è il bene astrattamente vagheggiato dalla coscienza nella speranza di “riinvertire l’invertito corso del mondo”87 e la concreta realtà non può che concludersi con la sconfitta del “cavaliere della virtù” e dei suoi donchisciotteschi propositi di moralizzazione dell’esistenza88.
II.3.2.2. La Ragione operativa nel mondo.
Visto il fallimento della lotta contro il mondo, la coscienza decide ora di impegnarsi nel mondo, ma si tratta sempre di un impegno individualistico, è “L’individualità che è a sé stessa reale in sé stessa e per sé stessa”. Hegel vuole qui mostrare come l’individualità, pur potendo raggiungere la propria realizzazione, rimane, in quanto tale, astratta ed inadeguata. Si tratta di figure che, all’interno dell’opera hegeliana, rivestono una funzione abbastanza marginale e transitoria tra quelle della Ragione operativa contro il mondo, appena esaminate, e quelle del successivo momento dello “Spirito”.
84
Ibid., p.305. Qui Hegel allude probabilmente al filone sentimentalistico che va da Rousseau ai romantici a lui contemporanei. 86 G. W. F. Hegel, Fenomenologia…, cit., p. 315. 87 Ibid., p. 318. 88 Il riferimento di Hegel è qui proprio il Don Chisciotte di Cervantes, che spera, invano, di fermare i mulini a vento.
85
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La prima figura è quella che Hegel denomina il regno animale dello spirito e l’inganno, o la cosa stessa. Con questa formula Hegel intende dire che agli sforzi ed alle ambizioni universalistiche della virtù succede l’atteggiamento della “onesta” dedizione ai propri compiti particolari (familiari, professionali, eccetera). Ora, alla base di questo regno animale dello spirito – animale perché la vita dello spirito viene completamente risolta nella cura dei propri compiti o affari – vi è un “inganno”, in quanto l’individuo tende a spacciare la sua opera come “la cosa stessa”, cioè come il dovere morale stesso, mentre essa esprime soltanto il proprio interesse (tant’è vero che G. Lukàcs ha visto, in questa figura, la traduzione filosofica della mentalità “borghese”, anche se bisogna tener conto del marxismo ortodosso del filosofo ungherese, come appare molto chiaramente anche dalle sue opere di estetica). La seconda figura è quella della ragione legislatrice. Infatti l’autocoscienza, avvertendo l’ “inganno” di cui si è parlato, cerca in sé stessa delle leggi che valgano per tutti. Tuttavia, tali leggi universali, in virtù della loro origine individuale, si rivelano autocontraddittorie. Ad esempio, la massima secondo cui “ognuno ha il dovere di dire la verità” non tiene presente, osserva Hegel, che la verità per l’individuo si traduce nella “persuasione e cognizione ch’egli a volta a volta ne ha”89, in modo tale che “l’universalmente necessario, il valevole in sé, che la proposizione voleva esprimere, si è piuttosto invertito in una completa accidentalità”90. Tali contraddizioni spingono la coscienza a farsi ragione esaminatrice della leggi, cioè a cercare delle leggi assolutamente valide, ed è questa la terza figura. Tuttavia, nella misura in cui sottomette (razionalisticamente ed illuministicamente) le leggi al proprio esame, essa appare costretta a porsi al di sopra delle leggi e quindi a ridurne, simultaneamente, l’intrinseca validità ed incondizionatezza: “Se chiedo del loro nascimento e le limito al punto della loro origine, io son già oltre di loro; ché io sono ormai l’universale, ma esse il condizionato e limitato. Se debbono legittimarsi al mio sguardo, io ho già mosso il loro incrollabile esser-per-sé e le considero come qualcosa che per me forse è vero, forse non è vero”91. 89
Cfr. G. W. F. Hegel, Fenomenologia…, cit., p. 350. Ibid. 91 Ibid., p. 360. 90
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Con tutte queste figure Hegel intende quindi farci capire che se ci si pone dal punto di vista dell’individuo si è inevitabilmente condannati a non raggiungere mai l’Assoluto. Quest’ultimo si trova soltanto nella fase dello “Spirito”, ovvero di ciò che Hegel, nella fase sistematica del suo pensiero, denominerà “Spirito Oggettivo” ed “Eticità”, intendendo, con queste espressioni, la ragione che si è realizzata concretamente nelle istituzioni storicopolitiche di un popolo e soprattutto dello Stato “l’intelligente ed essenziale far del bene è [ …] l’intelligente, universale operare dello Stato: - operare al cui paragone l’operare del singolo come singolo diviene qualcosa di così meschino che non val quasi la pena di parlarne”92. Tant’è che le leggi etiche più indubitabili (“dire la verità”, “amare il prossimo”) risultano pure astrazioni se manca lo Stato a determinare il contenuto. In altri termini, la ragione reale non è quella dell’individuo, ma quella dello Spirito o dello Stato, che per Hegel sono sostanza solo nel senso etimologico di substantia, cioè di , come afferma Gianni Vattimo, “sostrato che regge e rende possibile ogni atto della vita individuale”. Infatti, proclamare che noi siamo sempre “dentro la sostanza etica”93 equivale a sostenere che l’individuo risulta fondato dalla realtà storico-sociale e non viceversa. Ma con la nozione di “Spirito” siamo già in un momento ulteriore della Fenomenologia, il primo momento “pratico”.
92 93
Ibid., p. 352. Ibid., p. 361.
