MARCO MARTINI
ITALIANO IERI E OGGI
EDIZIONI ISSUU.COM ITALIANO IERI E OGGI
Conferenza del prof. Gian Luigi Beccaria, ordinario di “Storia della lingua italiana” all’Università di Torino, 10/12/1988, h. 17,30, teatro dell’Oriuolo, via dell’Oriuolo, Firenze, Associazione Culturale Italiana (A.C.I.). Premessa. Beccaria, linguista e critico letterario, racconta, con spirito ed eleganza, il movimento, la varietà ed i problemi dell’italiano di oggi e le sue connessioni con quello di ieri, in particolare con la cultura contadina. Conferenza. L’italiano mantiene i sapori e le mode della vita rurale e contadina, sia pure tra le pieghe (ad es., “darsi la zappa sui piedi”, “mettere il carro avanti ai buoi”, “tagliare la testa al toro”, “conoscere bene i propri polli”, “chiudere la stalla quando i buoi sono usciti”). Già Stalin aveva notato, in un suo saggetto di linguistica (Il marxismo e la linguistica), che la lingua russa del suo tempo differiva pochissimo da quella di Puskin. La rivoluzione non aveva quindi cambiato la lingua, ma solo i sistemi feudali e capitalistici. La lingua, in Italia, si è quindi resa popolare; chi non scriveva in fiorentino, doveva ricercare una lingua pura. Aderire al toscano voleva dire, per i non toscani, rinunciare ad una propria storia; una lingua, quando aspira a diventare popolare, non può non tener conto dei dialetti e di una miscela delle lingue di tutta l’Italia. In questo modo Graziadio Isaia Ascoli risponde alla pretesa manzoniana di ricercare la “lingua pura” nel fiorentino dei colti (con la famosa “risciacquatura dei panni in Arno” dell’estate 1827, per la “ventisettana” de I Promessi Sposi). L’industrializzazione, l’emigrazione, l’avvento dei mezzi di comunicazione di massa hanno fatto il resto. Nel 1954, in Italia, con l’avvento della televisione, si verifica un forte passaggio dal dialetto all’uso della lingua. Solo il 19% degli italiani parlava italiano, l’insegnamento era impartito perlopiù in dialetto (Gramsci già lo scriveva nel primo ‘900, quando ad Ales era uno dei pochissimi bambini che parlava italiano a scuola). La lingua si è sostituita ai dialetti ed all’analfabetismo, ma la dissoluzione dei dialetti è un fatto anche negativo nei confronti delle culture locali. L’abbandono del dialetto è un male quando si abbandona una cultura per abbracciarne un’altra neutrale e sbiadita. Comunque la diffusione dell’italiano, anche se dovuta a spese dei dialetti, è un fatto positivo; i dialetti, però, hanno fatto tesoro di ciò, e si sono arricchiti, anche se hanno dato molto e preso poco dall’italiano. Es.: ferro, citrullo (citriolo), in napoletano; bagarino, in romanesco; ciao, in veneziano “schiao”, cioè “sono vostro schiavo”; teppa, teppista, in milanese significa muschio e prende il nome dalla “Compagnia della teppa”, una compagnia di giovani che, all’inizio del ‘900, si riuniva, per motivi goliardici, in un prato di muschio, nei pressi del castello sforzesco. Spesso i termini dialettali, oltre che essere entrati nell’italiano, sono intercambiabili e non c’è accordo tra, ad es.: graffette = fermagli; tapparelle = veneziane = serrande = persiane; sbucciare = pelare; far fiasco = far cilecca; insipida = sciocca = insulsa; farla finita = piantar baracca e burattini = tagliare la testa al toro; salviette = asciugamano; prendere fischi per fiaschi = prendere lucciole per lanterne = dove vai? Son cipolle; circolare = bus = pullman; rompere le scatole = scocciare = rompere le uova nel paniere; imparare = insegnare (usato nei dialetti lombardi, in quanto si usa impropriamente la forma transitiva, lo stesso vale per “scherzare”, quando si dice “m’ha scherzato” per dire “m’ha preso in giro”); bischero = povero diavolo; stare = essere (nell’Italia meridionale, in particolare nel napoletano); fargli la festa = farlo fuori = eliminarlo; tosse canina = tosse asinina = pertosse; marcia indietro = retromarcia; salire = scendere (nell’Italia meridionale, in cui si usano erroneamente i verbi in forma transitiva, come “salire o scendere un pacco”); far forca (fiorentino) = bucare (viareggino) = bigiare o attaccare (nordico). Inoltre abbiamo assistito alla decadenza di “egli” ed “ella” per “lui” e “lei”, all’uso di “te” al posto di “tu” ed all’espressione “a me mi”. Queste sono tutte forme errate da evitare, senza essere puristi della lingua.
L’unità linguistica, in Italia, precede quella politica ed amministrativa: è del ‘500 (con il Bembo) e del ‘600, ma come fu possibile ciò? Solo teoricamente, non in pratica: Pietro Bembo rifiuta infatti qualsiasi regionalismo. Ad arricchire la lingua italiana sono intervenuti inoltre i linguaggi settoriali, scientifici, tratti dalla fisica, dalla storia, dalla medicina, che non costituiscono monadi a sé, ma arricchiscono l’italiano. Le parole, in quanto tali, non sono limpide o oscure, facili o difficili, ma dipendono dal “manovratore”: ad esempio, a chi non si interessa di calcio risulta difficile la pagina sportiva del lunedì. Ad esempio, dopo l’alluvione in Valtellina del luglio 1987, la gente ha assimilato un verbo, “tracimare”, ossia “traboccare”, superare gli argini. Soltanto il burocrate usa termini ufficiali, impersonali, tecnici; la burocrazia ha invitato alle “frasi fatte”, alle “formule”, al “conformismo”, ma purtroppo è più difficile eliminare tali frasi “precotte” che le espressioni dialettali. Il pericolo è il trionfo degli automatismi, come “personale ausiliario” o “custode” (oggi caduto in disuso) o “personale non docente” per bidello, “operatore tecnico” per muratore, “non vedente” per cieco, “precipitazioni” per pioggia, “coadiutrice di parrocchia” per perpetua (la donna del curato, ancora di manzoniana memoria), “rilievi alpini” per montagne. Per quanto concerne infine la dizione, la pronuncia “ideale” e “perfetta” in base all’accento è assolutamente astratta, proprio in quanto “ideale” e non “reale”.