Tornare sulla moto dopo l'incidente: il sogno di Fabrizio diventa realtà.
27 luglio 2010. Grazie a un ausilio realizzato dai tecnici del Centro protesi INAIL di Vigorso di Budrio, un agente motociclista della Polizia di Milano ha riprovato l'emozione di tornare in sella: "Finalmente rivivo la mia più grande passione" BOLOGNA - "Sono riuscito finalmente a provare il mio 'terzo braccio' su una moto seria: che spettacolo", esordisce così Fabrizio Folli, nel raccontare l'esperienza con la sua nuova ortesi, realizzata dai tecnici del Centro protesi INAIL di Vigorso di Budrio. Nonostante l'infortunio sul lavoro, che gli ha causato una grave lesione al plesso brachiale dell'arto superiore destro, questo nuovo ausilio gli consente di riprovare l'emozione di tornare in sella. 38 anni, agente motociclista della Polizia locale di Milano, nell'ottobre 2006, alla guida di un mezzo di servizio, non è riuscito a evitare un palo. "Non so come, né perché sia successo, dato che non ricordo nulla", racconta Fabrizio. "Ho rimosso ciò che è avvenuto prima e dopo l'impatto. Neanche il mio collega, che mi seguiva a bordo di un altro motociclo, è stato in grado di dare un senso all'accaduto. Ho perso conoscenza e so che, con l'elisoccorso, mi hanno trasportato in ospedale dove sono rimasto 21 giorni in rianimazione". Poi un lungo periodo di ricovero e varie operazioni per tentare di salvare l'uso della spalla e del braccio. Dopo 14 mesi che Fabrizio definisce "un vero e proprio calvario" ha capito che la lesione sarebbe stata permanente. "Pian piano ho ripreso la mia vita. Sono tornato al lavoro, purtroppo con mansioni di ufficio, e ho ricominciato a esercitare tutti gli sport che facevo prima dell'infortunio: nuoto, sci, calcio, ma non mi bastava, non ero completamente soddisfatto". Il vero obiettivo di Fabrizio infatti era ritornare in moto. Una passione coltivata fin da ragazzo e così forte da portarlo a scegliere un lavoro che gli desse la possibilità di usarla quotidianamente. Ma dopo l'incidente, un po' per la difficoltà di capire come riprendere a guidarla e un po' per le resistenze della famiglia, la moto rimaneva solo un desiderio inespresso. Poi gli amici del motoclub Montefalchi di Milano gli hanno regalato una Pit-Bike ( un mezzo a metà strada tra una moto e una minimoto), aiutandolo a riprendere gradualmente confidenza con le due ruote. Per circa due anni l'ha guidata con un braccio solo, poi finalmente la svolta. "I tecnici della Linea arti superiori del Centro protesi si sono offerti di aiutarmi, studiando e inventando quello che io ora definisco il mio terzo braccio". L'ortesi costruita per Fabrizio è infatti costituita da una struttura rigida che viene applicata alla spalla e al tratto trans-omerale del braccio destro, e fissata al tronco con un bretellaggio. Prosegue poi a livello del gomito con una articolazione che riproduce l'avambraccio a cui è applicata una mano estetica, con pollice articolato per permettere la presa del manubrio. Durante l'utilizzo dell'ortesi, Fabrizio tiene l'arto naturale fissato al corpo con un ausilio. "I tecnici Giuseppe Maldina e Salvatore Voci sono stati fantastici in tutto: cordialità, disponibilità e soprattutto professionalità visto che il risultato ottenuto mi dà la possibilità di guidare una vera moto, bene e in sicurezza, anche se solo in pista." Questo perché in base alla normativa attuale, il tipo di limitazione all'arto superiore, non gli permette di conseguire la patente A speciale per la guida su strada. "E' un mio cruccio, ma sono consapevole che, per il momento la regola è questa. Speriamo che in futuro le cose possano cambiare. Per ora mi sento di ringraziare il Centro INAIL per le idee, il lavoro svolto e la pazienza dimostratami. Non mi hanno solo costruito un'ortesi; mi hanno regalato la possibilità di tornare a vivere la mia più grande passione". (sa/vigorso)
Dalla disperazione alla gloria: Desy, storia di un sogno paralimpico
24 giugno 2010. Desirée, rimasta vittima di un incidente sul lavoro, è tornata a sorridere grazie all'INAIL e a una bicicletta che potrebbe portarla fino a Londra 2012. VARESE - "Quando, circa a metà gara, ho sentito le forze esaurirsi, ho pensato a tutte le persone che in Inail stanno credendo in me, che mi stanno aiutando a venir fuori dalla mia depressione Così ho concentrato tutta la mia forza sui pedali e ho tagliato il traguardo. Per prima! Che emozione..." Così, Desirée Crisafulli ricorda la gara vinta lo scorso week end a Mogliano Veneto, una vittoria incredibile ottenuta ai campionati italiani. Incredibile perché Desy, solo un mese fa, era in un letto d'ospedale, dopo l'ennesimo intervento chirurgico al braccio, rimasto seriamente lesionato in seguito a un incidente sul lavoro. E proprio dall'incontro tra lei, vittima di un infortunio sul lavoro, e il personale dell'INAIL, è nata una passione che ambisce ad arrivare lontano, magari sino alle Paralimpiadi di Londra 2012: « All'INAIL esiste un programma per reintegrare le vittime di incidenti sul lavoro", ha spiegato il direttore della sede varesina Alfonso Speranza. "Si fa leva su possibili interessi nel mondo ludico sportivo e noi forniamo assistenza ed eventuali strumenti. Quando lo abbiamo proposto a Desirée Crisafulli, lei ci ha parlato di una vecchia passione per la bici, che, però, le sembrava irrealizzabile a causa della sua menomazione". Invece, grazie anche al supporto psicologico dello staff medico e sociale dell'INAIL, Desy è risalita in sella e ha trovato grinta e motivazioni per uscire dal "buco nero": " Studiavo all'Università di Milano e lavoravo per mantenermi. Non potevo pensare che proprio al lavoro avrei vissuto un'esperienza così devastante. Poco più che ventenne mi sono ritrovata con una menomazione che mi ostacolava la realizzazione del mio futuro. Cosa avrei fatto? chi mi avrebbe dato un lavoro e uno stipendio? Come avrei fatto a vivere? Da tutte queste drammatiche domande sono uscita a poco a poco proprio grazie alla mia nuova famiglia, incontrata proprio qui, all'Inail dove ho ricominciato a sperare". Ora Desy deve affrontare ancora qualche operazione necessaria anche a migliorare la posizione ergonomica del suo braccio infortunato sul manubrio. Da parte sua, l'INAIL Varese vorrebbe convincere i vertici nazionali a sposare la causa di Desy, rendendola testimonial di un modo di reagire agli infortuni: "Molti ignorano che INAIL offra un'occasione di rinascita", spiega il dottor Speranza. "E proprio partendo dalla necessità di migliorare la comunicazione, ci piacerebbe sostenere Desirée sino ai giochi Paralimpici di Londra". E chissà se quei vertici, tra cui spicca anche il varesino Mario Carletti alla direzione nazionale riabilitazione, condividano questo ambizioso progetto. Intanto Desy, alla ricerca di sponsor per pedalare fino a Londra, ha ripreso gli studi: "Mi sono iscritta a Scienze della Comunicazione all'Insubria. Anche questo impegno lo onorerò con passione perché fa parte dell'accordo con la mia nuova famiglia. Un accordo per ricominciare a vivere" (Fonte: Alessandra Toni - Varese News)
Pistorius incontra l'INAIL: "Le Olimpiadi? Ci riprovo a Londra 2012"
18 giugno 2010. Il campione in visita al Centro protesi di Vigorso di Budrio si prepara ai campionati italiani paralimpici di atletica di Imola e parla di disabilità: "Lo sport è fondamentale per imparare a superarla". E scherza anche sui Mondiali: "Tifo Sudafrica, ma non sopporto le vuvuzelas" BOLOGNA - Quando gli parli dei Mondiali di calcio che si stanno tenendo proprio in questi giorni nel suo paese d'origine, il Sudafrica, ti risponde con una battuta: "Forse sono l'unico sudafricano all'estero in questo momento". Ma subito dopo torna serio e aggiunge: "Tifo naturalmente per i bafana bafana e sono orgoglioso del mio paese, i mondiali lasceranno sicuramente un'eredità positiva". Oscar Pistorius, "the fastest thing on no legs", "l'uomo bionico", l'atleta con entrambi gli arti inferiori amputati che corre grazie a speciali protesi in fibra di carbonio (cheetah), da qualche anno al centro di controversie legali, dibattiti scientifici e persino discussioni filosofiche sul rapporto fra tecnologia e uomo, disabilità e normalità, non è altro che un semplice ragazzo di ventitré anni sorridente ed educato, perfettamente a suo agio fra le domande incalzanti dei giornalisti. Abbassa gli occhi di tanto in tanto per mantenere la concentrazione, mentre la sua gestualità tradisce una lontana origine italiana, da parte di madre. Pistorius è a Imola