DL353/2003 (conv. in L 27/02/04 n. 46) art.1 comma 1 - DCB - Roma / Tariffa ROC Poste Italiane Spa Spedizione in Abb. postale
Direttore ARTURO DIACONALE
Fondato nel 1847 - Anno XVIII N.16 - Euro 1,00
delle Libertà Domenica 20 Gennaio 2013
Bankitalia: un 2013 di recessione
K Vede nero il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco. Che in una lectio magistralis all’università di Firenze parla di un’economia italiana «ancora in recessione», poco prima che il suo intervento venisse interrotto dall’irruzione di studenti dell’estrema sinistra. «Nel quadro macroeconomico presentato nel Bollettino economico della Banca d’Italia di oggi - spiega Visco - il Pil dell’Italia sarebbe sceso di poco più del 2% nel 2012. Nell’estate del 2011, prima che la crisi dei debiti sovrani si estendesse al nostro Paese, si prevedeva una crescita di circa un punto». «La recessione potrebbe avere fine nella seconda parte del 2013», dice Visco. «Al di là della congiuntura sfavorevole, il nostro paese deve saper trovare le motivazioni e gli incentivi per affrontare con decisione il problema della crescita». E la conferma alle sue parole arriva nelle previsioni contenute nel «Bollettino economico» diramato venerdì. Peggiorano le stime sul Pil, mentre l’occupazione si ridurrà anch’essa di quasi l’1% nel 2013 e ristagnerà nel 2014, quando tasso di disoccupazione arriverà al 12%.
Cronache dall’apocalisse (aspettando la bomba) C
i vogliono le spalle larghe per sopportare l’annichilimento mediatico che piove ogni giorno da giornali, tv, radio, internet e social network. Crisi economica, spread altalenante, paesi in bilico, l’intera Europa che barcolla, violenza e criminalità che aumentano in modo direttamente proporzionale all’impoverimento generale e all’incertezza imperante, l’estremismo islamico che uccide, si allarga a macchia d’olio e lavora per conquistare tutto il confine meridionale europeo nel silenzio e nel disinteresse generali, l’antisemitismo che riesplode nel cuore dell’Europa, la Siria che tortura e massacra i suoi
di VALENTINA MELIADÒ
Crisi economica, spread altalenante, paesi in bilico, violenza e criminalità in aumento. E l’estremismo islamico si allarga a macchia d’olio e lavora per conquistare il confine meridionale europeo. Nel silenzio generale
bambini, l’Iran che gioca indisturbata al piccolo chimico con buona probabilità di essere presto in grado di cambiare drasticamente la cartina geografica del Medioriente, e molto, molto altro. In mezzo a questa bufera quelli che riescono a tenere la testa fuori dall’acqua sono i giornalisti, che si cibano dello stesso veleno che distribuiscono con una certa estraneità, come i medici che a forza di vederne di tutti i colori smettono di immedesimarsi e impietosirsi. Bisogna pur sopravvivere. So bene che per il giornalista la priorità è la notizia, la rassegna stampa, sapere, scrivere, ragionare. In una parola,
lavorare. Sì, ma oggi non mi va di lavorare. Oggi mi prendo una pausa e vesto i panni dell’altra me: la cittadina, la donna, la madre, la moglie, la persona che combatte la battaglia quotidiana per la vita, una battaglia che si è fatta sempre più difficile e che è scandita da domande oramai divenute ossessive: ce la faremo anche questo mese? L’euro sopravviverà? Siamo in grado di pagare tutto? I conti sono in ordine? I documenti fiscali sono a posto? Questa medicina sarà prescrivibile? Possiamo permetterci questa visita urgente? Ci saranno prodotti in offerta al supermercato? Questo lavoro me lo pagheranno? Quanto costa
la benzina oggi? Prendo la macchina o vado a piedi? Quale scuola per nostro figlio? Ce la facciamo a fargli fare un’attività extrascolastica? Come pagheremo il mutuo se la crisi peggiorerà? Che faremo se dovessimo ammalarci? Dormirò stanotte? No, penso di no. Meglio prendere le gocce. È così che il cittadino subisce sulla propria pelle una realtà su cui ha un potere limitato, come le notizie di cui giornalisti e commentatori parlano e dibattono in tv e sulla carta stampata, spesso con il distacco di chi sta comunque dall’altra parte della barricata, anche se poi, di fatto, non è così. Continua a pagina 2
Il crollo della pubblicità porta in rosso l’editoria L
a crisi economica abbatte la pubblicità. Il crollo della pubblicità porta in rosso i ricavi dell’editoria. Sono stati resi noti i dati dell’accertamento diffusione stampa (Ads) da parte della Federazione editori dai quali risulta che i dieci giornali più venduti in Italia non raggiungono i due milioni e trecento mila copie al giorno. Se ci mettiamo le vendite degli altri 60-70 quotidiani regionali e locali si supera appena i due milioni e mezzo di copie. Una miseria. Da tempo sono analizzate le cause della scarsa diffusione dei giornali in Italia: una cattiva di-
di SERGIO MENICUCCI
Calo degli investimenti, cattiva distribuzione, scarsi abbonamenti anche a causa dei ritardi con i quali arriva a casa la posta, propensione quasi nulla dei giovani ad acquistare quotidiani: l’editoria tradizionale è in crisi irreversibile?
stribuzione (la resa è molto alta), scarsi abbonamenti anche a causa dei ritardi con i quali arriva a casa la posta, propensione quasi nulla dei giovani ad acquistare un quotidiano preferendo i siti web, non tirare fuori dalla tasche un euro al giorno, mancanza o quasi di quotidiani popolari come in Inghilterra e Usa che usano un linguaggio più facile di lettura, basso livello di leggibilità e comprensione da parte del lettore che si trova davanti paginate e paginate di politica e incomprensibili articoli sull’economia. Ridimensionati anche i quattro quotidiani sportivi che messi insieme supe-
rano appena le 619mila copie vendute al giorno, che crescono il lunedì. Dalle analisi mensili dell’Ads emerge la necessità che i quotidiani del post Internet devono riposizionarsi e superare il ritardo negli investimenti in tecnologie e digitale. I bilanci in qualche modo reggono solo grazie ai ricavi supplementari generati dai mezzi collaterali (web, inserti, libri). Per avere un quadro completo della situazione occorre tener conto delle vendite in edicola, di quelle realizzate con altri canali e degli abbonamenti (in verità pochi per tutti). Il metodo utilizzato da Repubblica per ac-
creditarsi come primo giornale non è esatto. Il Corriere della sera, diretto da Ferruccio de Bortoli, resta il quotidiano più venduto con 396.069 copie che costituisce la somma di 306.828 copie vendute in edicola, più 82.294 di canali diversi e 6.947 abbonati. Il quotidiano di via Solferino aveva subito una contrazione di circa il 2 per cento nei mesi di settembre e ottobre. Continua a pagina 2
2
DOMENICA 20 GENNAIO 2013
IIPOLITICAII
L’OPINIONE delle Libertà
Fra Monti, Casini e Fini puro matrimonio di interessi
Concordia, rimozione nei tempi stabiliti
I
I