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CAP. III°: I MOMENTI PRATICI La seconda parte della Fenomenologia dello Spirito comprende tre sezioni (lo Spirito, la Religione ed il Sapere Assoluto) che anticipano il contenuto della “Filosofia dello Spirito”94 e, per certi aspetti, della filosofia della storia95. Hegel stesso, in una redazione più concisa del processo fenomenologico, contenuta nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, ha eliminato tale parte.
III.1. Lo Spirito. Come si è visto, per “Spirito”, Hegel intende l’individuo nei suoi rapporti con la comunità sociale di cui è parte. La sezione dello Spirito comprende tre tappe fenomenologiche: a) lo spirito vero; l’eticità; b) lo spirito che si è reso estraneo a sé; la cultura; c) lo spirito certo di sé stesso; la moralità. La prima figura corrisponde alla fase dell’eticità classica, ossia alla polis greca, in cui abbiamo una fusione armonica tra l’individuo e la comunità, in quanto il singolo appare profondamente immerso nella vita del proprio popolo. La seconda figura corrisponde alla fase della frattura tra l’io e la società, ossia ad una situazione di scissione e di alienazione, che, già iniziata nel mondo antico e con l’Impero romano, trova il proprio culmine nel mondo moderno. In quest’ultimo troviamo infatti un tipo di “cultura” corrosiva che, con l’Illuminismo, tende a criticare e a distruggere tutto, rivoltandosi, alla fine, contro sé stessa. Manifestazione politica di questa vicenda intellettuale è la Rivoluzione francese, che, volendo instaurare il regno della libertà, ha invece dato origine ad una società del Terrore, dove gli stessi esponenti della rivoluzione finiscono per ghigliottinarsi a vicenda. Ma questa figura merita di essere maggiormente approfondita. Hegel condanna qui il Terrore montagnardo e la Rivoluzione francese nella sua fase terminale96, in cui “lo spirito si è reso estraneo a sé”. 94
Di cui Hegel parla nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Heidelberg, 1817, la più importante e voluminosa opera dello “Hegel maturo”. 95 Trattata da Hegel nelle Lezioni sulla filosofia della storia, che altro non è che la raccolta, da parte dei suoi studenti, delle lezioni tenute all’Università di Berlino e pubblicate postume. 96 Si tenga presente che Hegel aveva salutato la fase iniziale della Rivoluzione francese come “l’alba di una nuova era” negli Scritti teologici giovanili; qui condanna la degenerazione della Rivoluzione dal 1793 al 1794, durante la dittatura giacobina di Robespierre, Chouton e St. Just. Hegel, di fatto, distingue due fasi nella
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La Rivoluzione giacobina, tutta teorica, vuole rovesciare il mondo sulla ragione, sul pensiero, sulla “metafisica” quindi, nonostante e paradossalmente sbandieri, con l’ateismo, il “culto della Dea Ragione”: la Rivoluzione ha quindi fatto un “lavoro filosofico” in cui il mondo è distrutto per essere posto sulla Ragione, in cui “le teste vengono tagliate come se fossero dei cavoli”, in cui il particolare viene sacrificato per l’universale, in cui “lo Spirito si è insanguinato”. Il cattivo rapporto tra Universale (ragione) e particolare (mondo) è il punto debole della Rivoluzione: il Terrore. Tale Illuminismo corrisponde, in sede filosofica, alla morale kantiana, in cui si assiste al dominio della Ragione sui sensi, dell’Universale astratto sul particolare concreto, della Legge Morale, formale, vuota, Assoluta, sulle inclinazioni sensibili dei singoli individui. In particolare Hegel critica i postulati della Ragion Pratica, la libertà (solo quella di obbedire alla Legge Morale), l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio, in quanto tali postulati, necessari rispettivamente per raggiungere la Santità o Virtù (che per Robespierre era l’assoluta fedeltà agli ideali repubblicani, come per gli antichi romani, ai quali si riferisce, e non invece alla “virtù” utilitaristica del Principe di Niccolò Machiavelli) ed il Sommo Bene, non si trovano nel corso del mondo. E’ questa la coscienza morale (Gewissen), la cui azione “sfugge però di mano”, in quanto il risultato della coscienza morale non è prevedibile, “il sasso è lanciato dalla mano dell’uomo, ma il suo volo è fatto proseguire dalla mano del diavolo”, rappresentata dal Terrore. Di fronte al Terrore, una parte della coscienza si inorridisce e si ritira: è questa la figura successiva, quella dell’anima bella. Il riferimento è a Friedrich Schiller, in cui il bello s’identifica con il buono, l’estetica con l’etica97. Schiller, esprimendosi contro la morale kantiana, definì Kant “il Mosè tedesco”98. Sono questi gli anni in cui in Germania l’arte appare come il momento più alto, con Schiller, l’Idealismo estetico di Schelling, i fratelli Schlegel e la rivista “Atheneum”, Holderlin (la sua visione della Grecia anticipò quella nietzscheana, infatti Nietzsche lesse Holderlin): Hegel vuole smontare la certezza che l’arte sia il momento più alto dello Spirito. Rivoluzione, la prima, fautrice di un nuovo ordine d i una nuova legalità, è quella moderata che ha portato alla trasformazione politica della Francia da monarchia assoluta a monarchia costituzionale, e che ha abolito i privilegi feudali, sancendo i “Diritti dell’Uomo e del Cittadino”; la seconda fase, violenta, ha finito con il fagocitare la prima in nome di principi astratti. E’ questa la tesi che potremmo definire “moderata” di A. Ferrero, in Le due rivoluzioni francesi, Sugarco, Milano, 1986. 97 Cfr. F. Schiller, Lettere sull’educazione estetica. 98 Cfr. F. Schiller, Sulla grazia e sulla dignità.