per partecipare ai Campionati italiani Cip (Comitato italiano paralimpico) di atletica leggera, che dal 18 al 20 giugno vedranno oltre 300 atleti e tecnici, italiani e stranieri, sfidarsi in tutte le specialità olimpiche con l'obiettivo della qualificazione per i Campionati del Mondo di Auckland, Nuova Zelanda, in programma nel 2011. Per il campione sudafricano, che correrà i 100, 200 e 400 metri -sfumato il sogno di Pechino, due anni fa, per pochi centesimi di secondo - è anche un ottimo test per Londra 2012. "Il mio obiettivo è ancora correre le Olimpiadi con i normodotati", racconta. "Siamo stati in grado di provare che avere una protesi non costituisce un vantaggio per gli atleti nella mia condizione, quindi mi sto allenando per ottenere tempi sempre migliori. Sono in ottima forma, penso di essere più forte dell'anno scorso, ho solo bisogno di acquisire maggiore fiducia in me stesso". Nulla nel suo modo di camminare lascia indovinare la presenza delle protesi. Forse appena un 'impaccio' che, però, nella pista da corsa si trasforma in forza e potenza inaudite. Come fosse una creatura mitologica. Ma Pistorius tiene a sottolineare la sua normalità: "La disabilità fa parte della nostra vita, non è qualcosa di astruso o diverso", dice, "spesso i bambini mi fissano nei negozi, quando ho i pantaloncini corti, e i genitori li prendono da parte e li sgridano, invece di spiegare loro la mia condizione. Per questo a volte mi fermo a parlare con loro, gli racconto scherzando la mia vita, così la prossima volta che vedranno qualcuno con le protesi sapranno per filo e per segno di cosa si tratta, e fra 10 anni forse avremo superato questo problema". Un compito educativo, dunque, affidato soprattutto allo sport "che mi ha aiutato a superare la mia disabilità e mi ha fatto comprendere che chiunque può prendere parte a una competizione, basta avere la forza di volontà per superare le barriere". Il pensiero torna al Sud Africa, la sua terra "fenomenale e multiculturale" che ospita una delle massime manifestazioni sportive esistenti, i Campionati del mondo di calcio, "un abbraccio bellissimo di popoli e culture". Ma a chi gli chiede delle vuvuzelas, le famigerate trombette di plastica che dagli stadi sudafricani stanno assordando il pubblico di mezzo mondo, risponde ridendo: "Non le sopporto, mi fanno venire mal di testa. Meglio un tranquillo canto di incitazione". (Fonte: Redattore sociale)
Dalla moda all'atletica. Giusy Versace: "Sarò Pistorius al femminile!"
8 giugno 2010. Amputata alle gambe, dopo soli 3 mesi di allenamento la bellissima 33enne è già una promessa e gareggerà ai Campionati italiani di Imola. Prima la sua vita era fatta di aeroporti e trolley in mano, in giro per la celeberrima azienda di famiglia. Ora pensa ai podi paralimpici. E al prossimo volo da prendere: quello per Londra 2012 MILANO - Le origini sono di Reggio Calabria, la città del cuore, ma il lavoro e la vita da grande sono a Milano, ormai da 10 anni. Lei è Giuseppina Versace, anzi Giusy, ha 33 anni e vanta almeno due record: essere la prima atleta donna con amputazione bilaterale alle gambe in gara a un campionato nazionale di atletica leggera e, per di più, a concorrere al titolo a soli 3 mesi dal debutto in questa disciplina. L'appuntamento è vicino: Imola, dal 19 al 20 giugno. "Correrò per i colori della mia terra, la Calabria. Mi sono detta: se devo iniziare questa avventura sportiva, voglio rappresentare la regione da cui provengo", racconta Giusy, che seppure per adozione non nasconde il suo affetto per Milano. Proprio Milano, infatti, le ha offerto un lavoro che farebbe gola a qualsiasi amante della moda: quello di retail supervisor per una nota griffe, in pieno centro. Non l'azienda di famiglia (e il nome che porta parla di un'azienda che fattura cifre da capogiro), ma quello di una casa concorrente. "Per correttezza", racconta lei, "per non mischiare il lavoro con la famiglia, e anche per curiosità". Ma come è cambiata la vita di questa splendida ragazza calabrese, solare, umile, ottimista e di una bellezza magnetica? "Sono invalida a causa del lavoro. Prima, due settimane al mese, quattro giorni su sette, ero lontana da casa: in giro per il mondo a controllare le boutique che avevano il nostro marchio in franchising, su e giù dagli aerei, negli alberghi, affittavo automobili con la velocità con cui si beve una tazzina di caffè", racconta. "E' successo durante una delle trasferte, nell'agosto del 2005. Un incidente in cui ho davvero rischiato di morire e a causa del quale ho subito l'amputazione di entrambe le gambe". Un evento che rimette tutto in gioco e che, in un carattere determinato come il suo, non ha mai avuto il significato di una resa. "Al rientro a lavoro qualcosa è cambiato, certo. Per esempio, ho trovato molte porte chiuse", ricorda oggi Giusy. E ha cominciato a lavorare nel back office. "Pian piano, però, a gomitate mi sono ripresa la mia scrivania. Ho ricominciato a guidare, ma sono realista: non posso più tenere i ritmi di prima. Ora viaggio molto meno". In compenso, dirige una Onlus, Disabili no limits, di cui prima si occupava a tempo perso, e che ora è diventato un impegno importante: come dice lei, il lavoro per una causa giusta. "Ci occupiamo di raccogliere fondi per amputati economicamente svantaggiati", spiega, "perché il servizio sanitario non riesce a garantire ausili abbastanza evoluti, fornisce solo protesi base. In più, curiamo progetti come 'Emergenza Haiti', attraverso cui abbiamo spedito kit e protesi per gli adulti e i bambini rimasti feriti nel terribile terremoto". Poi c'è l'impegno sportivo, cominciato per caso e soprattutto da solo pochi mesi. "Ho messo le mie prime protesi da corsa il 15 febbraio scorso, e ho provato a correre in pista. Risultato? Non sono caduta, e già questo è stato un grande risultato". Poi ci ha preso gusto, Giusy, fino a correre in 24 secondi i 100 mt, tempo che le è valso la qualificazione - per la verità non cercata - ai prossimi Campionati italiani, appunto: "Ero anche infortunata, quel giorno: perché la sera prima ero caduta e avevo il moncone pieno di lividi. Quindi ho pensato che in forma ottimale, e allenandomi, posso far bene". Un'affermazione - quel "posso far bene" decisamente all'insegna della modestia. Infatti, da qui in poi, per Giusy prende vita un sogno grandioso, cui si è messa in testa di dar corpo con tutta se stessa, cominciando allenamenti seri e mirati. "Vorrei essere in gara alle Paralimpiadi di Londra, nel 2012. Pensa, Pistorius al femminile, la prima italiana a correre senza due gambe!" L'ha promesso a se stessa e al presidente del Cip Calabria Fortunato Vinci che è un caro amico, e a Daniele, ovviamente. Indirettamente, però, lo promette a tutti quelli come lei, ma con meno coraggio e ottimismo, di lei. Ancora un volo da prendere, dunque. Stavolta per Londra, ma non nella settimana della moda. E' già prenotato. (Fonte: Superabile, a cura del Cip)
Muovitinsport, l'idea di Giovanni per far uscire di casa i disabili
4 giugno 2010. Dopo un incidente che a 37 anni lo ha costretto su una sedia a ruote, Giovanni Cicconetti ha scoperto una passione particolare per l'hand-bike. Così è nata la sua associazione, impegnata a 360 gradi nello sport per tutti:"Ora vorrei censire le strutture accessibili" RIMINI - "Grazie allo sport a volte arrivo a dimenticarmi di essere su una sedia a ruote". Giovanni Cicconetti, 43 anni, è paraplegico dal 2004. Con la sua impresa edile stava ristrutturando una casa colonica e, nonostante fosse tutto a norma, il tetto gli è crollato sotto i piedi: quattro metri di caduta che gli hanno causato uno schiacciamento del midollo spinale. Dopo un periodo di riabilitazione dal 2006 si dedica all'hand-bike, e ha fondato insieme all'amico Sergio Emilio Bartolini l'associazione Muovitinsport per promuovere lo sport tra le persone disabili e "farle uscire di casa", raggiungere quell'autostima che si perde al momento del trauma o della malattia. "Lo sport aiuta a reintegrarsi nella società. Semmai sono gli altri a farti sentire diverso, 'diversamente' abile - commenta Giovanni -. E anche lo Stato: troppe barriere architettoniche. Dovevo andare in una scuola a parlare di incidenti sul lavoro, ma la sede non era accessibile e non siamo riusciti a entrare perché mancava un ascensore. Assurdo". Prima dell'incidente Giovanni non praticava nessuno sport, "non ne avevo tempo e poi arrivavo a casa troppo stanco per fare qualunque cosa": adesso partecipa con la sua squadra, sette persone