mmaginate per un attimo Bersani che si impegna quale futuro premier a rendere l’Italia più giusta, o Casini che protegge i figli e la famiglia o Fini che, dopo aver tradito la sua parte politica, si preoccupa della rinascita italiana diventando seguace di Monti. Vi è davvero da inorridire di fronte a simili slogan, inseriti nei manifesti che campeggiano nella città eterna. Bersani, cresciuto a pane e prosciutto condito con falce e martello, non vede l’ora di assaporare il potere quello vero, dopo il fallimento dei compagni Occhetto e Veltroni. Questi ultimi, travolti per venti anni dall’onda berlusconiana e messi all’angolo a meditare una rivincita che fino a qualche giorno fa davano per scontata. Casini, vecchio democristiano con due o tre famiglie e con figli e figlie da sistemare, non può trascurare gli interessi economici del suocero Caltagirone, in possesso di partecipazioni varie in banche e società di alto profilo economico. Fini, che non contento del regalo fatto in Costa Azzurra al cognato, dopo aver voltato le spalle al suo elettorato di destra sociale trova il modo di non sparire dalla vita politica. La svolta, aggrapparsi alla Lista Mont, piena zeppa di figli, generi e nipoti e di persone sempre vissute alle spalle del popolo italiano. Certo Casini protegge i suoi figli così come protegge la sua famiglia allargata, così come Fini continua, attraverso l’escamotage montiano, a far politica nell’ottica di proteggere gli interessi suoi e della sua famiglia, pur essa allargata con il matrimonio con la signora Tulliani e con i figli di primo e secondo letto. La gente, quella per bene e che lavora pagando le tasse, si
K
Casini e Monti
chiede se Bersani, Casini e Fini smettessero di fare politica che cosa sarebbero in grado di fare, posto che per tantissimi anni non hanno mai dimostrato di saper esercitare una professione od un mestiere. La risposta è semplice, niente ma vivrebbero bene lo stesso grazie ai privilegi economici acquisiti nel tempo. Dall’altra parte, cioè dalla parte della gente che lavora, non vi è alcuna certezza, posto che i dipendenti pubblici e privati affamati dai provvedimenti montiani non sanno come conciliare il pranzo con la cena ed i liberi professionisti, specie giovani faticano a trovar lavoro e quando lo trovano sono costretti a percepire emolumenti così di poco conto da essere invidiosi di elettricisti, idraulici e magari parrucchieri. Ciò grazie alle false liberalizzazioni ed alla concorrenza voluta dal mercato,
quello europeo, che ha determinato uno scadimento culturale senza precedenti. In questo scenario Berlusconi è un gigante, avendo gioco facile con i suoi avversari che, da quando è sceso in campo non dormono più, avendo paura del confronto, tipo il comunistello Bersani che vuole dibattere solo con i candidati premier e non con i capi delle coalizioni. Pietose bugie che nascondono la pochezza delle idee politiche che portano avanti, speculando sulle finte primarie che avevano messo in moto per dimostrare alla gente che la politica è cambiata, entusiasmando finanche il Cavaliere, che aveva ricevuto il sindaco di Firenze Matteo Renzi, salvo successivamente constatare che si è trattato di una semplice burla. E che dire di Monti che, immesso nel circuito europeo proprio da Berlusconi, lo diffama etichettandolo come “pifferaio magico” che racconta balle, sapendo di non poter mantenere le promesse fatte, mentre lui che ha vergognosamente aumentato la pressione fiscale, creando recessione, al posto del promesso sviluppo, per ottenere il voto di qualche disperato, promette di rimodulare l’Imu e ridurre la pressione fiscale della quale indica un solo responsabile, Silvio Berlusconi. I sondaggisti definiscono il movimento di Monti “centrino”, lo definisco semplicemente una organizzazione truffaldina, con il vecchio sapore del vecchio, facilmente scongiurabile ove da parte del Cavaliere si ponga attenzione a non favorire il riciclaggio di persone squalificate politicamente e che la gente per bene non riesce più a sopportare né tanto meno a vedere. TITTA SGROMO
l recupero e lo smantellamento della Concordia visto dal fronte opposto, quello del governo ed in particolare della Protezione Civile. Nei giorni scorsi all’isola del Giglio il prefetto Gabrielli in conferenza stampa ha divulgato i tempi del cronoprogramma del recupero del relitto ma alcune sue dichiarazioni, non riportate integralmente, sono sembrate in conflitto con quelle del Ministro dell’Ambiente. Di conseguenza, la sua tabella di marcia non è sembrata corrispondere con quella del ministro Corrado Clini: «La nave verrà rimessa in asse e spostata entro settembre, salvo problemi di maltempo e mareggiate» la frase incriminata. A questo proposito è intervenuta la responsabile dell’ufficio stampa della Protezione Civile Francesca Maffini, a sottolineare degli aspetti potenzialmente mal interpretabili: «Innanzitutto dal punto di vista economico - spiega - il Ministero dell’Ambiente ha anticipato 5 milioni di euro per consentire un abbattimento dei tempi. Nel dettaglio, questa somma verrà restituita per intero dalla società armatrice che ha già usato un milione per effettuare gli studi scientifici sia sulla rimozione che sul ripristino dei fondali. Agendo secondo la prassi, avremmo dovuto indire una gara europea con uno slittamento lunghissimo per l’aggiudicazione. Invece è stata la stessa Carnival, proprietaria del gruppo Costa Crociere, a scegliere la ditta specializzata e si è partito immediatamente con il recupero, previo nostro benestare. La stessa Costa inoltre si sta occupando delle spese straordinarie. Tra loro e gli uffici governativi si è instaurata un’ottima sinergia».
Nel dettaglio, gli studi preventivi già effettuati: «Sono state usate delle tecnologie avanzatissime prosegue la Maffini - con la creazione di algoritmi e modelli matematici al fine di avere delle simulazioni il più verosimili possibili. Un’altra difficoltà è stata quella di non avere riferimenti nel passato: è la prima volta che accade un evento simile». Sul fronte dei lavori, specie per quanto attiene alla solidità dei fondali, si è a buon punto: «La palificata è già stata costruita a novembre, anche se i tecnici non si aspettavano di trovare dei vuoti nella roccia che hanno fatto sorgere problemi di stabilità alla Concordia. Dopo aver corretto qualche calcolo, adesso si sta procedendo affinché vengano riempiti anche questi». Infine l’ultimo passaggio, quello
Per la Protezione Civile “gli studi effettuati hanno scampato il rischio-contrattempi Nemmeno il maltempo impedirà il rimorchio entro settembre della nave naufragata” del rimorchio: «Dai 30 ai 45 giorni di stop ai lavori sono stati preventivati per via del maltempo ma questo non costringerà ad una diluizione dei tempi. In una data compresa fra luglio e settembre del 2013 la nave verrà rimessa in asse - conclude Francesca Maffini - e rimorchiata in porto per il disarmo». ALESSIO VALLERGA
segue dalla prima
Arriva l’apocalisse
(...) Perché, con le dovute proporzioni, nei guai fino al collo ci stiamo tutti e la rabbia si diffonde in modo assolutamente democratico: senza distinzione di classe, ceto, reddito. Ma, d’altronde, come si fa a rimanere calmi con gli scandali che travolgono l’Italia da nord a sud, i partiti che si disfano, le faide interne, le scaramucce tra rappresentanti del vecchio establishment - incollati alla propria inutile superbia - e giovani rampanti non sempre sufficientemente concreti, per non parlare dei terzi incomodi che festeggiano la vittoria di Chavez sperando di riportare indietro le lancette della storia di un paio di secoli? Come si fa a non scoraggiarsi di fronte ad una politica che continua a non vedere oltre il proprio naso, isterica tra le pastoie di una legge elettorale che non si sa se riuscirà mai a partorire, e il fuggi fuggi generale di chi, in vista delle elezioni, smania per lasciare incarichi subalterni e puntare dritto al Parlamento? È in questo quadro generale che il governo si riunisce fino a notte tarda per varare una serie di provvedimenti. Per la crescita, pensano tutti. Sbagliato. Spiccano, tra le decisioni prese, il taglio di un punto percentuale dell’Irpef per i redditi fino a 28mila euro, l’aumento dell’Iva a partire dal prossi-
