14/20 ottobre 2011 • Numero 919 • Anno 18
Sommario
“Noi non siamo sognatori, siamo il risveglio da un sogno che si sta trasformando in incubo” slAvoj ŽiŽek, pAgiNA
iN copertiNA
La settimana
Il mago del capitalismo
Credibilità
europA
20 Belgio
La Libre Belgique
scieNzA
22 Egitto
60 Testimoni
Página 12
68 Il richiamo della savana The Independent grAphic jourNAlism
birmANiA
di crac Bloomberg Businessweek brAsile
72 Cuba
José Carlos Romero ciNemA
74 Prigioniero della cinepresa Le Monde
23
Amira Hass
25
Yoani Sánchez
32
David Rief
34
Manuel Castells
78
Gofredo Foi
80
Giuliano Milani
84
Pier Andrea Canei
86
Christian Caujolle
94
Tullio De Mauro
97
Anahad O’Connor
101 Tito Boeri
le rubriche
POP
90 Ritorno
48 Un successo di carta Monocle
Cinema, libri, musica, video, arte
Le opinioni
viAggi
The New York Times
44 La borsa a prova
76
El País
28 Occupy America
ANp
cultura
ritrAtti
The Economist
è tornata Vogue
Financial Times
66 Gulnara Karimova
26 Cina
36 Aung San Suu Kyi
ecoNomiA
del mondo VII
Americhe
AttuAlità
a contare le folle Popular Mechanics
100 Banche europee
portfolio
24 Venezuela AsiA e pAcifico
96 Come si fa
di decidere The New York Times Magazine
AfricA e medio orieNte
Al Masry al Youm
scieNzA
52 La fatica
95
nei Balcani Charles Simić Ritratto del fumettista con il suo cane Joe Sacco
13
Editoriali
104 Strisce 105 L’oroscopo 106 L’ultima
le principali fonti di questo numero Bloomberg Businessweek È un settimanale economico statunitense. L’articolo a pagina 44 è uscito il 19 settembre 2011 con il titolo The bulletproof Palestinian stock exchange. The Independent È un quotidiano britannico. L’articolo a pagina 68 è uscito il 18 settembre 2011 con il titolo Return of the wild to the ields of battle. Monocle È un mensile londinese di attualità. L’articolo a pagina 48 è uscito a settembre del 2011 con il titolo Breaking the news. Vogue È un mensile di moda statunitense. L’articolo a pagina 36 è uscito a marzo del 2011 con il titolo Beauty and the beast. Internazionale pubblica in esclusiva per l’Italia gli articoli dell’Economist.
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internazionale.it/sommario
Più della metà degli italiani ritiene che il comportamento dei giornalisti sia poco o per niente etico. E il giudizio dei giornalisti su loro stessi è ancora più duro: oltre l’80 per cento di quelli lombardi e veneti considera poco o per niente etico il comportamento della categoria. Sono i risultati di un’indagine Astra presentata a Milano il 7 ottobre. Si salvano solo internet e la radio. Tutti gli altri, dai periodici alle tv, passando per i pubblicitari e le agenzie di pubbliche relazioni, non ottengono la suicienza. Quali sono i comportamenti che caratterizzano un giornalismo etico? In cima alla lista ci sono “evitare di fornire informazioni false o inesatte” e “veriicare la verità dei fatti citati”. “L’etica non è un fatto accessorio”, ha scritto Annamaria Testa commentando la ricerca, “è strettamente connessa con la qualità e la credibilità dell’oferta di informazione. E con il suo valore. Quindi con la sopravvivenza, anche in termini economici, dell’intero sistema nel medio termine”. Ma se ci può consolare, la crisi di credibilità della stampa non è un fatto solo italiano. In Gran Bretagna, dopo lo scandalo delle intercettazioni che ha travolto News of the World, non è un bel momento per chi fa il giornalista. Tanto che il Guardian, per rinsaldare il rapporto di iducia con i lettori, ha preso una decisione storica, e per ora sperimentale: raccontare in diretta, sul web, di cosa si stanno occupando i suoi reporter. Naturalmente sono esclusi gli scoop o le inchieste più delicate, ma in ogni caso è un segnale importante. Il Guardian, da sempre all’avanguardia nell’esplorare i nuovi linguaggi del giornalismo, scommette sulla trasparenza dei meccanismi decisionali per coinvolgere i lettori. E lancia una sida a tutti i quotidiani, non solo in Gran Bretagna. Giovanni De Mauro settimana@internazionale.it
Steve Jobs era appassionato, perfezionista e geniale. Ma anche cinico, ossessionato dal controllo e dispotico. Gli articoli di Time (p. 14), The New Yorker (p. 17), The New York Times (p. 18) e Le Monde (p. 19). Illustrazione di Noma Bar.
