Dall'Ellenismo alla crisi della Scolastica

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MARCO MARTINI

dall’Ellenismo alla crisi della Scolastica


2 Finalità, dediche, memorie, ringraziamenti e saluti. Obiettivo primario di questo manuale è offrire un valido aiuto a tutti coloro che, per vari motivi, si preparano a studiare la filosofia ellenistica e medievale, spesso trascurata, per mancanza oggettiva di tempo, nei licei e, fino a non molti anni fa, anche in ambito accademico. Dedico questo lavoro a mio nipote Giovanni, figlio unico di mio fratello Paolo, medico pediatra, molto prematuramente scomparso, del quale intendo così onorare la memoria. Marco Martini ==================================================================== LE CORRENTI FILOSOFICHE DEL PERIODO ELLENISTICO O ‘ALESSANDRINO’ E DELL’ETA’ ROMANA (IV SEC. A.C. / 529 D.C.): QUADRO GENERALE I.

EPICUREISMO (IV sec. a. C./ III sec. a. C.): Epicuro ( IV/III sec. a.C.);

II.

STOICISMO (IV sec. a. C./ II sec. d. C.): A) ANTICO: Zenone di Cizio, Cleante di Asso, Crisippo di Soli (IV/II sec. a. C.) B) NUOVO: Seneca, Epitteto, Marco Aurelio (I/II sec. d. C.);

III.

SCETTICISMO (IV sec. a. C. / III sec. d. C.): A) ANTICO: Pirrone di Elide (IV/III sec. a. C.); B) MEDIO: Arcesilao, Carneade, Enesidemo (III/I sec. a. C.); C) NUOVO: Sesto Empirico (II/III sec. d. C.);

IV. V.

ECLETTISMO (I sec. a. C.): Marco Tullio Cicerone (I sec. a. C.); NEOPLATONISMO (III sec. d. C./VI sec. d. C.): Plotino (III sec. d. C.), Porfirio, Giamblico, Damascio, Olimpiodoro, Proclo (V sec. d. C.).

529 d. C. : decreto di Giustiniano – vengono chiuse tutte le scuole filosofiche greche e pagane, ad eccezione di quella cristiana. Convenzionalmente, questa data segna la fine della filosofia tardo-antica o antico-pagana, riassorbita nel pensiero arabo e soprattutto in quello cristiano. Proclo rappresenta dunque l’ultima voce morente del pensiero antico. I. Introduzione alla filosofia pagana tardo-antica: trasformazione, vitalità e crisi della civiltà greca. La fondazione dell’Impero macedone, avvenuta ad opera di Alessandro Magno, è caratterizzata da due fattori: 1)l’ellenizzazione di tutto il mondo conosciuto e 2)la crisi della polis (πόλιςdi fronte all’emergere delle grandi monarchie. La cultura divenne un fatto elitario, ed a questo si accompagnò anche una crisi economica. L’uomo dell’età ellenistica è però anche più svincolato e libero dalla tradizione: mentre si sente sempre più “cittadino del mondo”, si accorge che ciò che importa non è la sua origine, ma la sua capacità individuale; ciò portò anche al dissolvimento della religione nazionale, a vantaggio della venerazione della “tiuche” (τύχη), ossia della “fortuna”, alla quale l’uomo affida il proprio destino. Platone ed Aristotele non vengono dimenticati, le loro scuole, l’Accademia ed il Liceo, continuano a prosperare, ma il centro di interesse si sposta verso l’attività pratica, mentre la contemplazione speculativa e teoretica appare appare


3 subordinata a questa. Le nuove tendenze filosofiche, quali l’epicureismo, lo stoicismo, lo scetticismo, l’eclettismo ed il neoplatonismo si concentrano proprio sull’aspetto morale; soltanto l’avvento del cristianesimo ed il crollo dell’Impero del “Grande” Alessandro porteranno alla crisi di questo periodo, chiamato “ellenistico” o “alessandrino”. II.1. Epicuro: vita ed opere. Epicuro nacque nell’isola greca di Samo tra il IV ed il III sec. a. C., si trasferì ad Atene, ove fondò il “Giardino”, la sua scuola filosofica, nella quale accolse chiunque volesse farvi parte, comprese le donne e gli schiavi: cambia così la figura dello schiavo greco, nel mondo ellenistico, che diventa spesso precettore, maestro, colto e filosofo. Epicuro studiò le filosofie di Democrito, Platone ed Aristotele e subì l’influsso del materialismo atomistico democriteo. Delle sue opere ci restano la Lettera a Erodoto (di argomento fisico), la Lettera a Pitocle (di argomento astronomico), la Lettera a Meneceo (di argomento morale) e le Massime capitali (anche queste di argomento morale). La vita di Epicuro ci è riportata da Diogene Laerzio. Epicuro distingue la filosofia in due settori: fisica ed etica. II.2. La fisica epicurea nella Lettera a Erodoto: l’atomismo meccanicistico ed il vuoto, i mondi, l’anticipazione della teoria del Clinamen, l’universo infinito, il linguaggio, l’anima e gli Dei. La concezione astronomica nella Lettera a Pitocle. Polemiche con Platone, Senofane ed Aristotele. Nella Lettera a Erodoto il filosofo riprende la concezione meccanicistica e materialistica della fisica democritea, che tuttavia rielabora: concorda con Democrito sull’esclusione di ogni principio metafisico o spirituale, in quanto, per Epicuro come per Democrito, i fenomeni naturali vengono spiegati solo in base al loro movimento meccanico. Come Democrito, e contrariamente ad Aristotele, inoltre Epicuro ammette il vuoto e sostiene che tutto ciò che esiste è corporeo e costituito da atomi, che si muovono e s’incontrano casualmente nel vuoto, che è quindi condizione necessaria al movimento ed all’incontro degli atomi. Come per Democrito, anche per Epicuro gli atomi differiscono per movimento e forma geometrica e sono numericamente infiniti e indeterminabili. I mondi, costituiti da materia e quindi corruttibili, sono numericamente infiniti e si formano con l’incontro degli atomi, senza alcun intervento provvidenziale o divino (a differenza di quanto affermavano gli stoici). Tuttavia, alla teoria democritea, che per il momento Epicuro ha seguito “alla lettera”, il filosofo di Samo apporta una modifica: gli atomi cadono nel vuoto in linea retta con la stessa velocità, in base al loro peso, ma subiscono una deviazione casuale dal loro moto rettilineo, deviazione che non viene spiegata da Epicuro con le leggi fisiche; il poeta latino Lucrezio, allievo di Epicuro, nel De rerum natura riprende questa tesi epicurea definendola Clinamen (deviazione, declinazione o inclinazione). Tale “declinazione” degli atomi respingerebbe la “necessità implacabile”, cioè la spiegazione puramente fisica e meccanicistica fatta propria da Epicuro con il moto rettilineo atomistico e consentirebbe agli uomini di operare liberamente delle scelte, aprendo così, in campo etico, uno spiraglio alla libertà umana. Il mondo, per Epicuro, è “una porzione di cielo circoscritta nell’infinito” e comprende astri e terre. Gli Dei abitano gli spazi vuoti tra un mondo ed un altro, come dal seguente schema: MONDO-DEI-MONDO-DEI-MONDO. V v L’universo è per Epicuro infinito e non ha alcun limite estremo, non conosce alto e basso o direzioni opposte: corpi e vuoto devono essere entrambi infiniti. Anche i mondi sono quindi infiniti, simili o dissimili al nostro. Lo stesso linguaggio ha una spiegazione fisica e non nasce pertanto da una convenzione: gli uomini, a seconda delle singole stirpi da cui provengono, ricevono speciali percezioni, emettendo l’aria in modo diverso e conformato.


4 L’anima stessa, per Epicuro, è costituita da atomi sottilissimi che conosce ricevendo le “impressioni” degli atomi che la colpiscono: l’anima svolge la sua funzione di conoscenza sensoriale solo in quanto è contenuta nel corpo e con la morte del corpo, a differenza di Platone, muore anche l’anima, che è quindi mortale, in quanto con la morte gli atomi si staccano dall’anima e cessa ogni sensazione. La morte è quindi “assenza di sensazioni”. Gli Dei per Epicuro esistono ed hanno sembianze umane, ma nella loro totale beatitudine non s’interessano delle vicende umane: contrariamente a Senofane di Colofone, Epicuro sostiene quindi l’antropomorfismo. Gli Dei abitano gli spazi vuoti tra un mondo ed un altro ed intrattengono fra loro rapporti di amicizia, sono esseri razionali perfetti e per questo il filosofo li onora, in quanto li ammira, ma non li teme, come si è detto, perché non intervengono sul mondo; se facessero ciò, verrebbe meno il loro stato di perfetta beatitudine. Di astronomia Epicuro ci parla nella Lettera a Pitocle: le indagini sulla natura e sui fenomeni celesti si basano, per Epicuro, sui dati offerti dai fenomeni stessi, e non offrono quindi una soluzione, come gli altri problemi di fisica. Luna, Sole ed astri si formano per aggregazione di atomi, ma se i loro moti sono o no dipendenti da quelli del cielo, questo è un dubbioso problema, come la luce lunare, che può essere propria o ricevuta da quella del sole. Altrettanto dubbiose sono le cause della produzione e dell’adunarsi di nubi, pioggia, tuoni, fulmini: il lampo, ad esempio, può prodursi per l’urto di più nubi. Sono poi da spiegarsi i cicloni, i turbini, le trombe marine, i terremoti, i venti, la grandine, la neve, la rugiada, la brina, il ghiaccio, l’arcobaleno, l’alone della luna, le comete, le stelle cadenti, i moti stellari, i pronostici metereologici, che per Epicuro si manifestano per qualche fortuita coincidenza. L’uomo, afferma Epicuro nella Lettera a Erodoto (di argomento fisico), ignorando la natura dei corpi, per determinare le cause dei fenomeni celesti può solo procedere per analogie, ed essere felice di ciò. Afferma infine Epicuro che dimensione, colore e forma non sono altro che attributi dei corpi. Epicuro respinge la vita divisione platonica tra iperuranio e mondo sensibile perché essa tende a svalutare il mondo terreno: la conoscenza risiede infatti per Epicuro nell’esperienza sensoriale; rifiuta anche l’esistenza del Demiurgo. Tuttavia il filosofo di Samo nega anche la distinzione aristotelica tra mondo sublunare e mondo sovralunare, in quanto tutti i mondi sono costituiti soltanto da materia e non da etere (che per Epicuro non esiste) e nega la concezione di Dio come “motore immobile”, avanzata da Senofane prima e da Aristotele in seguito. II.3.La filosofia come “tetrafarmaco”. L’etica epicurea nella Lettera a Meneceo e nelle Massime capitali: dottrina del piacere, atarassia ed aponia, il disimpegno politico, l’amicizia, il diritto. Epicuro affronta il problema etico nella Lettera a Meneceo e nelle Massime capitali; in queste ultime il filosofo di Samo ci parla anche di diritto e giustizia. Il fine della vita per Epicuro è la felicità e la filosofia è il mezzo per raggiungerla, come si evince dalla seguente mappa concettuale: VITA => FILOSOFIA (PRUDENZA) => FELICITA’ = SAGGEZZA=PIACERI STABILI=ATARASSIA

(MEZZO) (FINE) La filosofia consente il raggiungimento della felicità perché la filosofia libera l’uomo da affanni, passioni, turbamenti, consentendogli quindi l’atarassia, ovvero l’imperturbabilità (ἀταραξία). La filosofia si pone quindi come una “terapia” delle passioni mediante il seguente “tetrafarmaco”: 1)non bisogna temere gli Dei, che nella loro infinita beatitudine non si occupano delle vicende umane;


5 2)non bisogna temere la morte, come afferma nella Lettera a Meneceo, perché non ci incontreremo mai con essa, in quanto fino a quando siamo in vita, la morte non c’è e quando sopraggiunge noi non saremo più; 3)il vero piacere si raggiunge facilmente: già l’assenza di dolore è un piacere; 4)non bisogna temere il dolore, perché se è acuto è breve e provvisorio e porta presto alla morte (che, come si è detto, non va temuta), se è lieve è sopportabile. La ricerca della saggezza, per Epicuro, consiste in quella della felicità: non c’è saggezza che non sia felicità. Tale felicità risiede nel piacere, “edonè” (ἡδονή). I piaceri dell’anima, cioè la sua imperturbabilità e serenità sono, per il filosofo, più importanti di quelli del corpo. In questo consiste la suprema saggezza, la suprema virtù, la filosofia, dalla quale provengono tutte le virtù. Fondamentale, in proposito, è la dottrina del piacere. Epicuro distingue tre tipi di piacere: 1)naturali necessari, come, ad esempio, mangiare; sono gli unici piaceri stabili (catastematici) che il filosofo deve perseguire; 2)naturali non necessari, ad esempio, mangiare bene; 3)inutili, ad esempio, sprecare il cibo. Questi ultimi due tipi di piacere non sono stabili, non portano felicità e non vanno quindi ricercati. Il vero piacere non è infatti la sfrenatezza orgiastica o la lussuria, ma è uno stato di giusto equilibrio interiore e di armonia, conquistato gradualmente, la cui condizione essenziale è l’assenza di dolore. Il vero piacere è quindi aponia (), ovvero assenza di sofferenza corporea, ed atarassia, come si è detto, ovvero imperturbabilità dell’animo. Il vero piacere è quindi uno stato di tranquillità, calma e riposo in cui si evitano gli istinti goderecci e le passioni sfrenate, il piacere è tenere a freno, con la ragione, le passioni, evitando la schizofrenia (in greco “mancanza di un freno”): il vero piacere è perciò un calcolo razionale, una scelta di ciò che è naturale e necessario. L’assenza di dolore, nel corpo e nell’anima, è per Epicuro già un piacere. Il piacere non è quindi volgare edonismo. Per conseguire l’atarassia e l’aponia bisogna seguire il tetrafarmaco e non temere, come si è detto, né gli Dei, né la morte, con la quale non ci incontreremo mai; stolto è quindi colui che teme la morte non perché, pervenuta, ci addolori, ma perché, preveduta, ci mette ansia. Bisogna sempre ricercare il piacere presente: il ricordo del piacere passato provoca infatti rimpianto, la speranza nel piacere futuro provoca ansia: Epicuro così, in sintonia con quello che sarà il motto oraziano del “Carpe diem”, riprende le tesi della “scuola” socratica cirenaica. Rifiutando gli affanni, il saggio epicureo rifiuta anche l‘impegno politico: “vivi nascosto” è infatti il motto di Epicuro in ambito politico. Cicerone criticherà il disinteresse epicureo verso la vita politica. Si nota, in questo caso, l’influsso di Democrito anche nell’etica epicurea. Particolare importanza Epicuro attribuisce all’amicizia, considerata “il bene sommo” offertoci dalla saggezza; l’amicizia elogiata da Epicuro è totalmente disinteressata, senza secondi fini di vantaggio personale o calcolo opportunistico, a differenza di quanto affermerà Cicerone nel De amicitia. Epicuro affermò che “è più piacevole fare il bene che riceverlo”: l’amicizia, per Epicuro, è il fondamento della solidarietà umana. In ambito giuridico, nelle Massime capitali n°37/38 il filosofo afferma che una legge è giusta se è utile ai rapporti comuni e non può essere giusta in un momento e non in un altro, anche se dev’essere adeguata alle relative situazioni del momento e non può quindi essere “astratta”.


