DL353/2003 (conv. in L 27/02/04 n. 46) art.1 comma 1 - DCB - Roma / Tariffa ROC Poste Italiane Spa Spedizione in Abb. postale
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Fondato nel 1847 - Anno XVIII N.11 - Euro 1,00
Martedì 15 Gennaio 2013
L’Imu di Monti fa crollare i mutui K Crolla il mercato immobiliare. E crollano anche le richieste di accensione di mutui. Secondo il Crif, istituto specializzato nello sviluppo e nella gestione di sistemi di informazioni creditizie, il 2012 è stato «l’anno nero per la domanda di credito delle famiglie». La richiesta di mutui è infatti scesa del 42% rispetto al 2011, mentre quella di prestiti è calata del 4%. I dati del Crif rivelano che dal 2008, quando ancora la congiuntura economica negativa non si era consolidata, è emersa una diminuzione complessiva del 18%. Rispetto al 2010 e al 2009 la richiesta di mutui è invece diminuita del 53%, mentre nel confronto con il 2008 la variazione è pari a -49%. Numeri che parlano di un calo spaventoso, nonostante il lieve miglioramento dei dati registrato negli ultimi mesi del 2012. Dicembre si è infatti chiuso con un calo del 27% per le richieste di mutui, confermando il trend di rallentamento degli ultimi tre mesi: dopo il -43% di settembre si è infatti registrato -40% in ottobre e 32% in novembre.
Il mezzo miracolo del Cav e il compito degli esterni N
essuno è in grado di prevedere se Silvio Berlusconi riuscirà a compiere il miracolo del recupero dei delusi del centro destra così come fece nel ‘94 e nel 2006. Può essere che ci riesca, anche se l’impresa appare estremamente difficile. Ma qualunque possa essere il risultato numerico del voto di febbraio è assolutamente certo che la coalizione di centro destra si confermerà come lo schieramento alternativo a quello del centro sinistra. Magari destinato all’opposizione (più facilmente ad una trattativa per un governo di grande coalizione finalizzato alle
di ARTURO DIACONALE
Qualunque sarà il risultato del voto è certo che la coalizione di centrodestra si confermerà come lo schieramento alternativo a quello del centro sinistra. Magari all’opposizione, ma non disperso
riforme) ma niente affatto disperso, frantumato e destinato ad essere sostituito da un’area centrista impersonificata dal tecnocrate di potere Mario Monti. Al momento, dunque, Berlusconi non ha compiuto il miracolo del recupero dei delusi. Ma ha sicuramente realizzato il mezzo miracolo della riaffermazione dello schema bipolare e della riaggregazione delle diverse componenti, fino a ieri sbandate e divise, del centro destra. A dicembre si ipotizzava che attorno a Monti si sarebbe catalizzata una galassia formata da una parte maggioritaria e scissionista del
Pdl, dalla totalità delle componenti del mondo cattolico e da gran parte delle liste civiche e delle formazioni minori dell’universo estraneo e contrapposto al mondo della sinistra. Sempre a dicembre si dava per scontato che la Lega non avrebbe fatto alleanze con i berlusconiani ridotti ormai al lumicino e che la sorte del Cavaliere sarebbe stata di accontentarsi di conservare un minipartito personale destinato ad occuoare il quarto posto nella gerarchia delle forze politiche dopo il Pd, l’area montiana e le Cinque Stelle di Beppe Grillo. Oggi, invece, non si può non
registrare che il Cavaliere ha evitato una rovinosa scissione del Pdl, recuperato il rapporto con la Lega ed costruito una alleanza elettorale con tutte quelle forze minori, dalla Destra di Storace a Fratelli d’Italia di Meloni, La Russa e Crosetto, da Grande Sud e Mpa di Miccichè e Lombardo, dal Mir di Samorì al partito dei pensionati di Fatuzzo fino alla lista di Sgarbi. Può essere che questo schieramento non compia il recupero ma può ragionevolmente puntare al pareggio ed a pesare in maniera determinante nella prossima legislatura. Continua a pagina 2
L’Italia e la politica estera della ruota di scorta L
a Francia sogna la grandeur, l’Italia paga il conto. Il fallito attentato al console italiano a Bengasi è solo l’ultima scomoda eredità del vespaio libico stuzzicato dall’interventismo di Parigi, pedissequamente avallato con la politica estera da “ruota di scorta” adottata da Roma. Era stato infatti il wannabe Napoleone del terzo millennio, Nicolas Sarkozy, a premere sull’acceleratore per un intervento militare al fine di rovesciare Gheddafi. Ma, al netto delle legittime aspirazioni democratiche del popolo libico, a fare le spese maggiori di una “guerra lampo” sulla quale ancora oggi pesano più ombre che luci (a cominciare dal
di LUCA PAUTASSO
In Mali si prospetta un bis di quanto avvenuto in Libia. Nonostante il cambio di colore all’Eliseo, infatti, François Hollande ha già mostrato di condividere col predecessore la stessa invidia del pene gaullista
presunto zampino dei servizi francesi nell’uccisione del Colonnello) è stata l’Italia. Costretta a rincorrere goffamente i cugini francesi per non vedersi soffiare manu militari uno dei più importanti partner commerciali nel Mediterraneo. Il conto per l’Italia è stato salato a cominciare dalle forze schierate. Come scritto da Leonardo Tricarico su l’Opinione, «oltre 2.300 sortite per 8.300 ore di volo. Uomini e aerei di 11 nazioni ospitati e messi in grado di operare da 5 basi nazionali. L’unica forza aerea presente in tutti i ruoli: rifornimento in volo, difesa aerea , guerra elettronica in tutte le sue forme, controaviazione offensiva
e difensiva, ricognizione, soppressione difese aeree, guerra psicologica, persino droni senza pilota. Una rete di satelliti da osservazione con capacità uniche. Uso esclusivo di munizionamento di precisione, con la distruzione del 97% degli obiettivi ingaggiati. Un ruolo crescente man mano che vari paesi ritiravano i propri assetti o esaurivano le scorte». Senza contare il reiterato impiego sul campo degli incursori del Comsubin della Marina Militare, intervenuti a fianco dei Navy Seals statunitensi, dei SAS britannici e dei legionari francesi nelle operazioni contro i mercenari fedeli a Gheddafi. Un impegno fondamentale, dunque,
senza il quale l’intera missione sarebbe andata gambe all’aria. L’Italia, però, è riuscita a rimediarne soltanto grattacapi. A cominciare dalla gestione delle ondate di disperati, di fronte a cui la la Francia non solo fece spallucce, ma addirittura chiuse le sue frontiere, in palese violazione del trattato di Shengen. Per finire con la messa in pericolo degli interessi petroliferi italiani in Libia. Il petrolio libico è (...) Continua a pagina 2
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I Radicali non ci stanno: «Da Zingaretti un ricatto» di DIMITRI BUFFA
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endetta tremenda vendetta. A poche ore dalla presentazione delle liste per le regionali del Lazio l’apparatcik del Pd presenta il conto ai Radicali italiani per l’apparentamento: «Tenete fuori Rocco Berardo e Giuseppe Rossodivita». Ufficialmente in nome del rinnovamento e dell’auto rottamazione, imposta dalla base al Pd. In realtà come punizione per avere scoperchiato il vaso di Pandora dei finanziamenti ai gruppi dentro al Consiglio regionale. E per lo sbugiardamento dell’ex classe dirigente del Pd in Regione, che in seno al consiglio di presidenza per anni ha votato insieme ai vari Fiorito e Maruccio per il conferimento di sempre maggiori introiti ai gruppi, fino a 14 milioni di euro a tornata, e tutto senza alcuna rendicontazione. «Quindi, il senso dell’operazione finta rottamazione dice l’avvocato Rossodivita a L’Opinione - è semplice: se i Radicali vogliono apparentarsi nel Lazio con il Pd devono tenere fuori chi ha scoperchiato lo scandalo». Naturalmente la reazione di Marco Pannella dai microfoni di Radio radicale non si è fatta attendere: «Vergogna Zingaretti e vergogna Smeriglio». Quest’ultimo è il cooordinatore Carneade della campagna elettorale del primo. In un comunicato il super Marco nazionale lo ha così apostrofato: «Voglio sperare che – rientrato in senno – ti vergognerai subito del comunicato-appello che mi hai oggi rivolto: assolutamente nessuna preclusione verso i Radicali. In realtà, il povero compagno Zingaretti ha subito, subisce il diktat del vertice del vostro Partito “democratico”, assumendosi così l’onore di esercitare contro di noi la smaccata