mo luglio, e i tagli della nuova spending review: 600mila euro nel settore sanità e l’operazione “cieli bui”. Quest’ultima, in particolare, sembra un effettivo incentivo agli unici settori che non soffrono la crisi: criminalità e psicoanalisi. Più oscurità per tutti. Anche la minaccia di un ulteriore taglio alla sanità, già duramente colpita dalla vecchia “spending review”, dà da tremare. Essendo arcinoto che il buco nero del settore è determinato dagli sprechi e dalla malagestione, sarebbe forse opportuno concentrarsi sulla trasparenza della spesa e il controllo della dirigenza, o altrimenti farsi una passeggiata per i reparti e parlare con qualche capoinfermiere. Per scoprire che ogni singola benda viene protetta sottochiave per evitare che finisca in un altro reparto in cui mancano perché “rubate” da un altro reparto ancora e così via. Le fasce come qualsiasi altra cosa. Spariscono persino le fotografie, quelle che testimoniano il percorso di guarigione, magari, di una ferita da decubito o da diabete e che vengono usate a scopo didattico. E l’Iva? Compensata dal taglio dell’Irpef? Nemmeno per idea. Perché l’aumento dell’Iva si cumula. Non solo all’aumento di un punto percentuale già effettuato dal governo Monti all’inizio del mandato, ma ai rincari consequenziali determinati in ogni singolo settore. Col risultato che il
prezzo del prodotto finale e’ fissato dall’insieme del cumulo dell’aumento della benzina, dell’elettricità, del trasporto, delle materie prime, ecc. Con tutto ciò che ne deriva in termini di produttività, occupazione, reddito. Una rovina. Ma, per tirarmi su, posso sempre ricordare a me stessa che c’è la concreta possibilità che fra un paio di mesi l’Iran abbia messo a punto la bomba atomica, e che tutti questi problemi si trasformeranno, improvvisamente, in chiacchiere da cortile, oppure posso decidere di mettermi a lavorare e andare a caccia del distacco professionale. VALENTINA MELIADÒ
Editoria in rosso
(...) La Repubblica di Ezio Mauro risale a 357.811 copie vendute, rappresentate da 340.039 di vendite in edicola (più del Corsera), da 13.556 di canali diversi e da 4.276 abbonati. Niente sorpasso,quindi, sul rivale. La forbice tra i due principali quotidiani italiani resta a vantaggio di Milano. Al terzo posto troviamo il giornale economico della Confindustria ora diretto da Roberto Napoletano che ha toccato a novembre la cifra di 250.556 copie vendute. SERGIO MENICUCCI
Organo del movimento delle Libertà per le garanzie e i Diritti Civili Registrazione al Tribunale di Roma n. 8/96 del 17/01/’96
Direttore Responsabile: ARTURO DIACONALE diaconale@opinione.it Condirettore: GIANPAOLO PILLITTERI Vice Direttore: ANDREA MANCIA AMICI DE L’OPINIONE soc. coop. Presidente ARTURO DIACONALE Vice Presidente GIANPAOLO PILLITTERI Impresa beneficiaria per questa testata dei contributi di cui alla legge n. 250/1990 e successive modifiche e integrazioni.
IMPRESA ISCRITTA AL ROC N. 8094 Sede di Roma VIA DEL CORSO 117, 00186 ROMA TEL 06.6954901 / FAX 06.69549024 redazione@opinione.it Amministrazione - Abbonamenti TEL 06.69549037 / amministrazione@opinione.it Ufficio Diffusione TEL 02.6570040 / FAX 02.6570279 Progetto Grafico: EMILIO GIOVIO Tipografia L’OPINIONE S.P.A. - VIA DEL CORSO 117, 00186 ROMA Centro Stampa edizioni teletrasmesse POLIGRAFICO SANNIO S.R.L. - ORICOLA (AQ) TEL 0863.997451 / 06.55261737 Distributore Nazionale PRESS-DI DISTRIBUZIONE STAMPA E MEDIA S.R.L. VIA CASSANESE 224, 20090 SEGRATE (MI) Concessionaria esclusiva per la pubblicità SISTECO S.P.A. - VIA DEL CORSO 117, 00186 ROMA TEL 06.6954901 / FAX 06.69549024 pubblicita@sisteco.it CHIUSO IN REDAZIONE CENTRALE ALLE ORE 19,00
DOMENICA 20 GENNAIO 2013
IIPOLITICAII
L’OPINIONE delle Libertà
3
Simboli politici, branding in un vuoto di significati di STEFANO CECE
S
econdo il filosofo Hegel “il simbolo è più o meno il contenuto che esso esprime come simbolo”. Quel “più o meno” è diventato quanto mai d’attualità se circoscritto ai simboli e loghi che contraddististinguono i partiti politici della Seconda e Terza Repubblica, dall’avvento del partito-azienda di Berlusconi, Forza Italia, che già dal manifesto evocava non certo una tradizione storica consolidata ma un qualcosa di più simile allo stemma di una squadra di calcio. Ci sono partiti che hanno preferito mantenere nell’old style una riconoscibilità che non evaporasse nel tempo, come la foglia d’edera del Partito repubblicano o il sole che sorge dei socialdemocratici, altri hanno adottato tecniche di stilizzazione più adatte ai tempi moderni senza disconoscere il “disegno” iniziale. Ciò che salta all’occhio nel significato sempre più rarefatto se non ambiguo dei simboli politici è la dimensione pubblicitaria e propagandistica che hanno assunto dal ‘94 ad oggi. Più sigle dunque, più nomi (e cognomi) in l(u)ogo al posto dei simboli. Si è passati da simboli storici come la falce e martello del Partito comunista, a ricordare le lotte della classe operaia, per arrivare alle querce con il simbolo, agli ulivi senza simbolo, e infine all’acronimo: Pd. Va detto che partiti della sinistra più radicale, due per tutti come
Rifondazione e Pdci, non hanno voluto rinunciare alla falce e martello mantenendo quindi un ideale filo nostalgico con il passato. Slegati da un rapporto diretto con sentimenti collettivi e individuali, colpa soprattutto della perdita di emozioni e passioni politiche, i simboli politici si sono via via ridotti a segni grafici, sigle, se
non a veri e proprio messaggi pubblicitari. Nella vasta galassia dei partiti, il simbolo più accattivante dal punto di vista grafico nonché identitario sembra essere quello della Lega nord (il leggendario cavaliere Alberto da Giussano), per il resto è una lunga lista di simboli incolori e vuoti che poco hanno
da trasmettere in termini di linguaggio e suggestioni. Si va dall’arcinoto logo del Popolo della libertà nel quale campeggia lo stampatello “Berlusconi” ai Fratelli d’Italia di Crosetto e Meloni, fino ai Moderati in rivoluzione di Samorì, passando per la scelta civica con Monti. Quattro partiti che, seppure per certi versi
distanti fra loro, non si discostano molto per scelta grafica. Il nastrino tricolore è un must replicato più volte. Il Movimento cinque stelle ha giocato tra nome e simbolo inserendo 5 stelline sul logo. Si lavora per sintesi, per sottrazione, per abbreviazione, fino ad arrivare all’approssimazione. va detto che per la loro natura i simboli servono per affermare, testimoniare, essere. C’è un’attenzione molto pragmatica in questa fase del nuovo millennio nella realizzazione dei simboli politici. Un vuoto di immagini ben diverso per esempio da segni come la falce e martello, il sole nascente o lo sudo crociato, intrisi di significati (classe lavoratrice, avvenire, fede). Esiste una difficoltà tutta interna ai partiti nell’elaborare i propri simboli e nel comunicare significati propri fatti veicolare dalle immagini. Una vecchia professoressa di liceo sosteneva che a New York i nomi delle strade non hanno nomi ma numeri in quanto la storia americana è troppo breve per riempire la toponomastica della grande mela di personaggi celebri. Se manca la cultura politica l’impoverimento corrode anche la simbologia. E allora il branding diventa sottocultura incapace di esprimersi semanticamente. Mancando le motivazioni ideali in grado di trasformarsi in emblemi, si utilizza il più banale dei segni grafici per rappresentare un movimento vuoto. O un vuoto di significato.