in tutto, al campionato italiano di hand-bike. Con l'associazione si impegna anche nel wheel-chair basket, nel wheelchair tennis e nello sci. Ma la grande passione rimane il ciclismo. "Mi piacciono le salite, la sfida, la soddisfazione di arrivare in un posto che sembrava impossibile solo con la forza delle proprie braccia spiega Giovanni -. È questo il bello del ciclismo". Tra le soddisfazioni di Giovanni ci sono sicuramente anche i suoi compagni di squadra, "un gruppo forte", tra cui spiccano Simone, 29 anni, che è stato di recente contattato per entrare a far parte della nazionale italiana, e Tonino, che si è vestito di azzurro nel 2004, e nel 2005 è arrivato quinto nella sua categoria ai campionati nazionali. Giovanni e Muovitinsport sono un vulcano di iniziative per quanto riguarda ogni tipo di attività. L'associazione propone corsi gratuiti di tennis su sedia a ruote, grazie alla collaborazione del comune di Bellaria Igea Marina ha ottenuto l'utilizzo di una palestra per giocare a basket, e con l'aiuto di alcuni amici ("tra cui voglio ringraziare in particolare Emilio Brioli - sottolinea Giovanni -, un ragazzo disabile di Riccione che ci ha dato una grande mano per tutti i contatti e gli aspetti burocratici") ha organizzato per il 30 maggio il primo torneo di basket su sedia a ruote "Città di Riccione", che vedrà confrontarsi Imola, Parma, Verona e Trento. Grazie agli sponsor Muovitinsport è anche riuscita a comprare un'hand-bike, per far conoscere e provare questo sport a chiunque volesse. A breve acquisteranno anche delle sedie a ruote per il basket indoor, in previsione dei mesi invernali. L'impegno di Giovanni va anche oltre lo sport. "Adesso frequento un corso per webmaster - spiega sperando che la passione per i computer possa diventare in futuro un mestiere". Intanto Giovanni pensa soprattutto a suo figlio, che fa la seconda media, "ed è sicuramente più impegnativo lui di qualunque lavoro". E nonostante tutti i suoi impegni, Giovanni ha trovato il tempo di partecipare come rappresentante dell'Anmil a un progetto dell'INAIL per parlare di infortuni nel mondo del lavoro nelle scuole superiori. "Per far capire ai ragazzi che bisogna sempre stare attenti - riassume -, anche perché l'imprudenza può far male agli altri oltre che a sé". Intanto, insieme agli altri soci di Muovitinsport, Giovanni sta aspettando il via libera dalla provincia di Rimini per avviare un progetto "interessante e utile, anche se sicuramente complicato": un censimento di tutte le strutture accessibili della riviera romagnola. "Fino a vent'anni fa chi era su una sedia a ruote non usciva di casa - racconta -. Un amico, paraplegico da 35 anni, mi racconta che c'era anche chi provava a dargli l'elemosina mentre lui semplicemente era come tutti in attesa di attraversare la strada. Adesso invece possiamo essere una risorsa, anche per il turismo". (Fonte: Superabile)
Disabilità. Laura, paracadutista in carrozzina e "giramondo" in camper
1 giugno 2010. Con oltre cento salti nel vuoto all'attivo, è la prima persona - e finora unica - al mondo con paraplegia a praticare questa attività. Ha fondato l'associazione Liber-Hand per promuovere lo sport e il turismo nel segno dell'accessibilità e della vita indipendente RAVENNA - "Avevo 22 anni e un figlio di 14 mesi quando la mia vita è cambiata di colpo: un grave incidente automobilistico, la lesione al midollo, un lungo tunnel di anni tra interventi chirurgici, interminabili degenze in ospedale e faticosi percorsi di riabilitazione e la difficile presa di coscienza della mia disabilità". Laura Rampini oggi ha 37 anni, due figli di 17 e 12 anni, i sogni a cui non ha mai rinunciato, lo sport e i viaggi e un primato che è ancora tutto suo: è la prima paracadutista al mondo in carrozzina. "Il paracadutismo è una passione che ho fin da piccola", racconta Laura, "così come lo sport in genere. Ma la sensazione di lasciarsi andare liberi nel cielo è la cosa a cui non avrei mai potuto rinunciare e anche dopo l'incidente ho sfidato i miei nuovi limiti riuscendo a superarli". Con un attivo di oltre cento lanci in solitaria, Laura si sta allenando con la sua squadra "Real Dream" per gareggiare ai prossimi campionati italiani di RW4, ovvero "figure" in caduta libera formate da gruppi di paracadutisti. Ma il "volo libero" non è l'unica passione di Laura, che ama viaggiare e girare il mondo. E così, insieme a Filippo Landi, paraplegico dal 2005 e plurimedagliato in competizioni nazionali di nuoto, ha dato vita al progetto "Liberamondo", promosso dall'associazione Liber-Hand (da loro fondata), per avvicinare i disabili al mondo dello sport e dei viaggi. "Per diffondere il nostro progetto abbiamo scelto il camper, che è il mezzo di trasporto ideale per una ritrovata autonomia", spiega Laura. "Nel 2009 abbiamo girato l'Italia in lungo e in largo e parte dell'Europa per promuovere la cultura dell'accessibilità e della vita indipendente". Dal Trentino alla Toscana, dall'Umbria all'Emilia Romagna, dalla Sicilia alla Sardegna, fino ad arrivare a Berlino, Amsterdam, Parigi, Barcellona e finire con due viaggi impegnativi negli Stati Uniti e in Australia. Un originale giro del mondo che, oltre ad essere mosso dalla voglia di viaggiare, è motivato dalla volontà di scoprire luoghi accessibili ai turisti disabili, tracciando una sorta di mappa con itinerari ad hoc. Con un bagaglio poco ingombrante, videocamera e macchina fotografica, Laura e Filippo realizzano dei veri reportage delle loro avventure che saranno presto inseriti su un sito web creato ad hoc. "Il progetto Liberamondo sta diventando in un certo senso la nostra nuova carta d'identità", prosegue Laura. "Le ultime tappe del camper sono state le Unità spinali di Firenze e Montecatone dove abbiamo presentato tutti i progetti sportivi della nostra associazione allo scopo di diffondere la cultura dello sport come strumento formidabile di riabilitazione e terapia, ma anche di ritrovata fiducia nelle proprie potenzialità" . (Fonte Redattore sociale)
"Sogno il bungee jumping, nonostante la paraplegia"
25 maggio 2010. A 24 anni un incidente automobilistico lo ha costretto su una sedia a ruote, ma Andrea Botti ha trovato nello sport il modo giusto per ricominciare. Dal basket al tennis, dall'handbike al monosci, "per me la cosa più importante è poter giocare con i miei amici, come ho sempre fatto" PARMA - Basket, tennis, ma anche sci e handbike. Si fa fatica a trovare uno sport che Andrea Botti non abbia praticato. Paraplegico dal 2005 - quando la vigilia di Natale ebbe un incidente in macchina nel percorso casa/lavoro - oggi Andrea ha 29 anni e tutta l'intenzione di allungare l'elenco degli sport praticati. "Da un po' di tempo sto pensando al bungee jumping", dice. "So che si sono dei posti pensati appositamente per i disabili, ma devo trovare l'ispirazione, perché ci vuole un bel po' di coraggio". Ma il coraggio finora non è certo mancato ad Andrea. "Il periodo più difficile sono stati i primi mesi dopo l'incidente", racconta, "ma penso di aver accettato la mia nuova condizione abbastanza in fretta. L'importante è non piangersi addosso e non far pesare la propria disabilità alle persone che ti stanno intorno". Lo sport per Andrea è stato fin da subito il modo giusto per ripartire. "Ho cominciato ad allenarmi poco dopo l'incidente", spiega. "Nel centro in cui facevo riabilitazione c'era una squadra di basket in sedia a ruote, io avevo già un'idea di com'era stare in una squadra e così ho provato". Da allora il numero di sport in cui Andrea si è cimentato è in costante aumento. "Pratico il tennis in sedia a ruote in una squadra di Cremona e l'handbike", racconta. "L'ultimo che ho provato è lo sci, grazie a un apposito monosci: devo dire che è ancora più divertente degli sci normali. Penso che non potrei vivere senza praticare uno sport, ma la cosa migliore è poter giocare insieme ai miei amici, come ho sempre fatto". E di tempo per allenarsi Andrea oggi ne ha "anche troppo. Io facevo l'elettricista, un mestiere che ora non posso più svolgere. Da molto tempo cerco lavoro, ma finora non ho trovato niente: è già difficile per chi può lavorare in piedi, figurarsi per me che posso stare solo seduto". In attesa dell'occasione giusta, però, Andrea e la sua famiglia si sono mossi autonomamente. "I miei genitori hanno un'azienda agricola", spiega Andrea, "siamo riusciti ad 'attrezzare' un trattore con comandi speciali in modo che possa guidarlo anch'io, così almeno nei mesi estivi riesco a dargli una mano".