Immagini In ricordo di Daniel Il Cairo, Egitto 9 febbraio 2011
Il 9 ottobre 2011 il blogger e attivista egiziano Mina Daniel, 25 anni, è rimasto ucciso negli scontri tra i manifestanti copti e le forze di sicurezza al Cairo. Il bilancio delle violenze è di almeno 25 morti e duecento feriti. Mina Daniel aveva partecipato in dall’inizio alle manifestazioni che hanno portato alla caduta di Hosni Mubarak diventando uno dei simboli della protesta. Il 10 ottobre al suo funerale in piazza Tahrir, al Cairo, hanno partecipato centinaia di giovani cristiani e musulmani. Foto di Eduardo Castaldo
Immagini Arrabbiati
Jersey City, Stati Uniti 6 ottobre 2011 Una manifestazione del movimento Occupy Wall street davanti al Goldman Sachs building. La protesta è stata accompagnata da una presenza imponente di forze dell’ordine, che avevano previsto la partecipazione di migliaia di persone. Il movimento, nato a settembre a New York, si è esteso nelle ultime settimane a decine di città statunitensi. Foto di Andrew Burton (Getty Images)
Immagini Budda sommerso Ayutthaya, Thailandia 10 ottobre 2011
Un’alluvione causata dalle forti piogge monsoniche ha sommerso la statua di Budda in un antico tempio della provincia di Ayutthaya, a nord della capitale Bangkok. In due mesi le precipitazioni hanno provocato la morte di 269 persone, sommergendo ampie zone del paese. Foto di Pornchai Kittiwongsakul (Afp/ Getty Images)
Posta@internazionale.it Ecologisti sul serio u Nel suo sfottò degli ecologisti (7 ottobre), Martín Caparrós mostra un’ignoranza abissale non solo della realtà del cambiamento climatico, ma dei possibili scenari degli attuali trend di crescita, ormai prossimi ai limiti isici: risorse, beni di consumo, inquinamento, terreni produttivi e rese agricole. E con loro è in pericolo la speranza di vita della popolazione mondiale. Chi lancia un allarme sul futuro non è un conservatore chic ma indica la necessità di profondi cambiamenti. Tutto il contrario della macchietta descritta da Caparrós. Angelo Angiolini
Le foto dell’hamburger u Il vegetarianesimo non è ereditario, purtroppo. Sono un nonno vegetariano la cui nipotina lo è diventata per aver visto foto come quelle dell’articolo “L’hamburger in provetta”. La lettrice che se ne lamentava (30 settembre) auspicandone la visione solo per un pubblico adulto, vorrebbe es-
sere tutelata anche se adulta, e vorrebbe tutelare la non-coscienza dei pargoli. Mentalità difusa nell’Italia mammista. Federico Prandi
L’Italia è viva u L’Italia è in una posizione di stallo e i cinesi non vedono l’ora di metterci le mani, lo sanno tutti. D’altro canto, articoli come quelli di Goldman (7 ottobre 2011) arrivano a conclusioni afrettate solo per compiacere qualche potente asiatico. Abbiamo una cultura e un genio più vivi che mai. Negli ultimi decenni ci siamo fatti fregare da smanie di potere e carte bollate, ma ci rialzeremo perché abbiamo dato all’umanità un contributo inestimabile e vogliamo continuare a darlo. Gianpaolo Roselli
La donna di Facebook u Ho letto l’articolo su Sheryl Sandberg (30 settembre). In Italia una donna che vuole conciliare famiglia e lavoro deve fare dei sacriici. Io non voglio scegliere. Ho da poco avu-