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Hegel vuole screditare “il Genio romantico, che tutto dissolve in nome dell’ironia”, e che rischia, a causa dello scoramento, dovuto alla consapevolezza dello scarto tra l’Arte, l’Artista da una parte, e la produzione artistica dall’altra, di condurre al nichilismo. Hegel anticipa qui la “morte dell’arte”, intendendo l’Arte come soggettività chiusa in sé stessa che ha tuttavia la pretesa di cogliere l’Assoluto. Una parte della coscienza, quella agente, ha compiuto il male durante il Terrore, facendo inorridire l’altra metà della medesima coscienza, quella giudicante. Si verifica quindi una scissione: la coscienza si sente incarnazione del dovere, non agisce, ma si limita a guardare ed a condannare l’azione del male, rappresentata dalla coscienza agente, e se ne distacca, esprimendo così una nuova separazione tra particolare ed universale ed assumendo un atteggiamento così miope da dare valore al vecchio proverbio francese per cui “non c’è eroe per il suo cameriere”; la coscienza giudicante ha così assunto l’atteggiamento del cameriere, in quanto non ha capito che la coscienza agente è una parte di sé, e , separandosi dalla coscienza giudicante, ha prodotto una nuova scissione. La coscienza agente si riconosce nella scissione e confessa la propria singolarità: con tale confessione s’innalza così all’universale. La coscienza agente si aspetta un reciproco atteggiamento da parte della coscienza giudicante, ma questa, certa di sé, “con cuore duro”, non risponde e crede di essere solo lei nel bene. L ’”anima bella” è questo “cuore duro”, questa mancanza di risposta, “e mentre le ferite dello Spirito si rimarginano senza lasciare cicatrici”, la coscienza giudicante solo in un secondo momento, perdona la coscienza agente, il bene perdona il male: perdonare significa rinunciare alle pretese assolutistiche di universalità e riconoscersi uguale all’ “altra” coscienza, in quanto entrambe parti di un’unica coscienza. Come la coscienza agente si riconosce nella confessione, la coscienza giudicante si riconosce nel perdono: le due autocoscienze ora si parlano, comunicano con il linguaggio, ma non si amano, perché Hegel ha superato l’amore come categoria unificatrice fin dai tempi del “periodo bernese”99. La categoria della comunicazione non si realizza quindi nell’amore, nell’amicizia, nella filìa. Confessione e perdono consentono alla coscienza di riunificarsi e passare al momento successivo, quello della Religione.
99
L’amore, negli Scritti teologici giovanili, era la categoria che superava ogni ostacolo, perché gli amanti sempre si cercano e per amore sono pronti a dare la vita l’uno per l’altra, ma l’amore viene sconfitto dalla proprietà, Eigentumlichkeit, una male radicale che ha minato anche lo spirito delle ipocrite prime comunità cristiane.
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III. 2. La Religione. All’interno di questo secondo ed ultimo momento pratico fenomenologico, ultimo momento dell’opera, Hegel distingue tre figure: a) la religione naturale; b) la religione artistica; c) la religione rivelata. Circa la prima figura, quella della religione naturale, Hegel afferma che essa, a causa della sua immediatezza, sembra quasi un “passo indietro”, un ritorno alle prime figure, immediate, in quanto “Dio viene cosalizzato con il lampo e con il tuono”, ma non è così, è un “passo avanti”, anche se la coscienza non se ne rende conto. La seconda figura è quella della religione artistica, che concepisce Dio come “il sé unilaterale”, un punto di vista schellinghiano, in quanto si rappresenta Dio solo come bellezza esteriore, dal punto di vista, quindi estetico, ma Hegel ha già celebrato la “morte dell’arte” nella figura precedente; inoltre, tale punto di vista, è infatti unilaterale, perché coglie solo il lato artistico, estetico della divinità. Queste due prime figure del Momento “Religione” sembrano quindi tradire la categoria di “negazione determinata”, ma non è così, perché, malgrado tali sconfitte, la coscienza prosegue infatti le sue esperienze e scopre infine la religione rivelata (Offenbar) nella terza figura, che esprime un contenuto vero, che è il Sapere Assoluto, ma in una forma ancora inadeguata, la forma del concetto, che è “campo di dominio dell’intelletto”, e non della ragione: la religione rivelata (Hegel tiene presente il cristianesimo protestante luterano tedesco come forma di religione rivelata più alta) è comunque la forma di religione più vicina all’Assoluto, è quindi l’ “anticamera dell’Assoluto”.
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CAP. IV°: IL SAPERE ASSOLUTO.