Sport e disabilità. Indomabile Bebe, reginetta della scherma
4 maggio 2010. Promessa del fioretto dall'età di 6 anni, la tredicenne di Treviso, un anno e mezzo fa, ha subito l'amputazione di gambe e braccia ed è stata assistita dal Centro Protesi INAIL di Vigorso di Budrio. Oggi, grazie alla sua straordinaria determinazione e all'amore della famiglia, è tornata a gareggiare SAN LAZZARO DI SAVENA - Un cuore e il coraggio di una leonessa nel corpo di una ragazzina di 13 anni. Che sia questo il segreto della grandezza di Beatrice "Bebe" Vio che - a un anno e mezzo dall'amputazione di braccia e gambe - domenica scorsa è tornata a tirare di scherma nel torneo paralimpico di San Lazzaro di Savena (Bologna)? La giovanissima di Mogliano Veneto (Treviso) è stata assistita dal Centro Protesi INAIL di Vigorso di Budrio ed è la prima disabile al mondo a scendere in pedana con tutti gli arti artificiali. Un recupero incredibile reso possibile da una straordinaria forza d'animo, dall'amore e dal sostegno instancabile dei familiari. Una seconda vita. Giovanissima promessa della scherma, Beatrice ha cominciato a girare l'Italia dall'età di sei anni, una gara dopo l'altra. Tutto questo fino al 20 novembre 2008, quando una setticemia, un'infezione del sangue dai rischi letali, l'ha costretta a subire l'amputazione di tutti e quattro gli arti. Una prova terribile che avrebbe piegato chiunque. Ma non Bebe che - dopo sei mesi di ospedale - non ha avuto esitazione nell'affrontare, a tutti i costi, la sua faticosa ripresa. "Dove abbiamo trovato la forza per uscire da questa storia? Basta guardare Bebe, la sua grinta. Avete visto? L'avete vista?" Non si tiene dall'emozione il papà Ruggero, sempre al suo fianco, scudiero al suo nuovo battesimo in gara. "Essere qua è già una vittoria", continua. "Se penso che un anno fa eravamo all'ospedale... Se lei - che è messa peggio di tanti altri - ce l'ha fatta, questo può essere da esempio a tutti, disabili e non". L'amicizia con Pistorius. Una volta uscita dall'ospedale, Bebe si è subito rimessa in piedi e ha ricominciato il suo cammino. I primi movimenti in carrozzina, poi la scrittura. Poi, ancora, la pittura - un'altra sua grande passione - fino a riprendere le uscite in tenda con gli scout. Ma dentro, più forte che mai, c'era la voglia di tornare a gareggiare. Un desiderio diventato "realizzabile" anche grazie all'esempio del simbolo vivente di chi, in una condizione simile alla sua, alla fine ce l'ha fatta. "Abbiamo conosciuto Pistorius, lo scorso anno", racconta il padre di Bebe. "Oscar è venuto a una nostra iniziativa. Ha corso con lei, l'ha spinta in carrozzina e poi lei ha spinto lui. Si è 'innamorato' e si sono contagiati a vicenda con la loro forza". Il sostegno della famiglia e l'aiuto dell'INAIL. Per riuscire a coronare il suo sogno, Bebe ha deciso anche di rivolgersi al Centro Protesi INAIL di Vigorso di Budrio. Lo scopo: disporre di protesi speciali che le permettessero di controllare con precisione un'arma di acciaio. Domenica, dunque, Bebe ce l'ha fatta. Accanto a lei c'erano la mamma Teresa e la sorellina Maria Sole, tutte con la maglietta disegnata dalla stessa atleta e con sopra il suo personalissimo motto. "Io nella scherma ci metto il cuore". Intervistata dai giornalisti, questa ragazzina eccezionale dimostra davvero una maturità fuori dal comune. Tornare a tirare in piedi è un sogno "difficile da realizzare", ammette prima di infilarsi la maschera e scendere in pedana. "Ma sulla carrozzina si può saltellare. Se oggi le perdo tutte, sono comunque felice". E non si è risparmiata neanche una battuta quando, stupita da tutti quei fotografi intorno a lei, ha detto al padre: "Ma non possiamo dirgli che di là c'è Valentina Vezzali, così si distraggono?" A starle vicino in questo momento anche la sua maestra di Mogliano Veneto, Federica Berton e la sua istruttrice Alice Esposito. "Dobbiamo anche ringraziare il maestro Richard Zub di Padova, società dove ora si allena", conclude papà Ruggero. Con loro speriamo di poter fare i campionati paralimpici di Foggia, ma sinceramente, i risultati sportivi ora non sono la priorità. Per ora Bebe dovrà sedersi in carrozzina, ma non è giusto metterle dei limiti. Lei non è una che si ferma e come tutti gli sportivi sogna le Olimpiadi".
Come Forrest Gump: Norberto De Angelis in handbike sulla mitica Route 66
21 ottobre 2009. Storia sorprendente, avventurosa e a tratti cinematografica quella dell'ex campione di football americano, paralizzato agli arti inferiori dopo un incidente, poi volontario in Africa e oggi hanbiker dalle imprese limite. L'ultima: la grande "3.800 Km" americana, percorsa notte e giorno, per quasi tre mesi, da Chicago da Los Angeles ROMA - Ha 45 anni, ma molte vite già vissute alle spalle. Ha negli occhi i mille colori dell'Africa, quelli che non si scordano più, e i suoi odori, strani, pungenti. Ha nei muscoli il segno di una fatica inenarrabile, quella che si fa percorrendo 3.800 Km di asfalto dalla costa californiana a Chicago, in bicicletta. Non sa quale altra grande impresa lo aspetta domani, ma oggi sente una necessità impellente: dire a tutti i disabili, come lui, paralizzato agli arti inferiori, che lo sport è una via d'uscita, una corsia preferenziale, la marcia in più per andare avanti. Di sport, Norberto De Angelis, di Piacenza ma residente vicino Parma, si è nutrito da sempre: 110 Kg distribuiti su un fisico da culturista, il titolo di campione europeo nel 1987, con la maglia n. 99 della Nazionale di football americano. All'epoca, militava nella Lega dilettanti, a livello semiprofessionistico, tra Milano, Bologna e Bolzano. Faceva anche volontariato, Norberto, con una organizzazione non governativa di Bologna. Erano i primi anni Novanta. E proprio una missione umanitaria lo ha portato in Africa, Tanzania. "Il mal d'Africa?", dic. "Forse si prova in qualsiasi posto dove si va per cercare delle risposte che poi si trovano. È quello che è successo in Tanzania, dove ogni giorno mi confrontavo con una realtà favolosa, colori, odori, gente meravigliosa". Nel frattempo Norberto scopriva di sé lati insospettati, e ridimensionava tutto quello che a casa andava storto. Lì è avvenuto però anche l'incontro con il destino: per Norberto un rovinoso incidente d'auto che lo fa piombare in un coma lungo quattro mesi, da cui si risveglia paralizzato. "Il caso ha voluto che in un posto sperduto, desolato, dove non si vede mai anima viva, passasse, dieci minuti dopo l'accaduto, un medico italiano, con a bordo del suo mezzo una bombola di ossigeno". È a lui che deve la vita, Norberto, colto da un blocco respiratorio che anche un medico Masai gli aveva diagnosticato pochi istanti prima. Passa il tempo e, come non bastasse, il destino ripresenta il conto: a Norberto due anni fa viene diagnosticato un tumore maligno. Ma si opera e guarisce. E decide di compiere un'impresa, una sfida con se stesso, perché sul domani non c'è da scommettere troppo. "Ho scelto di salire in sella alla mia handbike, lo sport che ho scelto da disabile per la sua aerobicità, e percorrere la leggendaria Route 66, da Los Angeles a Chicago". Un'avventura estrema, su un percorso che da venti anni le mappe geografiche non segnano neanche più, perché in decadenza e desolazione, dopo l'apertura delle arterie più veloci ed attrezzate, le Interstate. Non proprio una "passeggiata di salute": ben 3.800 Km di asfalto, tra infiniti rettilinei, salite e discese, con vento a raffiche da Ovest e violenti acquazzoni a fine aprile, quando comincia, e con 50 gradi all'ombra a metà luglio, quando finisce. In tutto, 80 giorni massacranti per entrare nella storia. "Sono l'unico al mondo ad aver fatto qualcosa di simile", racconta. "Su una strada in cui l'asfalto è in condizioni pessime, indecenti. Correndo di notte, nel periodo di caldo più torrido: dalle 22 alle 5 del mattino, per trovare una temperatura ideale. Dormendo nel motorhome preso in affitto. E la cosa mi riempie di orgoglio, ora. Prima, invece, mi chiedevo chi me l'avesse fatto fare, volevo arrivare al traguardo prima possibile, perché la fatica disumana che ho provato finisse quanto prima". Era scioccato dello sforzo da compiere, Norberto, quello non l'aveva preventivato, per lo meno in quella misura. "Uno sportivo ha già in sé capacità di coordinazione e respirazione, ha degli automatismi già acquisiti. Ma la fatica, quella mi ha impressionato davvero". L'ispirazione di una simile impresa è venuta, a Norberto, guardando un celebre film, "Forrest Gump", dove il protagonista dice, a un certo punto: "Io corro come il vento che soffia". Norberto si è detto: perché no? E il vento l'ha inseguito, sfidato, fino all'ultimo centimetro di strada e al nastro d'arrivo, a Chicago. Ha scelto l'America perché solo lì accadono le cose impossibili, al limite, e i