6 II.4. Mappa concettuale sull’epicureismo. VITA=>FILOSOFIA=>FELICITA’ (EUDAIMONIA) (MEZZO) || V ATARASSIA (IMPERTURBABILITA’ DELL’ANIMO) || V “TETRAFARMACO”: 1. Non temere gli Dei; 2. Non temere la morte; 3. Non temere i dolori, né prolungati (lievi e sopportabili), né intensi (brevi e conducono presto alla morte, che non va temuta); 4. Ricercare i veri piaceri => catastematici (stabili), ovvero soltanto quelli a)naturali necessari. Evitare i falsi piaceri, ovvero quelli b)naturali non necessari e quelli c)vani. N.B. L’assenza di dolore fisico e l’atarassia (assenza di dolore spirituale, ovvero imperturbabilità dell’anima) sono già piaceri sommi. Considerare l’amicizia disinteressata come il più grande dei beni. II.5. Testo, dalla Lettera a Meneceo: “Epicuro saluta Meneceo, non aspetti il giovane a filosofare, né il vecchio si stanchi di farlo: nessuno è troppo giovane o troppo vecchio per la salute dell’anima. Chi dice che non è ancora giunta l’età di filosofare o che è già trascorsa, è come se dicesse che non è ancora o non è più l’età per essere felici. […]. Abituati a pensare che la morte per noi è nulla: perché ogni bene e ogni male risiedono nella possibilità di sentirli, ma la morte è perdita di sensazione. Per cui la corretta interpretazione che la morte per noi non è nulla rende accettabile la condizione della vita mortale, non perché la prolunghi per un tempo infinito, ma perché la libera dal desiderio dell’immortalità. Non c’è, infatti, nulla di temibile nella vita per chi ha la profonda convinzione che non c’è nulla da temere nel non vivere più, cosicché è folle chi afferma di temere la morte, non perché gli arrecherà dolore quando sarà presente, ma perché è l’attesa che gliene provoca. […]. Quando ci siamo noi non c’è la morte e quando c’è la morte noi non siamo più. […]. Analogamente bisogna credere che dei desideri alcuni sono naturali, altri vani; e di quelli naturali, alcuni sono necessari per la felicità, altri per la vita stessa. Una sicura conoscenza di essi sa infatti ricondurre ogni scelta e ogni rifiuto alla salute del corpo e alla tranquillità dell’anima, perché questo è il fine della vita felice. E’ per questo che compiamo ogni nostra azione, per non soffrire e non avere turbamento. E quando noi abbiamo raggiunto questo, ogni tempesta dell’anima si dissolve, perché l’essere vivente non ha più qualcosa da inseguire come se ne fosse privo, né qualcos’altro da cercare, con cui completare il bene dell’anima e del corpo. In quanto è allora che abbiamo bisogno del piacere, quando soffriamo perché il piacere non c’è; ma quando non soffriamo, non abbiamo più bisogno del piacere. […]. Quando, dunque, diciamo che il piacere è un bene completo, non alludiamo ai piaceri dei dissoluti o a quelli dei gaudenti, come ritengono alcuni che non conoscono o non


7 condividono o interpretano male il nostro insegnamento, ma al non avere dolore nel corpo, né turbamento nell’anima. Perché non bevute e banchetti continui, né il godersi fanciulli e donne e quant’altro offra una tavola ben imbandita genera una vita felice, ma una valutazione equilibrata che esamini le ragioni di ogni scelta e di ogni rifiuto e fermamente respinga le false opinioni, da cui deriva il maggior turbamento che colpisce le anime. Di tutte queste cose il principio e il massimo bene è la prudenza. Per questo la prudenza è anche più pregevole della filosofia e da essa hanno origine anche tutte le altre virtù, perché insegna che non è possibile una vita felice che non sia una vita saggia, bella e giusta, e non è possibile una vita saggia, bella e giusta che non sia felice. Le virtù sono, infatti, connaturate alla vita felice e la vita felice è da esse inseparabile”. III.1. Lo stoicismo. Caratteri generali dell’antica Stoà: Zenone di Cizio, Cleante di Asso, Crisippo di Soli. Logica ed etica. Tra il IV ed il III sec. a. C., Zenone di Cizio fu il principale sostenitore della dottrina stoica, seguita da Cleante di Asso e da Crisippo di Soli e ripresa, in parte ed in seguito, dalla filosofia cristiana. Gli stoici articolarono la filosofia in 3 parti distinte: la logica, la fisica e l’etica, che è la più importante. In ambito logico, ripresero le 10 categorie della Metafisica di Aristotele riducendole solo a 4: sostanza, qualità, modo di essere, modo di essere in relazione ad altro, ma la logica stoica è più riferita al discorso, al λόγος, che non all’essere, è una logica del “se” e dell’ “o”, ipotetica, e non perfetta, a differenza dei sillogismi aristotelici. In proposito, è noto il paradosso del coccodrillo: un coccodrillo, sulle rive del Nilo, rapisce un bimbo ad una madre e promette di restituirglielo a patto che questa indovini le sue reali intenzioni. La madre affermò che l’intenzione dell’animale era quella di non rendere il bimbo. Il predatore a questo punto si trovò in un dilemma, in un’antinomia insolubile: infatti, non restituendolo, avrebbe reso vera la risposta della madre ed in base al patto avrebbe dunque dovuto restituire il bimbo; rendendolo, invece, avrebbe reso falsa la risposta della mamma perché, sempre in virtù dell’accordo stabilito, non avrebbe dovuto consegnare il bambino. In ambedue i casi il coccodrillo si sarebbe trovato in un’insanabile contraddizione con sé stesso. Queste insolubili antinomie della ragione gioveranno alla logica matematica contemporanea. La logica stoica è quindi ipotetica, possibilista, contraddittoria. Il concetto di dovere è invece alla base dell’etica stoica: il saggio è colui che obbedisce alla ragione ed è perciò imperturbabile (ἀταραξία) e privo di passioni, cioè “a-patico”, da “apateia” (ἀπάθεια ). All’atarassia degli epicurei, gli stoici aggiungono quindi la categoria di apatia (indifferenza, noncuranza). Mentre il saggio epicureo ricerca il piacere, il saggio stoico, con apatia nei confronti del mondo, sopporta il dolore, riprendendo così i precetti della “scuola” socratica cinica. Il saggio stoico non consente cioè di essere turbato dal mondo esterno. Delle opere degli stoici, che si occuparono molto di questioni morali, ci sono rimasti solo pochi frammenti, per cui è difficile ricostruire il pensiero dei singoli filosofi. Per gli stoici, la coscienza resta comunque il giudice severo ed infallibile delle azioni umane. III.2. La Nuova Stoà: Seneca, Epitteto, Marco Aurelio. Nell’ultima Stoà dobbiamo ricordare Seneca, Epitteto e Marco Aurelio. A)Il filosofo Seneca (3 - 65) morì suicida perché allontanato dalla vita politica da Nerone, di cui fu consigliere e maestro. Anche se non arrivò mai a convertirsi al cristianesimo, Seneca approfondì i temi dell’interiorità e della fratellanza umana (fu infatti contemporaneo di Cristo). Dio è per Seneca personalizzato nell’uomo e la coscienza è la forza spirituale a cui l’uomo deve rivolgersi per indirizzare le proprie azioni. Per essere buono, l’uomo deve voler compiere buone azioni morali: molta importanza è quindi data da Seneca alla volontà


8 umana, al volere, pur comprendendone la debolezza. Seneca scrisse le Lettere a Lucilio e le Questioni naturali, in cui ritenne, come Platone, l’anima separata dal corpo. Cultore dell’interiorità, era solito affermare “Beata solitudo, sola beatitudo” ovvero “Beata solitudine, unica beatitudine” (cfr. Lettere a Lucilio). B)Tale senso dell’interiorità fu ereditato da Epitteto (50 – 138), uno schiavo, poi liberato, che insiste sul ripiegamento interiore e sulla necessità di liberarsi da ogni cosa esterna. Epitteto rifiutò ogni bene esteriore a favore di ogni bene interiore. Il suo motto fu “Substine et abstine”, cioè “Sopporta ed astieniti”: non combattere, quindi, quello che non puoi contrastare. E’ stolto, per Epitteto, colui che vuole intervenire sulle cose esterne, che non sono in nostro potere; in nostro potere sono invece le cose interne, come i moti dell’anima. Ricercando invece le cose esterne, perdiamo la nostra libertà, sottomettendoci ad un potere a noi estraneo. Questo Epitteto afferma nella sua opera intitolata Manuale: tale scritto, per il suo senso del divino, sarà altamente considerato nel Medioevo. C)L’imperatore Marco Aurelio Antonino fu l’ultimo grande stoico. Scrisse i Ricordi (opera nota anche come Colloqui con sé stesso). Concepì il suo ruolo politico di imperatore come un dovere morale e ribadì il senso dell’interiorità umana nel significato dato da Seneca. Seppe conciliare la sua funzione di imperatore con quella di filosofo stoico e fu infatti definito “l’imperatore filosofo”. Senza il ripiegamento interiore, il mondo esterno appare una realtà caduca ed insignificante. Concordò con Seneca anche sull’anima separata dal corpo e considerò l’anima come “intellettiva”, cioè sede dell’attività intellettuale di conoscenza. IV.1. Lo scetticismo antico: Pirrone di Elide. Pirrone di Elide, vissuto tra il IV ed il III secolo a. C., è il massimo rappresentante dello scetticismo antico, anche se non lasciò scritti e la sua dottrina fu trasmessa dal discepolo Timone (325-230 a.C.). Non conosceremo mai la realtà delle cose, che si presenta a noi velata: le nostre sensazioni ed opinioni non possono quindi conoscere la verità, l’intima essenza delle cose, in quanto noi rappresentiamo le cose quali ci appaiono, ma non quali sono. La felicità umana consiste quindi in un atteggiamento, da parte del saggio, di silenzio (afasia), ἀϕασία, e di sospensione del giudizio (epochè), ἐποχή, di fronte alla realtà delle cose. Mediante l’afasia e l’epochè il saggio acquista l’imperturbabilità dell’animo (atarassia) e proprio nell’atarassia consiste, per gli scettici, la felicità (edonè). Si consideri lo schema seguente: 1)REALTA’ VELATA AI SENSI=>2)IMPOSSIBILITA’ UMANA A CONOSCERE=>3)AFASIA ED EPOCHE’ COME UNICI POSSIBILI ATTEGGIAMENTI SAGGI=>4)ATARASSIA=FELICITA’ IV.2. Il medio scetticismo: Arcesilao, Carneade, Enesidemo. Arcesilao e Carneade furono altri scettici, posteriori a Pirrone. A)Arcesilao, sostenendo l’epochè (sospensione del giudizio) di Pirrone e Timone rivalutò l’aspetto socratico-platonico della filosofia come ricerca aperta, ma rivalutò anche l’eristica come possibilità di sostenere contemporaneamente due tesi tra loro incompatibili. B)Carneade, invece, criticò i contenuti fondamentali dello stoicismo. C)Enesidemo, vissuto verso la fine del I secolo a . C., nei suoi Tropi (tropos = modo, maniera, τρόπος) redasse un elenco di 10 argomenti per dimostrare l’impossibilità di giungere ad una conoscenza oggettiva e ribadì quindi i concetti fondamentali dello scetticismo. Criticò, un particolare, i principi dimostrativi e soprattutto il principio di causalità.