Casillo: il candidato ideale contro certe toghe rosse di RUGGIERO CAPONE
«P
residente Berlusconi, dica a Pier Ferdinando Casini, dato che si dice cattolico: memento homo! Visto l’atteggiamento ostile che l’onorevole Casini ha assunto nei Suoi personali confronti, gli ricordi ciò che accadde la mattina dell’8 febbraio 1994, ultimo giorno utile per l’apparentamento delle liste delle famose elezioni che La videro entrare nell’orbita politica. Lei accettò che Mastella, Casini e D’Onofrio rientrassero in gioco (precedentemente rifiutati per la pretesa di avere ministero del Lavoro e Istruzione) solo per le pressioni che Le feci prima mediante Domenico Mennitti, mio ex direttore del “Roma”, poi attraverso Adriano Galliani e, infine, per l’intervento risolutivo di Marcello Dell’Utri alle 7:30, mentre la pietosa delegazione dei mendicanti avevano preso comunque l’aereo verso Milano, speranzosi in un miracoloso ultimo mio intervento presso di Lei. Ricordi a Casini che li fece prelevare in extremis all’aeroporto di Linate con una vostra macchina. Rammenti anche a Casini che intervenni dopo le ossessive e continue telefonate del giorno precedente continuate al mattino dell’onorevole Mastella, il quale mi riferì che in macchina (in taxi verso Fiumicino) con lui c’era anche Casini e D’Onofrio. Peccato, che non esistano tracce registrate! Eppure,
essendo il sottoscritto, già dall’anno precedente, nel mirino dell’Antimafia di Napoli e, di lì a poco arrestato, mercoledì 21 aprile ’94, mi fa meraviglia che un “camorrista” della mio livello, e, a dire degli inquirenti, socio in malaffari di Alfieri e Galasso, non avesse il telefono sotto controllo! Di tutto questo, me ne se sono lamentato anche in un pubblico processo. Le pare verosimile? O non, piuttosto, che sia stato tutto messo a tacere? Poiché, delle due una: o il mio telefono non era sotto controllo, e sarebbe roba da inetti oppure è stato tutto dolosamente insabbiato. Le scrivo questo solo per ricordare a Lei chi ero, a Casini la sua ingratitudine (senza di Lei, politicamente, sarebbe già defunto) e allo Stato... qualche ridicola inadempienza! Saluti. Roma, 17 gennaio 2013, Pasquale Casillo». Questo il contenuto della missiva che Pasquale Casillo (all’epoca imprenditore agroalimentare di rilievo mondiale, editore del quotidiano Roma e proprietario di club calcistici) ha inviato a Silvio Berlusconi. «Attualmente ho la fedina penale integra! - precisa Casillo Sono stato assolto, dopo ben 13 anni, su richiesta della stessa Procura che mi aveva arrestato, sequestrato l’intero patrimonio e conseguentemente fatto fallire tutte le aziende del mio Gruppo (56 aziende in tutto il mondo) che all’epoca fatturavano ben
2.000 miliardi, a causa di un amministratore giudiziario (il mio Bondi) la cui segretaria era una “segreteria telefonica”. Questo signore da me denunciato, e da ben quattro anni attendo un Ctu dalla procura di Napoli». Le persecuzioni giudiziarie nei riguardi di Pasquale Casillo sono durate 29 anni (iniziavano nel 1984). Ma l’imprenditore è poi risultato assolto in tutti i processi. Dopo decine di assoluzioni nessun giornale ha mai provveduto a riabilitare l’uomo dinnanzi all’opinione pubblica. Casillo ci rammenta i due casi più recenti in ordine di tempo. «Il fallimento della società capogruppo - spiega Casillo - la Casillo Grani snc, per una presunta accusa di bancarotta fraudolenta aggravata (un caso simile a Cirio e Parmalat che si consumava 10 anni prima) che si sarebbe prescritta dopo 18 anni e 6 mesi, ma che a 17 anni, guardo un po’! - rimarca l’imprenditore - essendo ancora allo stato indiziario (solo iscritta al modello 21) quindi senza neppure aver fatto un’udienza o un interrogatorio, è stata archiviata (12 marzo 2012) con motivazione “il fatto non sussiste”. È più grave assolvere col fatto non sussiste o che oggi comunque si sarebbe prescritta senza iniziare. Si sarebbe prescritta a febbraio 2013, non penso esista caso simile in Europa». L’episodio che ancora turba
Pasquale Casillo è come sia stato costruito in suo danno il processo per “concorso in associazione camorristica”. «Processo per concorso in associazione camorristica - ci ripete Casillo con tono indignato - dopo quasi 13 anni unico imputato… in quaranta minuti (di cui 10 di camera di consiglio), senza contraddittorio dei pentiti, senza i testi di accusa e di difesa (ho rinunciato ai mie 70 testi): sono stato assolto con formula piena su richiesta della Procura. Non ho avuto il piacere di avere come testi d’accusa né il capo dei Ros di allora né quello della Dia, eppure avevano firmato i verbali. E pensare che i signori dell’antimafia avevano confuso l’ambasciatore Usa Peter Secchia con un camorrista...». Pasquale Casillo è ancora una persona solare, sorridente, alla mano. La persecuzione non ha nemmeno scalfito il suo carattere mite, pacioso. «Era un vero amico del calcio!», ci rammentava un signore incontrato in un bar di Foggia. Fu Casillo ad ingaggiare Zdenek Zeman per il Foggia calcio scivolato in C1: Casillo contribuiva di fatto alla costruzione d’una città per allenare i giovani, i giornali l’appellarono subito “Zemanlandia”, intanto svettava il “Foggia dei miracoli”. Così Zeman, dopo una stagione alla guida del Messina, non resisteva al nuovo ingaggio di Ca-
sillo, sempre nel Foggia, neopromosso in Serie B. Nel 1989 al “Foggia dei miracoli” fa solo ombra la Foggia che scende di tre punti nelle statistiche della disoccupazione, grazie alle assunzioni nella Casillo grani. 1993-1994, ultima stagione prima dell’addio di Zeman, il Foggia sfiora l’ingresso in Coppa Uefa, sconfitto (0-1) da un Napoli all’ultima giornata di campionato. Nonostante la persecuzione giudiziaria, Casillo non abbandona il campo. Nella stagione 2003-2004 all’Avellino calcio, Zeman ritrova il presidente Pasquale Casillo. Ed arriviamo al 20 luglio 2010, quando la famiglia dell’ormai storico presidente degli anni della ribalta (Pasquale Casillo) riacquista ufficialmente il Foggia, e naturalmente richiama come allenatore Zeman. «Il Foggia dei miracoli è tornato», urlano i tifosi per strada. Ma dopo aver continuato a pensare in grande, con l’approvazione di un accordo di programma per realizzare un nuovo stadio comunale e 1000 appartamenti a Foggia, la lobby dei costruttori mette in piedi mille paletti per far abortire il sogno. Oggi chi restituirà i posti di lavoro nella Casillo grani? Soprattutto chi risarcirà la famiglia Casillo di quasi 30 anni di malagiustizia? Oggi Foggia è l’ultima città d’Italia per Pil, ai tempi della Casillo grani se la batteva con le ridenti cittadine del centro-nord.