sogni hanno concrete speranze di avverarsi. Ma anche: "Perché per i disabili è uno dei paesi più avanzati, più accessibili". Ma è anche una terra accogliente, dal raro calore umano, sincera e piena di sensibilità: "Ovunque andassi, in qualsiasi angolo dell'America che ho attraversato, ho trovato uno straordinario rispetto nei confronti delle persone disabili, una disponibilità immediata ad aiutarci. Anche da parte dei bambini". I ricordi, neanche a dirlo, sono indelebili, e le infiammazioni articolari alle spalle, per l'impegno muscolare profuso, ancora presenti e dolorose. Ma per far arrivare il messaggio che lo sport aiuta a vivere, aiuta a sognare, questo ed altro. Norberto vorrebbe dirlo a più persone possibile, vorrebbe spiegarlo in Tv, perché la sua storia sia un sostegno per molti, un esempio da seguire. Intanto, ha aperto un sito internet che vale la pena consultare e spulciare, per quanti spunti di poesia e saggezza offre, oltre ad un breve "Diario d'Africa" davvero sorprendente. Chissà cosa si inventa per il futuro, Norberto. Di sicuro aprirà la scatola dei cioccolatini e ne sceglierà uno, anche se, come dice sempre la mamma di Forrest, "Non sai mai quello che ti capita". (a cura del Cip)
Disabilità. Fabio Raimondi, cestista azzurro dal cuore vagabondo
15 settembre 2009. Talento del basket in carrozzina, ad oggi ha cambiato sei maglie. Asso della nazionale, bergamasco, ha vinto 15 volte tra scudetti, supercoppe, coppe Italia e coppe campioni. Ora però ha trovato la sua anima gemella e, forse, anche la sua casa definitiva: a Porto Torres ROMA - Non è rimasto mai troppo fedele ai club - anzi, finora ne ha cambiati addirittura sei - ma alla palla a spicchi e all'adorato canestro sì. Una passione, quella per il basket, coltivata da Fabio Raimondi - cestista della nazionale dal super-palmares - fin da quando aveva 11 anni e cominciata in piena solitudine. "Tiravo da solo al paese dove abitavo, Cisarano", racconta. "Mi avevano dato le chiavi della palestra, per quanto ci stavo, anche 5-6 ore al giorno". A16 anni, però, arriva l'iscrizione alla PolHa Bergamasca e finalmente l'inizio dell'attività agonistica. Da allora questo bergamasco di Osio, 37 anni oggi, è sempre stato in cerca di casa. Una casa, però, tassativamente vicino ad una palestra con parquet e canestro. Ecco, dunque, che dopo la Polha, Fabio arriva a Cantù. Poi, a 22 anni, approda a Roma, al Santa Lucia, la squadra che riuscirà a trattenerlo per il tempo record di 10 anni. Certo, c'è stata anche la parentesi madrilena del Fundosa Club: lì Fabio si ferma solo una stagione, comunque sufficiente a fargli vincere la Liga, lo scudetto spagnolo, e la Coppa del Re. "Poi sono dovuto rientrare", confida. "Mi mancava tremendamente casa". Insomma, fatto un rapido conto, Raimondi ha vinto fino ad ora 15 trofei: una lunga lista che elenca con precisione impressionante, senza tralasciare date e sedi di ogni singolo trionfo. "Me li ricordo, perché me li sono sudati". Dopo la sosta a Roma, Fabio, arriva la Sardegna. Cos'è: voglia di mare? "No, è che con il Santa Lucia avevo vinto tutto: 4 scudetti, 3 Coppe Italia, 2 Coppe Campioni. In particolare, poi, per ben cinque anni le finali scudetto le avevamo giocate contro il Sassari. Così mi sono incuriosito di questa squadra". E così hai preso la strada per la Sardegna... "Prima, nel 2004, ho provato con il Porto Torres, a 10 km, da Sassari. Poi è arrivata l'Anmic Sassari (ndr, nelle stagioni 2006-2008). E quest'anno milito di nuovo nel Porto Torres". La Sardegna sembra sia ora la tua casa d'elezione... "Sì, si sta bene. Vivo in campagna e c'è tanto spazio per i miei quattro cani. Poi qui ho trovato l'amore, mi sono sposato con Marzia, tre anni fa". Facciamo un passo indietro. Quale è l'origine della tua paraplegia? "E' stato l'esito, previsto, di un intervento chirurgico che ho subito a 11 anni per porre rimedio a una neoplasia alla colonna vertebrale. Era il male minore cui andavo incontro, ci ero preparato". Subito è arrivata la chance della pallacanestro, però. "Mi piaceva giocare con la palla, e la mia fisioterapista mi ha consigliato il basket. Solo che nel paese dove abitavo non c'erano squadre. E io mi allenavo da solo, per gran parte del giorno". Togliendo spazio allo studio? "Ero fortunato, avevo dei professori tolleranti. A ragioneria mi dicevano che la mia fortuna non sarebbe stato lo studio, anche se andavo bene. Mi sono diplomato, ma non ho mai esercitato: sono sempre stato solo un atleta". E alla Nazionale come sei arrivato? "Per un'altra fortuna, diciamo così. A sei mesi dall'inizio della mia attività agonistica, avevo solo 16 anni, si fa male Carlo Iannucci, un pilastro del basket in carrozzina in Italia e della Nazionale. Io già giocavo
insieme a lui, avevo il suo stesso punteggio di gioco, il suo stile. Così, quando si è rotto il femore, ho preso il suo posto in Nazionale. E ho giocato pure il mio primo mondiale, sempre a quell'età". Da lì l'ascesa. Ma, a parte lo sport, che fai, nella vita? "Sto lavorando con un'azienda, la AtraTech di Casalecchio di Reno, che si occupa di cateterismo per disabili e impegnata nella produzione e nella diffusione di tecnologie e dispositivi medici per la chirurgia e l'urologia. In particolare, curo il progetto "Sport", che ha l'obiettivo specifico di promuovere il basket. E' un lavoro che mi dà grandi soddisfazioni". (Fonte: Superabile, a cura del Cip)
La mia rivincita sull'handicap? Scalare la montagna più alta del Caucaso
9 settembre 2009. Sette volte campione di sci di fondo, nel 2007 primo atleta con protesi all'arto inferiore a domare la vetta dell'Alpamayo, Gianfranco Corradini si prepara a un'altra sfida: conquistare la cima dell'Elbrus, a 5.642 metri ROMA - "Tu sei fortunato. Male che vada, ti congeli una gamba sola". E scoppia in una fragorosa risata. È con una battuta dei suoi amici più cari che, Gianfranco Corradini, classe '55, atleta disabile, racconta cosa l'aspetta il 10 settembre, quando inizierà l'ascesa al monte Elbrus, 5.642 metri, la cima più alta del Caucaso russo. Già sette volte campione di sci di fondo e con alle spalle un curriculum d'alpinista di tutto rispetto, Corradini partirà alla volta dell'Asia per battere un altro record, dopo quello del 2007 quando fu il primo atleta con protesi all'arto inferiore a domare la vetta dell'Alpamayo, sulle Ande peruviane (5.947 metri). Anche se, ora, preferisce non pensare alla "montagna più bella del mondo" (così, l'ha definita l'Unesco) ma "concentrarsi sulla scalata". "Quella dell'Alpamayo - racconta - è stata una scalata più tecnica. Una parte del percorso, almeno 600 metri, era intermente ghiacciata e con una pendenza del 70%. In questo caso, invece, il problema maggiore saranno i bruschi cambiamenti climatici". Unico elemento lasciato al caso, quindi, la meteorologia. Per il resto, un allenamento studiato a tavolino ("Mi alleno 4-5 volte a settimana, andando in bici, camminando e salendo in quota. Senza esagerare, altrimenti sforzo troppo la gamba") e una fede incrollabile nelle proprie capacità. L'alpinista della Val di Non, che più di vent'anni fa perse la gamba sinistra in un incidente automobilistico, è la prova vivente che le barriere sono, a volte, solo mentali. Grazie all'ausilio di una protesi speciale per l'alpinismo progettata dall'INAIL di Vigorso di Budrio, Corradini si è inerpicato un po' ovunque: dal Monte Bianco alle Punte Gnifetti, da Bishorn e Burnaby nel Gruppo del Rosa, passando per Weissmies, Grossglockner, Piz Buin, Cevedale, Cima Ortles e Gran Zebrù. E poi ancora, su per il Palon de la Mar, il Monte Rosole e il San Matteo. Instancabile, non si è risparmiato pericolanti arrampicate su pareti di ghiaccio e neve, con pendenze che sfiorano il 70%, come Presanella, Cristallo e Marmolada. Scalare, sciare, sono state "la mia rivincita sull'handicap", dichiara lui che, pur, facendo parte di una famiglia di sportivi, prima dell'infortunio, a soli 22 anni, non era un atleta così appassionato. "Dopo l'incidente, ho iniziato a fare della passeggiate che, con il tempo, diventavano sempre più lunghe. A un certo punto, ho iniziato a salire. E da quel momento non mi sono più fermato". L'incontro che gli ha cambiato la vita è stato quello con Roberto Diaz, una guida alpina che l'accompagna da sempre nelle sue spedizioni. È lui, afferma, ad avergli dato l'input: "Dipende da te, mi diceva. Lo decidi tu, se vuoi andare più in alto". E Gianfranco, ha deciso. Perché, per lui è chiaro che "senza testardaggine, di montagna, non se ne riesce a salire nemmeno una". (mc/roma)