9 IV.3.L’ultimo scetticismo: Sesto Empirico. Il medico Sesto Empirico fu l’ultimo grande scettico, vissuto tra il II ed il III sec. d. C. Deve il suo “agnomen” di “Empirico” al carattere della sua scuola medica. Le sue due fondamentali opere sono le Ipotiposi pirroniane (o Schizzi pirroniani, relativi cioè allo scettico Pirrone) e Contro i matematici. Il vero scettico non solo afferma l’impossibilità di superare la conoscenza fenomenica per cogliere il vero essere delle cose, ma dubita anche delle proprie possibilità, abbattendo così ogni forma di dogmatismo e continuando nella ricerca aperta. Concordò con Enesidemo nella critica al principio di causalità, in quanto i concetti di causa ed effetto possono essere concepiti solo unitamente, dato che ogni causa produce un effetto. Criticò fortemente i criteri della deduzione e dell’induzione: la deduzione si basa su circoli viziosi, poiché dimostra ciò che è già implicito nelle premesse, in quanto, se affermo che “tutti gli uomini sono mortali” e che “Socrate è un uomo”, deduco ovviamente che “Socrate è mortale”, ma non ho scoperto alcuna verità; l’induzione è invece arbitraria poiché estende, generalizza ciò che è valido solo per certi casi. L’unica ricerca valida parte dai dati empirici: Sesto applicò concretamente, nella sua scienza medica, tali idee, cercando di scoprire la malattia dai suoi sintomi, che sono i dati offertici dall’esperienza volta per volta. V. L’eclettismo romano: Marco Tullio Cicerone. La polemica contro gli epicurei, la difesa della repubblica romana e la concezione dell’amicizia. Ad un orientamento eclettico restò invece legata la riflessione filosofica di Marco Tullio Cicerone, vissuto nel I sec. a. C. , che, come si nota dai suoi scritti (Orazioni contro Lucio Sergio Catilina, per esempio) fu volta sempre ai problemi pratici e politici del suo tempo. Si occupò essenzialmente di politica e di gnoseologia e fu un celeberrimo avvocato. Si scagliò contro l’egoismo e il disimpegno politico degli epicurei, rappresentato a Roma dal poeta latino Lucrezio: Cicerone vide nella dottrina epicurea del disinteresse alla vita politica il male morale della società romana ed una chiusura egoistica dell’io. Difese strenuamente la repubblica romana contro ogni tentativo di rovesciarla con nuove forme di autoritarismo. Concepì la politica come un dovere, un servizio a favore della collettività. Fu un abilissimo oratore e trasformò le sue arringhe nei processi in vere e proprie dimostrazioni, quasi teatrali, di abilità retorica. Nel De amicitia concepì l’amicizia in modo più realistico ed opportunistico rispetto ad Epicuro: Cicerone non esalta l’amicizia disinteressata, che, a suo avviso, non esiste in natura, ma considera l’amicizia come utilità e quindi anche come possibilità per ottenere dei vantaggi in senso opportunistico. Per quanto riguarda il criterio della verità, Cicerone s’ispirò al cosiddetto “senso comune”, a ciò che è quindi più probabile e ragionevole, al “consensum gentium”. In quanto eclettico, anche se non fu propriamente un “filosofo”, accolse contributi di altre scuole, quali lo stoicismo e lo scetticismo, tentandone una mediazione: sostenne che la verità è conoscibile, a differenza di quanto affermavano radicalmente gli scettici, anche se non in modo adeguato. Non è quindi possibile un “sapere assoluto”, ma un “sapere probabile”. Pur non avendo una vera e propria vocazione filosofica, Cicerone rappresentò il più valido “ponte” attraverso il quale la filosofia greca entrò nel mondo romano: la sua importanza fu quindi storica. VI.1. Il Neoplatonismo: nuove tendenze della filosofia. Durante l’Impero romano ed in modo particolare nel III sec. d. C. si diffonde il cristianesimo e, insieme ad esso, si propagano nuove forme di misticismo, di derivazione platonica: esse rappresentano l’ultima opposizione pagana all’egemonia della cultura cristiana. Il problema fondamentale è quello del rapporto tra l’uomo e la morte e quindi tra uomo e Dio, corpo ed anima, materia e spirito, male e bene: la filosofia è quindi destinata ad incontrarsi con la teologia. FILOSOFIA <==> TEOLOGIA.


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VI.2. Plotino: vita ed opere. Il massimo rappresentante e l’iniziatore di questo innesto tra filosofia e teologia è Plotino, filosofo pagano del III sec. d. C., autore delle note 6 Enneadi, raccolte e pubblicate dall’allievo Porfirio, acerrimo nemico dei cristiani. Plotino nacque in Egitto, ma operò a Roma, ove istituì un circolo di filosofi. La filosofia plotiniana è basata soprattutto sulla rilettura, in chiave religiosa, anche se non ancora cristiana, del pensiero di Platone ed in particolare di quelle opere del filosofo ateniese che si potessero ricondurre a temi religiosi. VI.3. Plotino: la “teologia negativa” delle Enneadi. Come Platone, anche Plotino intende liberare l’uomo dalle passioni per farlo giungere al Bene, al Sommo Bene, alla conoscenza, a Dio. Plotino interpreta infatti come “Dio” il “Sommo Bene” platonico, che per Platone era l’Idea Suprema, l’Idea delle idee, e sostiene che Dio non è definibile, in quanto ogni definizione sarebbe sempre restrittiva: di Dio non posso infatti mai dire cosa è, ma cosa non è. Dio è indicibile ed ineffabile. Plotino, con evidenti influssi del Parmenide di Platone, identifica Dio con un principio unitario, che chiama “Uno”. In Plotino, pertanto UNO = BENE = BELLO = DIO. VI.4.Le “ipostasi” della gerarchia plotiniana ed il concetto di “emanazione” o “irradiazione” Mappa concettuale. Se Dio è l’Uno, il mondo terreno è il male inteso come molteplicità, che va ricondotto al Bene, cioè all’Uno, mediante un processo ascensivo. L’Uno-Dio di Plotino trascende il molteplice ed è inconoscibile. Produce il molteplice per un processo discensivo di emanazione o irradiazione: più ci si allontana dall’Uno, più si va incontro alla molteplicità del mondo, ma l’Uno non “crea” il mondo dal nulla nel senso della creazione ebraicocristiana, in quanto il mondo è emanato dall’Uno che non può non manifestare la sua grandezza se non per emanazione. Agostino d’Ippona e Bonaventura da Bagnoregio riprenderanno, nel Medioevo, la dottrina plotiniana dell’emanazione e identificheranno l’Uno di Plotino con il Dio cristiano. L’ordine francescano s’ispirerà appunto ad Agostino e la teoria francescana della luce, derivata dalla concezione plotiniana dell’irradiazione, sarà ripresa da Dante nel Paradiso per spiegare la maggiore o minore lontananza dei beati da Dio; Dio è un punto luminosissimo di luce che irradia i 9 cieli concentrici del Paradiso, più ci si allontana da Dio, più la luce degrada; Dio è abbagliante (come il Sole per l’uomo della caverna platonica). In Dante penetra la concezione plotiniana dell’emanazione grazie alla mediazione bonaventuriana. Il processo di emanazione, per Plotino, avviene nell’eterno, quindi fuori dalla dimensione temporale. Il “sistema” plotiniano è quindi monistico , che implica, in base a tale processo di emanazione, una gerarchia degli esseri, che Plotino chiama ipostasi, ovvero “gradi dell’essere”, che, che procede dall’Uno al molteplice e che dal molteplice può risalire all’Uno: si tratta quindi di due percorsi complementari, uno ascensivo ed uno discensivo. In base a tali ipostasi, Plotino fornisce dunque una sua metafisica e ci parla di “ipostasi” o “gradi dell’essere” in quanto l’Uno-Dio rappresenta la pienezza dell’essere. Si consideri, in proposito, la seguente mappa concettuale:


11 PROCESSO DISCENSIVO 1.UNO-DIO || emanazione V 2.INTELLETTO (o “Mondo delle Idee”, || in senso platonico) V emanazione 3.ANIMA DEL MONDO (è la capacità di ordinare ed organizzare i dati molteplici presenti || emanazione nel mondo, è una sorta di Demiurgo platonico, ma opera nel V tempo, non nell’eterno) 4.MONDO SENSIBILE O MATERIA (governata dall’anima del mondo) PROCESSO ASCENSIVO 1.UNO-DIO /\ razionalismo mistico 2.INTELLETTO /\ razionalismo mistico 3.ANIMA DEL MONDO /\ razionalismo mistico 4.MONDO SENSIBILE O MATERIA VI.5.Il processo ascensivo dalla materia all’Uno: il “razionalismo mistico”. L’uomo riflette un barlume di Dio, in quanto è emanazione di Dio. Ma in quale modo l’uomo può giungere a Dio? Mediante un processo ascensivo costituito da 2 fasi, cronologicamente l’una successiva all’altra. La prima fase è razionale e viene condotta dall’intelletto umano, che deve sforzarsi da allontanare da sé tutto ciò che irrazionale, terreno, caduco, materiale. La seconda fase è invece mistica ed è affidata all’ascesi, che non è una forma di passività religiosa consistente nel porsi passivamente nelle mani di Dio, ma è un raccoglimento mistico dell’anima in sé stessa: in tal modo l’anima raggiungerà il proprio principio, la propria “cara patria”, che è l’Uno-Dio, da cui è derivata per emanazione (nel processo discensivo). Il processo ascensivo consiste quindi in uno sforzo intellettuale di abbandono mistico per incontrare Dio: in questo senso Plotino fa proprie le tesi platoniche della via razionale e mitica per giungere alla conoscenza. Quest’esperienza di unione con Dio è “indicibile”, cioè non è comunicabile da chi l’ha vissuta (i veri pochi saggi, i filosofi), poiché l’Uno, per la “teologia negativa”, è “indicibile”. E’ un percorso tanto difficile, di distacco razionale, quanto semplice, poiché è ascetico, mistico. Quello di Plotino è quindi un “razionalismo mistico” che, secondo l’interpretazione della prof.ssa Margherita Isnardi Parente, docente universitaria di filosofia antica ed esperta di Plotino, risente maggiormente del pensiero greco e platonico che non della filosofia indiana delle Upanishad, che affermava invece il solo carattere religioso della conoscenza, negando la via razionale, consistente nello sforzo di abbandonare ogni legame con il mondo sensibile per poi, misticamente, unirsi a Dio. La tesi di Margherita Isnardi Parente su Plotino è quella dominante. VI.6.Testi, dalle Enneadi, I: “E basti, ora, quanto s’è detto sulle cose belle nell’ambito del sensibile; le quali, immagini, anzi ombre fuggitive, per dir così, entrando nella materia, l’adornano e, rivelandosi a noi, ci gettano nell’incantesimo. C’è però una bellezza trascendente, che la sensazione non può raggiungere, ma l’anima, pur senza organi sensoriali, vede e giudica. […].


12 L’anima purificata diventa Idea e Ragione; del tutto incorporea e intellettuale, giunge ad un completo possesso del Dio, dal quale derivano la fonte della bellezza e tutti gli altri valori spirituali collegati. […]. Bisogna, dunque, salire ancora verso il Bene a cui ogni anima aspira. […]. E’ giusto dire, pertanto, che il bene e il bello dell’anima consistono nel diventare simili a Dio, poiché di là derivano la bellezza e ogni altra cosa che abbia un posto decoroso nella realtà. […]. Cosicché possiamo anche affermare che << buono >> e << bello >> ovvero << Bene >> e << Bellezza >> s’identificano. Beato [nel senso di << felice >>] è colui che, raggiuntala, ha contemplato tale vista beata; ma chi non la raggiunge è infelicissimo. Non è infelice chi non ha ottenuto bei colori o un bel corpo; chi non ha raggiunto potenza, primato, regno; infelice è colui che non consegue il Bello, il solo [nel senso di << unico >>] Bello. […]. Qual è il modo? Quale il mezzo? Come si comprenderà questa prodigiosa Bellezza, la quale se ne sta, per così dire, dentro nei suoi sacri penetrali e non esce mai fuori, allo sguardo dei non iniziati? Suvvia, entri chi ha cuore e segua le sue orme nei penetrali, non senza, però, aver lasciato fuori le visioni dei suoi occhi mortali e guardandosi bene dal volgersi indietro a quei corpi un tempo splendenti […] e anche se allora li ha desiderati, quei corpi belli, ora non li cerchi più; e sappia, anzi, ch’essi non sono altro che immagini, orme, ombre […]. E si rifugi in Lui [nel senso di << Uno-Dio >>], modello di quelle figure […]. Fuggiamo, dunque, verso la cara patria – ecco il consiglio da accogliere come più corrispondente alla verità […]. E’ necessario che il vedente si faccia prima simile ed affine a ciò che deve essere visto, e poi si perda [nel senso di << immerga >>] nella visione. Come l’occhio non riuscirebbe mai a vedere il Sole, se non diventasse solare, così l’anima non può contemplare la bellezza se non diviene, essa stessa, bella. Suvvia! Ciascuno diventi bello e simile al Dio se intende contemplare e Dio e il Bello. Nell’ascesa egli giungerà, dapprima, allo Spirito e qui contemplerà tutte le belle Idee ed affermerà che in ciò consiste la bellezza: nelle Idee”. Spiegazione del testo: In Plotino, Uno, Bene, Bello, Dio sono tra loro identificati. In questo brano emerge la vicinanza di Plotino a Platone. La bellezza delle cose materiali, si afferma, è un’ “ombra fuggitiva”, un’ “orma fugace”, una doxa, è oggetto dei sensi. C’è però una bellezza trascendente che è la Vera ed Unica bellezza, che è oggetto dell’anima, e non dei sensi. Solo l’anima, mediante la ragione, può arrivare a Dio: l’anima è dunque razionale. L’anima aspira al Bene, cioè a Dio. La bellezza della realtà terrena deriva da quella divina: è quindi emanazione, irradiazione di Dio. Dio è Unico, è Bene, è Bello. E’ veramente beato, cioè felice, soltanto colui che può contemplare Dio: chi non arriva a tale contemplazione è infelicissimo. Dio è la “cara patria dell’anima”. Come non si può veramente comprendere il Sole se non si diviene “solari”, così non si può comprendere Dio se non ci avviciniamo a Lui. Nella faticosa e difficile ascesa verso il divino, si dovranno prima incontrare e contemplare le Idee: si nota come Plotino, da un lato riprenda la dialettica platonica delle idee, razionale e pagana, e dall’altro anticipi già una “filosofia religiosa”, che sarà ripresa nel Medioevo da Agostino. VI.7.Cenni su Proclo ed il tramonto della filosofia antico-pagana. Dopo Plotino, il Neoplatonismo prosegue con Porfirio, Giamblico, Damascio, Olimpiodoro ed infine Proclo, autore della Theologia platonica, scritta in greco, della quale sono importanti soprattutto i capitoli X e XII. Proclo rappresenta l’ultima voce morente della filosofia antica, in quanto nel 529 l’imperatore bizantino Giustiniano chiude tutte le scuole