4
L’OPINIONE delle Libertà
DOMENICA 20 GENNAIO 2013
IIECONOMIAII
Negli Usa aumenta il debito, l’Europa è al bivio di MARIO LETTIERI e PAOLO RAIMONDI
L’
accordo di capodanno per scongiurare che il fantomatico fiscal cliff potesse portare a uno choc fiscale, alla recessione e al blocco del bilancio dello stato federale Usa, non è una vittoria della stabilità. Dovrebbe invece essere considerato un rischio ulteriore di instabilità per il resto del mondo, in primis per l’Europa. L’evento ha una valenza tutta americana, molto importante per i giochi di potere interni. Sancisce però una politica complessivamente fallimentare, sia dei democratici che dei repubblicani, nella gestione della finanza. Si sono trovati i 600 miliardi di dollari necessari per evitare, almeno sulla carta, che alcune spese per il welfare vengano automaticamente bloccate e alcune agevolazioni fiscali siano cancellate. In realtà l’accordo partorisce un aumento del debito per ben 4.000 miliardi di dollari nel prossimo decennio. La stima non è fornita da una qualche fucina ideologica neoliberista anti Obama, bensì dal prestigioso e indipendente Congressional Budget Office. Come noto, il Cbo è un’istituzione finanziata dal Congresso per analizzare i costi delle politiche di bilancio. Il suo direttore viene nominato congiuntamente dai presidenti della Camera e del Senato. L’attuale direttore, Douglas Elmendorf, è stato scelto nel gennaio 2009 quando entrambi i presidenti erano democratici. Il fiscal cliff quindi non è la vera emergenza finanziaria americana. Si è trattato, piuttosto, di un preparativo psicologico. Il vero pericolo che gli Usa devono affrontare è, invece, lo sfondamento del tetto del debito pubblico. A fine anno, infatti, il debito pubblico americano ha raggiunto il ceiling cioè il tetto massimo stabilito dalla legge finanziaria di bilancio che è di 16.400 miliardi di dollari, equivalente al 103% del pil. Sarebbe dovuto bastare fino al 30 settembre 2013, cioè fino alla scadenza del bilancio annuale. Ma così non sarà. Che succederà adesso? Fino a settembre, di fatto, non c’è copertura per le spese di bilancio. Il ministro del Tesoro, Tim Geithner, ha detto che il suo dicastero ha già raggiunto il limite dei prestiti possibili e ha affermato che possono trovarsi «altri mezzi per raccogliere fondi per pagare il debito» per un periodo massimo di 6-8 settimane. Al di là dei trucchetti contabili, il dato è che gli Usa sarebbero tecnicamente già in default. Una situazione simile si era già creata nell’agosto del 2011, quando il bilancio federale era stato prosciugato e mancavano i soldi per i pagamenti dei dipendenti pubblici, dei fornitori, degli assegni di disoccupazione e delle pensioni. Allora, come si ricorderà, si decise di alzare il tetto del debito pubblico di ben 2.000 miliardi di dollari. In poco più di un anno però questi fondi sono stati bruciati
Il vero pericolo degli Stati Uniti è lo sfondamento del debito pubblico che a fine anno ha raggiunto il tetto massimo stabilito dalla legge finanziaria. Il dato evidente è che gli Usa a livello tecnico sarebbero ormai in default. Già nel 2011 il bilancio federale presentava l’assenza di denaro per pagare dipendenti pubblici, fornitori e gli assegni di disoccupazione. Il vecchio continente in tale contesto è spiazzato. I governi europei si sono ingessati con il fiscal compact e gli istituti di credito sono compressi dai parametri richiesti da Basilea III. Qualcuno chiede di seguire il modello a stelle e strisce eppure questa ricetta potrebbe risultare disastrosa. L’obiettivo principale è affrontare da subito le cause della crisi globale invece che continuare a nasconderle
senza significativi effetti per l’economia americana. Certamente si è evitato l’immediato aumento della disoccupazione e della povertà ma non si è rimessa in moto l’economia. Sono mancate una vera strategia di ripresa della produzione e degli investimenti, oltre a una più giusta riforma fiscale. In sintesi, lasciando da parte le note schermaglie ideologiche, gli Usa, sia il governo Obama che il Congresso nel suo insieme, si stanno muovendo verso un ulteriore aumento del debito pubblico. In poche parole nulla di nuovo sotto il cielo, visto che la politica di crescita del debito e della liquidità è quella che da anni porta avanti la Federal Reserve di Ben Bernanke. Il suo bilancio (balance sheet) è passato da 869 miliardi del 2007 a 2.880 miliardi del 2012. Ben due terzi dei titoli del tesoro americano che arrivano sul mercato vengono comprati dalla Fed. Dopo aver deciso lo scorso settembre l’acquisto di mortgagebacked securities, quei titoli tossici legati ai mutui subprime, per 40 miliardi di dollari ogni mese, la Fed a novembre ha deciso di acquistare mensilmente 45 miliardi di dollari di bond del tesoro e di altre obbligazioni simili a lungo termine e in cambio di vendere i ben più appetibili titoli a breve scadenza in suo possesso. È un altro bel regalo al sistema bancario americano. Queste decisioni non potranno che produrre un serio allarme per l’intero sistema finanziario mondiale. I paesi emergenti lo dicono da tempo, denunciando i riverberi negativi sulle loro economie e sulle loro monete. In tale scenario l’Europa è spiazzata. In un sistema globalizzato, dove la finanza opera per vasi comunicanti, i governi europei si sono ingessati con il fiscal compact, mentre gli Usa alzano a piacere il tetto del loro debito pubblico. Tra l’altro, in un sistema bancario senza riforme, gli istituti di credito americani sono agevolati dalle politiche della Fed, mentre quelli europei sono compresse dai parametri richiesti da Basilea III. Purtroppo in Europa c’è chi irresponsabilmente chiede di fare come negli Usa. Secondo noi, invece, queste ricette sono disastrose. Non ci sono scorciatoie, né serve l’illusione psicologica di chi vuol vedere la luce alla fine del tunnel. Occorre affrontare alla radice le cause della crisi globale e rimuoverle, senza nasconderle come si continua a fare.
DOMENICA 20 GENNAIO 2013
di MARCO RESPINTI
G
li statunitensi sono rigidamente monolingui. Non parlano, non comprendono, non scrivono lingue straniere. I pochi che lo fanno, sono indicati a dito come li circondasse un’aura dorata e loro stessi si sentono degli intellettuali sofisticati. Del resto, quando un americano maneggia una lingua straniera di solito si tratta del latino o del greco classico. E l’italiano serve solo a qualcuno per leggere direttamente Dante. Hanno ereditato praticamente tutto dai loro progenitori britannici, e ciò gli basta. Gli italiani, invece, l’inglese lo parlano tutti, per lo più da cani, e infatti normalmente non se ne fanno nulla. Tradotto in politica (sulla tristezza degli scambi culturali stendiamo un velo pietoso), ciò significa che normalmente gli americani non sanno niente delle nostre vicende, e che quel poco che sanno è solo quanto smozzicano in tre frasi i corrispondenti esteri, che però sarebbe come pensare che Giovanna Botteri è un’autorità sugli Stati Uniti. Gli italiani, invece, pensano di sapere tutto di Oltreoceano solo perché conoscono il ritornello di qualche loro canzonetta. Nel mezzo, la vera politica sia dell’Italia sia degli Stati Uniti prosegue imperturbabile il proprio corso, e pochi sanno cosa davvero ciò comporti. La settimana scorsa il Sentore repubblicano del Kentucky Rand Paul ha compiuto un viaggio in Israele. Negli Stati Uniti è stata la notizia del giorno per giorni, un viaggio seguito in presa diretta passo dopo passo mentre da noi nessuno se n’è accorto. Giusto, dirà qualcuno, mene interne che non c’interessano. Sbagliato invece. Rand Paul, per chi non lo ricordasse, cioè i più, è stato nel 2010 una delle punte di diamante politiche dei Tea Party, un beniamino del loro popolo, un artefice del loro successo alla Camera dei deputati nelle elezioni di “medio termine” di quell’anno. Rand Paul è un nemico giurato degli scialacqui pubblici, delle tasse esagerate, delle elefantiasi statalistiche, insomma è un libertarian tetragono. Eletto alla Camera, è stato subito protagonista del “Tea Party Cau-