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funzione di killeraggio per conto di tutta la vostra antidemocratica corrotta e corruttrice Regione; sì da eliminarci sia a livello nazionale sia regionale. Rifiutarci l’ingresso nella vostra coalizione, con indecenti pretesti, è stata l’arma del killeraggio di cui sopra. Per quanto riguarda il rinnovamento, in sintonia con le legittime richieste dal paese, vi siete assunti l’onere di tentare – voi – di eliminare perfino le semplici candidature di Giuseppe Rossodivita e di Rocco Berardo; proprio perché – loro – hanno in modo mirabile rappresentato, perfino per l’opinione pubblica nazionale, la forza dell’alterità democratica e onesta al vostro Regime partitocratico, antidemocratico, corrotto e corruttore, che la giurisdizione europea ormai condanna clamorosamente per la sua trentennale flagranza criminale; contro i diritti umani e lo stato di diritto». Rossodivita va oltre e precisa: «Questa gaffe del Pd servirà a rilanciare la nostra lista “Amnistia giustizia e libertà” e la mia candidatura alla presidenza della Regione. Gliela faremo pagare in termini elettorali, altro che rottamazione. Prima di tutto dicendo che i cosiddetti rottamati della regione Lazio,
tramite primarie pilotate, sono stati tutti o quasi ripescati in posti di sicura elezione per Camera e Senato. Chi sa ad esempio che Bruno Astorre del famigerato ufficio di presidenza della regione Lazio (quello che ha votato sempre all’unanimità tutte le delibere di auto assegnamento di fondi ai gruppi consiliari, ndr) è quarto nella lista bloccata alla Camera?». L’operazione di maquillage con i loro, dice Rossodivita, è stata imposta dalla ribellione della sezione Trastevere del Pd, una delle più importanti di Roma, che si infuriò quando venne fuori la storia dei gruppi consiliari e del voto del Pd in seno all’ufficio di presidenza. «Ci furono riunioni con urla che venivano sentite in tutto il quartiere e molti presero la parola per dire: prendete esempio dai radicali che hanno denunciato lo scandalo..questo non ce lo potevano perdonare - dice Rossodivita - loro ci hanno messo una pezza in questa maniera, e ora chiedono la nostra testa in maniera elegante». «Se Zingaretti voleva veramente rinnovare – aggiunge Rossodivita – non avrebbe accettato tutti gli ordini di partito e avrebbe dovuto denunciare il fatto che tutto il gruppo di potere del Pd romano è stato riciclato con le primarie in posti parlamentari di sicura aggiudicazione, ma hanno fatto di più, hanno messo figliocci e portaborse degli uscenti come candidati alla Regione e invece adesso passa il concetto che ci dobbiamo auto rottamare noi radicali, come punizione per avere denunciato un accordo e un sistema di spartizione centro destra e centro sinistra che andava avanti da trenta anni ancora una volta ci stavano di mezzo tutti, tranne i Radicali».
Sfogliare i giornali diventa un’allergia I
mpietoso il confronto tra l’Italia e gli altri paesi europei sulla quantità dei lettori ogni mille abitanti. I nostri sono fermi a quota 110 con 78 giornali in edicola. Gli inglesi raggiungono quota 332 con 100 giornali, i tedeschi 311 (con la Bield Zeitung che vende 4, 5 milioni di copie al giorno), gli olandesi superano 305, i francesi 218 copie giornaliere ogni mille abitanti, gli spagnoli di poco sotto i cento e i portoghesi a 75. Fuori classifica le popolazioni del Nord Europa con i norvegesi a 593 e gli svedesi a 446, quindi a livello dei giapponesi che sono i primi lettori al mondo con 70 milioni di copie. Vediamo più in dettaglio i dati di casa nostra. I primi cinque quotidiani (Corriere della Sera, La Repubblica, Il Sole 24 ore, La Stampa, Il Messaggero) vendono 1.410.816 copie al giorno. I secondi cinque (Il Resto del Carlino, Il Giornale, La Nazione, Avvenire e Libero) altre 550.755. Aggiungendo le vendite dei quattro quotidiani sportivi (La Gazzetta dello sport, Corriere dello sport, Corriere-Stadio e Tuttosport) le copie vendute al giorno in Italia salgono di altre 619 mila. Al sesto posto si piazza il Quotidiano Resto del Carlino del gruppo Rifferser-Monti con 129.645 copie che ha una vasta penetrazione in Emilia Romagna, in una parte delle Marche e dell’Umbria. Al settimo troviamo il quotidiano diretto da Alessandro Sallusti dell’editore Paolo Berlusconi che vende 114.488 copie. All’ottavo s’inserisce l’Avvenire, il quotidiano della conferenza episcopale dei Vescovi, diffuso anche nelle parrocchie, che supera di poco le 110mila copie . Al nono c’è un altro quotidiano del gruppo Riffeser, La Nazione
con 105.852 copie che ha un bacino di lettori molto ampio a Firenze e in Toscana e parte dell’Umbria nord. Al decimo posto troviamo Libero diretto da Maurizio Belpiero che raggiunge 90.286 copie vendute al giorno, grazie alla sua linea editoriale. Se si fanno i conti in tasca dei primi 6 gruppi editoriali ( Rcs, Mondatori, Espresso-Repubblica, Sole 24 ore, Poligrafici, Caltagirone) i risultati gestionali dei primi 9 mesi del 2012 evidenziano che l’economia in forte recessione, la flessione del pil, la crescita della disoccupazione, la perdita del potere d’acquisto delle famiglie, i consumi a picco hanno influito negativamente sull’editoria. Il gruppo editoriale Rcs (presidente Angelo Provatoli, amministratore delegato Pietro Scott Jovane) ha fatto registrare 2.075 milioni di ricavi a bilancio 2011. Il peggiore risultato a causa dei dati negativi delle attività in Spagna della controllata Unitad Editorial. Lungo l’elenco dei quotidiani e dei settimanali in portafoglio ( Corsera, Gazzetta dello sport, Mondo, Europeo, Novella 200, Oggi, Sette, Dove, Amica etc). Al secondo posto si piazza il gruppo editoriale Mondadori (presidente Marina Berlusconi) che ha gettonato 1.509 milioni, più altri 64 con il Giornale (in portafoglio quote di Corsera e Gazzetta, Panorama, Sorrisi e canzoni tv, Donna, Chi, libri, Radio 101, pubblicità Piemme) Al terzo il Gruppo editoriale L’Espresso-Repubblica (presidente Carlo de Benedetti) con 890 milioni di euro ricavati nel 2011. In portafoglio Repubblica più 18 testate locali, il settimanale l’Espresso, MicroMega, Limes Radio Capital e Radio Deejay). SERGIO MENICUCCI
segue dalla prima
Il Cav miracoloso Il cemento che tiene insieme questo schieramento è sicuramente l’ostilità verso la sinistra, i tecnocrati e gli epigoni della Prima Repubblica come Casini e Fini e l’interesse a non essere spianati da un Pd dalla ritrovata vocazione egemonica. Ma questo è un cemento ottimo per le campagne elettorali ma pessimo per il dopo elezioni. Per tenere insieme le diverse componenti del centro destra ci vuole un mastice più forte e duraturo. Che può essere formato non da una semplice piattaforma programmatica, che pure è importante e va comunque definita. Ma, soprattutto dalla definizione di quei valori comuni che una volta posti a fondamento dell’edificio del nuovo centro destra posso sfidare ogni tipo di tempesta o di sommovimento. Non si può chiedere a Berlusconi di compiere anche questo miracolo. E non lo si può neppure pretendere dai professionisti della politica dei partiti del centro destra che in queste ore si battono disperatamente per la conservazione o la conquista di un posto in Parlamento e che, come hanno dimostrato negli anni passati, sono troppo presi dai propri problemi di sopravvivenza per occuparsi di idee e di valori . Il compito spetta agli altri. A quelli che ri-
manendo fuori dal Parlamento e dalla attività politica di Palazzo e di partito hanno la libertà e la possibilità di proporre, suggerire, stimolare e , soprattutto, dare voce culturale ai valori ed alle idee espressi con il loro voto dagli elettori del centro destra. Al Cavaliere ed ai politici, dunque, la battaglia elettorale. Agli esterni il compito di lanciare dopi il voto la battaglia delle idee. Questa volta senza sconti per nessuno, Berlusconi e politici in testa. ARTURO DIACONALE