13 filosofiche greche ad eccezione di quella cristiana (editto di Giustiniano): è questa, convenzionalmente, la data che segna la fine della filosofia antica. Proclo insiste maggiormente sull’aspetto religioso della conoscenza piuttosto che su quello intellettuale o razionale, a differenza di Plotino: la fede è quindi l’unico mezzo del processo ascensivo per elevarsi a Dio, all’”essere con intelletto” di Plotino, Proclo sostituisce l’“essere con fede” (e lo si capisce già dal titolo della sua principale opera, Theologia platonica, ripreso nell’Umanesimo per il titolo di una monumentale opera del filosofo cristiano Marsilio Ficino). Siamo ormai così giunti al tramonto del pensiero razionalistico pagano, che lascerà il posto alla filosofia cristiana dell’Alto Medioevo, con la Patristica (il movimento dei “Padri della Chiesa”), il cui massimo rappresentante è Aurelio Agostino. Proclo riprende la filosofia e lo schema plotiniano, ma vi apporta una modifica: secondo Proclo un essere che ne riproduce un altro rimane in sé stesso immutato, ma la cosa prodotta necessariamente gli somiglia, quindi il prodotto, assomigliando al producente, in qualche modo, resta in esso e, avendo anche qualcosa di diverso, procede da esso. E’ quindi identico e diverso al tempo stesso. Il prodotto, rimanendo, come si è detto, in parte nel producente, non può fare a ,meno di “aspirare” al producente, di tornare verso il producente (che Plotino chiamava “cara patria”), che è la propria causa. Il ritorno all’UnoDio, per Proclo, si compie per somiglianza. Questa modifica, apportata da Proclo alla metafisica plotiniana, riguarda contemporaneamente sia il processo discensivo che ascensivo.


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I. II.

FILOSOFIA MEDIEVALE PATRISTICA: 1.Aurelio Agostino d’Ippona e l’età d’ “oro” della Patristica. SCOLASTICA: 1.Anselmo d’Aosta. 2.La grande disputa sugli universali e Guglielmo d’Ockham. 3.Averroè. 4.Tommaso d’Aquino e l’apogeo della Scolastica. 5.Meister Eckhart e la crisi della Scolastica.

I.Introduzione alla filosofia medievale. La filosofia medievale occupa un arco cronologico compreso tra il IV/V secolo ed il XV e si articola in due correnti, cronologicamente successive l’una all’altra e con scopi diversi: A) la Patristica o movimento dei “Padri della Chiesa”, il cui massimo esponente è Aurelio Agostino, e B) la Scolastica, il cui più insigne rappresentante è Tommaso d’Aquino. Agostino e Tommaso riprenderanno rispettivamente, nell’Alto e nel Basso Medioevo, i pensieri di Platone e di Aristotele. Il periodo di tempo compreso tra Agostino e Tommaso è inoltre storicamente importante perché in quei secoli si forgia letteralmente la lingua italiana come lingua volgare. Gli ordini francescano e domenicano, nel Duecento, s’ispireranno rispettivamente ad Agostino ed a Tommaso. II.1.La Patristica: caratteri generali e fasi. Quando il cristianesimo dovette difendersi dalle persecuzioni e dalle polemiche, dovette mettere in chiaro i propri presupposti teorici e quindi organizzare una dottrina filosofica. In questo senso il cristianesimo, da un lato si proclama erede della cultura greca, dall’altro cercherà di superarla, in modo che, nei confronti della filosofia greca, avrà così un duplice rapporto: di continuità, ma anche di rottura. Giustificò la ripresa della filosofia greca sostenendo che dio ha fornito a tutti gli uomini la ragione (λόγος) ed in base a questo affermò l’unità della filosofia con la religione. Platone, gli stoici e Plotino furono i riferimenti culturali pagani del cristianesimo. In questo compito s’impegnarono i Padri della Chiesa, scrittori cristiani, autori di testi in lingua latina o greca. L’espressione “Padri della Chiesa” fu coniata da papa Bonifacio VIII alla fine del ‘200 e voleva indicare figure esemplari sui piani morale, religioso ed intellettuale. I cristiani non erano ben visti dai pagani perché si opponevano al culto dell’imperatore; nacque così, per i cristiani, il problema dell’ apologia, ovvero della difesa delle proprie convinzioni di fronte alle accuse di carattere morale, filosofico, politico e religioso. Il cristianesimo si pose quindi il compito di operare una sintesi fra la tradizione nuova, propriamente latina, con quella orientale e greca, allo scopo di far trionfare la cultura cristiana. Dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente, nel 476, si acuirono i contrasti fra le due tradizioni: il Medioevo nascente proseguiva nella direzione già tracciata dalla mediazione romana, mentre l’Impero d’Oriente dava origine alla cosiddetta civiltà bizantina. Ecco che sorge quindi il problema centrale del Padri della Chiesa, quello della sintesi del rapporto tra pensiero cristiano e cultura classica, nella sua duplice dimensione di continuità e di rottura. Già Virgilio, nell’Eneide, aveva rivendicato alla romanità la legittimità di accedere alla cultura greca, concezione espressa anche da Cicerone nella figura del “doctor orator”, che esprimeva la società romana come sintesi eclettica delle diverse tradizioni filosofiche della Grecia. Sarà proprio questo, come già detto, il compito della Patristica. I Padri della Chiesa sono quegli scrittori cristiani che hanno quindi contribuito, con la loro produzione, in lingua latina e greca, all’elaborazione dottrinale del cristianesimo. Il periodo della Patristica è compreso tra il I e l’VIII secolo e si può dividere in 4 fasi: 1)dalle origini al 100, con i Padri apostolici, che nel I secolo avranno il compito di diffondere e di difendere il cristianesimo dagli attacchi dei pagani (Porfirio, allievo di


15 Plotino, sarà un veemente accusatore dei cristiani nel III secolo); lo scopo dei Padri apostolici è quindi apologetico e non ancora dottrinario, si occuparono anche di organizzare il culto della Chiesa primitiva. Il più importante dei Padri apostolici fu Clemente Romano; 2)dal 100 al 200, con i Padri apologisti, che nel II secolo iniziarono invece l’attività filosofica vera e propria del cristianesimo, cercando di formulare una rigorosa e precisa dottrina filosofica. I più importanti furono Giustino, Tertulliano, Taziano; 3)dal 200 al 400, con l’età d’oro della Patristica, che fra il III ed il V secolo conobbe il suo splendore filosofico, con Ambrogio e soprattutto con Aurelio Agostino d’Ippona; 4)dal 400 al 700 segue la crisi della Patristica, che tra il V e l’VIII secolo si spegne, preparandosi ad essere riassorbita dalla Scolastica. Cambia anche il concetto di amore: l’amore di cui ci parlano i primi Padri della Chiesa, che scrivono in greco, non è l’ “eros” dei greci (ἔρως), l’amore ebbro e indisciplinato, ma l’amore cristiano, l’ “agape” (ἀγάπη): l’amore è quindi concepito adesso come dono disinteressato si sé, non come desiderio di possedere ciò che manca. II.2.Aurelio Agostino d’Ippona: la vita. Agostino vive in un periodo di transizione, tra il IV ed il V secolo, che possiamo considerare di rinnovamento e decadenza al tempo stesso: è infatti questa la fase storica del declinante paganesimo e della contemporanea diffusione del cristianesimo. Aurelio Agostino nacque a Tagaste, in Africa settentrionale, nel 354, figlio di gente economicamente modesta. La madre, Monica, era una devota cristiana ed avrà un forte influsso su Agostino. Studiò retorica e latino e s’ispirò a Cicerone come modello di retorica. Inizialmente manicheo, si convertì al cristianesimo all’età di 33 anni. In filosofia s’ispirò al Neoplatonismo di Plotino. Si stabilì a Roma, prese l’abito talare e tornò in Africa, ad Ippona, come vescovo, nell’ultimo periodo della sua vita; morì nel 430, mentre i vandali di Genserico stavano cingendo d’assedio la città di Ippona. II.3.Cenni sul manicheismo. Il manicheismo è una religione nata in Persia nel III secolo d. C., grazie ad un monaco orientale, Mani, che distingueva, nel mondo, 2 principi in lotta tra loro, Bene e Male, Luce e Tenebre che, nell’uomo, corrispondono all’anima ed al corpo. In tal modo il manicheismo negava l’unicità del principio creatore, affermata invece dall’ebraismo e dal cristianesimo, per affermare una dottrina dualistica. II.4.Aurelio Agostino d’Ippona: le opere. Le due maggiori opere di Agostino sono le Confessiones e il De civitate Dei, mentre nell’ultima parte della sua vita, quando era vescovo di Ippona, scrisse il De vera religione, contro i manichei, ai quali si era avvicinato da giovane, e il De trinitate, contro i donatisti ed i pelagiani, due forme di eresia fortemente combattute da Agostino. I donatisti, seguaci del vescovo Donato, non volevano riammettere nella comunità cristiana quanti, durante le persecuzioni, avevano abiurato, per paura, ed i pelagiani, seguaci del monaco Pelagio, negavano il ruolo della grazia divina nella salvezza, ruolo che, per Agostino, come vedremo, era invece fondamentale. Nelle due opere fondamentali, le Confessiones e il De civitate Dei, Agostino affronta rispettivamente i problemi del rapporto tra filosofia e teologia, del tempo, del male, del liberto arbitrio, della libertà, della funzione della Grazia divina e dell’estetica nella prima, e la filosofia della storia nella seconda: contrariamente a quanto si possa pensare dal titolo, il De civitate Dei non è infatti uno scritto di filosofia politica, ma di filosofia della storia, da Agostino concepita nel segno della provvidenza divina.


16 II.5.La “terza navigazione” della filosofia: fede e ragione nelle Confessiones. Filosofia e teologia sono per Agostino in un rapporto di complementarietà, in stretta collaborazione tra loro: la filosofia, grazie alla ragione, illumina la fede, che dà forza, impulso, stimolo alla ragione. Diceva infatti Agostino: “Credo ut intelligam et intelligo ut credam” (“Credo per comprendere e comprendo per credere”). Da Platone e dal Neoplatonismo di Plotino, Agostino riprende la dottrina delle idee per quanto riguarda la conoscenza, ma nega la tesi in base alla quale “conoscere significa ricordare le idee” da parte dell’uomo, perché la conoscenza proviene solo da Dio per emanazione, irradiazione, illuminazione, perché solo Dio è fonte di verità e conoscenza assoluta. Agostino ammette quindi solo il processo “discensivo”. In questa collaborazione tra fede e ragione consiste per Agostino la “terza navigazione” della filosofia, dopo quella naturalistica dei primi fisici e quella metafisica di Platone. Agostino, in questa mirabile sintesi di fede e ragione, ci propone un “platonismo cristianizzato”, che troverà ampia fortuna nell’Umanesimo platonico fiorentino di Marsilio Ficino, che, nel ‘400, parlerà infatti di “cristianesimo platonizzato”. II.6.Il problema del tempo nelle Confessiones. Cosa faceva Dio prima di creare il cielo, la terra ed il tempo, visto che il cielo e la terra sono nel tempo e non nell’eterno? Prima della creazione, afferma Agostino, non esisteva il tempo e non ha quindi senso parlare di un “prima”, che non è una categoria temporale; questa domanda, per Agostino, non ha quindi senso. Ma cos’è il tempo? Il filosofo risponde che se nessuno glielo chiede, lo sa, ma se qualcuno glielo chiede, non lo sa più. Il tempo è creazione di Dio, ma Dio non vive nel tempo, bensì nell’eterno e “tempo” ed “eternità” sono due dimensioni incomparabili. Il tempo implica 3 fasi essenziali: presente, passato e futuro. Il “passato” è “ciò che non è più”, è “presente nel ricordo” e quindi non esiste se non come ricordo. Il futuro è “presente nell’attesa”, è “ciò che non esiste ancora” e che non è detto che necessariamente si verifichi nel mondo, che è corruttibile e finito. Il presente, invece, esiste, ma è “l’attimo fuggitivo ed inafferrabile”, in quanto tende a tradursi immediatamente in passato, è “l’istante fuggitivo”, è quindi solo una pura intuizione, perché il presente sempre scorre, diviene, e mai resta. Notiamo, in questa riflessione agostiniana sul tempo presente, l’influsso del “panta rei” eracliteo. Il tempo, quindi, nelle sue 3 dimensioni di passato, presente e futuro, non esiste. Tuttavia l’uomo usa il tempo, si muove e si organizza nel tempo che, anche se non esiste sul piano ontologico, è quindi “distensio animae”, ovvero un “allungamento dell’anima” dal passato al presente, al futuro, è uno strumento convenzionale utile e legittimo per la vita umana, ma l’uomo deve avere la consapevolezza che il tempo non esiste. Tuttavia l’uomo si sente “padrone del tempo”, “signore del tempo”, ed in tale signoria, conscio di questa sua onnipotenza sul tempo, si erge quasi a secondo creatore, e con superbia si ribella a Dio, ponendo così il problema del male. II.7.Il problema del male nelle Confessiones. Ma nemmeno il male, per Agostino, esiste. Agostino considera il male sotto 3 punti di vista: 1)metafisico-ontologico; 2)fisico; 3)morale. 1)Sul piano metafisico-ontologico il filosofo nega l’esistenza del male in base alla sua concezione antimanichea: se come principio esiste solo Dio, Dio è principio solo di bene, e non può essere mai causa del male, per cui ciò che l’uomo impropriamente definisce “male” è un “grado inferiore di bene”, in quanto non esiste una causa prima, un principio del male. Sul piano metafisico-ontologico, dunque, il male non esiste: è questo l’“ottimismo cristiano” affermato da Agostino nelle Confessiones. 2)Sul piano fisico il male, inteso come malattie o disastri naturali, è una conseguenza del peccato originale ed assume così un positivo significato catartico come mezzo di