IIESTERIII
L’OPINIONE delle Libertà
Rand Paul visita Israele guardando alla Casa Bianca Da coerente libertario, il Senatore repubblicano, figlio di Ron Paul, è anch’egli un isolazionista convinto. Una posizione politica scomoda che, nel negare aiuti allo Stato ebraico, può esporsi ad accuse antisemitismo. Rand Paul, proprio per fugare ogni dubbio, si è recato in visita in Israele, dove ha rilasciato numerose dichiarazioni per ribadire l’alleanza storica fra Washington e Gerusalemme. Il giovane Paul deve riuscire a conciliare il libertarismo con il conservatorismo, se vuol contribuire a rifondare su basi più solide il Partito Repubblicano. E se vuole, lui stesso, mirare alla Casa Bianca
cus” dentro quell’assise, ovvero la “commissione” informale di eletti proveniente dai Tea Party e decisi a rappresentarne senza compromessi le istanze dentro il Congresso. La crescita di Rand Paul è stata magari lenta, ma continua, concreta, sensibile. Rand Paul è inoltre, notoriamente, figlio di Ron Paul, l’ultrà libertarian che all’età di 77 anni ha corso nel 2012 l’ultima sua campagna presidenziale totalizzando un successo di gradimento pubblico mai conosciuto prima. I due Paul, Rand figlio e Ron padre, da buoni libertarian, si portano dietro anche un bel bagaglio “isolazionista”. Aborrono le imprese militari all’estero, le spese per la Difesa che crescono vorticosamente, la perdita di libertà concreta per i cittadini che uno Stato gendarme comporta sempre. Ron Paul ha cercato la nomination repubblicana e così ha guadagnato numeri enormi, segno evidente che è assai meno marziano di quanto certuni vorrebbero dipingerlo. Così configurati, Ron e Rand non sono però affatto dei pacifisti nel senso sinistro che (giustamente) attribuiamo al termine. Sono invece totalmente favorevoli, come ogni buon libertarian, al libero possesso personale di armi da fuoco, esattamente come stabilisce la Costituzione federale americana a norma di diritto naturale. Anzi, Ron Paul, in campagna elettorale, ha chiarito benissimo che un conto è la difesa legittima di un Paese, un conto l’aggressione indebita a un altro; un conto l’interesse nazionale vero, un altro quello che viene solo spacciato come tale; un conto un esercito, un altro un’armata imperialista. Infine, da buoni libertarian che credono nel diritto naturale e nella legge divina che lo fonda, Ron e Rand sono due cristiani (protestanti) convintissimi, quindi due antiabortisti irriducibili con cognizione persino biologica di causa, essendo Ron, il padre, un ginecologo prestato alla politica e Rand, il figlio, un oftalmologo professionista. Anche lui tanto prestato bene alla politica che, sull’onda del successo del padre, di cui condivide la maggior parte del programma, e forte del succes-
so personale che da due anni miete dentro il Congresso, sta forse pensando di correre per la Casa Bianca nel 2016. L’enorme interesse per il suo viaggio in Israele si spiega così. Rand Paul, in corsa per la Casa Bianca, non è infatti acqua fresca. Per molti versi, Paul jr. è un uomo capace di scompaginare schemi vecchi e logiche logore. Di far lievitare appropriatamente l’impasto fra libertarianism e conservatorismo socio-culturale; se forse non a vincere, può comunque mirare a ottenere successi condizionanti e pesanti. Hai infatti la physique du rôle per studiare da concentrato del meglio dei migliori Repubblicani apparsi di recente sulla scena, di ricapitolare e di rilanciare l’immarcescibile eredità reaganiana, nonché di portare all’ultima fase la trasformazione interna del Partito Repubblicano americano, da formazione ondivaga a squadra conservatrice. Solo che il libertarianism e l’allure “isolazionista” di uno come Rand Paul si portano dietro pure gl’immancabili sospetti di ostilità verso Israele, se non addirittura di antisemitismo. Certo tutti sanno, così come però tutti pure scordano, che antisemitismo, antigiudaismo e antisionismo sono realtà assai diverse; epperò nessuno può negare che il Novecento ha avviluppato l’una cosa dentro l’altra, rendendo alla fine l’elemento razzistico praticamente indistinguibile dalla critica di natura teologica e dalla lotta politica. Ancorché sia sempre opportuno, quindi, distinguere fra le tre diversissime cose, nessuna persona di buon senso
5
può oggi pensare di lanciarsi in una delle tre, soprattutto nella seconda e nella terza, l’antigiudaismo teologico e l’antisionismo politico, immaginando di non passare anche da antisemita razziale. Ora, tutto questo, anche solo partendo dal mero dato politico, pesa oggettivamente su Rand Paul e sulla sua possibile candidatura ai vertici politico-istituzionali del Paese nordamericano. Il primo a saperlo è proprio lui, Rand Paul. Il quale infatti sta facendo di tutto per convincere il mondo, Israele e Stati Uniti in primis, che presentarsi con un programma politico solidale con quello di suo padre Ron non significa affatto essere degli antisemiti. Antisemita non è mai stato nessuno dei due Paul, né il padre, né il figlio, e solo uno sciocco potrebbe insinuarlo, subendone però le conseguenze. Epperò il loro anti-imperialismo suona male a chi, fra gli statunitensi, fra gli ebrei americani e dentro il Partito Repubblicano, lo traduce subito e sine glossa in ostilità verso Israele. Ecco dunque il senso del pellegrinaggio alla Canossa israeliana di un Rand Paul (che però non ha nulla da farsi perdonare, solo sospetti da allontanare) con la kippah in capo. Deve convincere, non di non essere antisemita, ché nessuno lo pensa, ma di non essere ostile a Israele quando critica il ruolo degli “Usa gendarmi del mondo”, quando distingue fra interesse nazionale e avventurismo bellico, quando dice che aiutare economicamente troppo Israele e condizionarne sempre e in ogni caso la politica fa male anzitutto a Israele, Paese di cui Rand Paul non perde, né in patria né fuori, occasione per dirsi irriducibile amico e fedelissimo alleato. Non ha ancora convinto tutti, ovviamente, ma è sulla buona strada. Perché nutre prospettive di lungo termine, prepara adeguatamente le mosse, studia bene gli avversari, conosce gli amici e sa quanto può essere carogna l’informazione. Il percorso è lungo, Rand Paul ci si è appena incamminato, ma già muove adeguatamente un passo dopo l’altro. Se vince la propria scommessa, Rand Paul sarà riuscito in un numero politico-culturale che molti attendono da tempo. da “Italia Domani”
6
L’OPINIONE delle Libertà
DOMENICA 20 GENNAIO 2013
IIESTERIII
Lo status symbol americano? Mangiare all’italiana
di UMBERTO MUCCI
L
a cucina è da sempre parte importante dell’emigrazione italiana negli Stati Uniti. Partiti in condizioni di povertà per un Paese che quasi nulla sapeva di cucina italiana e che proponeva sapori e piatti completamente differenti, costretti a vivere con difficoltà insieme a connazionali spesso di diverse regioni e tradizioni culinarie, gli italiani emigrati in America volevano trovare sulle loro tavole qualcosa che ricordasse loro la buona cucina di casa. Lentamente la introdussero nella società americana, ognuno a modo suo, con gli ingredienti che si trovavano, le ricette che si ricordavano, le commistioni da accettare obtorto collo. La tavola era il nido nel quale rifugiarsi e celebrare il Nuovo Mondo ricordando le bontà di quello vecchio. Col tempo, la cucina italiana in America è divenuta un grande business: libri, tv, siti web oggi la celebrano in tutti i modi, con diversi tentativi di imitazione e di stravolgimento, più o meno consapevoli. Quasi tutti i nomi italoamericani dello star system possiedono un ristorante tricolore: da Francis Ford Coppola a Lady Gaga, da Sylvester Stallone a Robert De Niro, da Danny DeVito a Hulk Hogan. Da quando mangiare bene si traduce con il mangiare tricolore, in America si trovano migliaia di ristoranti “italiani”: non tutti potrebbero fregiarsi rigorosamente del titolo, ed è per questo che è importante preservare l’eccellenza della cucina italiana. Uno dei più importanti artefici di questo compito è Tony May, che quest’anno celebra il suo cinquantesimo anno di America. Premiato molte volte da istituzioni sia americane che italiane per il suo talento ed il suo impegno nell’imprenditoria culinaria, papà di diversi ristoranti a New York (compresi Gemelli e Pasta Break, che erano nel World Trade Center e andarono distrutti l’11 settembre del 2001, quando Tony si adoperò in prima persona per nutrire e sostenere coloro che prestarono soccorso), autore di un libro di successo