Il “Sapere Assoluto” è il luogo di nascita della scienza, in cui sono scomparse le figure, perché sono terminate le esperienze della coscienza finita, limitata, volgare, il cui punto di vista coincide ora con quello della Scienza, del “Per Noi”. La Scienze appare soltanto adesso, solo dopo tutte queste esperienze. Ma cos’è il Sapere Assoluto? E’ qualcosa di estremamente semplice, non di astratto, ma di “massimamente concreto”. Da quanto detto si comprende come il Sapere Assoluto sia incollocabile perché non comprende più le figure, che erano invece “storicizzate”. Tutte le precedenti figure, tutte le dolorose esperienze che la coscienza ha compiuto e che credeva inutili, in quanto esperienze finite sono “tolte”, eliminate nel loro aspetto di finitezza, ma sono invece “conservate” come momenti positivi di crescita verso il Sapere Assoluto, che non è altro che l’ “identità dell’identità e della non-identità”, il soggetto che ingloba in sé l’oggetto e che lo conosce completamente senza dominarlo o separarlo, senza scissioni interne o atti di violenza. Il Sapere Assoluto è la pura conoscenza in cui le esperienza precedenti sono quindi “tolte come conservate” (“Aufgehoben”). Il Sapere Assoluto consiste dunque in questa consapevolezza che le esperienze passate non state inutili, ma, anzi, fondamentali, e che, in ogni figura, in questa consapevolezza di necessità dell’esperienza, “c’era già” il Sapere Assoluto, ma la coscienza finita, nella sua presunzione e nella sua immediatezza, non se n’ era accorta. Si nota l’importanza che Hegel conferisce alla filosofia della storia: le figure sono conservate dal Sapere Assoluto come “memoria”100, ma non si tratta di una “morta memoria”, ma di una memoria viva e necessaria. Sono terminate le figure, storicamente collocate nei vari periodi, perché è terminata la storia: la Scienza, il Sapere Assoluto, si affaccia quindi alla fine della Storia, lo Spirito appare fuori dal Tempo, ma per manifestarsi ha avuto bisogno del Tempo. E’ questo il grandioso, ma problematico rapporto tra Spirito e Tempo in Hegel. Afferma infatti Hegel: “La civetta di Minerva spicca il volo solo al tramonto”, la civetta di Minerva è la Scienza, che si manifesta solo al tramonto della Storia. 100
Cfr. G. W. F. Hegel, Fenomenologia…, cit., tomo II, p. 305.
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La conclusione dell’opera ribadisce l’importanza, per Hegel, di una filosofia “ a posteriori”, e quindi fondata sull’esperienza, per cui si può definire la Fenomenologia dello Spirito come “un’anti-critica della Ragion pura”. Scrive infatti Hegel, alla fine della sua opera: “ E’ questo del Sapere Assoluto il calvario e la certezza del suo Trono, senza di cui Esso sarebbe soltanto l’inerte solitudine. E soltanto Aus dem Kelcke dieses Geisterreiches
da questa coppa di questo Regno dello Spirito
schaumt ihm seine Unendlichkeit
spumeggia la sua Infinità”101.
101
Ibid.
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CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE: ATTUALITA’ DEL PENSIERO HEGELIANO.
Prima di procedere con le dovute considerazioni conclusive, al termine di questo lavoro, è opportuno tener presente la seguente mappa concettuale riepilogativa della Fenomenologia dello Spirito, con i “Momenti” e le relative “figure”:
MOMENTI TEORETICI: COSCIENZA: certezza sensibile; percezione; forza e intelletto. AUTOCOSCIENZA: signoria e servitù; stoicismo; scetticismo; coscienza infelice. RAGIONE: OSSERVATIVA: osservazione del mondo organico; psicologia; fisiognomica; frenologia. OPERATIVA: CONTRO IL MONDO: il piacere e la necessità; la legge del cuore e il delirio della presunzione; il cavaliere della virtù e il corso del mondo. NEL MONDO: il regno animale dello spirito e l’inganno, o la cosa stessa; la ragione legislatrice; la ragione esaminatrice delle leggi.
MOMENTI PRATICI: SPIRITO: l’eticità, lo spirito che si è reso estraneo a sé (il terrore); l’anima bella. RELIGIONE: naturale, artistica, rivelata.
SAPERE ASSOLUTO.
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Con l’approdo della coscienza al Sapere Assoluto, si pone il problema di concretizzare questo Sapere Assoluto, in modo che non rimanga una conquista astratta. Questo conduce Hegel a proseguire il lavoro nelle opere, cosiddette, della maturità, ovvero la Scienza della logica (1816) e l’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1817), entrambe del periodo di Heidelberg. La logica è infatti il primo momento, quello del soggetto, della tesi, che si deve alienare nella natura (oggetto, antitesi) per poi darsi infine nello spirito (assoluto, sintesi). Qui Hegel propone uno schema dialettico triadico, che si ripresenta anche in ogni scansione delle suddette tre parti, la prima delle quali sarà appunto studiata nella Scienza della logica (detta anche “Grande Logica” per distinguerla dalla logica giovanile, trattata nella Logica e metafisica di Jena 1804-05), e le altre due nell’Enciclopedia. Più precisamente, la logica hegeliana parte dal presupposto che è scomparsa ogni differenza tra coscienza e Sapere Assoluto, pone cioè come premessa il punto di approdo della Fenomenologia dello Spirito. Hegel riprende qui la dialettica greca, in modo particolare quella di Parmenide: pensare ed essere coincidono, si implicano vicendevolmente, sono la stessa cosa, secondo lo schema seguente: PENSARE = ESSERE e PENSARE <===> ESSERE. Tale identità implica quella tra piano logico e piano ontologico, tra Reale e Razionale, tra essenza ed esistenza, tra idea e realtà, tra attività teoretica ed attività pratica. Hegel afferma infatti che “Tutto ciò che è Razionale è Reale e tutto ciò che è Reale è Razionale”. Solo questa totale coincidenza consente di arrivare ad una verità pura, disvelata: questa verità è Dio prima della creazione del mondo, è l’elemento puro del pensiero, è il “logos”. Questo Dio, inteso quindi come 1)Logos, per diventare 3)Spirito deve prima alienarsi nella 2)Natura e tornare in sé, superando questa alienazione, secondo lo schema seguente: LOGOS (LOGICA) ==> NATURA ==> SPIRITO (SINTESI DI “ IN SE’ ” + “ PER SE’ ”) . Il Logos, cioè la Logica, va anch’esso concepito nel suo sviluppo dialettico. Le tappe fondamentali della logica sono le seguenti:
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A)logica dell’essere, che si articola a sua volta in 3 fasi: a)essere; b)non-essere (negazione dell’essere); c)divenire (sintesi di essere e nonessere). B)logica dell’essenza, nella quale Hegel critica la logica aristotelica, fondata sui principi di identità (A = A) e di non-contraddizione (se A=A
==> A =/= NON-A), in quanto la
contraddizione, come si è visto, è un momento del vero. In particolare, contro il principio aristotelico di non-contraddizione, Hegel ribadisce il principio di “contraddizione necessaria”. C)logica del concetto, in cui il Pensiero si attua nella circolarità delle 3 fasi, si realizza cioè nell’auto-dispiegamento del soggetto, è questa la sintesi delle due fasi precedenti, secondo lo schema seguente: A)logica dell’essere = soggetto = tesi; B)logica dell’essenza = oggetto = antitesi; C)logica del concetto = assoluto = sintesi. La circolarità è quindi intesa come manifestazione e realizzazione, totalità dei momenti precedenti.