Ruote di scorta (...) indispensabile alle nostre raffinerie. E il volubile governo provvisiorio di Tripoli si è già più volte dimostrato intenzionato a rivedere i vantaggiosi contratti sottoscritti a suo tempo dall’Eni con i plenipotenziari di Gheddafi. Lo zampino francese si insinuerebbe persino in un’altra pagina grigia della diplomazia italiana: quella dei due marò detenuti in India ormai da 335 giorni con l’accusa di aver uccisio due pescatori in un’operazione antipirateria. Proprio a New Delhi, Parigi e Roma hanno in ballo un braccio di ferro per la fornitura di 126 cacciabombardieri. L’India ha annunciato di aver scelto il francese Dassault Rafale, ma secondo i bene informati la
linea remissiva adottata dalla Farnesina sulla vicenda dei due fucilieri farebbe parte di un tentativo di blandire i potenziali acquirenti e convincerli a passare all’Eurofighter, del cui consorzio fa parte anche l’Italia. Retroscena a parte, ora in Mali si prospetta un bis di quanto avvenuto in Libia. Nonostante il cambio di colore all’Eliseo, infatti, François Hollande ha già mostrato di condividere con il suo predecessore la stessa invidia del pene gaulliste. Ed è partito alla carica inviando a Bamako aviazione e forze speciali, per supportare il traballante governo locale nella lotta ai ribelli islamisti. Un assolo dalle finalità esclusivamente politiche, in realtà, pensato per “mettere il cappello” sul futuro assetto del paese africano, dal momento che tanto l’Onu quanto l’Ue hanno già da mesi pianificato non solo intervento, tempi e modalità: per il momento, l’impegno italiano sotto sembra essere limitato all’addestramento delle truppe maliane, così come sta già avvenendo per i soldati somali con la missione EUTM in Uganda. Ma non è escluso che all’Italia la comunità internazionale chieda presto un impegno maggiore. Specie se la crociata francese dovesse continuare a rivelarsi zoppicante come nei primi giorni di operazioni. LUCA PAUTASSO
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La ricetta migliore per un’Italia nazional-liberale
Arturo Diaconale, direttore de l’Opinione delle Libertà, giovedì alle 17 - al tempio di Adriano presenterà il suo libro “Per l’Italia. Una idea nazionale. Una idea liberale”. All’appuntamento interverranno Gianni Alemanno, Mario Baccini, Guido Crosetto, Giorgio Heller e Francesco Storace. di GIUSEPPE MELE
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l termine Nazional-liberale evocato da Arturo Diaconale, nel suo ultimo libro, sembra opporsi ad altre espressioni politiche. Per esempio, Nazionalpopolare; oppure Socialismo Nazionale. E anche Nazional-socialismo, un termine che fa risuonare paura al solo sentirlo. Nazional-popolare, prima di essere demonizzato come populismo, a suo tempo venne ridicolizzato come un subpensiero, espresso nelle domeniche pomeriggio tv dei “Pippo Baudo”. Socialismo Nazionale fu, per un tempo brevissimo, intuizione di Stefania che colse l’aspetto patriottico del padre Craxi che non a caso fu, nella sinistra moderata, l’unico ad amare più il patriottico Risorgimento che la Resistenza. Quanto al Nazional-socialismo, che fu la realtà storica della Russia sovietica, ebbe i suo natali ideologici nel Nazional-statalismo dell’Italia fascista ed è la realtà di oggi delle grandi economie dirigiste soprattutto della Cina comunista ma anche dell’India e del Sudafrica. È una grande ipocrisia avere paura più delle parole che dei fatti. La Nazione, invocata da Diaconale, è un fil rouge, il flusso ininterrotto della storia del popolo che non ammette crasi, interruzioni, stasi. Durante l’enfasi patriottica prerisorgimentale si cercavano i
fondamenti dell’identità nazionale. Avevano ragione a trovarli nei diversi regni longobardi, città stato, signorie. La nazione c’era (come in Germania) in un contesto separatista. Lo Stato, infine, arrivò come costrizione storica indotta dal percorso degli altri popoli che nello Stato avevano trovato una forza moltiplicatrice delle proprie energie. Problema che oggi ha l’Europa nel suo tentativo di farsi patria. Ridotto a un unico territorio, nazione, stato, dalla globalizzazione, il Vecchio continente, finora puntellato agli Usa, ha fatto dell’europeismo una ideologia, ha puntato sulla governance autocratica carolingia imperiale. Per esistere, l’Europa deve faticosamente diventare patria, espressione dei suoi territori, anche se nel mondo nessuno ad Ovest, Est e Sud la vuole così. Il fascismo si celebrava come l’epopea del Risorgimento, sottolineando come lo stile da camicia dark mazziniana anticipasse i suoi colori. Non aveva torto poiché, all’origine dello schianto in cui finì il Paese, c’era anche l’esplosione delle tante esagerate speranze e delle missioni intelletualmente troppo alate della Pandora risorgimentale, la non misura di risorse e obiettivi. Nondimeno pregi e difetti del fascismo passarono nell’Italia antifascista, come nel fascismo erano state presenti le forze a esso antecedenti. A fare la storia delle patrie, delle nazioni e degli Stati, furono quelli che oggi chiamiamo liberali e che furono notabili e massoni. Coloro che in nome di territori e popoli, combatterono l’apolidismo dell’unica grande famiglia astocratica tutta imparentatasi in Europa e l’universalità sia delle religioni che degli imperi ideologici.
Di quei liberali che privilegiarono equilibrio e senso di sopravvivenza dello stato ad ogni costo, per il bene più prezioso della coesione sociale e della reciproca sopportazione, a un certo punto quasi non c’era più traccia. Nella debacle del senso di Paese e nella ripresa della perenne guerra civile italica, i liberali, per non passare da reazionari, si diedero a rincorrere i diritti, i nuovi diritti, diritti sempre più particolari, sempre più astrusi, sommamente artistocratici senza avvedersi che ogni nuovo diritto comportava l’abolizione di mille altre libertà e che dava fiato - e risorse - a nuove polizie e burocrazie intente a vigilare sulla folla di diritti teorici. Tanti sono divenuti liberali provenendo da fazioni avverse, tanti altri da liberali si sono sparsi in tutte le direzioni, soprattutto di sinistra, alla ricerca di consenso non trovato in casa propria. Per testimoniare di essere liberali, i professori, giunti al potere, hanno cercato di emulare il periodo di governo postunitario della Destra Storica che in onore del rientro dei debito pubblico, disamorò sostanzialmente un popolo dall’idea di nazione, di per sé già poco popolare. Tra tutti questi liberali, neo, post,-ari, -isti, Diaconale si è distinto come fosse rimasto fermo, un passo, due, cento indietro; ma non è così. Se si rovescia il cannocchiale, ponendolo in maniera corretta, ci si accorgerà che Diaconale è semplicemente un liberale classico. Nazionaliberali erano i fondatori del Paese. Tradotti nell’oggi, i propugnatori della libertà per i produttori, inizialmente dei borghesi contro clero e aristocrazia, poi di tutti i produttori, inve-
stitori e lavoratori, e dei diversi tipi di lavoratori, inseriti nel loro contesto territoriale e nazionale. Oggi la grande area del centrodestra italiano viene definita riassuntivamente dei moderati, termine quanto mai infelice e poco adatto. Non è certo il moderatismo che accomuna tante minoranze, quali le cattoliche valoriali, le andreottiste del senso comune mischiato al religioso, le nazionaliste del tutto o di alcune parti regionali, le socialdemocratiche, le tecnologiche e stataliste. Ad avvicinarle è il patriottismo, unico limite alla tolleranza tra le diverse posizioni, necessario per la coesione. Diaconale è rimasto lontano dagli isterismi liberali, dalle finte sedizioni di vertice, dalle confusioni dei termini, comprendendo la natura e la bontà del populismo italiano, accostandoglisi con umiltà, dando spazio a tutte le voci del patriota, sia che lo fosse dei valori, del tricolore, del Nord o del Sud, vedendoci l’unico vero rivoluzionario, il vero laico che si batte contro la distruzione della società. Il recupero di sovranità e patriottismo evocati da Diaconale potrebbero portare, si spera,alla richiesta della restaurazione del senso comune con l’abbattimento anche di molti mostri sacri, come la Costituzione legata a un momento storico preciso. La via, indicata dal direttore de l’Opinione, incoraggia l’area a non vergognarsi di essere quello che è - nazionalliberale, nazional-sociale, nazional-produttrice - a volere sì meno Stato, ma solido; ed a vedere il lato peggiore dell’avversario, quello dell’eversore desideroso di distruggere, ieri come oggi, dal basso come dall’alto, senza costruire, il paese.