Parla Tony May, deus ex machina della cucina tricolore di Oltreoceano che in America ha fondato una serie di enti specializzati nella tutela e nella conservazione delle tradizioni mangerecce del Belpaese: «Negli anni abbiamo trovato gli strumenti per far crescere una generazione di chef italoamericani bravissimi ed osservanti delle regole. L’Italia? Al Paese spetta il compito di conservare il patrimonio della tavola senza commistioni o intromissioni a stelle e strisce, dirette emanzioni dalla globalizzazione»
dal titolo “Italian Cuisine: Basic Cooking Techniques”, Tony May è a tutti gli effetti un ambasciatore della cucina italiana negli Usa. Un perfetto ponte di collegamento fra Italia e Stati Uniti. Mister May, lei è il proprietario di uno dei migliori e più famosi ristoranti italiani di New York, il SD26, dove le istituzioni Italiane invitarono il presidente Napolitano in visita ufficiale a gustare quanto bene si mangiasse italiano anche nella Grande Mela. Qual è la chiavfe del suo successo come imprenditore, e quale pensa che sia il suo contributo al miglioramento della percezione della cucina italiana in America? Quando sono arrivato in America nel 1963 ho trovato un tipo di cucina che non riconoscevo e, talvolta, una lingua che non capivo. La cucina italiana era ancora conosciuta come “eyetalian”, il cibo del massimo comfort definito “buono, abbondante e a buon mercato”. Ho promesso a me stesso di fare qualcosa a tal riguardo. Così nel 1979 ho fondato il Gruppo Ristoratori Italiani, che ancora oggi presiedo. Nel 1984 con il Gri ho istituito il Catherine De Medici Restaurant presso il Culinary Institute of America, mentre nel 1991 ho dato vita all’Italian Culinary Institute for Foreign Professionals in Piemonte. Durante la mia permanenza nel board del Culinary Institute of America a Hyde Park a NY, la scuola ha costituito il Colavita Center for Italian food and wine, nel 2001. Infine, nel 2004 ho fondato la Italian Culinary Foundation, per realizzare programmi di insegnamento nelle istituzioni culinarie di tutta l’America. Credo che il modo migliore per cambiare la vecchia percezione della cucina italiana sia l’istruzione: è per questo che ho creato le istituzioni incoraggiando programmi per la nuova generazione di professionisti. Quali sono la storia e l’obiettivo del Gruppo Ristoratori Italiani - Leading Italian Restaurants in America, e come agisce? Il Gri è un’associazione senza fini di lucro costituita nel 1979 da un piccolo gruppo di influenti ri-
storatori italiani per ottenere una migliore comprensione della cucina Italiana, del nostro cibo e del nostro vino. Nel corso degli anni, il Gri è cresciuto molto ed oggi siamo l’unica associazione di ristoratori dedicata a preservare il dono della cucina Italiana qui, e una delle associazioni culinarie più rispettati nel settore alimentare americano. Nel corso degli anni abbiamo raggiunto diversi risultati. Abbiamo fondato il Gri/Giacomo Bologna Scholarship che fornisce agli studenti meritevoli periodi di studio avanzato nell’arte culinaria in Italia ogni anno. Inoltre, ogni anno organizziamo un viaggio in una regione italiana per educare i nostri membri e parte della stampa specializzata americana circa una diversa cucina regionale italiana, i suoi prodotti e la cultura che ne garantisce la tradizione ed il gusto. Abbiamo creato e sosteniamo il programma di studio sulla cucina italiana presso il Culinary Institute of America. Abbiamo anche testimoniato davanti al Congresso per conto dei produttori di pasta italiana per la lotta contro i dazi doganali sull’importazione del prodotto negli Usa. Quanto difficile è stato ed è ancora oggi, spiegare e mostrare al popolo americano la vera cucina italiana? L’America si è innamorata facilmente di una cucina italiana facile da preparare a casa, conveniente e molto gustosa. Col passare degli anni la cucina si è evoluta con l’arrivo di nuovi immigrati, che hanno portato nuove idee, nuovi prodotti e hanno iniziato ad usare i forni a legna. Gli americani hanno così imparato a conoscere la focaccia, la mozzarella di bufala, la bottarga, il tartufo bianco e molti altri meravigliosi prodotti italiani, ma soprattutto hanno scoperto l’olio extra vergine di oliva: in pratica hanno potuto apprezzare che la cucina italiana è più in linea con i valori nutrizionali di un consumatore moderno che vuole mangiare bene, magro, gustoso e sano. Sulla base di questi principi il consumatore americano ha fatto della cucina italiana quella
più popolare in America. Gli anni ‘70 e primi anni ‘80 hanno visto anche l’arrivo di una nuova ondata italiana di chef e di operatori del settore: imprenditori come Aldo Bozzi, Pino Luongo, Mauro Vincenti, Piero Selvaggio, Roberto Ruggeri, Francesco Antonucci, Lidia Bastianich e chef come Valentino Marcattilii, Pierangelo Cornaro, Angelo Paracucchi, Andreas Hellrigl, Adriano Zanotti, Sandro Fioriti, Sergio Mei. Questi nuovi grandi professionisti hanno sostituito i loro predecessori: insieme con autori come Marcella Hazan, Giuliano Bugialli e altri, hanno contribuito ad informare gli americani sul cibo italiano, avviando e implementando con successo il processo di miglioramento della percezione dei consumatori statunitensi. Questi innovatori hanno anche creato tanta curiosità nelle nuove generazioni, affascinate da questo stile diverso, dalla ricchezza degli ingredienti, dal gusto rinnovato di una cucina che pensavano di conoscere: questo ha portato molti giovani a viaggiare in Italia, per conoscere i diversi gusti e le mille sfumature della cucina italiana contemporanea. ed oggi sono usciti i talenti: Paul Bartolotta, Andrew Carmellini, Michael White, Mario Batali, Tom Colicchio, Scott Conant, Michael Lo Monaco, Carl Portale, Danny Mayer. Siamo impegnati a dimostrare agli americani che la cucina italiana si è evoluta: oggi gli italiani utilizzano soprattutto l’olio di oliva per cuocere, l’aglio è usato con parsimonia, il cibo è cotto molto meno per mantenere i sapori, le porzioni sono molto più piccole e in linea con uno stile di vita più rilassato. Inoltre ci si preoccupa di più anche di come il cibo viene presentato. Diciamo tutti i giorni ai nostri clienti che gli italiani utilizzano prodotti di qualità: è questo l’ingrediente più importante necessario per cucinare italiano. Che cosa può fare l’Italia per aiutare di più a promuovere la vera buona cucina italiana, per migliorare ciò che già è stato fatto? L’Italia può aiutarci mantenendo la sua autenticità in cucina. Identificare e riconoscere l’autenticità richiede tempo, studio, interesse, curiosità e la comprensione della gente e della loro cultura: una cultura che considera quello della tavola uno dei piaceri più importanti della vita. La stampa americana non è probabilmente disposta ad impiegare tempo ed energie per studiare l’autenticità: noi italiani, invece, ci teniamo e ci preoccupiamo perché non vogliamo che la cucina italiana venga “americanizzata” e per questo rischi di perdere il suo gusto. In un mondo in rapida evoluzione dove tutto è globale, abbiamo bisogno di mantenere identità e cultura. Se l’Italia lo farà, certamente ci aiuterà a fare la nostra parte qui in America. Immagini di parlare con un giovane imprenditore italiano di talento, che vuole venire negli Stati Uniti aprendo un ristorante suo. Che consiglio gli darebbe? Si tratta di un Paese diverso, con una mentalità diversa, e un modo diverso di condurre gli affari. C’è ancora spazio per le persone giuste disposte a lavorare sodo ma devono darsi il tempo di conoscere gli Stati Uniti, il loro popolo e il loro ambiente di business. Poi si può cucinare e conquistare.