Il passaggio dall’Idea alla Natura, cioè dalla Logica alla Natura, è uno dei punti più oscuri e complessi del pensiero di Hegel maturo, esposto nella prima parte dell’Enciclopedia della scienze filosofiche in compendio (l’ultima monumentale opera hegeliana, pubblicata ad Heidelberg nel 1817), appunto la “Filosofia della Natura”. La logica “esce da sé”, l’idea si aliena cioè nella Natura, secondo lo schema seguente: LOGICA ==> NATURA, vale a dire SOGGETTO ==> OGGETTO. Questa alienazione ha tuttavia un fine: quello di prendere consapevolezza di sé e di realizzarsi compiutamente come SPIRITO, poiché soltanto alienandosi nella NATURA, la LOGICA diventa consapevole.
La “Filosofia dello Spirito” occupa invece la seconda ed ultima parte dell’Enciclopedia, e si articola, a sua volta, in tre fasi, secondo lo schema seguente:
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1)SPIRITO SOGGETTIVO (che rappresenta il punto di vista finito del soggetto, non è questa una parte molto importante); 2)SPIRITO OGGETTIVO, molto importante, si articola in A)DIRITTO ASTRATTO; B)MORALITA’; C)ETICITA’, a sua volta articolata in a)FAMIGLIA; b)SOCIETA’ CIVILE; c)STATO
ETICO,
che
rappresenta la sintesi di FAMIGLIA + SOCIETA’ CIVILE e si pone, in tal modo, come il punto più alto dell’eticità e dello Spirito Oggettivo; 3)SPIRITO ASSOLUTO, che si articola in A)ARTE, a sua volta articolata in a)orientale; b)classica; c)romantica; B)RELIGIONE,
a
sua
volta
articolata
in
a)primitiva; b)giudaica e classica; c)cristiana luterana; C)FILOSOFIA, non più ripartita, è finalmente “l’Idea che pensa sé stessa”, tornata finalmente e definitivamente in sé.
Ma se questo processo si è compiuto con Hegel, allora potrebbe aver ragione lo stesso Hegel nell’affermare che la storia della filosofia si è conclusa con lui: in realtà si è conclusa la storia di un problema della filosofia, quella del rapporto problematico tra soggetto ed oggetto, aperto da Cartesio nel ‘600, proseguito con Kant, Fichte, Schelling ed Hegel. Dopo la morte di Hegel, infatti, la filosofia prenderà altre strade, o vero l’irrazionalismo antihegeliano con Schopenhauer ed il pre-esistenzialismo con Kierkegaard, o verso il marxismo, ma il pensiero di Hegel resterà comunque un punto di riferimento, o per dissenso o per assenso verso le sue dottrine. Hegel fu accusato da alcuni suoi contemporanei di essere un “Genio freddo” (fu usato proprio questo ossimoro), vale a dire di essere stato un grande metodico, ma privo di quella creatività che invece caratterizza l’animo romantico. Hegel fu, in effetti, fin da giovane, un grande metodico, uno studioso instancabile, tenacissimo, versato in tutti i campi del sapere: fu l’antitesi del genio sregolato di certi romantici.