Un paese da costruire attraverso basi solide e seguendo la storia guidata dalle direttrici liberali e sociali. Arturo Diaconale, direttore de l’Opinione, traccia la via maestra per convogliare tutti i moderati intenzionati a costruire insieme una fetta importante che permetta di fornire gli strumenti più adatti per rinvigorire la carcassa di una penisola in balìa degli eventi. Arturo Diaconale in questi anni ha sempre mantenuto uno sguardo attento alla parte bonaria del populismo garantendo spazio a tutte le voci vicine al tricolore. L’idea è quella di una restaurazione che allontani in maniera definitiva il neo rappresentato da chi mira a distruggere senza avanzare alternative sostanziali. Il libro che presenterà il direttore de l’Opinione è la testimonianza di un liberale classico capace di analizzare il passo dei tempi e parallelamente di consegnare all’occhio del lettore una “ricetta” ricca di contenuti e interessanti proposte
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Debito pubblico da record, ma a dicembre calerà di STEFANO CECE
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a anni l’Italia convive con i numeri, a volte impietosi altre volte da guardare (o da leggere) con ottimismo. È il caso del debito pubblico, e del rapporto fra quest’ultimo e il prodotto interno lordo (ben oltre il 120%, mentre nel 2005 si attestava al 105%). Interessi da capogiro che l’anno scorso hanno “pesato” per 86 miliardi di euro. Debito record Secondo quanto emerso dal supplemento al Bollettino statistico Finanza pubblica della Banca d’Italia, il debito pubblico del Belpaese a novembre 2012 ha raggiunto il suo record assoluto, 2.020,7 miliardi di euro, in crescita di 6 miliardi rispetto al mese di ottobre 2012. L’incremento, secondo i dati in possesso a Palazzo Koch, «è dovuto essenzialmente al fabbisogno (al netto delle dismissioni), pari a 4,4 miliardi di euro e agli effetti accrescitivi sul debito degli scarti di emissione e dell’andamento del cambio (pari a 0,7 miliardi)». Vale la pena di ricordare che a dicembre del 2011, quando venne emanata dal governo Monti mediante decreto-legge la manovra fiscale anticrisi, il debito pubblico stazionava a quota 1.906,768 miliardi di euro. L’incremento in un anno «Nei primi undici mesi dell’anno - è scritto ancora nel rapporto della Banca d’Italia - l’incremento del debito (113,9 miliardi) riflette
il fabbisogno complessivo delle amministrazioni pubbliche (73 miliardi), l’aumento delle attività del Tesoro presso la Banca d’Italia e degli impieghi della liquidità (34,9 miliardi) e l’emissione di titoli sotto la pari (6,4 miliardi); l’apprezzamento dell’euro ha ridotto il debito di 0,3 miliardi. Alla crescita del debito nei primi 11 mesi del 2012 ha contribuito per quasi 23 miliardi il sostegno dei paesi dell’area dell’euro in difficoltà, comprendente la quota di competenza dell’Italia dei prestiti erogati dall’European Financial Stability Facility e il versamento effettuato in ottobre delle prime due tranches per la sottoscrizione del capitale dell’European Stability Mechanism». Fisco ed entrate «A novembre le entrate tributa-
A novembre 2012 superata la quota di 2020 miliardi. Entrate in crescita rie contabilizzate nel bilancio dello Stato - rileva la Banca d’Italia nel supplemento al Bollettino statistico Finanza Pubblica - sono state pari a 31,4 miliardi, in aumento del 3,3% (1,4 miliardi) rispetto a quelle dello stesso mese del 2011 (30 miliardi). È quanto rileva la Banca d’Italia nel Supplemento al Bollettino statistico Finanza Pubblica. Nei
primi undici mesi le entrate sono ammontate a 340,7 miliardi, in aumento del 3,1% (10,2 miliardi) rispetto al corrispondente periodo del 2011 (330,6 miliardi)». Si tratta, comunque, di stime inferiori rispetto a quelle diffuse la settimana scorsa dal Dipartimento delle Finanze del ministero dell’Economia. Previsioni ottimistiche Al netto dei conti e dei numeri, quello appena iniziato dovrebbe essere un anno che gradatamente consentirà di raggiungere un’inversione di tendenza rispetto alla crescita senza freni che ha avuto il debito pubblico negli ultimi anni. Sempre secondo l’analisi stilata da Palazzo Koch, infatti, «a dicembre 2013, il rilevante avanzo osservato per il settore statale e il forte decumulo della liquidità del Tesoro dovrebbero aver riportato il debito ampiamente al di sotto della soglia dei 2.000 miliardi». Pessimismo d’impresa Secondo l’ultima indagine della Banca dell’Italia sulle aspettative delle aziende, a fine 2012 la quota di imprese che ha segnalato un miglioramento congiunturale si è quasi dimezzata (al 3,8%) rispetto a settembre, mentre è arrivata al 57,5% (dal 50,6) l’incidenza di quelle che hanno riportato un peggioramento. Cresce anche la percentuale di imprese che prevedono come insufficiente la posizione di liquidità (28,6% dal 24,8% di settembre). La quota di imprese che attribuisce probabilità nulla al verificarsi di un miglioramento della
situazione economica generale nei prossimi tre mesi, rileva ancora la Banca d’Italia, è aumentata al 59,8% (dal 52,3%); tale aumento è stato inferiore per le aziende maggiormente orientate all’esportazione. I giudizi sull’andamento della domanda per i propri prodotti negli ultimi tre mesi sono diventati leggermente più sfavorevoli: il saldo negativo tra le risposte di aumento e diminuzione è ora pari a 30,2 punti percentuali, da 27,6 dell’inchiesta di settembre; un minor pessimismo caratterizza le attese sul trimestre in corso (-17,2 punti percentuali). La percentuale di operatori che ritiene peggiorate le condizioni per investire nell’ultimo trimestre del 2012 è aumentata al 43,9%, dal 37,5 di settembre; ne è derivato un
La Banca d’Italia e le stime per il 2013. Permane l’allarme per famiglie e imprese peggioramento del saldo tra giudizi positivi e negativi, a -37,0 punti percentuali (da -31,6 in settembre). È in aumento la quota di aziende che segnala condizioni di accesso al credito peggiorate nel quarto trimestre del 2012 (30,5%, contro 26,1 nell’inchiesta di settembre), mentre per quanto riguarda l’occupazione il 61,9% delle aziende ri-
tiene che il numero di addetti rimarrà invariato nei prossimi tre mesi. Si è ulteriormente ampliato il saldo negativo tra attese di aumento e diminuzione dell’occupazione (a -23,3 punti percentuali, da -18,2 in settembre); il divario risulta particolarmente pronunciato per le imprese di grandi dimensioni (-35,5 punti percentuali). L’allarme dei consumatori Secondo Elio Lannutti, presidente Adusbef, e Rosario Trefiletti, presidente Federconsumatori, «l’incremento del debito ha prodotto per i cittadini italiani un aumento del carico pro-capite, ossia una “tassa occulta” che bisognerà ripagare, pari a 1.910 euro in 11 mesi, al ritmo di 173,6 euro mensile sulla pelle di ogni residente, neonati compresi; il debito pro-capite generato è di 33.904 euro». Quanto ai Governi che hanno preceduto Monti, l’ultimo governo Prodi, dall’aprile 2006 all’aprile 2008, ricordano poi, «ha generato un aumento del debito di 92,587 miliardi, da 1.576,688 a 1.669,275 miliardi, pari a 3,857 miliardi di aumento medio mensile, con un aumento del carico pro capite pari a 1.554 euro e di 28.008 euro ad abitante. Mentre l’ultimo governo Berlusconi, durato in carica dal maggio 2008 all’ottobre 2011, ha generato un aumento del debito di 261,665 miliardi, da 1.654,737 a 1916,402 miliardi, pari a 6,230 miliardi aumento medio mensile a 4.390 euro e un debito pro-capite di 32.154 euro ad abitante».