to un iglio e sono rimasta a casa solo i cinque mesi di maternità obbligatoria. Grazie all’azienda per cui lavoro, ho potuto lavorare da casa 12 ore alla settimana ino al compimento del settimo mese del mio bimbo, poi sono rientrata in uicio e ci resterò part time ino a che il mio bambino non avrà un anno. La mia, però, è un’eccezione. Per migliorare la situazione, il congedo di paternità dovrebbe essere obbligatorio e il part time un diritto. In 24 ore settimanali una persona può lavorare molto e bene. Valentina Gattei
Errata corrige u Nel numero del 7 ottobre, il titolo del ilm di Gus Van Sant è L’amore che resta. PER CONTATTARE LA REDAZIONE
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Dear daddy
A colpi di spazzola Mi sono presa i pidocchi. Dieci mesi fa, diventando mamma di due gemelli, ero pronta a vomito, cacca e bava, ma ritrovarmi degli insetti in testa forse è un po’ troppo. –Lola L’idea di questi piccoli animaletti che ti vivono addosso è piuttosto impressionante, lo so. Si aggrappano a te e ti seguono ovunque, senza lasciarti un attimo di tregua. Vorresti far inta di niente, mandarli via a colpi di spazzola, mentre la gente ti guarda con aria terrorizzata, tenendosi a debita
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distanza. Purtroppo non c’è niente da fare: non esistono trattamenti o shampoo per liberarsi dei bambini, e anche prenderli a spazzolate avrà l’unico efetto di renderli ancora più aggressivi. La buona notizia è che almeno dei pidocchi riuscirai a liberarti: per quelli il trattamento esiste, eccome. Ma sei veramente sicura di volerlo fare? Presto quei due animaletti che ti vivono aggrappati addosso cominceranno a fare la lagna perché vogliono un animale domestico. E tu non mi sembri nello stato psicoisico giusto per po-
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ter badare anche a un cane. E neanche a un pesce rosso, se è per questo. I pidocchi allora potrebbero essere una simpatica soluzione. Non sporcano, non fanno rumore, non devi neanche portarli a fare la pipì, perché te la fanno direttamente in testa. E terranno occupati quelle due terribili bestiole per un po’. u Claudio Rossi Marcelli è un giornalista di Internazionale. Ha scritto Hello daddy! (Mondadori 2011). Risponde alle domande dei lettori all’indirizzo daddy@internazionale.it
Le correzioni
La prova dei fatti
u I lettori di Internazionale che hanno letto L’isola più lontana (n. 912), il saggio di Jonathan Franzen su David Foster Wallace, sanno che i due scrittori erano legati da un’amicizia profonda e complessa. Il 1 ottobre, intervistato dal direttore del New Yorker David Remnick a New York, Franzen non ha fatto mistero della sua rivalità con Foster Wallace, riconoscendo all’amico scomparso il merito di averlo stimolato a trovare la sua voce più autentica. Poco dopo però, parlando delle diferenze tra iction e non iction, ha ricordato che gli articoli di Foster Wallace, a diferenza dei suoi, erano pieni di cose inventate. Remnick è saltato sulla sedia: stava forse dicendo che Una cosa divertente che non farò mai più, il resoconto di una crociera di lusso che Foster Wallace scrisse originariamente nel 1996 per la rivista Harper’s, era un’opera di fantasia? “Ti sarai accorto che lui non ha mai pubblicato articoli sul New Yorker”, si è limitato a osservare Franzen. “Non avrebbe retto all’esame dei fact checker”, ha concluso Remnick. I fact checker del New Yorker, incaricati di veriicare dati, fatti e afermazioni contenuti nel giornale, sono famosi per il loro rigore. “Io li temo”, ha detto Franzen. “Bene!”, ha esclamato Remnick con un sorriso. Giulia Zoli è una giornalista di Internazionale. L’email di questa rubrica è correzioni@ internazionale.it