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La più bella descrizione di Hegel ce la offre lo stesso Hegel descrivendo Platone, o, meglio, come egli si figurava Platone: “Platone studiò presso molti filosofi, si sforzò duramente e lungamente, viaggiò, non fu davvero un genio produttivo, né poetico, bensì una mente che procedeva adagio. Al genio Dio dà qualcosa nel sonno. Ciò che Egli dà loro nel sonno sono perciò null’altro che sogni, che il mattino spazza via, mentre i grandi sistemi rimangono”. Hegel studiò molti filosofi, meditò, viaggiò; a differenza di Fichte, di Schelling e di altri romantici che giovanissimi firmarono i loro capolavori, Hegel giunse adagio alla meta. Ma i sistemi dei suoi contemporanei ai quali egli allude sono stati davvero come i sogni, mentre le idee di Hegel hanno costituito, nel bene e nel male, una componente fondamentale del pensiero occidentale. Hegel fu infatti scrittore fecondissimo. Le sue vastissime letture, la facilità con cui assimilava e memorizzava i vari contenuti, gli interessi assai vari diedero alla produzione hegeliana uno spessore culturale ed un’ampiezza eccezionali. I nuclei concettuali ai quali tutto il sistema hegeliano può essere ricondotto, seguendone in concreto lo sviluppo fino al suo compimento, sono tre: 1)la realtà in quanto tale è Spirito infinito; 2)la struttura e la vita stessa dello Spirito, quindi anche il procedimento secondo il quale si svolge tutto il sapere filosofico, è la dialettica; 3)la peculiarità di questa dialettica, assai differente da tutte le forme precedenti di dialettica102, è l’elemento “speculativo”. Circa il primo di questi tre elementi, è significativo notare come Hegel critichi le categorie di “finito” e di “infinito” tradizionalmente intese: infatti, un “infinito” che, in quanto tale, separi da sé, escluda il concetto di “finito”, diventa un “infinito finito”, in quanto limitato dalla mancanza del “finito”; a sua volta, anche un “finito” assolutizzato, estremizzato nella sua finitezza, si risolve in una sorta di “infinito”. Ecco quindi come infinito e finito si implichino vicendevolmente e necessariamente. La Fenomenologia dello Spirito segna una tappa decisiva. Hegel si stacca da Schelling, al quale si era avvicinato da giovane, dopo la brevissima stagione kantiana della Vita di Gesù103, e presenta un tipo di pensiero del tutto originale.
102
Nonostante Hegel riprenda e valorizzi molto la dialettica antica, specialmente quella del Parmenide di Platone. 103 La Vita di Gesù, facente parte degli Scritti teologici giovanili, un complesso di manoscritti pubblicati postumo da Nohl nel primo ‘900, è praticamente una trascrizione, quasi letterale, del Vangelo di Matteo in termini
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La Fenomenologia dello Spirito è ancora oggi al centro del dibattito su Hegel. Fra tutte le opere, quale rispecchia più compiutamente il pensiero, il metodo e lo spirito di Hegel? A questa domanda non esiste una risposta che raccolga gli unanimi consensi degli studiosi. A seconda dei differenti momenti storici e culturali e a seconda delle differenti tendenze degli studiosi, si è risposto e si risponde in modo differente. Alcuni hanno considerato e molti considerano tuttora la Fenomenologia dello Spirito come il capolavoro. Ma la Fenomenologia è stata, almeno inizialmente, concepita dallo stesso Hegel come una sorta di “introduzione al sistema” e, se pure è vero che il sistema tuttavia vi compare (già nel Frammento di sistema, collocato dall’autore al termine degli Scritti teologici giovanili e datato 14 settembre 1800 e primo abbozzo manoscritto hegeliano del periodo jenense, si esplicitava l’esigenza di concretizzare le generiche idee finora espresse in un “sistema”), è altrettanto vero, secondo alcuni, che vi compare solamente “di scorcio” e, accanto a parti bellissime, essa presenterebbe parti assai problematiche ed acerbe. In passato, è stata celebrata soprattutto l’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, che presenta il quadro completo del pensiero e del metodo del nostro filosofo. Ma molti hanno rilevato le asperità anche di questa monumentale opera che, come compendio, presenta un discorso talora troppo denso e conciso, e quindi non sempre comprensibile; ma soprattutto hanno rilevato come l’Enciclopedia metta troppo a nudo il difetto del pensiero hegeliano: l’eccessiva “sistematicità”, le pretese di presentare un sapere che non è una particolare visione dell’assoluto, ma la “scienza assoluta dell’assoluto”, con le relative ambizioni di sapore egemonico ed anche totalitaristico. C’è stato un periodo in cui si sono apprezzati soprattutto i Lineamenti di filosofia del diritto, per la particolare concezione dell’etica e per la celebre dottrina dello Stato. Ma queste dottrine si presentano oggi come notevolmente obsolete e, nella loro sostanza, non più proponibili. Da qualche tempo è in auge la Scienza della logica, rivalutata soprattutto a motivo degli stretti rapporti che, in Hegel, l’elemento logico ha con il linguaggio, che oggi è al centro degli interessi filosofici.
kantiani della Critica della Ragion pratica (1788): Gesù è ivi concepito come l’ideale uomo morale ed il peccato originale è l’innata tendenza umana a trasgredire la legge morale.