Il simbolo sospetto Il Partito democratico trema che aizza Grillo Senato sempre più a rischio P
er carità, a noi (a differenza di altri) non piace mettere in discussione la buona fede di nessuno e quindi non lo faremo neppure in questo caso. Ci si limita, però, a segnalare una coincidenza e nulla più: tutto il resto, giudizi e considerazioni, li lasciamo a chi legge. Da qualche giorno gira nel web e sui social network, un link che conduce a una pagina del sito del ministero della Sviluppo economico: Ufficio italiano Brevetti e Marchi (Uibm). In quello spazio internet si apprende che in data 26/09/2012 è stato registrato un simbolo (la domanda era stata depositata sei mesi prima, il 20/03/2012) che raffigura “un cerchio al cui interno sono disposte cinque stelle e la parola ‘movimento’ con ‘v’ in carattere di fantasia (marchio figurativo)”. Per capirci, è il simbolo - che nello spazio dell’Uibm è pure raffigurato - che tanto fa infuriare in questi giorni Beppe Grillo il quale accusa l’intero mondo di boicottaggio nei suoi confronti perché, con la presentazione di quel presunto clone al Viminale, si vorrebbero indurre in errore gli elettori del Movimento 5 Stelle del comico genovese che ha mobilitato un pool di avvocati pagato profumatamente per mettere le cose in chiaro. E in effetti, l’unica
differenza tra i due simboli è costituita dal riferimento al sito internet presente nel simbolo del movimento grillino. Ritorniamo alla scheda dell’Ufficio brevetti. Perché, dalla stessa, si può facilmente anche apprendere chi sia stato a brevettare il simbolo presumibilmente “farlocco”. Il presentatore della domanda ha scelto come proprio domicilio elettivo lo studio del Dr. Ing. Prof. Alfredo Raimondi, situato in Milano, piazzale Ca-
Il comico genovese accusa il mondo di boicottaggio e mobilita gli avvocati dorna 15. Provate un po’ a indovinare come si chiama il presentatore (e titolare del simbolo) di cui sopra? Giuseppe Grillo, Genova (GE). Coincidenza? Può essere. Come può essere che si sia di fronte a un caso di “appropriazione indebita” del simbolo. Qualcosa di strano (e vogliamo essere buoni) in questa vicenda però di certo c’è e alla fine sarà svelato. O almeno così dovrebbe avvenire. GIANLUCA PERRICONE
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rema il Partito democratico, quello super favorito per le prossime Politiche, quello in vantaggio in tutti i sondaggi, quello che per la vittoria si affida soprattutto al presunto crollo del Popolo della Libertà avvenuto nel corso dello scorso anno. Pdl che però, complice la ridiscesa “in tv” di Silvio Berlusconi, recupera punticini preziosi ogni giorno che passa. E così, mentre pare scontato il buon esito della tenzone per la conquista della Camera, sempre più a rischio è la governabilità del Senato, complice la partecipazione alla kermesse elettorale di circa una trentina di liste che potrebbe causare una maxi dispersione del voto. Incubi tormentano le nottate di alcuni esponenti di spicco dei democrat. Bene, a esempio, non deve aver dormito nelle scorse ore il buon Dario Franceschini, capogruppo Pd a Montecitorio e ora candidato per Palazzo Madama, il quale - fra i tanti - sembra aver individuato nella lista (Rivoluzione civile) dell’ex magistrato Antonio Ingroia - l’insidia più tangibile. Al punto di quasi implorare il togato in aspettativa affinché rinunci a presentare le proprie armate in Campania, Sicilia e Lombardia dove per il centrosinistra il risultato è più a rischio. Il “sognaccio” tormentato, potrebbe
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Dario FRANCESCHINI
avere a che fare con uno spettro che ancora aleggia nella storia della politica recente, quello che colpì con severità nel 2006, quando il centrosinistra sembrava fortissimo e poi vinse per una manciata di preferenze. Per sintetizzare - vista l’attuale legge elettorale - alla Camera, dove esiste il premio di maggioranza su base nazionale, il Pd parte con incolmabili lunghezze di vantaggio. Mentre al Senato, dove il premio di maggioranza viene distribuito su base regionale, sussiste la citata imprevedibilità nell’evolversi degli eventi
da qui al 24 e 25 febbraio. L’ex segretario del partito fondato da Walter Veltroni, considera giustamente le suddette regioni determinanti per il Senato e per conquistare con solidità il futuro governo del paese. Paradossalmente, proprio quelle circoscrizioni sono le più a rischio di bidonata. È probabile tema che a vincere sia la non politica, quella che al momento sembra contare su un gran numero di accoliti, cittadini che non ci stanno capendo nulla e non per propria colpa. Non sbaglia Franceschini - e farà bene a convincersene fino in fondo l’intera alleanza Pd-Sel - a ritenere che sia di nuovo quello di Berlusconi il panzer su cui concentrare il fuoco propagandistico e non la macchina ancora in fase di collaudo guidata del premier in carica, Mario Monti. E così emerge che, di fronte alla parvenza di un ritorno all’antico, con partiti, partitelli e partitini a chiazzare un quadro assai poco comprensibile, stia resistendo il bipolarismo - naturalmente imperfetto, perché le “briciole” comunque ci sono e avranno un loro peso specifico - nel quale gli antagonisti saranno i progressisti e i conservatori. Ciò non toglie che ingroiani, grillini, orlandiani e compagni, saranno condizionanti per l’esito finale. STEFANO MARZETTI
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Intervento francese nel Mali Hollywood parla La guerra che nessuno voleva ai conservatori di STEFANO MAGNI
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n’azione militare nel Mali del Nord sarà possibile solo dal settembre 2013» diceva Romano Prodi il 20 novembre scorso, basandosi sul rapporto di “esperti”. I francesi, che non hanno avuto la pazienza di attendere fino al prossimo settembre, stanno bombardando da sabato. L’inviato speciale dell’Onu per il Sahel (ed ex premier italiano) forse non aveva previsto che ad attaccare per primi sarebbero stati i ribelli dell’Azawad, il nuovo Stato autoproclamatosi indipendente dal Mali. Gli islamisti di Ansar Dine, legati ad Al Qaeda, dopo aver sottomesso alle loro regole la popolazione del Nord (provocando un’ondata di mezzo milione di profughi), sono partiti alla conquista anche del Sud, espugnando la città di Konna iniziando a minacciare più da vicino la stessa capitale Bamako. Prodi riteneva la via diplomatica “preferibile” ad un intervento internazionale. Così come il principale interessato in Europa, il presidente francese François Hollande.«Il tempo degli interventi diretti è finito» aveva dichiarato pochi giorni fa. Quel che Parigi stava pianificando pubblicamente era, semmai, un sostegno indiretto alle forze locali. Il 20 dicembre scorso era stato raggiunto un accordo per
il cessate-il-fuoco fra le due parti. Ma la tregua non ha retto nemmeno un mese. È stata rotta da Ansar Dine, che temeva l’arrivo di contingenti internazionali dell’Onu (quale forza di interposizione) e una graduale riconquista del Nord da parte del governo di Bamako. La situazione è precipitata al punto che al governo del Mali ad interim, guidato dal premier Django Sissoko e dal presidente Dioncounda Traoré, non è rimasto altro che chiedere l’intervento dell’ex potenza coloniale: la Francia. Che, a questo punto, non ci ha pensato due volte prima di
mandare forze di intervento rapido a protezione della capitale maliana. Aerei ed elicotteri della repubblica d’oltralpe hanno bombardato Konna, sostenendo le operazioni di terra per la sua riconquista. Nello scontro hanno perso la vita 11 soldati maliani, un pilota francese (abbattuto con il suo elicottero) e “decine” di miliziani islamici. Gli aerei francesi stanno anche colpendo le postazioni di Ansar Dine nel Nord, comprese quelle nella città di Gao. L’intervento militare era stato pianificato dallo scorso autunno, dall’Ecowas (che comprende i Paesi dell’Africa occidentale) e della Francia. Gli Usa e la Germania si sono offerti per un sostegno indiretto. Ormai il dado è tratto: la guerra è già in corso. Non solo vi partecipano i francesi, ma stanno arrivando truppe anche da Niger, Burkina Faso e Senegal. Il governo di Bamako stesso è una buona base di intervento? Come minimo è “instabile”. Il premier Sissoko, così come il presidente Traoré sono letteralmente in ostaggio di una giunta militare che ha preso il potere lo scorso marzo. Sissoko è arrivato al governo a dicembre dopo un secondo golpe, che ha rovesciato il governo civile di Cheik Modibo Diarra. La giunta militare si era sempre opposta a un intervento internazionale. E adesso?