In cima al Monte Bianco per la "sua" Tanzania: la sfida di Emilio
5 agosto 2009. Il valdostano Grivon, classe 1933 e assistito INAIL, compirà la scalata con una protesi alla gamba destra. Per dire che l'handicap si può vincere e per raccogliere fondi destinati alle missioni AOSTA - Oggi è partito per allenarsi e raggiungere il rifugio sul Gran Paradiso. Domani, tempo permettendo, Emilio Grivon compirà un'impresa non da poco: scalare il Monte Bianco, la montagna più alta d'Europa, fino a 4.810 metri. Non sarà il primo né l'ultimo a farlo, ma ad ascoltare la sua storia l'iniziativa acquista un colore diverso. Classe 1933 (ha compiuto 76 anni lo scorso 26 febbraio), Grivon ha subito diversi infortuni sul lavoro e porta una protesi alla gamba destra, amputata sotto il ginocchio dopo un devastante incidente su un trattore: caduto in una scarpata ribaltandosi, è stato tra la vita e la morte per giorni, ingessato dalla testa ai piedi per 6 mesi a causa di numerose fratture in tutto il corpo e 7 costole rotte. Curato presso il Centro protesi INAIL di Vigorso di Budrio, Emilio è una cosa sola con la sua protesi: va in bicicletta, corre, e soprattutto lavora in lungo e largo per la Tanzania. "Vengo da una famiglia molto povera - racconta -. Nonostante questo, mia madre ha sempre mandato quel poco che poteva alle missioni in Africa. E fin da piccolo ho sentito il desiderio di partire per andare a conoscere le persone a cui arrivavano quelle offerte". L'occasione gli si è presentata alcuni anni fa: "Sono andato in Kenya con un viaggio organizzato, ma mi sono sentito a disagio negli hotel di lusso", confida. Successivamente, gli si presenta l'occasione di visitare la Tanzania, dove conosce personalmente le Missionarie della Consolata che operano a Mbeya: una sorta di colpo di fulmine, tanto che Emilio parte due volte all'anno - per sei mesi complessivi - alla volta del Paese africano come volontario laico. Dire che Grivon fa beneficienza è fuorviante. "Porto tutti i soldi che riesco a raccogliere e lavoro per le missioni: faccio il falegname e il muratore, il progettista e il saldatore, tutto quello che serve per realizzare case e scuole", riferisce con semplicità. Insomma, non si risparmia, nonostante la protesi ("che da due anni funziona perfettamente, senza bisogno di ritocchi") e la perdita di due dita, una della mano destra e una della sinistra, in altri due incidenti; inoltre Grivon porta l'apparecchio acustico, in seguito all'ipoacusia insorta nel 1976, quando "non esistevano i silenziatori e lavoravo con il compressore". Il lavoro non spaventa Emilio, anzi: se lo cerca: ha tirato su dal nulla la Maghabe Secondary School of Mbeya e ora sta raccogliendo fondi per poter potenziare il centro scolastico che ospita al momento 320 bambini, "ma a fine anno dovrebbero raddoppiare". Già pensa a ottobre, quando li raggiungerà fino a marzo 2010: "Ci vogliono altri 50 mila euro per completare i lavori: altri 400 metri quadri di fondamenta da preparare...", sogna Grivon. Ma ora, con la giacca a vento che porta i loghi dell'INAIL e di Superabile, il suo impegno è quello di scalare la montagna partendo dai 4.100 metri del rifugio del Gran paradiso, accompagnato nell'impresa da Luca Argentero, presidente delle Guide alpine di Courmayeur. I medici della sede INAIL di Aosta e di Vigorso di Budrio che l'hanno visitato non hanno dubbi: "Sta benissimo, potrebbe restare quanto vuole in alta quota". "Sono 7 ore di cammino, almeno - riferisce -; mi sono allenato pedalando e camminando... La salute è buona, il cuore anche. Parto pensando anche a tutte le persone disabili che si lasciano andare: invece dovrebbero reagire, non farsi abbattere dalle difficoltà". Non a caso lo slogan scelto per l'iniziativa è "La sfida di Emilio". I suoi parenti, amici e paesani di Chambave, insieme a tutti i valdostani, attendono con trepidazione l'esito della scalata, che sarà seguita anche da un operatore Rai; così anche la Commenda templare Saint-Clair des Rives della Valle d'Aosta, a cui Emilio si appoggia per la raccolta fondi (chi volesse contribuire, può effettuare un bonifico bancario - Iban IT04A0858731630000160111067 - intestato a "Commenda templare Saint-Clair des Rives onlus della Valle d'Aosta", specificando nella causale "Per le missioni in Tanzania"). Insieme a loro anche gli alpini, tra i quali ha assolto il suo servizio militare: il 26 ottobre 2008 a Savona lo hanno nominato "Alpino dell'anno", precisando nelle motivazioni dell'assegnazione del premio che Grivon "è la dimostrazione che l'impegno e la determinazione di una persona che ha saputo superare una grave calamità fisica permettono di raggiungere traguardi impensabili di umana solidarietà". In bocca al lupo per questo nuovo traguardo. (lab/roma)
Disabilità. Dopo l'incidente diventa dirigente: "E ora lavoro troppo"
7 agosto 2009. Sedici dipendenti e un'impresa che, a Cesena, produce pannelli elettrici. Giovanni Casadei, 39 anni, ha reagito così all'incidente di moto che lo ha reso paraplegico: "La mia attività mi ha aiutato molto, anche se adesso non mi lascia tempo per fare altro" CESENA - Adesso il rischio vero - e sentirglielo dire sembra quasi una battuta - è quello di lavorare troppo. Un'azienda che progetta pannelli elettrici per l'automazione di macchine industriali, sedici dipendenti, continui rapporti con i clienti, viaggi: Giovanni Casadei, 39 anni, ha reagito così all'incidente stradale che nel 1988 fu causa della disabilità che lo costringe ora su una sedia a ruote. "Il lavoro mi ha aiutato molto e mi tiene impegnato per gran parte della giornata. Ma questo ha dei pro e dei contro perché, appunto, il rischio è di lavorare troppo, di non avere tempo per altro...". Giovanni e il lavoro, dunque. La sua riscossa e, insieme, la sua grande preoccupazione. A soli due anni di distanza dall'incidente entra in affari con il fratello e la cognata e oggi, in ufficio, amministra l'azienda e segue direttamente alcuni clienti. "L'azienda produce quadri elettrici per controllare i macchinari industriali", spiega. "I nostri clienti sono generalmente imprese italiane, raramente privati, che a loro volta producono macchine industriali per aziende sia italiane, sia estere. In particolare, io mi occupo dei clienti nella fase del preventivo e dopo, quando il lavoro è già acquisito, seguo i lavori direttamente con i nostri partner per controllare che tutto vada bene". Era il 1988, Giovanni aveva solo diciassette anni e mezzo quando un incidente frontale contro un furgone lo fece cadere dalla moto, provocandogli una frattura alla colonna vertebrale. "Non ho avuto conseguenze cervicali permanenti", continua, "per cui sono paraplegico e non tetraplegico: ho cioè mantenuto il controllo delle braccia. Ciononostante, la riabilitazione all'inizio è stata abbastanza difficile. Sono stato nella struttura di Montecatone, un centro di riabilitazione sopra Imola, in provincia di Bologna, per circa un anno e mezzo, anche se per casi come il mio di solito il recupero dura quattro o cinque mesi. Io, purtroppo, dopo qualche tempo, cominciai ad avere anche difficoltà respiratorie, per cui fui costretto a prolungare la mia permanenza". Oggi Giovanni Casadei segue un programma di recupero al centro spinale di Sondalo, in Lombardia, attività che gli costa ogni volta cinquecento chilometri di strada. "In effetti è pesante fare ogni volta un viaggio così lungo", ammette", ma io ho la patente e, quindi, posso andare in macchina da solo senza che qualcuno mi accompagni. Preferisco fare tutti questi chilometri per andare a Sondalo, perché alla fine a Montecatone non mi trovavo più bene. Sono venuto a conoscenza di questo centro grazie all'Associazione paraplegici e, da quel che so, è uno dei migliori in Italia...". Per non avere difficoltà, quando ha acquistato i locali per la sua impresa, li ha sistemati in modo da renderli accessibili alla sua condizione: il capannone è in piano e non c'è bisogno di scivoli per accedervi; gli uffici sono sistemati su due piani e per salire al piano superiore è stato installato un ascensore. "Sminata" la fabbrica, le barriere restano ovunque negli altri spazi della sua vita quotidiana: in giro per Cesena, la sua città, sono ancora troppi gli "ostacoli" da abbattere. E' per questo che Giovanni, insieme ad Anna Grazia Giulianelli, ha fondato in Romagna una sezione dell'Associazione paraplegici, impegnandosi in progetti per l'abbattimento delle barriere architettoniche. "La cosa che mi ha colpito di più di Giovanni è la sua vitalità", afferma Francesca Longhi, coordinatrice regionale degli assistenti sociali dell'INAIL Emilia-Romagna, "perché dopo la caduta e la riabilitazione ha messo su un'impresa e oggi lavora anche per dieci ore al giorno. E' un fatto davvero positivo che sia riuscito a reagire in questo modo." (RedSoc/EmiliaRomagna)