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Tuttavia è, sì, vero che la logica contiene tutto, perché è anche una “filosofia prima”, per dirla con Aristotele, ossia una metafisica104; tuttavia contiene tutto solo in una certa prospettiva, che è quella dell’ “Idea come Logos” e l’idea logica deve ulteriormente svilupparsi come “Natura” ed infine anche come “Spirito”, come abbiamo appena visto. Hegel stesso scrive che “un popolo senza metafisica è come un tempio senza altare”. Il materiale più ricco ed interessante dell’eredità di Hegel, secondo altri, si trova nei grandi corsi tenuti a Berlino e pubblicati postumi, ricchi di analisi e di notazioni tuttora degne di essere a fondo meditate; rimane, però, il fatto che questi corsi sono in gran parte ricostruiti su appunti e dispense dei discepoli ed hanno finalità prevalentemente didattiche. In realtà, tutte queste opere menzionate sono, per un aspetto o per un altro, di rilievo assai notevole, e ciò spiega la ragione per cui, in tempi diversi o in ottiche differenti, ciascun di esse abbia potuto essere considerata il capolavoro di Hegel. Forse non si è lontani dal vero affermando che la Fenomenologia, malgrado i suoi difetti, è l’opera per certi aspetti più viva e più affascinante Nell’affrontare la trama complessa e singolare dell’opera, ho ritenuto necessario premettere al momento ermeneutico, interno ad essa, la ricostruzione storica del percorso compiuto da Hegel per approdarvi. Nell’opera hegeliana presa in esame, infatti, alcuni dei sentieri intrapresi dall’autore si interrompono, mentre altri si staccano verso la definizione compiuta del suo pensiero. La Fenomenologia racchiude quindi le ragioni del loro scomparire e del loro sorgere: in Hegel la concezione dell’opera si afferma progressivamente come un disegno sistematico, in cui ogni pennellata costituisce la dissoluzione di quella precedente ed insieme il rinnovamento. Possiamo anche affermare che nel corso dell’opera Hegel, oltre a indagare il tessuto religioso, economico e politico dei tempi passati e del proprio tempo, si fa volta volta strada il sorgere di una nuova logica speculativa all’interno dello sviluppo completo delle contraddizioni non risolte, delle quali è intessuta l’opera. E’ infatti sospingendo al punto della sua crisi ogni processo emblematicamente contraddittorio, da cui è travagliata l’esperienza storica, che Hegel perviene ad una nuova definizione del compito e della struttura scientifica del sapere filosofico. Esso infatti espone nella forma più propria l’itinerario della coscienza, sia intellettuale (Bewussein, termine che si può tradurre con “coscienziosità”, l’essere coscienti nel senso di 104
Aristotele definisce infatti la Metafisica come “filosofia prima” per distinguerla dalla Fisica o scienza della natura (fiusis, in greco), che chiama “filosofia seconda”; è altresì noto che il termine “metafisica” non fu coniato né da Platone, né da Aristotele, ma, probabilmente, da un certo Andronico da Rodi, un aristotelico del II° sec.
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consci, consapevoli) che morale (Gewissen) della coscienza nella sua esistenza naturale: i vari “Momenti” che abbiamo passato in esame, vengono definiti da Hegel come “lo spirito nel suo mondo”, o “lo spirito nella sua esistenza mondana”. Come “esserci dello spirito”, e quindi coscienza in senso proprio, essa può venire organizzata in base ad una progressione concettuale elaborata in un punto della storia del pensiero antico ancora ignaro di quel rivolgimento radicale della storia del mondo, rappresentato dal cristianesimo, ma proprio per questo felicemente idoneo a cogliere la struttura dell’esperire della coscienza nella sua immediatezza naturalistica. Ma quando, con il cristianesimo, la religione attinge al suo compimento e manifesta, prima della scienza, il contenuto dello spirito, allora una nuova “semplicità” interviene come principio di organizzazione della totalità ed in essa si annuncia e deve essere tratta alla luce una nuova logica, destinata a riassorbire in sé tutto l’itinerario della coscienza, facilitata in questo dall’urgere verso il concetto e dai precorrimenti della nuova organicità scientifica disseminati lungo il cammino anteriore. Ma l’una totalità non può stare senza l’altra. Il punto d’intersezione è costituito dal principio della soggettività, colta come portatrice di un valore infinito: in base ad esso la coscienza si educa a forma assoluta; in quanto ha consumato in sé ogni estranea essenza oggettiva, essa è in grado di sgretolare la durezza alienante della “rappresentazione”, nella quale la coscienza religiosa annuncia il contenuto assoluto; il compimento dell’opera è appunto la libertà del sapere, che si può dire ab-solutus non perché si libri in una insostenibile purezza al di sopra dell’esperienza storica, ma perché è passato attraverso il calvario di ogni possibile forma di condizionamento. La necessità di giustificare il sorgere della scienza ha così condotto Hegel a ripercorrere il ciclo completo delle forme in cui si espressa la dottrina tradizionale della verità come corrispondenza del concetto all’oggetto o adeguazione della mente alla cosa. Egli non solo ne ha portato allo scoperto la radice, e cioè la coscienza, ma ha anche mostrato nella coscienza stessa l’infinità o la contraddizione capaci di portare a maturazione la crisi della determinazione dell’essenza della verità offerta da una tradizione plurimillenaria. Uno dei non trascurabili insegnamenti della Fenomenologia dello Spirito consiste appunto nella dimostrazione che la critica del concetto dominante di verità, il quale condiziona, volenti o nolenti, tutti i comportamenti umani, se condotta con la radicalità che il discorso filosofico esige, matura al proprio interno una determinazione dell’essenza della verità e quindi un nuovo statuto scientifico per la filosofia. Ciò può valere per noi.