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ollywood è di sinistra, ma, per sfondare, un film deve parlare al cuore e alle menti dei conservatori. È questa la lezione che si può trarre dall’assegnazione dei Golden Globe, dove i protagonisti politici sono i film “Argo” di Ben Affleck, “Lincoln” di Steven Spielberg e “Zero Dark Thirty” di Kathryn Bigelow. In tutti e tre i casi, il confine fra destra e sinistra è ambiguo. Il più ambiguo di tutti è proprio il protagonista assoluto di questa edizione del Golden Globe, “Argo”, che si è portato a casa il premio per miglior film drammatico e miglior regista (a Ben Affleck). “Argo” è la storia dell’operazione segreta della Cia del 1980 che riuscì a riportare in America sei ostaggi dell’ambasciata statunitense a Teheran. Carter, allora, le sbagliò tutte: si lasciò sfuggire di mano la situazione in Iran, scaricò lo scià di Persia Reza Palhevi e poi lo ospitò negli Usa (attirandosi così le ire del nuovo regime), non riuscì a liberare gli ostaggi in seguito al clamoroso fallimento dell’Operazione Eagle Claw. “Ma qualcosa di buono lo fece” suggerisce Ben Affleck nel suo film: Carter autorizzò l’esfiltrazione di almeno sei ostaggi e, da eroe senza macchia, tenne segreta tutta l’operazione, senza assumersene gli onori, per non mettere a rischio la vita di chi era
ancora nelle mani dei pasdaran islamici. Nel cappello introduttivo, voluto da Ben Affleck, una voce fuori campo spiega come la stessa rivoluzione islamica in Iran sia, tutto sommato, colpa dell’Occidente: il golpe contro Mossadeq del 1953 (organizzato dai servizi segreti britannici e americani), il sostegno incondizionato al brutale regime di Reza Palhevi, sono indicate come le principali della rivoluzione di Khomeini. “Se ci odiano ci sarà un perché” suggerisce Affleck. Ma chi, normalmente, guarda questo film, vede solo un’eroica operazione della Cia per salvare degli americani dalle sgrinfie di un regime totalitario. Roba da conservatori insomma. E che dire di “Lincoln”, allora? Lo storico presidente fu il fondatore del moderno Partito Repubblicano. È tuttora un padre nobile del partito conservatore. Ma viene presentato da Spielberg come protagonista della lotta contro la schiavitù: dunque un’icona liberal. “Zero Dark Thirty” è la storia dell’operazione che portò all’uccisione di Bin Laden. Il merito va al presidente Obama. Ma la storia piace soprattutto alla destra: l’uccisione del nemico numero uno, per proteggere le vite degli americani, è espressione della potenza degli Stati Uniti e della moralità dell’uso della forza militare. (ste. ma.)
Parte dal Michigan la resistenza all’Obamacare P
arte dal Michigan la riscossa contro la riforma sanitaria di Barack Obama, che obbliga i datori di lavoro a fornire gratuitamente i metodi per il controllo delle nascite (contraccezione, aborto, sterilizzazione) ai propri dipendenti sotto forma di assicurazione sulla salute. E tutto inizia con Thomas Monaghan, miliardario e cattolico. Classe 1937, nato ad Ann Arbor, in Michigan, da ragazzino ha iniziato come pizzaiolo a Ypsilanti, comprandosi un localino con il fratello James. Da lì nel 1960 è nata la Domino’s Pizza, la catena mondiale con più di 10mila locali in 70 Paesi. Oggi Monaghan è un magnate in pensione, fondatore o perno di numerose organizzazioni cattoliche e pro life, finanziatore di numerose altre. Nel 1987 è stato tra i promotori di Legatus, un’associazione di businessmen cattolici decisi a portare la dottrina sociale della Chiesa negli affari e nelle opere. Ma il vero fiore all’occhiello del suo “impero” è l’Ave Maria University, un ateneo cattolico che dal 2003 fa della fedeltà al Magistero il proprio blasone. Diventato in breve tempo un marchio di sicura eccellenza, l’università sorge nella cittadina, creata ad hoc, di Ave Maria, a 27 chilometri da Naples, in Florida. La sua prima sede si trovava in Michigan, che Monaghan ha lasciato per la soleggiata Florida a causa del divieto, imposto dalle autorità locali, al suo progetto di erigere nel campus universitario un crocifisso più alto della Statua della Libertà.
Monaghan ha ceduto la Domino’s Pizza nel 1998 e oggi ad Ann Arbor mantiene un complesso di palazzine e di uffici, che gli fa da quartier generale, le Domino’s Farms. Ebbene, le sue Domino’s Farms hanno degli impiegati, e Monaghan è il loro datore di lavoro. Tenuto per legge ad assicurare loro la mutua. L’anno scorso, come tutti i datori di lavoro degli Stati Uniti, Monaghan si è trovato improvvisamente di fronte al vero volto di quella riforma con cui la Casa Bianca millanta di voler garantire la tutela sanitaria a tutti con costi bassi e che invece è solo una dispendiosissima (per tutti i contribuenti americani) bugia, che vuole solo imporre ai cittadini ciò che piace all’Amministrazione Obama in tema di economia, salute e morale.