17 redenzione nella storia della salvezza, e quindi anche il male fisico è volto al bene e perciò non esiste in quanto male. Tale riflessione agostiniana sull’inesistenza del male fisico avrà influsso su I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni circa la peste intesa come “scopa purificatrice” e circa le avversità della vita terrena come propedeutiche al premio futuro. 3)Il male morale è l’unico che esiste e consiste nel peccato che l’uomo compie volontariamente allontanandosi da Dio, Sommo Bene. II.8.Libertà e Grazia nelle Confessiones. L’uomo è responsabile delle sue scelte morali, in quanto è libero di agire e di compiere quindi il bene o il male. Nota, a questo proposito, è la polemica di Agostino contro l’eresia di Pelagio e dei pelagiani; il monaco Pelagio (350-427) sosteneva infatti che l’uomo è libero e responsabile del suo comportamento morale. L’eresia pelagiana negava quindi la dottrina del peccato originale e la redenzione di Cristo e concepiva l’agire umano come autoperfezionamento morale, come imitazione del modello divino. La Grazia di Dio, per Pelagio, non è che la ricompensa dei meriti contenuti nell’azione umana: la posizione di Pelagio ricalca quindi da vicino le filosofie pagane. Agostino risponde al monaco Pelagio, oltre che nel De trinitate, anche nell’VIII libro delle Confessiones, affermando che la volontà umana è animata da un interno contrasto, che non “divide” la volontà, ma la rende in sé “duplice”: non sempre infatti l’uomo può realizzare i desideri che vuole, ed è questo, per Agostino, il libero arbitrio; la libertà è invece la capacità di realizzare quelle scelte che ci si è proposti. Ecco, conseguentemente, la funzione della Grazia: rendere libero il libero arbitrio umano, permettendo all’uomo di scegliere e di realizzare il bene, dato che l’uomo è invincibilmente inclinato al male. Senza la Grazia, afferma Agostino, l’umanità sarebbe quindi una “massa dannata”: la Grazia è quindi condizione della libertà, GRAZIA=>LIBERTA’. L’uomo è chiamato da Dio ad essere libero, e questa è la vera dipendenza dell’uomo da Dio. La morte non deriva da Dio, fonte di vita, ma dall’uomo, che si è allontanato da Dio con il peccato originale. Solo Dio può sanare l’abisso che l’uomo ha creato e salvarlo, e lo fa con la Grazia, che è appunto dono “gratuito” di Dio all’uomo. Pelagio, insistendo sulla responsabilità personale, negava gli effetti del peccato originale di Adamo, che ricadono, per il monaco eretico, solo su Adamo e non sull’umanità. L’uomo pecca per un cattivo uso personale del libero arbitrio, ma, secondo Pelagio, con una vita ispirata al bene può salvarsi da solo. La Grazia, per Pelagio, è solo un aiuto che Dio dà a chi fa il suo dovere ed acquista dei meriti, e non è un dono gratuito di Dio che l’uomo non merita. Agostino tuttavia riconosce la propria ignoranza e dichiara di non saper spiegare come mai Dio salvi alcuni e condanni altri. II.9.L’estetica nelle Confessiones. Il Medioevo è un periodo dominato dalla religione: la stessa filosofia viene “riassorbita” dalla fede o condannata quando non è assolutamente possibile ricondurla alla teologia. Anche l’arte subisce lo stesso destino di “ancilla theologiae” ed abbandona il suo cammino verso l’indipendenza per mettersi al servizio della Chiesa. L’arte medievale è strepitosamente fiorente nelle sue realizzazioni pratiche (si pensi alle chiese romaniche ed alle cattedrali gotiche del Medioevo) e gli artisti del Medioevo erano spesso alieni dall’esaltare il proprio nome (a differenza di quelli moderni), si accontentavano dell’anonimato e non desideravano altra ricompensa che quella divina. Ad esempio, la cappella palatina di Aquisgrana fu costruita da un grande artista come Odo di Metz, che è però misconosciuto. In questo senso gli artisti medievali ci appaiono lontani sia dai predecessori classici che dai moderni che li seguirono. Questa concezione di artista fu inaugurata dal cristianesimo e si colloca perfettamente in linea con la cultura medievale, che ribalta tutti i valori terreni, indirizzandoli verso un fine ultraterreno: niente ha valore, se non la conquista della beatitudine eterna e la ricerca della salvezza.


18 Un’importante parte delle Confessiones è dedicata alle riflessioni sull’arte. La concezione estetica di Agostino, in particolare, trae origine dalla sua riflessione sul peccato: è peccato tutto ciò che provoca piacere. In ambito artistico una simile concezione frenò violentemente il cammino dell’arte verso l’emancipazione. E’ evidente l’impronta platonica in Agostino: come Platone, anche Agostino condanna l’arte che suscita emozioni gratuite ed accetta solo l’espressione artistica che favorisce l’elevazione spirituale a Dio. All’arte Agostino concede una certa dignità solo se questa è finalizzata a lodare il Signore. Letteratura e poesia sono considerate arti pagane e per questo respinte, anche se Agostino le amava profondamente: il giudizio di Agostino è infatti particolarmente sofferto perché trattasi di uomo di grande cultura (esaltò la perfezione linguistica dell’ Eneide di Virgilio, ad esempio). Pur apprezzando grandemente le rappresentazioni teatrali, Agostino le rifiutava sul piano spirituale, perché nell’arte drammatica il dolore è solo una finzione, e non un’esperienza, sia per gli attori che per gli spettatori. Un’opera d’arte vera e propria è rappresentata, per Agostino, dalle Scritture nella loro globalità, e non per la ricchezza poetica con cui sono state redatte, ma per il loro contenuto salvifico, dalle miniature alle lodi cantate (è nota, del resto, la grande passione di Agostino per il canto). Come la meravigliosa cattedrale gotica non deve affascinare per la perfezione delle sue guglie, ma limitarsi a favorire, con la sua bellezza, la preghiera, così il canto non deve piacere per la voce del cantore, ma solo per la lode. Ricordiamo, in proposito, che Agostino fu il filosofo prediletto da Francesco Petrarca, il grande trecentista anticipatore dell’Umanesimo, che nel De secreto conflictu curarum mearum (Sul segreto conflitto dei miei affanni, noto anche come Secretum) dialoga con il filosofo, mostrando il suo animo scisso tra l’amore terreno, rappresentato da Laura, e l’amore di Dio. La concezione estetica di Agostino ha contribuito al lungo asservimento dell’arte alla teologia ed ha ridotto la fonte d’ispirazione artistica all’ambito religioso. Per molti secoli l’arte, per non essere svalutata, dovrà essere posta al servizio della teologia e gran parte della responsabilità di questa sudditanza dell’arte è proprio di Agostino. II.10.Le “Due Città” nel De civitate Dei: la filosofia della storia. Mappa concettuale. La Città di Dio (De civitate Dei) è un’opera fortemente unitaria, scritta in latino dal 415 al 426, in 22 libri, articolata in due parti: 1)libri 1-10: parte prima, dedicata alla confutazione del paganesimo; 2)libri 11-22: parte seconda ed ultima, dedicata all’apologia del cristianesimo ed alla presentazione della celebre “teoria delle Due Città”, in cui Agostino illustra anche la sua filosofia e teologia della storia. Parte prima (libri 1-10). L’occasione della composizione dello scritto è duplice: A)il sacco di Roma da parte dei Goti di Alarico nel 410 e B)la volontà di rassicurare i cristiani, impauriti dalla crisi dell’Impero romano, sulla verità della loro religione. Il paganesimo, per Agostino, vive in profonde contraddizioni, consistenti nella scissione tra le sue intenzioni e le sue realizzazioni effettive, che lo hanno condotto a realizzare il contrario di ciò che si era inizialmente proposto: i pagani hanno infatti professato la tolleranza, ma realizzato l’oppressione, come si evince dalle persecuzioni. Ne segue il compito per i cristiani: realizzare ciò che i pagani non hanno realizzato. Ad esempio, per Agostino, i pagani, malgrado i loro sforzi e le loro sottigliezze intellettuali, i loro “bizantinismi” (dal greco “ragionamenti cavillosi”), non hanno trovato un valido principio di spiegazione della realtà, a differenza dei cristiani, che in Cristo, mediatore tra Dio e l’uomo, hanno invece trovato la chiave di volta per comprendere la realtà e la storia.


19 Seconda ed ultima parte (libri 11-22). Ad Agostino l’uomo e la storia appaiono intimamente scissi, per cui il filosofo divide la Città di Dio, simboleggiata da Abele e dalla Chiesa, dalla Città dell’Uomo, rappresentata da Caino e dall’Impero, cioè dall’autorità laica. Il rapporto tra le Due Città non è però soltanto di opposizione, ma anche di relazione, di intreccio: Agostino respinge infatti un’opposizione di tipo manicheo e non mostra un intento teocratico, ma escatologico, cioè relativa ai fini ultimi, ultraterreni, della vita umana. Nell’uomo convivono queste due metaforiche città, come convivono il bene ed il male. Le ambizioni e gli scopi dell’uomo non sono vani, come l’aspirazione alla pace, presente anche nella Città dell’Uomo, anche se con contraddizioni: tali ambizioni e scopi trovano la loro realizzazione in un futuro escatologico che si compirà con l’avvento del Regno di Dio, e di tale Regno, al momento, afferma Agostino, c’è un segno tangibile nella Chiesa, presente nella Città dell’Uomo. Tuttavia la Chiesa non coincide con la Città di Dio, in quanto l’intenzione agostiniana, come si è detto, non è teocratica, ma escatologica. Entrambe le Città occupano la terra, ma mentre la Città dell’Uomo la occupa stabilmente, la Città di Dio la occupa “come un pellegrino”, di passaggio, ed al momento della fine del mondo e del giudizio universale, la Città dell’Uomo, se resta tale e non si “muove” verso la Città di Dio, è destinata alla dannazione, mentre la Città di Dio è destinata alla salvezza. Con linguaggio forte ed incisivo, Agostino afferma che la citta terrena è stata generata dall’amore di sé portato fino al disprezzo di Dio, e la città di Dio è stata generata dall’amore di Dio portato fino al disprezzo di sé, inteso come disprezzo delle cose terrene, ombre di quelle divine. Se, infatti, al primo posto saranno messe le creature, Dio non sarà riconosciuto come oggetto primo di amore: in questo si gioca il destino di salvezza o dannazione di ciascun individuo. Caino, il fondatore della città terrena ha ucciso il fratello Abele ed ha edificato la città terrestre, dunque, sulla violenza e sul fratricidio; Romolo, fondatore di Roma, ha ripetuto questo delitto uccidendo Remo. Non è, il De civitate Dei, un’opera di filosofia politica, ma di filosofia della storia e di teologia della storia, come si è detto: per Agostino, a differenza di quanto pensavano i Greci (e di quanto affermerà Nietzsche alla fine dell’Ottocento), la storia non ha un andamento ciclico, ma lineare, progressivo, direzionato verso la salvezza: è questa la visione cristiana della storia sposata da Agostino e ripresa, nel primo Settecento, da un filosofo della storia cristiano come Gian Battista Vico, da Alessandro Manzoni ne I Promessi Sposi e da Hegel nel primo Ottocento. La storia si muove quindi dal peccato alla salvezza, dalla Città degli Uomini alla Città di Dio, dal male al bene, da Caino ad Abele. MALE BENE CITTA’ DEGLI UOMINI CITTA’ DI DIO CAINO ABELE Si noti che le “Due Città” non sono immediatamente identificabili rispettivamente con l’Impero la Città dell’Uomo e con la Chiesa la Città di Dio: l’Impero non è necessariamente il regno del male ed Agostino elogia gli imperatori cristiani, e la Chiesa, che è solo un segno tangibile, terreno, del Regno di Dio, che si realizzerà soltanto in un futuro escatologico, ha conosciuto anche figure corrotte, che non entreranno nel Regno dei Cieli. Si consideri infine la seguente mappa concettuale: CITTA’ AMORI SIMBOLI ISTITUZIONI Città degli Uomini Amore di sé, disprezzo di Caino Impero (?) Dio Città di Dio Amore di Dio, disprezzo Abele Chiesa (?) di sé e delle cose terrene, che sono “ombre” di quelle divine.