Editoriali “Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante se ne sognano nella vostra ilosoia” William Shakespeare, Amleto Direttore Giovanni De Mauro Vicedirettori Elena Boille, Chiara Nielsen, Alberto Notarbartolo, Jacopo Zanchini Comitato di direzione Giovanna Chioini (copy editor), Stefania Mascetti (Internazionale.it), Martina Recchiuti (Internazionale.it), Pierfrancesco Romano (copy editor) In redazione Carlo Ciurlo (viaggi), Camilla Desideri (America Latina), Simon Dunaway (attualità), Mélissa Jollivet (photo editor), Alessandro Lubello (economia), Alessio Marchionna (Italieni), Maysa Moroni, Andrea Pipino (Europa), Claudio Rossi Marcelli (Internazionale.it), Francesca Sibani (Africa e Medio oriente), Junko Terao (Asia e Paciico), Piero Zardo (cultura), Giulia Zoli (Stati Uniti) Impaginazione Pasquale Cavorsi, Valeria Quadri Segreteria Teresa Censini, Luisa Cifolilli Correzione di bozze Sara Esposito Traduzioni I traduttori sono indicati dalla sigla alla ine degli articoli. Marina Astrologo, Sara Bani, Giuseppina Cavallo, Matteo Colombo, Diana Corsini, Stefania De Franco, Andrea De Ritis, Enrico Del Sero, Giusy Muzzopappa, Floriana Pagano, Fabrizio Saulini, Andrea Sparacino, Bruna Tortorella, Nicola Vincenzoni Disegni Anna Keen. I ritratti dei columnist sono di Scott Menchin Progetto graico Mark Porter Hanno collaborato Gian Paolo Accardo, Luca Bacchini, Francesco Boille, Annalisa Camilli, Alessia Cerantola, Gabriele Crescente, Giovanna D’Ascenzi, Sergio Fant, Francesca Gnetti, Anita Joshi, Odaira Namihei, Lore Popper, Fabio Pusterla, Marta Russo, Marc Saghié, Andreana Saint Amour, Angelo Sellitto, Laura Tonon, Pierre Vanrie, Guido Vitiello Editore Internazionale srl Consiglio di amministrazione Brunetto Tini (presidente), Giuseppe Cornetto Bourlot (vicepresidente), Emanuele Bevilacqua (amministratore delegato), Alessandro Spaventa (amministratore delegato), Antonio Abete, Giovanni De Mauro, Giovanni Lo Storto Sede legale via Prenestina 685, 00155 Roma Produzione e difusione Francisco Vilalta Amministrazione Tommasa Palumbo, Arianna Castelli Concessionaria esclusiva per la pubblicità Agenzia del marketing editoriale Tel. 06 809 1271, 06 80660287 info@ame-online.it Subconcessionaria Download Pubblicità S.r.l. Stampa Elcograf Industria Graica, via Nazionale 14, Beverate di Brivio (Lc) Distribuzione Press Di, Segrate (Mi) Copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Common Attribuzione-Non commercialeCondividi allo stesso modo 3.0. Signiica che può essere riprodotto a patto di citare Internazionale, di non usarlo per ini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Per questioni di diritti non possiamo applicare questa licenza agli articoli che compriamo dai giornali stranieri. Info: posta@internazionale.it