Thomas Monaghan, fondatore di Domino’s Pizza, guida la battaglia legale contro la riforma Monaghan si è, cioè, trovato di fronte a una imposizione - ovvero fornire gratuitamente ai dipendenti i sistemi di controllo delle nascite violare la quale lo rende perseguibile a norma di legge, che di punto in bianco gli nega il godimento del primo dei diritti costituzionali statunitensi: la libertà religiosa. E così il magnate delle pizze, come tutti i da-
tori di lavoro degli Stati Uniti, si è scoperto obbligato a dover persino pagare il costo di questa grave rivolta messa in atto dal governo di Washington nei confronti della legge fondamentale del Paese. Tutti i datori di lavoro degli Stati Uniti si sono visti conculcare la libertà di coscienza da una ideologia di Stato, che così facendo ha aperto il più grave contenzioso etico, politico e giuridico della storia del Paese americano, inimicandosi tutte le Chiese e le comunità religiose degli Stati Uniti. Le quali, a norma di legge, hanno immediatamente reagito impugnando la Costituzione federale in una battaglia culturale e legale che ha prodotto un ecumenismo forte e inedito in cui si è distinta, con un ruolo di leadership universalmente riconosciuto, la Chiesa Cattolica, capitanata dal primate Timothy O. Dolan, arcivescovo di New York, istitutore di uno speciale Osservatorio di monitoraggio delle violazione della libertà religiosa, un fatto clamoroso se si considera che la democrazia degli Usa si fonda sulla libertà. Monaghan, come moltissimi altri datori di lavoro, si è rivolto ai tribunali. La buona notizia ora è che il giudice Lawrence Zatkoff della Corte del Distretto Orientale del Michigan gli ha dato ragione. Ai dipendenti delle sue Domino’s Farms Monaghan continua infatti a garantire buone polizze assicurative, che ne tutelano bene la salute, ma che non regalano il controllo delle nascite. Inoltre il giudice Zatkoff ha
stabilito che non solo Monaghan fa bene a farlo in base al primo Emendamento alla Costituzione federale, ma che in torto è piuttosto chi glielo vieta, fosse anche, com’è, il governo di Washington. In gioco è il pilastro portante di tutta l’architettura civile statunitense. Se l’Amministrazione in carica dovesse alla lunga trionfare con la propria riforma sanitaria, gli Stati Uniti cambierebbero per sempre volto. Per questo, come ragionano moltissimi americani, a prescindere dalle proprie convinzioni etiche, occorre che tutti gli americani combattano contro la grave decisione presa dalla Casa Bianca. Magari anche solo per poi mettersi il giorno dopo a fare la medesima identica cosa, ma in piena autonomia, libertà e coscienza. La legge
Se nell’assicurazione obbligatoria c’è anche il controllo delle nascite si viola la libertà di culto fondamentale americana garantisce infatti tale libertà, che può pure venire usata male, ma essa è l’unica che può anche permettere che il bene venga fatto. Numerosissime sono le denunce analoghe a quella presentata da Monaghan contro il governo Obama e la sua riforma sanitaria e lo stesso Monaghan attende di capire
se si riuscirà a utilizzare la decisione di quella Corte Distrettuale del Michigan, che riguarda le sue Domino’s Farms, per ottenere analoga giustizia per quanto riguarda la sua Ave Maria University. Del resto ci sono precedenti. A metà dicembre la Corte di appello della città di Washington ha dato ragione al Belmont Abbey College e al Wheaton College, due altri prestigiosi istituti cristiani americani di istruzione superiore che avevano presentato denuncia. Il Belmont Abbey College, nell’omonima cittadina del North Carolina, cattolico, gestito dai monaci benedettini, è stata la prima istituzione del genere a presentare mesi fa denuncia contro il governo Obama. Mentre il Wheaton College, nell’omonima cittadina dell’Illinois, calvinista, è tra l’altro la sede della collezione di tutti i manoscritti originali di C.S. Lewis. Questa sentenza della Corte di appello di Washington stabilisce peraltro che Obama ha tempo fino al 31 marzo per modificare la legge in ottemperanza alla Costituzione federale. La vittoria nel “caso Monaghan” è ancora più importante, in quanto riguarda un’istituzione laica e cioè neutra, commerciale, non confessionale, e sancisce che proprio per un’istituzione di questo genere la libertà religiosa conta. Esattamente come afferma da sempre l’architettura giuridico-istituzionale statunitense: la libertà religiosa è un bene pubblico. MARCO RESPINTI
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In lista l’appartenenza L’ultima Krug-scemenza: cede il posto alla fedina la moneta da un trilione I
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uando qualcuno avanza una proposta Sul mercato un’oncia troy (equivalente a demente, Krugman la sostiene. Questa poco più di 31 grammi) di platino è scamvolta si è accodato a un deputato democra- biata con circa 1.600 dollari. Considerando tico, tale Jerrold Nadler, il quale ritiene di il peso effettivo di una moneta, il valore inaver trovato la soluzione per aggirare il pro- trinseco della moneta commemorativa in blema dell’imminente sforamento del tetto questione potrebbe essere circa mille dollari, legale al debito federale (16.400 miliardi di il che significa che 999miliardi 999milioni dollari): il Tesoro dovrebbe coniare una mo- 999mila dollari sarebbero effettivamente aria neta commemorativa di platino del valore fritta. Da sostenitore di sistemi monetari balegale di un trilione di dollari, depositandola sati su commodity standard (ad esempio alla Fed in cambio di denaro elettronico. l’oro) non mi sfugge il fatto che quando un Le cose che fanno cadere le braccia sono metallo è utilizzato come moneta il suo valore due, la seconda più della prima: Krugman è funzione principalmente della sua domanda che non perde occasione per confermare e offerta come mezzo di scambio piuttosto quanto sia inappropriato definirlo economi- che come bene da utilizzare per altri scopi. sta (probabilmente ricorQui, però, mancano sia derete quando arrivò a rila domanda e l’offerta di tenere che la minaccia di mercato, sia l’utilizzo efNon è la prima volta un attacco da parte di fettivo di questa moneta alieni sarebbe stato un che qualcuno propone come mezzo di scambio fattore positivo, perché non, appunto, di un di risolvere un problema (se avrebbe indotto lo Stato ipotetico scambio fatto a spendere per predispor- reale con il ricorso per decreto tra Tesoro e re la difesa, e così facendo all’illusione monetaria, Fed). Pertanto, il valore avrebbe sostenuto la doreale di quella moneta manda aggregata); e le di- ma finora nessuno si era sarebbe pari a circa verse migliaia di america- spinto fino a questo 1.000 dollari . ni hanno sostenuto questa Se davvero qualcuno ritiene che questa sia la iniziativa mediante twitter livello di assurdità soluzione ai limiti di ine altri social network. debitamento del governo Non è la prima volta che qualcuno propone di risolvere un pro- federale, mi chiedo perché non si proponga blema reale con il ricorso all’illusione mone- di coniare una moneta cui attribuire valore taria, ma finora nessuno si era spinto fino a legale non da 1000 miliardi, bensì da 10miquesto livello, tanto più che il feticcio dell’in- la miliardi, o anche di più. Immagino che dipendenza della banca centrale è un vero e Krugman approverebbe… MATTEO CORSINI proprio punto d’onore per tutti i sostenitori www.movimentolibertario.com degli attuali sistemi monetari fallimentari.
SI RINGRAZIA L’EDITORE PER LO SPAZIO CONCESSO
n attesa di vedere quale risultato sortirà il visione ideologica dei rapporti politici. Aclavoro del super commissario Enrico Bondi cantoniamo l’idea del partito-cerniera fra il alla ricerca dei-candidati-senza-macchia, i popolo e il corpo legislativo. Che cosa rimane quattro paletti per l’incandidabilità dei mon- a tenere unite le nuove leve della politica post tiani (condanne penali e processi in corso, ideologica di scuola montiana? Quale idee conflitto di interessi, codice deontologico comuni daranno forma e forza alle loro azioadottato dalla commissione, limiti dovuti al- ni politico-parlamentari? Chi e che cosa l’attività parlamentare pregressa) creano più orienterà le loro scelte? Se ciascuno degli eletdi qualche perplessità, in ragione della visione ti non risponderà che a se stesso, se l’apparforzatamente elettoralistica del metodo. L’uni- tenenza non viene reputata un criterio imca assicurazione che garantiscono i criteri portante di selezione-integrazione del ceto adottati, è rispetto al passato dei candidati. politico, se le distinzioni di destra e sinistra Il non avere condanne penali, processi in cor- – come ha dichiarato lo stesso Monti – apso, conflitti di interesse e di non essere seduti paiono inutili e sfuocate, che cosa impedirà in parlamento da più di tre legislature do- ai “nuovi eletti” di spostarsi da uno schieravrebbero essere caratterimento all’altro? stiche normali, diciamo di Per quanto usurati i base. Ma oltre a queste partiti tradizionalmente I paletti montiani caratteristiche andrebbe intesi erano comunque anche richiesta una affi- per l’incandidabilità luoghi di compensazione dabilità di fondo, una tedelle tensioni sociali, di (condanne e processi, nuta politica, una coerensintesi di interessi geneza che purtroppo certe conflitto di interessi, rali, di selezione di classi liste civiche non sembra- codice deontologico, dirigenti, laddove oggi no destinate a garantire. ad andare per la magD’accordo, «ogni attività parlamentare giore sono i comitati membro del Parlamento pregressa) creano elettorali, costruiti intorrappresenta la Nazione ed no ad una agenda o – esercita le sue funzioni qualche perplessità per dirla con Stefano senza vincolo di mandaFassina – ai livelli di redto» e tuttavia qualche midito, in grado di fare asnima garanzia politica, in questo clima di somigliare la lista Monti ad una lista Romoralismo diffuso, viene voglia di chiederla, tary. Non ci sembra francamente un grande visti i non edificanti episodi di trasformismo salto di qualità ed un contributo per la creche hanno segnato l’ultima legislatura. Dia- scita di una politica inclusiva e capace di mo per scontato il tramonto dei vecchi par- garantire la governabilità. MARIO BOZZI SENTIERI titi, organizzati, strutturati e selettivi. Conwww.ilculturista.it segniamo al secolo che ci è alle spalle la