Disabilità. In sella e via! Gatti "il centauro" si racconta
8 luglio 2009. Una vita, quella del vicepresidente del Motoclub di Faenza, all'insegna della passione per il motociclismo. Un "amore inarrestabile" che ha portato questo atleta, pur con una protesi di arto inferiore, a essere il primo in Italia ad avere una speciale patente A per guidare il suo bolide a due ruote FAENZA - Al crossodromo Monte Coralli di Faenza (Ravenna), in un week-end all'insegna della passione motociclistica, il 4 e 5 luglio si è svolta la settima prova del Campionato mondiale 2009 di Motocross MX3 e una prova del Campionato europeo classe EMX2. Oltre 120 centauri di diverse nazioni del mondo hanno conquistato gli spettatori con derapate, salti e discese da brivido: un gruppo numeroso per uno spettacolo emozionante che ha visto i migliori crossisti del mondo contendersi punti prestigiosi in una gara mozzafiato. Anche i disabili del Centro protesi INAIL di Vigorso di Budrio hanno assistito alla sfida, invitati da Gilberto Gatti, vicepresidente del Motoclub di Faenza, che ha organizzato l'evento. Il Centro era presente anche con un proprio gazebo dedicato ai temi "guida con disabilità" e "protesi e sport" , che ha ospitato i pazienti attualmente in degenza per assistere alle gare ufficiali di domenica scorsa. Gatti è un assistito del Centro protesi INAIL per un incidente in moto avvenuto nel marzo 1999. Supportato dal Centro servizi mobilità e dai Reparti arti inferiori e ginocchio elettronico, è stato il primo in Italia a conseguire una patente A speciale, guidando la moto con una protesi di arto inferiore. "Adoro andare in moto", racconta, "e dopo l'operazione al Rizzoli di Bologna - in cui mi hanno amputato la gamba dal ginocchio in giù - i medici mi hanno consigliato di andare al Centro di Vigorso per ‘costruire' la mia protesi: un ginocchio elettronico con il piede in carbonio e una struttura con la valvola normale". Torna spesso al Centro protesi INAIL in visita? "Sì, abbastanza spesso perché il moncone cresce o diminuisce e devo tenerlo sotto controllo: i soliti problemi degli amputati. La protesi non mi ha mai dato fastidio, tranne quando hanno cercato di mettermi una nuova struttura con la cuffia, alla quale sono allergico e non riesco a sopportarla... Quindi ho soltanto la semplice valvola". Al momento dell'incidente aveva 34 anni: è stato difficile accettare questa nuova realtà? "Non ho faticato molto ad accettare la protesi, perché era l'unico modo per tornare in piedi. Devo dire che a Vigorso di Budrio mi sono trovato benissimo perché, oltre alla parte medica, gli operatori si preoccupano anche della componente psicologica e ricreativa, seguendo gli infortunati nelle varie discipline e sport. Aiutano veramente a migliorare la qualità della vita". Lei ha un primato: vuole spiegarci quale? "È vero. Sono stato il primo in Italia ad avere una patente A speciale per guidare la moto. Dopo l'incidente, avevo il forte desiderio di risalire in sella e il Centro protesi INAIL mi ha messo in contatto con la Ducati: lì mi hanno costruito un prototipo di moto che riuscivo a guidare, mentre un ingegnere del Centro di Vigorso ha preso contatti con la motorizzazione per vedere se si poteva cambiare la legge che vietava ai disabili di risalire in moto". Un grande obiettivo raggiunto anche per i ragazzi con disabilità che coltivano la sua stessa passione... "Sì, infatti. Sono felice quando vado a Vigorso, dove spesso mi chiamano per assistere i ragazzi nel percorso del circuito attivo al Centro, per ottenere la patente speciale. Meno male che hanno cambiato la legge! Spesso mi chiedono anche informazioni sulle pratiche burocratiche: sono diventato un esperto in merito".
Partecipa alle gare con la sua moto? "No: in sella alla mia moto da cross ci salgo solo per girare in strada e in pista, ma non a livello agonistico. A livello motociclistico ci sono dei ragazzi che gareggiano insieme ai normodotati: però manca una regolamentazione specifica... Ăˆ pur vero che non partecipano a gare di livello mondiale perchĂŠ non sarebbero competitivi". Che attivitĂ svolge nel quotidiano? "Dopo l'incidente ho cominciato a lavorare come tornitore in un'officina e devo dire che, malgrado sia un lavoro pesante (spesso trasporto del ferro), la protesi non mi dĂ alcun fastidio. Quando sono stanco mi basta accendere la moto, sentire il rombo e...mi passa tutto!" (rogi/roma)
La storia di Beatrice, volontaria e giramondo su sedia a ruote
22 giugno 2009. In Islanda e sul cammino di Santiago, l'incarico di assessore a San Secondo Parmense, il volontariato in un ospedale pediatrico. Paraplegica in seguito a un incidente stradale, divide il suo tempo tra la passione per il viaggio e l'impegno civile PARMA - Dai geyser dell'Islanda al polveroso cammino di Santiago. Sempre con il marito William al suo fianco. Beatrice Bocchi, 50 anni, paraplegica da venti in seguito ad un incidente stradale, ha sempre amato viaggiare, e dopo il grave infortunio non si è persa d'animo. "Non ho avuto nessun problema dal punto di vista lavorativo perché facevo la biologa in un laboratorio di analisi mediche", spiega. "Il cambiamento è avvenuto nella vita quotidiana e ci vuole molto impegno e fatica per andare avanti". La svolta nel 1994, con la candidatura ad assessore comunale nel suo paese di origine, San Secondo Parmense, di 5mila abitanti. "Ho fatto l'assessore alla Pubblica istruzione, sport e tempo libero per due mandati, dal '94 al 2002", dice. "La scuola è un settore molto complesso, che definisco ‘senza portafoglio', perché richiede impegno e passione, senza niente in cambio". In otto anni, fra le iniziative messe in campo si conta un Centro di educazione permanente per adulti, con corsi serali di cucina, computer, inglese e spagnolo, supportato dal Provveditorato. E anche un parco dedicato alla figura di Peter Pan, nei pressi della scuola media del paese, con tanto di giochi ispirati alla storia del ragazzo che non voleva crescere. Piccoli traguardi, fonte di grande soddisfazione personale per Beatrice, che però ha l'animo inquieto e sogna i paesi del Nord. "Sono stata negli Stati Uniti, in Canada, in Norvegia, Svezia, Finlandia e Islanda", aggiunge, "e non ho mai avuto nessun problema, sia per la mancanza di barriere architettoniche che per la disponibilità e apertura della gente. In Islanda, ad esempio, la natura non è certo dalla parte dei disabili, ma dalla laguna degli iceberg alle grandi cascate, dove ci sono passerelle di 400 metri a misura di sedia a ruote, le possibilità sono pressoché le stesse per tutti". E in Italia? "Si salva solo il Trentino Alto-Adige dove una persona disabile è stata eletta in commissione edilizia regionale per la valutazione dei progetti pubblici", commenta. "Per il resto i servizi sono quasi inesistenti o poco funzionali. Al cinema mi chiedono ancora se pago, e io rispondo che se ci fossero i servizi pagherei più che volentieri. Quando torno dal nord Europa mi sento male, lì c'è un senso civico altissimo, non come da noi". L'ultimo viaggio in Spagna, sulle tracce dei pellegrini cristiani da Roncisvalle a Santiago de Compostela. "Come mi sono trovata? Così così", afferma. "Un po'come in Italia. Con un eufemismo dico che si stanno attrezzando". Il prossimo viaggio è previsto per Stoccolma, ad agosto, quando le giornate si allungano e il cielo terso del nord è più blu del solito. Ma Beatrice è anche una donna sportiva. Con un gruppo di Reggio Emilia ha partecipato in handybike alle maratone di Roma, Torino e Padova e a fine settembre è in programma la maratona di Berlino. Oltre a coniugare sport e viaggi, Beatrice trova anche il tempo per fare del volontariato. "Vado una volta alla settimana", racconta, "all'ospedale di chirurgia pediatrica di Parma dove insieme ad altri volontari facciamo giocare i bambini malati". Il progetto, finanziato dalla provincia e dal comune di Parma, si chiama "Giocamico" e nasce da un accordo fra l'Asl e la cooperativa ‘Le mani parlanti'. Ma come reagiscono i bambini alla vista di una persona sulla sedia a ruote? "È un problema che mi sono posto all'inizio del mio servizio", conferma Beatrice, "ma i bambini sono senza pregiudizi, non vedono neanche che sono disabile". Di recente anche l'impegno nell'oratorio parrocchiale di San Secondo, per aiutarli a fare i compiti. "L'educazione civica deve partire proprio da qui, dalla scuola e dai bambini", conclude. (RedSoc/EmiliaRomagna)