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Un elettroshock per la crisi Vincent Giret, Libération, Francia “La crisi consiste nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere”. La deinizione del ilosofo italiano Antonio Gramsci si applica alla perfezione al momento di tensione estrema attraversato oggi dal mondo della inanza e in particolare dalle banche. Il vecchio mondo sembra ancora saldamente in piedi, o quasi. Vent’anni dopo lo scandalo del Crédit Lyonnais, il dramma della banca franco-belga Dexia ne è una prova quasi grottesca: rischi sconsiderati, speculazioni, prodotti inanziari “tossici”, esitazione irresponsabile da parte dei governi, stress test ineicaci e salvataggio pubblico senza efetti… È come se tutti si riiutassero di trarre il benché minimo insegnamento dalla catastrofe. Nonostante le avvisaglie minacciose del
2008, non è stato preso alcun provvedimento per regolare e controllare gli strumenti inanziari né in Europa né negli Stati Uniti. Mentre si discute di un nuovo piano di salvataggio per le banche, stavolta su scala europea, dovremmo ricordarci tutti che una banca è prima di tutto un bene pubblico. Prima di stanziare altri miliardi di euro, gli stati europei dovrebbero pretendere un cambio nelle regole e soprattutto un posto nel consiglio di amministrazione degli istituti salvati. Oggi nessuno si fa davvero carico di difendere l’interesse generale, e i popoli europei non sono più disposti ad accettarlo. C’è bisogno di un elettroshock per far nascere il mondo nuovo. u as
Buone notizie dalla Danimarca Le Monde, Francia Di questi tempi quando un paese europeo cambia le leggi sull’immigrazione di solito è in senso restrittivo. Invece il nuovo governo danese ha deciso di riaprire le frontiere e di rendere meno severe le norme sull’accoglienza degli stranieri. Per un paese che conta un 9,8 per cento di immigrati e cittadini di origini straniere, è un’iniziativa rara e coraggiosa. Il nuovo governo danese, formato il 3 ottobre dalla socialdemocratica Helle Thorning-Schmidt, è una coalizione di più partiti nata dopo la vittoria del blocco di sinistra alle elezioni del 15 settembre. Ed è proprio dietro le pressioni di due partiti – una formazione di estrema sinistra e un partito centrista – che Thorning-Schmidt ha deciso di cambiare rotta sull’immigrazione. Tra le misure annunciate la più spettacolare è l’abolizione dei controlli alle frontiere, il cui ripristino era stato annunciato in primavera in violazione del trattato di Schengen. Il ministero dell’immigrazione è stato semplicemente abolito e le sue funzioni sono state ridistribuite fra il ministero della giustizia e quello degli afari sociali. È stato abrogato il sistema di permessi a punti per i ricongiungimenti familiari, che saranno facilitati. Saranno snellite anche le procedure sui permessi di soggiorno e le naturalizzazioni. C’è poi un fatto simbolico importante: del governo di Helle Thorning-Schmidt fa parte, per la prima volta in Danimarca, un ministro di origine straniera, Manu Sareen, titolare del dicastero
dell’uguaglianza, dei culti e degli afari nordici. Negli ultimi dieci anni il paese aveva molto inasprito le norme sull’immigrazione. A causa dell’inluenza dell’estrema destra, la Danimarca – un tempo nota per le sue tradizioni di tolleranza e apertura – era diventata il paese europeo più chiuso agli stranieri. Per questo era guardata con invidia da altri governi di destra del vecchio continente, che non riuscivano a fare altrettanto in casa propria, mentre veniva denunciata dalle organizzazioni di difesa dei diritti umani. La vicina Svezia aveva addirittura espresso la sua preoccupazione per il peggioramento delle condizioni di accoglienza degli stranieri e per il tono generale del dibattito sull’immigrazione in Danimarca.