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Se infatti la nostra epoca è caratterizzata dal fatto che i suoi più significativi itinerari filosofici manifestano i loro tratti essenziali proprio là dove risultano essere, per dirla alla Martin Heidegger, dei “sentieri interrotti” o per l’impraticabilità dell’itinerario prescelto o per l’abisso di silenzio aperto sotto il linguaggio o per quella più penosa forma d’interruzione del lento maturare del pensiero, che consiste nella ripetizione immodificata, talvolta neppure “rivisitata” di posizioni apparse con ben diversa dignità scientifica in epiche trascorse; allora, sfruttando il suggerimento hegeliano, si possono ripercorrere quegli itinerari, individuare l’essenza della verità da cui sono dominati e, assumendo l’interruzione come l’emergere allo scoperto di un principio di corrosione critica latente fin dall’inizio del cammino, scorgere se già in esso non maturi, inavvertita, una nuova capacità di esaminare e di determinare che cosa sia la verità. In Hegel, la dissoluzione della concezione coscienziale della verità come corrispondenza del concetto all’oggetto giustifica la nuova determinazione dell’essenza della verità: “il vero è l’Intiero”. L’esigenza kantiana, secondo la quale si deve dare, per la compiutezza di una scienza, l’idea della totalità e la connessione sistematica dei suoi elementi, viene fatta propria da Hegel e sviluppata fino a fondare su di essa l’essenza della verità. “Il vero è l’Intiero” non significa proclamare la definitività immodificabile dei risultati del pensiero e del divenire storico. Al contrario, l’esperienza si lascia cogliere come un tutto solo quando una forma dello spirito è invecchiata e non si lascia più ringiovanire. Sapere l’esperienza nella sua verità significa saperla nel suo limite e l’assolutezza del sapere è così la radicale comprensione dell’essenza della finitezza. La verità come intero costringe la Filosofia a stare ai confini della totalità e di là vigilare e custodire. Vigilare, perché essa è l’unica in grado di riconoscere ciò che di veramente inaudito possa annunciarsi, quel “nuovo” capace di portare il processo, compiuto e compreso, alla sua alienazione ed all’atto per mezzo del quale esso passa oltre. Questo tema, ampliato a dismisura e filtrato attraverso un nuovo concetto della soggettività, costituisce il compito a cui la Fenomenologia intende soddisfare, liberando le determinazioni pure del pensiero dall’opposizione e dall’apparenza con cui esse si presentano alla coscienza. Tale liberazione è contemporaneamente il divenire dal quale i concetti puri della scienza sorgono giustificati, in modo tale che il loro movimento ulteriore possa dipendere unicamente dalla semplicità della loro determinatezza interna.
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Ciò è reso possibile dal fatto che la coscienza è in sé riflessione, che si trattiene, per natura propria, al di qua dalla semplicità del concetto fintantoché non abbia elaborato, nel proprio esperire, l’annientamento dell’intera massa di contraddizioni, di cui è portatrice. La Verità strappa ogni cosa all’indeterminatezza, la porta a conoscere il suo limite. E conoscere il proprio limite vuol dire sapersi sacrificare105. Lo schema triadico da Hegel seguito nelle opere della maturità gli porterà l’accusa di “Zirkeln” (circolarità) da parte di alcuni critici, ma questa non tange minimamente il tentativo, grandioso e superbo, compiuto da Hegel, che resta una pietra miliare del pensiero filosofico, punto di riferimento imprescindibile per chiunque voglia seguirlo o anche criticarlo e cercare di superarlo: anche i suoi “nemici” saranno infatti costretti a muoversi sempre nell’orizzonte hegeliano. In questo consiste l’attualità del pensiero di Hegel.
105
Cfr. F. Chiereghin, Dialettica…, cit. Si tenga sempre comunque presente che Chiereghin legge Hegel con gli
“occhi esistenzialistici” di Heidegger.
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INDICE
Frontespizio-copertina……………………………………………….p.1 Dediche, memorie, saluti e ringraziamenti…………………………..p.2 Iconografia di G. W. F. Hegel……………………………………….p.3 Premessa……………………………………………………………..p.4 Capitolo I°: i capisaldi del pensiero hegeliano………………………p.6 I.1. Il titolo dell’opera e la Prefazione……………………………….p.6 I.2. L’Introduzione…………………………………………………..p.12 Capitolo II°: i momenti teoretici…………………………………….p.13 II.1. La Coscienza……………………………………………………p.13 II.1.1. La certezza sensibile……………………………………….....p.13 II.1.2. La percezione…………………………………………………p.13 II.1.3. Forza e intelletto……………………………………………...p.14 II.2. L’Autocoscienza………………………………………………..p.15 II.2.1. Indipendenza e dipendenza dell’autocoscienza; signoria e servitù…………………………………………………………p.15 II.2.2. Lo stoicismo………………………………………………….p.22 II.2.3. Lo scetticismo………………………………………………..p.22 II.2.4. La coscienza infelice…………………………………………p.23 II.3. La Ragione……………………………………..……………....p.26 II.3.1. La Ragione osservativa………………………..……………..p.26
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II.3.2. La Ragione operativa…………………………………..……p.27 II.3.2.1. La Ragione operativa contro il mondo...……………..…...p.27 II.3.2.2. La Ragione operativa nel mondo……………………….....p.28 Cap. III°: i momenti pratici………………………………………...p.31 III.1 Lo Spirito…………………………………………………......p.31 III.2 La Religione…………………………………………………..p.34 Cap. IV°: il Sapere Assoluto…………………………………….....p.35 Considerazioni conclusive: attualità del pensiero hegeliano………p.37 Bibliografia………………………………………………………...p.47 A)Testo fondamentale di G. W. F. Hegel……………………….....p.47 B)Altri testi hegeliani…………...………………………………….p.47 C)Testi di altri filosofi considerati (coevi e non)……………….....p.47 D)Letteratura critica…………………………………………….....p.48 Indice………………………………………………………………p.52