20 II.11.La crisi della Patristica: cenni. Dopo il V sec., con le invasioni barbariche, la Patristica perde ogni vitalità speculativa e filosofica, limitandosi a mera attività di erudizione e traduzione delle opere di Aristotele, tranne rare eccezioni, rappresentate da Severino Boezio, Isidoro di Siviglia ed il Venerabile Beda, tra il VI ed il VII secolo. II.12.Testi dalle Confessiones, VII libro, cap. 12°; XI libro, capp. 14°, 18°, 20° e 27°: i problemi del tempo e del male. “Non si può pensare a un tratto di tempo, in cui non avevi fatto alcuna cosa, perché tu avevi creato il tempo stesso. Né vi è un tempo che a te sia coeterno, perché tu permani, mentre il tempo, se mai permanesse, più non sarebbe tempo. […]. Che cosa è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so bene: ma se volessi darne spiegazione a chi me lo chiede, non lo so […]. Ma in quanto ai due tempi passato e futuro, in qual modo essi sono, quando il passato, da una parte, più non è, e il futuro, dall’altra, ancora non è? In quanto poi al presente, se sempre fosse presente, e non trascorresse nel passato, non più sarebbe tempo, ma sarebbe, anzi, eternità. Se, per conseguenza, il presente per essere tempo, in tanto vi riesce in quanto trascorre nel passato, in qual modo possiamo dire che esso sia, se per esso la vera causa di essere è solo in quanto più non sarà, tanto che, in realtà, una sola vera ragione vi è per dire che il tempo è, se non in quanto tende a non essere? […]. Ciò che ormai appare chiaro ed evidente è che né il futuro né il passato sono, e che non si può dire con proprietà: i tempi sono tre, passato, presente e futuro; ma v’è da ritenere che con proprietà si dovrebbe dire: i tre tempi sono il presente del passato, il presente del presente, il presente del futuro. Sono questi tre determinati momenti che io vedo nell’anima nostra, e altrove non li vedo […]. Ma il vero è che il tempo noi lo misuriamo, ma non si tratta di quello che ancora non è, né di quello che ormai non è più, né di quello che non ha estensione di durata, né di quello che non ha limiti. Per conseguenza, noi non misuriamo né il tempo che ha da venire, né quello passato, né quello presente, né quello che va passando, e tuttavia noi misuriamo del tempo. […]. Ma in qual modo va diminuendo o addirittura si disperde quello che ha da venire, che ancora non è, o in qual modo s’accresce il passato, che orami più non è, se non perché nell’anima nostra, che elabora questi momenti, vi sono tre fasi? Infatti l’anima aspetta, pone attenzione e ricorda; tanto che ciò che aspetta, attraverso ciò cui rivolge l’attenzione, si trasforma in ciò che ricorda. […]. Mi fu quindi manifesto che sono buone le cose le quali si corrompono; esse, infatti, non potrebbero corrompersi, se ne fossero buone in sommo grado, né, d’altra parte, lo potrebbero se non fossero in qualche modo buone; perché se fossero buone in sommo grado, sarebbero incorruttibili, invece, se per nulla fossero buone, non ci sarebbe in esse nulla che potesse corrompersi. La corruzione, infatti, nuoce, e se essa non menomasse un bene, non nuocerebbe. […]. Pertanto dovetti riconoscere e mi apparve evidente che tu hai fatto buone tutte le cose e che non vi sono sostanze che tu non abbia creato. Ma poiché tu non hai fatto tutte le cose uguali, pertanto tutte le cose esistono in quanto una per una sono buone e tutte nel loro insieme sono sommamente buone, poiché il Dio nostro <<tutte le cose fece sommamente buone>> (Genesi, I, 31). Rispetto a te non può essere affatto il male, non solo rispetto a te, ma neppure rispetto alla creazione tua nella sua universalità, perché non vi può essere al di fuori di questa creazione qualcosa che vi irrompa e che corrompa l’ordine che tu hai imposto ad essa”.


21 III.1.La Scolastica: caratteri generali del movimento della “filosofia delle Scholae”. Il termine “Scolastica” designa la filosofia cristiana dei secoli centrali (XI e XII) e del tardo Medioevo (XIII e XIV sec.), dopo il periodo oscuro del X secolo, il secolo più oscuro del Medioevo sia dal punto di vista culturale che politico-sociale, quest’ultimo dovuto alla rapida dissoluzione dell’Impero carolingio dopo la morte di Carlo Magno. Uniche luci di risveglio spirituale furono il movimento cluniacense del 910 e la Schola Palatina, fondata dal monaco anglosassone Alcuino alla corte di Carlo Magno. Nella Schola Palatina si studiavano la logica aristotelica e le 7 arti liberali, quelle del trivio (grammatica, retorica e dialettica) e del quadrivio (musica, geometria, aritmetica, astronomia). Il “magister artium”, chiamato anche “Scholasticus”, era il “professore” delle 7 arti liberali. L’origine del movimento della Scolastica è infatti legato all’insegnamento, che avveniva in due fasi, la lectio, ovvero la lettura ed il commento di un testo d’autore, e la disputatio, ovvero la discussione, il dibattito argomentato con i pro ed i contra, su un determinato argomento, sul quale venivano poste delle quaestiones, raccolte poi in dei libri. Dopo lo studio delle 7 arti liberali si procedeva con lo studio della filosofia, intesa come dialettica, ed infine della teologia, considerata la scienza più alta, concepita come dogmatica. La dialettica dovrà confrontarsi con la dogmatica e, nei secoli XI e XII, accettare o rifiutare la dialettica significherà affermare o meno la libertà della ragione, di fronte all’autorità ecclesiastica. Scopo della Scolastica, che si afferma nelle scuole cattedrali prima e nelle università medievali appena sorgeranno (XIII sec.) è educare ed insegnare all’uomo, ed in primo luogo ai chierici, la verità rivelata, non attraverso una libera ricerca autonoma della ragione, come presso i Greci, ma con la guida illuminante della Chiesa; la ragione è sottoposta all’auctoritas ed alla sententia ecclesiae, il singolo deve sentirsi appoggiato e sorretto dall’autorità e dalla tradizione ecclesiastica. Per la Scolastica e per Tommaso d’Aquino il male esiste, a differenza della Patristica, e l’uomo vi è naturalmente inclinato: per questo la Chiesa ha il compito di direzionare l’umanità peccatrice verso il bene, con qualsiasi mezzo. Scopo della Scolastica è quindi quello di ricercare dialetticamente razionalmente una verità, ma di comprendere razionalmente l’unica Verità che si è già manifestata con la rivelazione di Cristo: la dialettica è quindi sottoposta alla dogmatica ed in questo contesto si comprende l’affermazione di Tommaso d’Aquino, massimo rappresentante della Scolastica, “Philosophia ancilla theologiae est”. La Scolastica perdurerà fino alla fine del ‘300 ed avrà seguaci anche nel ‘900 con i filosofi francesi neotomisti Gilson e Maritain (quest’ultimo fu l’autore del noto Umanesimo integrale). Affermandosi in seno alle università, la Scolastica assumerà la denominazione di “filosofia delle Scholae”. Lo scopo ora non è più quello della Patristica dell’Alto Medioevo, cioè quello di difendere il cristianesimo dalle eresie, perché ormai il cristianesimo si è definitivamente affermato sul paganesimo, ma quello di studiare la figura di Cristo, la verità rivelata, ossia la cristologia, formulandone una catechesi ed una dogmatica molto precise e rigorose (la “cristologia”, insieme alla “trinitaria”, è infatti una delle due parti della “teologia dogmatica”). Esaurita la funzione culturale dei monasteri dell’Alto Medioevo e delle Scuole cattedrali, la Scolastica si afferma nelle Università e trova un fondamentale punto di riferimento filosofico in Aristotele, come la Patristica lo aveva trovato in Platone. III.2.Anselmo d’Aosta e l’argomento ontologico dell’esistenza di Dio. Anselmo d’Aosta, santificato dalla Chiesa come Agostino e Tommaso d’Aquino, nacque ad Aosta nel 1033, divenne abate benedettino e svolse la sua opera in Normandia ed a Canterbury, ove morì all’inizio del XII secolo: la sua vita si colloca quindi nell’XI secolo. Scrisse 2 opere, in greco, il Proslogion (Colloquio), la più importante, ed il Monologion (Soliloquio). Nel Proslogion fornisce, a priori, la prova “simultanea” dell’esistenza di Dio: è una dimostrazione a priori, cioè prima dell’esperienza, ed è detta prova ontologica (della realtà)


22 o simultanea, cioè immediata, istantanea dell’esistenza di Dio, senza bisogno di ricorrere all’esperienza. Pensare Dio, afferma Anselmo, significa pensare “il più grande”, in senso assoluto. Pertanto, chi volesse negare l’esistenza di Dio cadrebbe in una palese contraddizione: non si può pensare infatti ciò che è “assolutamente grande” senza l’attributo dell’esistenza. Essenza (piano logico) ed esistenza (piano ontologico) in Dio coincidono. Non è possibile l’idea di un Dio infinitamente grande, onnisapiente, onnipotente, che non esista: tale prova è infatti “simultanea” perché nell’idea di Dio (essenza) è già inclusa simultaneamente la sua realtà (esistenza) ed è detta anche ontologica perché parte dal presupposto che Dio è un Essere Perfetto e quindi, se non esistesse, non sarebbe perfetto, ma inferiore alla Perfezione, in quanto gli mancherebbe un attributo, appunto quello dell’esistenza, senza il quale non è, inoltre, pensabile. Si nota ancora in Anselmo la presenza della filosofia greca: il concetto di perfezione implica la completezza, è perfetto solo ciò che è completo, compiuto, portato a compimento, come affermavano i filosofi greci. III.3.Storia della prova ontologica: mappa concettuale. La prova ontologica, ideata da Anselmo nell’XI secolo, sarà oggetto di discussione nel corso della storia della filosofia da parte di vari pensatori che la riprenderanno o, viceversa, cercheranno di smontarla. Si consideri, in proposito, il seguente schema: FIILOSOFI SECOLI POSIZIONE Anselmo d’Aosta XI La pone Bonaventura da Bagnoregio XIII La riprende Tommaso d’Aquino XIII La nega Cartesio (razionalista) XVII La riprende Malebranche (razionalista) XVII La riprende Leibniz (razionalista) XVII La riprende Kant XVIII La nega III.4.Sviluppi della Scolastica tra l’XI ed il XIII secolo: la Grande Disputa sugli Universali. Guglielmo d’Ockham e la “teoria del rasoio”. Mappa concettuale. Tra il Mille e il Duecento nelle Scuole cattedrali, come l’importantissima Scuola di Chartres del XII secolo, e poi nelle nascenti università del XIII secolo, si aprì un dibattito sul rapporto tra gli universali, cioè i nomi generali, astratti, e la loro corrispondenza con gli oggetti concreti, le cose. Non fu solo una sterile disputa accademica ed intellettualistica, poiché si poneva il problema della possibilità di cogliere, con il pensiero, la realtà concreta. Su questo dibattito si distinguono 3 posizioni: realisti, nominalisti, concettualisti. 1)Per i realisti, come Anselmo d’Aosta e la Scuola di Chartres, i nomi esistono prima delle cose, che derivano dai nomi, cioè dagli universali. C’è quindi uno stretto nesso, di tipo platonico, tra “voces”, cioè nomi, e “res”, cioè cose. Le idee (gli universali) sono quindi “ante rem” (prima delle cose): VOCES => RES. 2)Per i nominalisti, come Guglielmo d’Ockham, non esiste invece alcun rapporto tra nomi e cose; i nomi sono “flatus vocis”, ossia “fiato della voce”, parole vuote, pure astrazioni. Le idee (universali) vengono quindi dopo le cose, sono “post rem”: VOCES/RES. E’ una posizione aristotelica, antiplatonica, fatta propria da Guglielmo da Baskerville che “confidava nei filosofi greci ed in particolare nel divino Aristotile”, come affermava Adso da Melk, suo novizio, ne Il nome della rosa di Umberto Eco: “Stat rosa pristina nomine; nomina nuda tenemus”, cioè “conosciamo (solo) i nomi nudi”, cioè vuoti, astratti. Guglielmo da Baskerville, nel romanzo filosofico di Eco, è la proiezione di Guglielmo d’Ockham, filosofo nominalista che sosteneva la “teoria del rasoio”: inutile moltiplicare gli enti, che vanno tagliati come si taglia la barba con il rasoio, esistono soltanto Dio e l’uomo, non le idee (platoniche), secondo la formula “Entia non sunt multiplicanda praeter


23 necessitatem” (“Non si devono moltiplicare gli enti senza necessità). Guglielmo d’Ockham nega dunque la dottrina platonica delle idee come possibile congiunzione tra gli universali e la realtà: questo è il nominalismo occamista. 3)I concettualisti, come il grande logico Abelardo (evirato nel sonno dallo zio di Eloisa, di cui Abelardo era precettore ed amante corrisposto, anche se di condizione sociale inferiore a quella della famiglia di Eloisa), tentarono una mediazione tra realismo e nominalismo: i nomi non sono “flatus vocis”, ma nemmeno modelli perfetti, in quanto derivano dalle cose. La conoscenza umana è quindi parziale e limitata, come parziale e limitata è la realtà empirica: i nomi (idee) ci offrono quindi una conoscenza, anche se parziale e limitata, RES <===> VOCES. Si consideri in proposito il seguente quadro concettuale riepilogativo: 1)REALISMO (Scuola di Chartres, Anselmo d’Aosta): VOCES => RES; 2)NOMINALISMO (Guglielmo d’Ockham): VOCES/RES; 3)CONCETTUALISMO (Abelardo): RES <===> VOCES. III.5.Averroè: la dottrina della “doppia verità” e l’interpretazione dell’intelletto agente di Aristotele. Averroè nasce a Corboda, nella Spagna islamica del XIII secolo, la sua principale opera è il Grande Commento, un commentario alle opere di Aristotele, nel quale studiò, in modo particolare, la Metafisica (libro XII) e il De anima (libro III, capp. 4-5). Sostenne che non c’è contrasto tra ragione e fede, perché entrambe ricercano un’unica suprema verità, che è Dio; filosofia e teologia convergono in questo obiettivo comune, ma in caso di contrasto tra fede e ragione bisogna attenerci alla ragione, che è più autorevole della fede. Per questo sarà accusato di miscredenza dalla Chiesa. Il contrasto tra fede e ragione è quindi, per Averroè, solo apparente. Commentò le opere di Aristotele concordando sulle 4 definizioni aristoteliche di Dio (motore immobile, pensiero di pensiero, atto puro, perfezione assoluta o causa finale). Averroè rivestì anche un’importanza storica: grazie a lui il pensiero di Aristotele entrò nel mondo arabo. Non esiste una “doppia verità”, ma esiste solo una verità, quella di ragione: le verità di fede, come quelle del Corano, sono imperfette e proposte ad uomini semplici ed ignoranti. Con la “dottrina della doppia verità” Averroè non afferma quindi due verità distinte, di fede e di ragione, ma una sola verità, che può essere interpretata a vari livelli: 1)il livello più semplice, per le persone semplici, basato sulla fede immediata; 2)il livello più dottrinario, per i filosofi, basato sulla ragione. Ogni uomo, afferma Averroè seguendo il Corano, deve attenersi al suo livello di verità. Tale teoria consentì ad Averroè di avere stima per la religione e di rivendicare, al tempo stesso, l’autonomia della ricerca filosofica. Ciò provocherà vivaci reazioni sia presso i teologi cristiani che musulmani. La “dottrina della doppia verità” sarà ripresa da Pomponazzi nel ‘400 e contestata da Galileo nel primo ‘600. Averroè interpretò inoltre in modo originale la teoria aristotelica sull’intelletto agente o attivo (cfr. Aristotele, De anima, libro III, capp. 4-5): si tratterebbe di un intelletto intermedio tra Dio e l’uomo ed unico per tutta l’umanità, quindi di una sostanza separata dall’intelletto passivo o potenziale e superiore ad esso, ma inferiore a Dio. L’intelletto passivo è solo quello umano e necessita dell’intervento dell’intelletto attivo per passare dalla potenza all’atto e conoscere. Si consideri la seguente mappa concettuale a riguardo: DIO UNICO PER TUTTA L’UMANITA’<= = =INTELLETTO ATTIVO = = = > ESPERIENZA || \/ INTELLETTO PASSIVO===>INTELLETTO ATTIVO (UMANO)