Nuovo inizio L’atteggiamento ostile verso l’immigrazione è diventato sempre più diicile da sopportare per quei danesi che non si identiicavano con l’immagine del paese presentata dall’estrema destra. C’era poi stata la vicenda delle vignette pubblicate nel 2005 da un quotidiano danese e da alcuni considerate poco riguardose verso Maometto. Quell’episodio aveva rappresentato un trauma per l’inconscio collettivo dei danesi e aveva contribuito a far deteriorare i rapporti con gli stranieri. Questo nuovo inizio rappresenta dunque una buona notizia sia per i danesi sia per il resto dell’Europa. u ma Internazionale 919 | 14 ottobre 2011
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In copertina
Il mago del c Walter Isaacson, Time, Stati Uniti
Alcuni leader sanno innovare grazie alla visione d’insieme. Altri si concentrano sui dettagli. Jobs faceva entrambe le cose. Per questo è stato il più grande imprenditore della nostra epoca
L
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infondere alla sua azienda una sensibilità estetica, un perfezionismo e una creatività tali che probabilmente faranno prosperare la Apple ancora a lungo.
Lunghe passeggiate All’inizio dell’estate del 2004 Steve Jobs mi telefonò. Nel corso degli anni più di una volta era stato molto cordiale con me, soprattutto quando voleva far apparire un nuovo prodotto sulla copertina di Time o in qualche programma della Cnn. Da quando avevo smesso di lavorare lì, però, non l’avevo quasi più sentito. Parlammo un po’ dell’Aspen institute, del quale ero entrato a far parte da poco, e lo invitai a parlare al nostro campus estivo in Colorado. Sarebbe venuto con piacere, mi disse, ma non per salire su un palco. Voleva fare una passeggiata e parlare. Mi sembrò un po’ strano. Ancora non sapevo che le lunghe passeggiate erano il suo modo preferito per avere una conversazione seria. Mi chiese di scrivere la sua biograia. Ne avevo appena pubblicata una di Benjamin Franklin e ne stavo scrivendo un’altra di Albert Einstein, e la mia prima reazione fu quella di chiedergli, scherzando, se si considerasse il loro erede naturale. Ero convinto che fosse a metà della sua carriera, e che avesse di fronte ancora molti alti e bassi. Non ancora, gli risposi. Magari tra dieci o vent’anni, quando sarà l’ora della pensione. Solo in seguito scoprii che mi aveva telefonato subito prima di sottoporsi a un intervento. Guardandolo combattere contro il cancro, con un’intensità solenne unita a un
DiANA WALkEr (SJ/CoNTour/GETTy iMAGES)
a saga di Steve Jobs incarna il mito della Silicon valley elevato all’ennesima potenza: una startup nata nel garage di casa si trasforma nell’azienda tecnologica più importante del mondo. Anche se in realtà non ha inventato molte cose, Jobs è stato un maestro nel combinare idee, arte e tecnologia in modo da reinventare il futuro. Ha progettato il Mac dopo aver intuito le potenzialità dell’interfaccia graica che la Xerox non aveva colto in pieno, e ha costruito l’iPod dopo aver capito quanto poteva essere divertente avere mille canzoni in tasca, mentre la Sony, pur avendo tutte le risorse necessarie, non c’era mai riuscita. Alcuni leader sanno innovare perché hanno una visione d’insieme. Altri ci riescono grazie all’ossessione per i dettagli. Jobs faceva entrambe le cose, senza fermarsi mai. Ha rivoluzionato sei industrie: computer, film d’animazione, musica, telefoni, tablet ed editoria digitale. Se ne potrebbe aggiungere una settima: la vendita al dettaglio. Non solo ha costruito dei prodotti capaci di trasformare il mondo, ma ha anche messo in piedi un’azienda che ha il suo stesso dna, piena di designer creativi e ingegneri ribelli che porteranno avanti la sua ilosoia. Per questo è diventato il più grande imprenditore della nostra epoca. La storia lo collocherà accanto a Thomas Edison e a Henry Ford. Jobs ha realizzato prodotti innovativi che uniscono la bellezza della poesia alla potenza dei processori. E ha saputo