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Colangelo, il sogno americano inizia dal basket
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o sport ha da sempre un ruolo di veicolo culturale, sociale, economico e commerciale della società americana. L’approccio americano allo sport ha convinto generazioni di ragazzi e ragazze forgiandone la consapevolezza circa il carattere vincente della società americana; lo sport ha spesso agito da vero portavoce della cultura popolare statunitense, contribuendo a renderla interessante ed ammirata e persino imitata in tutto il mondo. Il ruolo dello sport nello sviluppo economico degli Stati Uniti è incommensurabile. Si possono misurare gli ingenti investimenti di costante ammodernamento delle infrastrutture; l’impatto del merchandising, il business dei diritti sportivi con tutte le nuove tecnologie ed i nuovi device a disposizione degli utenti; i soldi che ogni giorno vanno in qualsiasi strumentazione che permetta agli americani di fare sport ad ogni età, in ogni luogo e per ogni condizione fisica; le migliaia di dollari spesi per la promozione pubblicitaria nell’ambito di ogni tipo di evento sportivo; il giro di affari dei media che si occupano di questa gigantesca fetta dell’economia americana: e sono numeri impressionanti. Ma quello che è impossibile quantificare è l’insegnamento al migliorare se stessi; a scommettere sulle proprie capacità; ad innovare su tecniche di allenamento e strumentazione di gara; a rappresentare con orgoglio i colori per i quali si gareggia; a rispettare l’avversario. Una società che beneficia di questi insegnamenti sviluppa un ecosistema imprenditoriale, economico, sociale e finanziario in grado di sempre primeggiare nel mondo. Ciò è avvenuto anche grazie al contributo di tanti italoamericani, che nello sport hanno ricoperto un ruolo non solo da atleti ma anche da manager, commentatori, finanziatori, imprenditori, scopritori di talenti: dopotutto
Oltre ad incarnare il sogno americano di chi nasce in una famiglia con pochi mezzi e raggiunge l’apice del successo, Jerry Colangelo è un vera icona dello sport americano, non solo del basket. «Lo sport - spiega a L’Opinione è stata parte della cultura dell’uomo fin dai tempi dell’epoca greco-romana e la società americana deve proprio a ciò lo sviluppo della partecipazione sportiva e competitiva». Perché «il desiderio di vincere una competizione è parte di una cultura che spinge l’uomo ad essere il numero uno, a raggiungere gli obiettivi che portano alla vittoria: è una questione di leadership, una parte fondamentale del raggiungimento del successo in qualsiasi campo»
l’epopea degli italiani in America e la loro costante fenomenale crescita che li ha portati a salire uno ad uno i gradini della scala sociale, economica e culturale americana sono la migliore metafora della bellezza dello sport come fattore di livellamento di possibilità iniziali, e di premiazione finale del merito e dell’eccellenza. Nella storia dello sport americano, uno dei più prestigiosi tra questi italoamericani è Jerry Colangelo. Oltre ad incarnare il sogno americano di chi nasce in una famiglia con pochi mezzi e raggiunge l’apice del successo, Jerry Colangelo è un vera e propria icona dello sport americano, non solo del basket: tra i suoi meriti c’è infatti anche quello di aver portato in Arizona l’hockey professionistico con i Phoenix Coyotes ed il baseball professionistico con gli Arizona Diamondbacks (che vinsero le World Series nel 2001). Ma è il basket che l’ha visto e lo vede protagonista più a lungo. È stato giocatore, allenatore, general manager (dei Phoenix Suns, il più giovane nella storia dello sport, a 26 anni), imprenditore, nominato dalla Nba dirigente dell’anno per 4 stagioni. Ha contribuito in maniera fondamentale a lanciare la Wnba, la lega Americana di basket femminile; è stato Chairman del Nba’s Board of Governors, e Capo del Comitato che ha portato la Nba in Canada; e poi Responsabile del team olimpico Americano di basket che ha riportato gli Usa al successo a Pechino nel 2008 e poi a Londra nel 2012, inframezzati dalla vittoria nei Campionati Mondiali in Turchia nel 2010. Ci sentiamo onorati di poterle chiedere, Mr. Colangelo: perché lo sport è così importante nella cultura americana e cosa rappresenta per la costruzione del sogno americano? Lo sport è stata parte della cultura dell’uomo fin dai tempi
dell’epoca greco-romana e la società americana deve proprio a ciò lo sviluppo così forte al suo interno della partecipazione sportiva e competitiva. Assistere e partecipare allo sport professionistico è diventato un passatempo degli Americani alla fine del XIX secolo: la gente segue le proprie squadre con grande passione perché è indice di rispetto del senso dell’onore, di adesione e di appartenenza. Nel suo ultimo libro, “Return of the Gold”, Colangelo condivide con i lettori l’esperienza di Presidente e Direttore della squadra olimpica di basket maschile statunitense: un grande successo che, dopo la clamorosa sconfitta del 2004, ha riportato la medaglia d’oro agli Stati Uniti. E’ stata una impresa non solo come successo sportivo, ma anche come un ottimo esempio di come puntare in alto e costruire una leadership vincente: nessun altro era riuscito in precedenza - e sarebbe riuscito allora - a convincere atleti miliardari, le stelle più importanti del basket mondiale, a scendere in campo per qualcosa di più grande della loro carriera professionistica, come le Olimpiadi. Ci dice qualcosa a riguardo? Il desiderio di vincere una competizione è parte di una cultura che spinge ad essere il numero uno e a raggiungere gli obiettivi che portano alla vittoria: è una questione di leadership, una parte fondamentale del raggiungimento del successo in qualsiasi campo. Il mio coinvolgimento con il basket olimpico americano mi ha offerto l’opportunità di contribuire a cambiare una cultura che aveva bisogno di essere modificata e anche di rinnovare il modo in cui il mondo del basket guarda all’America. Io lo definisco “il mio viaggio”, e mi ha permesso di condividere nel libro un messaggio di incoraggiamento per tutti coloro che hanno voglia di mirare in alto, di
raggiungere il proprio massimo e non hanno paura di farlo anche se rischiano di non riuscirci. Questo impegno aveva l’esplicito obiettivo di riscattare il programma del basket olimpico americano che aveva avuto così grandi successi in passato e siamo stati felici ed orgogliosi di averlo potuto raggiungere con classe e dignità, coinvolgendo atleti di un talento unico a livello mondiale come Kobe Bryant, Dwayne Wade, LeBron James e Carmelo Anthony che hanno avuto l’orgoglio di poter servire con il loro talento la loro patria. Lei è anche Chairman della Niaf, la più importante associazione che riunisce i nostri connazionali di ogni generazione che vivono negli Stati Uniti. Nel corso del XX secolo, gli italiani che andarono in America furono spesso discriminati, e uno dei pochi fattori di orgoglio per loro fu il successo di alcuni dei loro connazionali in America nel campo sportivo. In che modo i molti campioni italoamericani hanno rappresentato una sorta di rivincita dei loro conterranei? Gli italoamericani guardarono con orgoglio a chi proveniva dalla loro stessa patria e dimostrava talento ed impegno negli sport americani, appassionando le folle nonostante gli italiani fossero spesso oggetto di discriminazione. Lo sport agisce come un fattore di equilibrio e contribuisce a promuovere l’uguaglianza: fu anche merito del successo di individui come Joe Di Maggio, Yogi Berra e Tommy Lasorda nel baseball, o come Rocky Marciano nel pugilato, insieme a molti altri, se il modo in cui gli italiani venivano visti nella società americana iniziò a migliorare. Lei è anche il Presidente del National Leadership Committee del National Italian American Sports Hall of Fame, che si trova nella Little Italy di Chicago. Nata nel 1977 come Italian American Boxing Hall of Fame, il suo successo indusse il fondatore George Randazzo a trasformarla nella casa che celebra gli italoamericani in tutti gli sport, e si trasferì nella sua sede odierna nel 1998 proprio grazie al suo impegno, tanto che il nuovo impianto è chiamato proprio “The Jerry Colangelo Center”. Anche la mia esperienza con la National Italian American Sports Hall of Fame a Chicago coinvolge la passione, l’orgoglio e l’interesse a mantenere l’eredità degli italoamericani di diverse generazioni che hanno raggiunto il successo nello sport americano. Credo che sia importante trasmettere l’eredità alle generazioni future in modo che il nostro patrimonio continui. Oggi la National Italian American Sports Hall of Fame onora e celebra il ricordo di più di 200 atleti italoamericani: finora inoltre abbiamo raccolto oltre 6 milioni di dollari per borse di studio e cause di beneficenza. Inoltre, la collezione di memorabilia sportive raccolta finora è una delle più importanti e considerevoli in assoluto. UMBERTO MUCCI
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