Dalla via Emilia agli States per vedere lo Shuttle
8 giugno 2009. Il sogno americano di Giordano Zavattoni, 23 anni, piacentino, paraplegico. Con due amici ha girato la Florida: un'avventura on the road alla scoperta di sé e delle proprie possibilità PIACENZA - Mancano due minuti al lancio. Il tempo di un respiro e il cielo sarà tutto un rimbombo, l'aria si riempirà di un grigio fumo. Cape Canaveral, 11 maggio 2009, data della messa in orbita dell'Atlantis. Una missione spaziale con un pubblico d'eccezione. Giordano Zavattoni, 23 anni, paraplegico dall'età di 19, sta realizzando un desiderio che coltivava da anni: assistere di persona al lancio di uno Shuttle. Un'esperienza "magnifica e allucinante", come la definisce lui stesso, forse difficile da pensare solo qualche anno fa. Nato e cresciuto a Piacenza da una mamma siciliana, Giordano nel 2003 ha un grave incidente sul lavoro che lo costringe sulla sedia a ruote. La passione per lo sport, il nuoto in particolare, lo spronano ad andare avanti, a non rinunciare a vivere. Comincia a frequentare la piscina, tutte le sere, con un amico anche lui paraplegico. Poi la palestra, i viaggi per vedere le gare di Formula Uno al Mugello e il Motogp. Da un anno e mezzo Giordano lavora per l'Asl di Piacenza. "È un ragazzo coraggioso e intraprendente", racconta Marinella Tansini, assistente sociale INAIL della città emiliana. "Si sta impegnando con buoni risultati nel percorso di inserimento lavorativo e nell'acquisizione di nuove autonomie". Ma il suo sogno nel cassetto è sempre stato quello di andare negli States. Un sogno diventato realtà. Partito il 27 aprile da Linate con due amici alla volta di Miami, Giordano ha girovagato per la penisola della Florida, dal porto di Bayside all'estrema punta meridionale di Key West, passando per il circuito di Daytona e la sede della Nasa. Senza lasciarsi limitare in alcun modo dalla proprie condizioni motorie, anzi scoprendo nuove opportunità e possibilità. "Il viaggio non è iniziato nel migliore dei modi perché la mia carrozzina è rimasta a Linate a causa di errore nella spedizione", racconta. "Ma dopo un giorno me l'hanno riportata direttamente in albergo. Qualche problema l'ho avuto anche con le porte della camera: troppo strette per la mia sedia. Ho dovuto cambiare stanza". Giordano non si è perso d'animo: l'emozione di assistere alla partita di basket Nba della squadra della città, i Miami Heat ha immediatamente compensato i disguidi iniziali. "Un'atmosfera magica ed entusiasmante", sottolinea, "grazie alla totale accessibilità del palazzetto, alla gentilezza degli accompagnatori e degli operatori. E alla bella ragazza disabile di fianco a me di cui mi sono innamorato. Ho scambiato qualche parola con il mio inglese un po' approssimativo e sono riuscito a farmi comprendere perfettamente. Peccato che fosse solo un amore platonico...". Da quel momento, è tutto un susseguirsi di immagini da cartolina: i grattacieli di Lincoln road, la casa di Hemingway a Key West - il punto della Florida più vicino a Cuba - la pista della corsa automobilistica "Nascar" a Daytona, la sede della Nasa. E il lancio dello shuttle a Cape Canaveral, naturalmente. "Nella stragrande maggioranza dei casi non ho avuto problemi legati alle barriere architettoniche", spiega Giordano. "Tutti cercano di darti una mano, dall'autista del pulmino che scende per aiutarti alla gente per strada che ti sorride e ti saluta. Ho trovato pochissime barriere architettoniche, ho verificato che nei luoghi dove sono stato si cerca di agevolare il più possibile la persona disabile". Come ad esempio i bagni dotati di un pulsante a pressione per aprire la porta automaticamente. O il lungomare di Miami, dove c'è un punto in cui la sabbia è più compatta e permette alla sedia a ruote di passare agevolmente. Adesso Giordano sogna la California: "Mi sono innamorato degli Stati Uniti e ho verificato di persona che lì una persona paraplegica può viaggiare anche da sola. Chissà, forse l'anno prossimo...". (RedSoc/EmiliaRomagna)
Il "dopo infortunio" tra sfide e pregiudizi: la storia di Maria Concetta
1 giugno 2009. Rimasta menomata dopo un incidente sul lavoro, oggi è tornata in sella alla sua moto grazie al supporto del Centro protesi di Vigorso di Budrio. Ma sono ancora tante le battaglie da affrontare:dai piccoli gesti quotidiani, al giudizio della gente, al reinserimento lavorativo ROMA - Un'incuria, una piccola mancanza e in un attimo la vita può cambiare per sempre. È successo a Maria Concetta Del Greco, vittima di un incidente sul lavoro che, ormai quasi vent'anni fa, l'ha resa disabile. "In quel periodo lavoravo in un macello di polli a Predappio, in provincia di Forlì", racconta, "era il 1990 ed ero stata assunta da tre mesi, senza aver ricevuto nessuna formazione sulla sicurezza. Un giorno come tanti, mentre svolgevo le mie normali mansioni, il guanto che indossavo, e che era troppo grande per me, è rimasto incastrato negli ingranaggi della macchina che stavo manovrando. Si è trattato di una manciata di secondi,di attimi che però sono stati fatali. E ho perso le dita della mano. Non c'era nessuna protezione e io non ero stata informata sui rischi che potevo correre. È stato tremendo". Il grave incidente, la corsa in ospedale e l'operazione. Poi, giorno dopo giorno, trovarsi a fare i conti con una quotidianità tutta diversa. "La mia vita è cambiata del tutto. All'inizio è stato difficile, poi ho imparato a convivere con il mio problema. Ma nonostante tutto non mi rassegno", continua Concetta. "Avevo anche pensato a una protesi, ma poi mi hanno spiegato che avrebbero dovuto tagliarmi parte del braccio e ho rinunciato. Era troppo per me, alla fine lo avrei fatto solo per una questione puramente estetica. Ma mi tengo sempre informata sulle scoperte scientifiche che riguardano la mia menomazione. Il sostegno degli amici, di mio marito mi ha aiutato tantissimo, ma nonostante tutto ci penso sempre a come poter migliorare la situazione". E se i piccoli gesti quotidiani sono una sfida ancora possibile da affrontare, la vera battaglia per Maria Concetta è stato confrontarsi con i pregiudizi della gente, soprattutto nella ricerca di un nuovo lavoro."Io sapevo cosa potevo e riuscivo a fare, ma le persone quando mi vedevano automaticamente cestinavano la mia domanda di assunzione. ‘In quelle condizioni cosa vuoi fare?', mi sono sentita ripetere non so più quante volte", racconta. "Ora lavoro come bidella in una scuola. Ma non è stato facile". E l'ultima sfida, dopo tante prove, per Maria Concetta è stata tornare in sella alla sua moto. Supportata dal Centro protesi Inail di Vigorso di Budrio ha ottenuto una patente speciale per guidare. La struttura dell'Inail ha inoltre provveduto a realizzare le opportune modifiche e adattamenti del veicolo. "Dall'Inail ho ottenuto un'ottima assistenza, le persone che lavorano al centro sono splendide e mi hanno aiutata molto", continua Maria Concetta. "Guidare la moto per me è una nuova conquista, che mi permette di mantenere il mio ottimismo e di continua ad affrontare la vita con tenacia, come ho fatto finora". (ec/roma)