24 III.6.L’apogeo della Scolastica: Tommaso d’Aquino, vita ed opere. Nato nel 1225 a Roccasecca, nel Lazio meridionale, presso l’attuale Frosinone, studiò dai benedettini di Montecassino; in seguitò studiò a Napoli, presso la Facoltà delle 7 arti liberali, ove conobbe l’aristotelismo. Poi si recò a Colonia, ove frequentò la scuola di Alberto Magno, teologo domenicano, filosofo e scienziato, che fece avvicinare ancor più Tommaso, anch’egli entrato nei domenicani, al pensiero di Aristotele. Da Colonia Tommaso si trasferì a Parigi, ove insegnò teologia e pubblicò il De ente et essentia, un opuscolo teologico scritto verso il 1256. In seguito si recò in Italia, ove iniziò il suo capolavoro, la Summa theologiae, poi di nuovo a Parigi, infine ancora in Italia, ove insegnò teologia a Napoli. Morì nel 1274. Nel ‘500 il papa Pio V lo proclamò “dottore della Chiesa” per la sua cultura. III.7. Il De ente et essentia: filosofia e teologia, la struttura dell’Essere, critica della dottrina averroista della “doppia verità”, l’interpretazione dell’intelletto agente di Aristotele e nuova critica di Averroè. Il contrasto tra verità di fede e verità di ragione è per Tommaso solo apparente: teologia e filosofia sono infatti due diverse scienze che possono aiutarsi reciprocamente. La filosofia, con la ragione, può dimostrare alcune verità, come l’esistenza di Dio, la spiritualità e l’immortalità dell’anima: in questo senso la ragione è “preambula fidei” e la filosofia è “ancilla theologiae”. D’altro lato, la filosofia offre alla teologia l’ausilio della rivelazione divina. La conoscenza filosofica si completa così in quella teologica e la teologia si serve della filosofia senza per questo umiliarsi. In questo modo Tommaso ribalta la tesi averroista del rapporto tra fede e ragione. Tommaso afferma inoltre che, come sosteneva Aristotele, nelle sostanze corporee l’essere è unione di materia e forma (ilemorfismo), cioè corpo ed anima, mentre nelle sostanze spirituali, come Dio, l’essere è solo forma, che è l’atto, in senso aristotelico, della materia: Tommaso identifica l’atto puro ed il motore immobile di Aristotele con il Dio creatore cristiano, che è solo atto, non potenza, e quindi è perfetto, e non perfettibile, a differenza dell’uomo, che è potenza ed atto. L’Essere è quindi la realtà suprema e l’uomo coglie dell’Essere (Dio) solo aspetti finiti grazie alle idee platoniche, in quanto l’uomo partecipa dell’Essere in modo finito. Come si nota, Tommaso riprende sia categorie platoniche che aristoteliche: l’uomo e le creature hanno l’Essere solo per partecipazione, intesa appunto in senso platonico, mentre Dio è “l’unico vero Essere in sé”. Tommaso critica quindi la dottrina della “doppia verità” di Averroè: non esiste una doppia verità, per Dio e per l’uomo, bensì un’unica verità, quella dell’Essere, che vale sia per dio che per l’uomo; tale Unica Verità dell’Essere è presente in Dio in modo assoluto, nell’uomo in modo partecipato. Sempre nel De ente et essentia Tommaso critica l’interpretazione di Averroè circa un intelletto agente unico per tutta l’umanità ed intermedio tra Dio e l’uomo. Per Tommaso non esiste un intelletto unico per tutta l’umanità, ma ci sono tanti intelletti agenti quante sono le anime. Inoltre, per Tommaso, affinché l’uomo sia razionale, l’intelletto deve essere nel corpo, se fosse esterno al corpo, come afferma Averroè, l’uomo non potrebbe comprendere niente. L’anima razionale è, per Tommaso, la “forma del corpo”, come affermava Aristotele, e l’intelletto attivo è quindi nell’anima, che è “forma corporis”, presenza di Dio nell’anima: ciò servì a Tommaso per dimostrare l’immortalità dell’anima. In accordo con le virtù dianoetiche aristoteliche, il filosofo nega che gli animali, privi di anima razionale, possano accedere al paradiso.

III.8. La Summa Theologiae: critica dell’argomento ontologico di Anselmo d’Aosta, la metafisica delle “5 vie”, etica, politica, estetica (con mappa concettuale).


25 La Summa theologiae è il monumentale capolavoro di Tommaso in cui l’autore tratta dei seguenti argomenti: teologia, etica, politica, estetica. All’inizio dell’opera il filosofo critica l’argomento aprioristico di Anselmo d’Aosta sull’esistenza di Dio, fatto proprio anche da Bonaventura da Bagnoregio, in quanto non è lecito un passaggio indimostrato dal piano logico a quello ontologico. Tommaso, diversamente da Anselmo e da Bonaventura, nega che l’idea di Dio sia innata nella mente umana. Fuori della fede, per Tommaso, l’uomo può giungere a Dio solo a posteriori, partendo quindi dall’esperienza, dalle creature. Contrariamente all’operazione di Anselmo d’Aosta, Tommaso dimostra l’esistenza di Dio a posteriori, partendo dall’esperienza, dagli effetti alle cause, per inferenza. Dio, per Tommaso, è la prima realtà, ma non la prima forma di conoscenza: le prime forme di conoscenza sono offerte dai dati empirici, sensibili. La conoscenza, per Tommaso come per Aristotele, proviene quindi dall’esperienza, e non è innata, mentre per Platone era innata e per i neoplatonici Dio era l’origine della conoscenza. Tommaso procede nella sua argomentazione portando 5 prove, delle “5 vie”, per dimostrare, a posteriori, per inferenza, l’esistenza di Dio: 1)la prima prova è quella del movimento (ex parte motus – a partire dal moto): ogni cosa mossa rimanda ad un’altra, e così via, ma questa catena non può procedere all’infinito, si deve necessariamente arrestare ad un primo motore che non è mosso, che è dio. Tommaso riprende quindi letteralmente la definizione aristotelica di Dio come motore immobile. 2)la seconda via è quella della causa efficiente (ex ratione causae efficientis – dalla nozione di causa efficiente): ogni effetto rimanda ad una causa, ma anche questo processo non può andare all’infinito, si deve arrestare ad una causa prima, che non è causata, che è Dio; 3)la terza via è quella della contingenza (possibile) e della necessità (ex possibili et necessario - dal possibile e dal necessario)*, ovvero del contingente e del necessario. Tutto ciò che è contingente può, in un tempo remoto, non essere esistito, ma il Necessario, Dio, è necessariamente esistito, perché Dio è eterno, e quindi “è sempre”. Se così fosse, ci sarebbe stato un tempo in cui niente esisteva o in cui niente poteva esistere, ma questo è assurdo, perché dal niente non può provenire che niente; 4)la quarta via è quella dei gradi di perfezione (ex gradibus – dai gradi), che sono tanti, ma la Perfezione Assoluta è solo in Dio, come affermava Aristotele, da Tommaso qui esplicitamente citato; 5)la quinta via è quella del finalismo (ex gubernatione rerum – dal governo delle cose). Tutte le cose, anche quelle prive di intelligenza, sono dirette verso un fine. Dio, supremo ordinatore di tutto, dirige verso un fine ogni cosa, anche i corpi privi di intelligenza. Tommaso porta il noto esempio della freccia e dell’arciere: come la freccia, priva di intelligenza, è mossa dall’arciere, così Dio dirige verso un fine ogni cosa, anche quelle prive di intelligenza. Tale prova cosmologica sarà confutata da Kant. Come si nota, la teologia tomista delle “5 vie” è fortemente ispirata al XII libro (libro teologico) della Metafisica aristotelica: la prima e la quarta “via” sono esplicitamente riprese da Aristotele, che viene esplicitamente citato nella quarta via. *Il contingente è ciò che può essere e non essere, è quindi il possibile, mentre il necessario è ciò che è e non può non essere. L’uomo partecipa platonicamente, come si è detto, dell’essere, cioè di Dio, per cui l’azione umana è orientata al giusto; ciò non toglie che l’uomo non possa errare. In tal caso la Chiesa ha il dovere di correggere e punire l’errore. Due sono i beni, sul piano morale, che l’uomo deve perseguire: a) la conoscenza dell’Essere, cioè di Dio, e b) la vita in società. Tommaso concorda con Aristotele sostenendo che lo Stato nasce in base ad un’esigenza dell’uomo, che, come animale politico, non può vivere da solo. Tra le varie forme di governo prescritte da Aristotele, a


26 Tommaso la migliore sembra la monarchia, in quanto gli pare la più adatta a mantenere la pace tra i cittadini. La forma peggiore gli sembra la tirannide, nella quale un uomo solo volge a proprio favore ciò che dovrebbe essere un bene comune. In primo luogo, afferma Tommaso distanziandosi ora da Aristotele, l’uomo dev’essere dipendente da Dio e non dallo Stato. Il potere civile è il bene comune nell’ambito naturale, il potere ecclesiastico è invece il fine soprannaturale ultimo degli uomini. Si deduce quindi come per Tommaso il potere civile debba essere subordinato a quello ecclesiastico, il “regnum” debba essere subordinato al “sacerdotium”, lo Stato alla Chiesa. Così Tommaso ribadisce anche la supremazia del papa, vicario di Cristo, su tutti i regni ed i principi, teorizzando così la teocrazia. Un’ampia parte della Summa Theologiae è dedicata al problema estetico. La definizione dell’arte offerta da Tommaso è molto chiara e semplice: l’arte è il modo ragionevole di fare alcuni lavori. La caratteristica fondamentale dell’arte è dunque la ragione, e non soltanto il fare: il creare secondo le norme della ragione può dare origine all’opera d’arte. L’opera d’arte è quindi una creazione razionale, ma anche un qualsiasi “imbrattatore” di immonde tele procede secondo una sua razionalità. Ecco che la semplice creazione razionale non può, da sola, essere sufficiente per creare un’opera d’arte, che deve essere anche bella: si pone quindi il problema di cosa sia il bello, e Tommaso risponde che “il bello è ciò che piace alla vista”, ma per “vista” Tommaso non intende soltanto uno dei cinque sensi esterni, bensì un sentimento interiore, che solo Dio può infondere, perché Dio è il creatore dell’idea di bellezza. L’opera d’arte implica quindi una collaborazione tra l’artista e Dio, perché Dio fa sì che la bellezza esista: l’artista plasma la materia (momento pratico) in una forma che è bella, che piace e che colpisce i sensi esterni ed il sentimento interiore, e che diventa quindi una forma di conoscenza, perché nella forma è presente l’intervento divino, il raggio della luce divina, che al tempo stesso è verità (momento teoretico). Questo rivela il doppio carattere dell’arte, pratico e teoretico, ed evidenzia l’influsso del pensiero aristotelico: “materia” e “forma” corrispondono a “potenza” ed “atto”. L’opera d’arte, in Tommaso, deve essere anche utile: per “utile” Tommaso intende ciò che è “buono”. Utilità non è infatti utilitarismo, ma sinonimo di bontà, e l’opera d’arte deve quindi ispirare azioni e sentimenti buoni. La creazione artistica ha quindi anche un valore morale e pedagogico. Sul piano formale, l’opera d’arte dev’essere anche perfetta, e cioè portata a termine in ogni sua parte. Ma l’opera d’arte realizza la sua funzione (che abbiamo visto essere religiosa, pedagogica, morale) soltanto se piace, cioè se viene contemplata dagli uomini: una creazione artistica fine a sé stessa, che aderisca astrattamente ai canoni della bellezza, per Tommaso non ha senso, proprio perché l’arte deve ispirare nell’uomo buoni sentimenti e buone azioni, e tale bontà è un raggio della conoscenza divina, come si è visto: poiché, infatti, la bellezza presente nell’arte è manifestazione di Dio, la contemplazione estetica è un momento privilegiato di elevazione verso l’Assoluto. Si nota, in Tommaso, un certo progresso rispetto alla concezione estetica medievale: si rivaluta tutta l’arte, e non solo l’arte sacra, quella, cioè, applicata solo a soggetti religiosi. Qualsiasi opera d’arte, se veramente bella (e quindi utile nel senso di buona, come si è detto), proviene da Dio e rimanda a Dio: la missione dell’artista è quindi fortemente pedagogica, perché mette in contatto gli uomini con la Bellezza, che è una diretta emanazione di Dio. Si consideri infine la seguente mappa concettuale sull’estetica tomista:

OPERA D’ARTE = CREAZIONE RAZIONALE BELLA ==> (SENSO ESTERNO (fare) + (ragione) (SENTIMENTO INTERIORE


27 || || | | (raggio della || || | | conoscenza \ / \ / \ / divina) \/ \/ \/ PRATICA + TEORETICA UTILE = BUONA (in senso || || pedagogico ed etico|| || religioso \ / \ / \/ \/ MATERIA + FORMA (artista) + (Conoscenza Divina) || || \ / \/ Uomo <== Artista ==> Dio (missione pedagogica dell’artista) ==> a) completezza dell’opera d’arte; ==> b) l’opera d’arte dev’essere contemplata dagli uomini perché nella sua parte formale è un raggio della conoscenza divina; ==> c) conseguente rivalutazione di tutta l’arte, non solo di quella sacra, perché in ogni creazione estetica è presente la collaborazione tra l’artista e Dio. III.9. Dalla Summa theologiae, I, cap. 2, par. 3: “Attraverso cinque vie si può provare l’esistenza di Dio. La prima e più evidente si deduce dal moto. E’ infatti certo, e lo constatiamo coi sensi, che nel mondo alcune cose si muovono. Ma tutto ciò che si muove è mosso da altro. […]; e questo da un altro ancora. Tuttavia questo non è un procedere all’infinito, perché in tal caso non vi sarebbe qualcosa che si muove per primo, e di conseguenza non vi sarebbe nemmeno qualcosa che muove qualcos’altro, in quanto provoca per secondo il movimento, lo fa solo in quanto mosso a sua volta da un primo motore, così come il bastone non si muove se non perché è mosso dalla mano. Dunque, si dovrà arrivare ad un primo motore che non è mosso da nessuno: e tutti comprendono che questo è Dio. La seconda via deriva dal concetto di causa efficiente. […]. Né è possibile che nelle cause efficienti si proceda all’infinito […]. Ma se procediamo all’infinito, eliminiamo la prima causa efficiente […], e questo ovviamente è falso. Quindi si dovrà porre una prima causa efficiente, che tutti chiamano Dio. La terza via è desunta dal possibile e dal necessario, ed è questa. Tra le cose troviamo quelle che possono essere e quelle che non possono […]. Se pertanto tutte le cose possono non essere una volta non ci fu nulla nella realtà. Ma se questo è vero, non vi sarebbe nulla nemmeno ora, poiché ciò che non è comincia ad essere solo in virtù di qualcosa che è; se pertanto non vi fosse stato un ente, nulla sarebbe potuto incominciare ad essere, e nulla ora sarebbe, cosa questa evidentemente falsa. Ne consegue che non tutti gli enti sono possibili, ma dovrà essere nella realtà qualcosa di necessario. […]; non è comunque possibile procedere all’infinito nelle cose necessarie che hanno da altro la causa della propria necessità, come nelle cause efficienti, e ne sono state date le prove. Dunque dovremo di necessità supporre un essere necessario per sé, che non abbia da altro la causa della sua necessità, sia invece causa di necessità per le altre cose; questo essere tutti dicono che è Dio.


28 La quarta via si fa derivare dalla gerarchia che si riscontra nelle cose. Infatti, nella realtà si trovano il buono, il vero, il nobile in quantità diverse, ma il più e il meno si definiscono in base alla vicinanza ad un valore massimo, così come diciamo più caldo ciò che è più vicino al massimo caldo. Vi è dunque qualcosa che è verissimo, ottimo e nobilissimo, e di conseguenza è ente supremo; infatti le realtà più vere sono enti al massimo grado, come dice Aristotele nella Metafisica (II, c.1). […]. La quinta via si deduce dall’ordine delle cose. Vediamo infatti che alcune cose mancanti di conoscenza, cioè i corpi materiali, operano per un fine […], quindi è evidente che giungono al fine non per caso, bensì per un condizionamento. Ma le cose che non hanno conoscenza non tendono al fine se non dirette da qualcuno che possiede conoscenza e intelletto, come la freccia che è scagliata dall’arciere. Quindi vi è un essere intelligente, da cui tutte le cose create vengono indirizzate ad un fine: questo essere diciamo che è Dio. III.10. La crisi della Scolastica sui piani religioso e politico. In ambito religioso, già Hus e Wycliff avevano sottolineato la corruzione della Chiesa, e Dante, nel III libro del De monarchia, demolisce la teocrazia medievale della teoria delle “Due Spade” enunciata da Bonifacio VIII nella Bolla “Ausculta, filii” (1302), contrapponendovi la teoria dei “Due Soli”. Dante restituisce dignità al potere laico, imperiale, separandolo da quello spirituale, anche se non ha maturato l’idea moderna di Stato, in quanto ancora fortemente legato all’Impero medievale. A differenza di Dante, Marsilio da Padova, docente all’Università di Padova ed autore di un’importante opera politica, il Defensor pacis (1324), traccia le linee di uno Stato moderno, laico, svincolato da qualsiasi rapporto sia con la Chiesa che con l’Impero. Fede e ragione, come Chiesa e Stato, devono essere distinti. Lo Stato è una comunità umana, fondata sul diritto naturale e non divino, il potere deve risiedere nelle mani dell’assemblea dei cittadini. Sovranità popolare e Stato di diritto sono i due pilastri del pensiero di Marsilio da Padova. Il potere politico, laico, per Marsilio da Padova, è non solo indipendente da quello religioso, ma superiore ad esso; il potere religioso dev’essere inoltre detenuto dai vescovi e non dal papa. Si nota, nel pensiero democratico e laico di Marsilio da Padova, l’influsso dell’esperienza comunale. Per la su opposizione al papa, fu costretto a rifugiarsi in Germania, sotto la protezione di Ludovico il Bavaro. Si nota, in Marsilio da Padova, anche la distanza dal pensiero politico di Tommaso d’Aquino. L’ideale teocratico, nel ‘300, è rappresentato da Egidio Romano, allievo di Tommaso e sostenitore di Bonifacio VIII e della superiorità anche politica del pontefice, dal quale deve dipendere, secondo lui, l’autorità del sovrano, ma la teocrazia è ormai definitivamente in crisi ed Egidio Romano incarna infatti l’ultima voce morente di questa tendenza. In particolar modo in Germania e nell’Europa centrale, alle fine del ‘300 si fanno strada nuove teorie spirituali, più moderne e popolari, che ricercano un rapporto diretto e più umano con la divinità, e minano, in tal modo, la Scolastica ed il mondo medievale. III.11.La mistica speculativa tedesca di Meister Johann Eckhart ed il tramonto filosofico della Scolastica. La voce più autorevole di tale rinnovamento spirituale è offerta da un mistico domenicano tedesco, Meister Eckhart (“Meister” sta per “Magister artium”, ossia professore), vissuto nel primo ‘300 ed autore delle opere Trattati e prediche tedesche e Dell’uomo nobile. Eckart (1260 circa - 1327) vuole giustificare la fede trovando l’incontro tra Dio e l’uomo: per questo l’uomo deve ricercare un rapporto diretto con Dio, deve far morire in sé ogni aspetto di creatura finita, per far vivere Dio in sé stesso, nell’uomo; così l’uomo si unisce a Dio, diventa Uno con Dio. Dio, per Eckhart, non va quindi dimostrato razionalmente, come ha preteso di fare Tommaso. L’uomo è in Dio e Dio è nell’uomo in quanto è presente nell’anima umana in una comunione mistica; Dio non si coglie con la ragione, ma con un


29 puro atto d’amore, uscendo fuori di sé, in estasi (dal greco “ekotasis”, “ἔκστασις”, che significa “fuori”, quindi “venir fuori”, “distaccarsi” dalla condizione umana di finitezza), in una totale ed intima fusione dell’uomo con Dio, fusione che può avvenire soltanto per impeto di sentimento e forza di volontà, indipendentemente da ogni procedimento intellettivo. Nulla sarebbero l’uomo ed il mondo senza Dio: Dio, pur essendo di natura superiore all’uomo ed al mondo, scende nel mondo ed il mondo tende a Dio, che lo ha creato. Tali tesi di Eckhart, nelle quali troviamo influssi di Platone (nel “distacco” dal mondo terreno, categoria questa molto usata da Eckhart) e del neoplatonismo plotiniano (nel raccoglimento e nell’estasi mistica), avranno influenze su Lutero, sul Rinascimento e sul panteismo di Giordano Bruno nel secondo ‘500. Eckhart, demolendo la via razionale per giungere a Dio, demolisce la Scolastica tomista ed il pensiero aristotelico.

INDICE CAPP./PARR.

TITOLO

PAG.


30 Finalità, dediche, memorie, ringraziamenti e saluti.

2

LE CORRENTI FILOSOFICHE DEL PERIODO ELLENISTICO O 2 ‘ALESSANDRINO’ E DELL’ETA’ ROMANA (IV SEC. A.C. / 529 D.C.): QUADRO GENERALE I.

Introduzione alla filosofia pagana tardo-antica: trasformazione, vitalità 2 e crisi della civiltà greca.

II.1.

Epicuro: vita ed opere.

II.2.

La fisica epicurea nella Lettera a Erodoto: l’atomismo meccanicistico 3 ed il vuoto, i mondi, l’anticipazione della teoria del Clinamen, l’universo infinito, il linguaggio, l’anima e gli Dei. La concezione astronomica nella Lettera a Pitocle. Polemiche con Platone, Senofane ed Aristotele.

II.3.

La filosofia come “tetrafarmaco”. L’etica epicurea nella Lettera a 4 Meneceo e nelle Massime capitali: dottrina del piacere, atarassia ed aponia, il disimpegno politico, l’amicizia, il diritto.

II.4.

Mappa concettuale sull’epicureismo.

6

II.5.

Testo, dalla Lettera a Meneceo.

6

III.1.

Lo stoicismo. Caratteri generali dell’antica Stoà: Zenone di Cizio, 7 Cleante di Asso, Crisippo di Soli. Logica ed etica.

III.2.

La Nuova Stoà: Seneca, Epitteto, Marco Aurelio.

7

IV.1.

Lo scetticismo antico: Pirrone di Elide.

8

IV.2.

Il medio scetticismo: Arcesilao, Carneade, Enesidemo.

8

IV.3.

L’ultimo scetticismo: Sesto Empirico.

9

V.

L’eclettismo romano: Marco Tullio Cicerone. La polemica contro gli 9 epicurei, la difesa della repubblica romana e la concezione dell’amicizia.

VI.1.

Il Neoplatonismo: nuove tendenze della filosofia.

9

VI.2.

Plotino: vita ed opere.

10

VI.3.

Plotino: la “teologia negativa” delle Enneadi.

10

VI.4.

Le “ipostasi” della gerarchia plotiniana ed il concetto di “emanazione” 10 o “irradiazione” Mappa concettuale.

VI.5.

Il processo ascensivo dalla materia all’Uno: il “razionalismo mistico”.

11

VI.6.

Testi, dalle Enneadi, I

11

VI.7.

Cenni su Proclo ed il tramonto della filosofia antico-pagana.

12

FILOSOFIA MEDIEVALE

14

I.

Introduzione alla filosofia medievale.

14

II.1.

La Patristica: caratteri generali e fasi.

14

II.2.

Aurelio Agostino d’Ippona: la vita

15

II.3.

Cenni sul manicheismo.

15

II.4.

Aurelio Agostino d’Ippona: le opere.

15

3


31 II.5.

La “terza navigazione” Confessiones.

II.6.

Il problema del tempo nelle Confessiones.

16

II.7.

Il problema del male nelle Confessiones.

16

II.8.

Libertà e Grazia nelle Confessiones.

17

II.9.

L’estetica nelle Confessiones.

17

II.10.

Le “Due Città” nel De civitate Dei: la filosofia della storia. Mappa 18 concettuale.

II.11.

La crisi della Patristica: cenni.

II.12.

Testi dalle Confessiones, VII libro, cap. 12°; XI libro, capp. 14°, 18°, 20 20° e 27°: i problemi del tempo e del male.

III.1.

La Scolastica: caratteri generali del movimento della “filosofia delle 21 Scholae”.

III.2.

Anselmo d’Aosta e l’argomento ontologico dell’esistenza di Dio.

21

III.3.

Storia della prova ontologica: mappa concettuale.

22

III.4.

Sviluppi della Scolastica tra l’XI ed il XIII secolo: la Grande Disputa 22 sugli Universali. Guglielmo d’Ockham e la “teoria del rasoio”. Mappa concettuale.

III.5.

Averroè: la dottrina della “doppia dell’intelletto agente di Aristotele.

III.6.

L’apogeo della Scolastica: Tommaso d’Aquino, vita ed opere.

III.7.

Il De ente et essentia: filosofia e teologia, la struttura dell’Essere, 24 critica della dottrina averroista della “doppia verità”, l’interpretazione dell’intelletto agente di Aristotele e nuova critica di Averroè.

III.8.

La Summa Theologiae: critica dell’argomento ontologico di Anselmo 25 d’Aosta, la metafisica delle “5 vie”, etica, politica, estetica (con mappa concettuale).

III.9.

Dalla Summa theologiae, I, cap. 2, par. 3.

27

III.10.

La crisi della Scolastica sui piani religioso e politico.

28

III.11.

La mistica speculativa tedesca di Meister Johann Eckhart ed il 28 tramonto filosofico della Scolastica. INDICE

della

filosofia:

fede

e

ragione

nelle 16

20

verità”

e

l’interpretazione 23 24

30


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