DOMENICA 20 GENNAIO 2013
IICULTURAII
L’OPINIONE delle Libertà
7
Django Unchained, il grande ritorno di Tarantino di DIMITRI BUFFA
D
ue attori premi Oscar per un western B movie. A propria volta remake riveduto e scorretto di un noto prodotto italiano degli anni ’70 con Franco Nero (che fra l’altro vi recita anche una parte) cioè “Django”. Quentin Tarantino non finisce mai di stupirci e di dilettarci con le proprie trovate pulp moralistiche e stavolta, dopo avere combattuto il nazismo riscrivendo la storia in “Bastardi senza gloria”, ricrea pure l’epopea del West e le sue atmosfere infilandoci “un negro” anti schiavista, Jamie Foxx, come protagonista. Con buona pace del finto politically correct di Spike Lee che era finito sulle prime pagine per via di quelle censure alla parola “nigger” troppe volte fatta pronunciare agli attori da Tarantino nel film. Come se negli Stati Uniti del 1860 qualcuno usasse nel linguaggio l’espressione “di colore”. Magari Spike Lee avrebbe preferito “diversamente bianco”, in quello che può anche essere giudicato come un inconsapevole razzismo alla rovescia. Ma tant’è. La trama di questo B western, pieno di battute e di azione e da vedere assolutamente in lingua originale, è ambientata nel Sud degli Stati Uniti due anni prima dello scoppio della Guerra Civile. Jamie Foxx nel ruolo di Django impersona uno schiavo la cui brutale storia con il suo ex padrone, da cui tenta di fuggire (ma viene ripreso), lo conduce al fatale incontro con il dentista pistolero King Schultz (anche lui premio Oscar, Christoph Waltz). Un cacciatore di taglie di origine tedesca. Schultz lo riscatta dopo avere ucciso chi stava riportando Django dal suo schiavista. E lo assolda come vice: la prima impresa li vede sulle tracce dei fratelli Brittle, noti assassini, e l’aiuto di Django sarà decisivo per ucciderli e riscuotere la taglia che pende sulle loro teste. Schultz aveva assoldato Django con la promessa di donargli la libertà una volta catturati i Brittle – vivi o morti. Ma il successo dell’operazione induce Schultz a tenersi come vice il “negro” appena reso libero dalla schiavitù. Anzi Schultz sceglie di partire alla ricerca dei criminali più ricercati del Sud con Django al suo fianco. E a ogni cittadella in cui arrivano a cavallo creano scandalo e scalpore: negli stati del sud dell’epoca anche andare a cavallo era proibito agli uomini di colore, o “negri” che dir si voglia. Affinando le vitali abilità di cacciatore, Django resta concentrato su un solo obiettivo: trovare e salvare Broomhilda (Kerry Washington), la moglie che aveva perso tempo prima, dopo che era stata venduta come schiava. La loro ricerca li conduce infine da Calvin Candie (il candidato all’Oscar Leonardo Di Caprio), proprietario del “Candyland”, una famigerata piantagione. Esplorando la proprietà e accampando scuse, Django e Schultz suscitano i sospetti di Stephen (il candidato all’Oscar Samuel L. Jackson), lo schiavo di fiducia di Candie. Le loro intenzioni vengono smascherate e un’infida macchinazione si abbatte sulle loro teste. Django e Schultz intendono fuggire con Broomhilda, ma le cose
Quentin Tarantino non finisce mai di stupirci con le proprie trovate pulp moralistiche e stavolta, dopo avere combattuto il nazismo riscrivendo la storia in “Bastardi senza gloria”, ricrea pure l’epopea del West e le sue atmosfere infilandoci un “negro” anti schiavista, Jamie Foxx, come protagonista. Con buona pace del finto politically correct di Spike Lee. La trama di questo B western, pieno di battute e di azione e da vedere assolutamente in lingua originale, è ambientata nel Sud degli Stati Uniti due anni prima dello scoppio della Guerra Civile. «Amo il western», dice Tarantino, «ma siccome ho sempre preferito gli “spaghetti western” ho pensato che se mai ne avessi fatto uno, sarebbe dovuto assomigliare a quelli di Sergio Corbucci». Il risultato sono due ore e mezza di divertimento assicurato da non perdere assolutamente
non andranno secondo i canoni del lieto fine e naturalmente Tarantino metterà un’incredibile scena di pluri mattanza finale. La trama però, come l’ambientazione, è solo un artificio narrativo del regista per spiegare al volgo la sua “weltanschauung”, che è definibile come “pulp positivista”. Alla fine i buoni vincono ma devono sterminare una marea di cattivi usando i loro stessi metodi e soprattutto lo stesso linguaggio esistenziale e cinematografico e sacrificare qualcuno dei propri alleati per la causa. Accade in “Django unchained” come era accaduto in “Bastardi senza gloria”. E il nazismo ridicolizzato in quest’ultima pellicola sta a gli occhi di Tarantino come lo schiavismo degli stati del Sud reso parodistico in questo riuscitissimo film. Queste connotazioni del moralismo sui generis delle ultime pellicole del regista, che recita anche una parte nel film, rendono ancora più incomprensibili le polemiche sollevate da Spike Lee. A meno di non volere credere a chi parla di “invidia del pene” cinematografico da parte del regista di “Do the right thing”, da tempo in fase creativa pre crepuscolare. Spike Lee con la polemica in questione avrebbe in realtà avuto quella ribalta e quelle prime pagine che le sue ultime fatiche in digitale o in 35 millimetri gli stanno negando. Rispetto al film, nelle note di produzione, Tarantino ricorda come “il viaggio di Django Unchained per il grande schermo” sia iniziato oltre 10 anni fa, quando lo scrittore-regista ha pensato al personaggio principale che da il nome al film. «All’origine vi era l’idea di raccontare uno schiavo che diventa un cacciatore di taglie e parte alla ricerca dei sorveglianti di schiavi che si nascondono nelle piantagioni – spiega - ed era solo quello che era, il sesto di sette schiavi che formavano una fila. Poi ha iniziato a prendere sempre più forma, man mano che andavo avanti con la sceneggiatura». Infine l’illuminazione di trasformare il western in uno spaghetti western: «Amo il genere, ma siccome ho sempre preferito gli “spaghetti western” ho pensato che se mai ne avessi fatto uno, sarebbe dovuto assomigliare a quelli di Sergio Corbucci». Il produttore Reginald Hudlin, da parte sua, concorda che il genere era «non convenzionale ma molto appropriato». «Il mutevole tono morale - spiega ridendo - gli angoli oscuri, la complessità etica di “Per un pugno di dollari” e dei film di Corbucci, sono stati di grande ispirazione per il racconto di Quentin. I suoi approfonditi studi del genere, lo hanno condotto all’ispirata idea di mescolare la narrativa sullo schiavismo con lo “spaghetti western”, contribuendo così a creare un film mai visto prima». E quello che c’è di bello in quasi ogni film di Tarantino, che si ispiri a B movies di maniera come “Pulp fiction” o a semi sconosciute pellicole cinesi come “Lady snow blood” (“Kill Bill 1 e 2”, ndr), è proprio la capacità del regista di creare un prodotto assolutamente nuovo e strabiliante maneggiando materiale di repertorio. Due ore e mezza di divertimento assicurato da non perdere per alcun motivo.