sorprendente romanticismo emotivo, inii con l’esserne profondamente afascinato e mi resi conto di quanto i suoi prodotti rispecchiassero la sua personalità. Passione, perfezionismo, desideri, doti artistiche, mente diabolica e ossessione per il controllo: ogni aspetto della sua personalità era intimamente collegato al suo lavoro. Decisi
capitalismo Da sapere Steve Jobs è nato nel 1955, quando i telefoni erano a disco e i computer erano grandi come una stanza. È morto il 5 ottobre 2011, dopo aver messo un computer dentro al telefono e quel telefono in 120 milioni di tasche. Bloomberg Businessweek Aprile 1976
Fonda la Apple con Stephen Wozniak
Luglio 1976
Apple lancia il suo primo computer
1980
L’azienda fa il suo ingresso in borsa
1984
Apple lancia il Macintosh
1985
Viene cacciato dalla Apple
1986
È uno dei fondatori della Pixar
1996
Torna alla Apple come consulente
1997
È amministratore delegato ad interim
1998
Lancia il computer iMac
1999
Lancia il computer portatile iBook
2000
È confermato amministratore delegato
Maggio 2001
Apre il primo Apple store
Ottobre 2001
Lancia l’iPod
2003
Lancia iTunes
Agosto 2004
Prende un mese di congedo per malattia
2006
Apple coinvolta in uno scandalo in borsa
2007
Lancia l’iPhone
Gennaio 2009
Prende un altro congedo per malattia
Giugno 2009
Torna al lavoro
Gennaio 2010
Lancia l’iPad
Maggio 2010
Apple diventa l’azienda tecnologica che vale di più in borsa
Gennaio 2011
Prende un nuovo congedo per malattia
Giugno 2011
Annuncia la nascita di iCloud
Agosto 2011
Si dimette da amministratore delegato
Fonte: The Economist
Steve Jobs nella sua casa di Palo Alto, 2004 dunque di provare a scrivere la sua storia, come uno studio sulla creatività. Il legame tra la personalità di Jobs e i suoi prodotti si fonda innanzitutto sul suo tratto più saliente: l’intensità. Era chiaro in dalle superiori. All’epoca aveva già cominciato a sperimentare le diete compulsive che lo avrebbero accompagnato per tutta la vita – di solito a
base di frutta e verdura – per mantenersi magro e asciutto come un levriero. Imparò a issare le persone senza sbattere le palpebre, e perfezionò il suo modo di alternare lunghi silenzi a raiche di parole. Quest’intensità alimentava una visione binaria del mondo. Per lui eri un eroe o un coglione, a volte nel corso della stessa giornata. Lo
stesso valeva per i prodotti, le idee, le cose da mangiare. Una cosa era incredibilmente fantastica oppure faceva assolutamente schifo. Jobs era capace di assaggiare due avocado, indistinguibili al palato dei comuni mortali, e sentenziare che uno era il migliore che avesse mai mangiato, mentre l’altro era disgustoso. Si considerava un artista, e fu questo a instillare in lui la passione per il design. Mentre progettava il primo Macintosh, all’inizio degli anni ottanta, ripeteva che doveva essere più friendly, un concetto del tutto estraneo agli ingegneri dell’epoca. Il Internazionale 919 | 14 ottobre 2011
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In copertina
Un uomo riservato L’astronomo Keplero diceva che “la natura ama la semplicità e l’unità”. Anche Steve Jobs le amava. Per questo decise di non mettere a disposizione delle altre aziende il sistema operativo Macintosh. Microsoft fece l’opposto, permettendo che Windows fosse dato in licenza a chiunque. Questa scelta non produsse dei computer eleganti, ma portò Microsoft a dominare il mondo dei sistemi operativi. Quando la quota di mercato della Apple scese sotto il 5 per cento, l’approccio di Microsoft fu dichiarato vincente. Sul lungo periodo, però, il modello di Jobs ha mostrato alcuni vantaggi. La sua insistenza sull’integrazio-
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Steve Jobs con il gruppo che ha disegnato l’iPhone
JoNATHAN SPrAGUE (rEDUX/CoNTrASTo)
risultato fu che la parte frontale del Mac fu disegnata in modo da ricordare un volto umano, arrivando perino a mantenere la parte alta più sottile in modo che non sembrasse l’uomo di Neanderthal. Sapeva cogliere d’istinto i segnali che il design poteva trasmettere. Quando nel 1998 lui e il suo braccio destro John Ive progettarono il primo iMac, Ive decise che nella parte superiore ci sarebbe stata una maniglia. Era una cosa simpatica più che utile. Pochi l’avrebbero usata per trasportare il computer. Eppure mandava il segnale che non bisognava aver paura della macchina. Potevi toccarla, e lei ti avrebbe ubbidito. Gli ingegneri fecero notare che la maniglia avrebbe fatto aumentare i costi, ma Jobs decise di farla lo stesso. Dietro alla ferrea volontà della Apple di esercitare il controllo assoluto su ogni prodotto, c’è la ricerca costante della perfezione. Molti hacker e appassionati di computer si divertivano a modiicare le loro macchine e collegare dispositivi di ogni tipo. Per Jobs questa era una minaccia al buon funzionamento del computer. Il suo socio degli inizi, Steve Wozniak, hacker nell’anima, non era d’accordo. Lui voleva includere nell’Apple II otto slot in cui gli utenti potessero inserire qualsiasi tipo di scheda o di periferica. Jobs accettò a malincuore. Qualche anno dopo, però, quando si trattò di costruire il Macintosh, fece di testa sua. Fece sparire gli slot e usò delle viti speciali perché nessuno potesse aprire il computer e modiicarlo. Gli veniva l’orticaria quando vedeva il suo software fantastico girare su una macchina scadente. Allo stesso modo non sopportava l’idea che un’applicazione potesse inquinare la perfezione dei suoi dispositivi.
ne totale ha permesso alla Apple di partire in vantaggio quando è arrivato il momento di collegare i computer ai nuovi dispositivi portatili. L’iPod, per esempio, fa parte di un sistema chiuso e fortemente integrato. Per usarlo bisogna usare iTunes e scaricare i contenuti dall’iTunes Store. Il risultato è che l’iPod, rispetto alla concorrenza, è un prodigio di eleganza e semplicità. Per Steve Jobs l’integrazione era una virtù. “Non siamo maniaci del controllo”, spiegava. “Vogliamo fare degli ottimi prodotti, perché abbiamo a cuore chi li usa e perché preferiamo assumerci la responsabilità di tutta l’esperienza d’uso”. In un mondo pieno di oggetti fatti male, messaggi d’errore indecifrabili e interfacce irritanti, la passione di Jobs per la semplicità ha creato prodotti incredibili. Usare un prodotto Apple è un po’ come entrare in uno dei giardini zen di Kyoto che Jobs amava tanto, e nessuna delle due cose si ottiene lasciando sbocciare migliaia di iori a caso. A volte è bello aidarsi alle mani di un maniaco del controllo. Qualche settimana fa sono andato a trovare Jobs per l’ultima volta nella sua casa di Palo Alto. Si era trasferito in una stanza al
pianterreno perché era troppo debole per salire e scendere le scale. Era piegato dal dolore, ma la sua mente era lucida e il suo senso dell’umorismo ancora brillante. Abbiamo parlato della sua infanzia e mi ha dato alcune foto di suo padre e della sua famiglia da usare nella biograia. Il mestiere di giornalista mi ha abituato al distacco, ma al momento di salutarlo ho sentito un’ondata di tristezza. Per mascherare l’emozione, gli ho rivolto l’ultima domanda sulla quale continuavo ad arrovellarmi. Perché nei due anni in cui abbiamo fatto quasi cinquanta interviste e conversazioni mi aveva raccontato tante cose, lui che in genere era così riservato? “Vorrei che i miei igli mi conoscessero”, ha risposto. “Non sempre per loro ci sono stato. Vorrei che sapessero cosa ho fatto e perché”. u mc L’AUTORE
Walter Isaacson è il presidente dell’Aspen Institute. Ha diretto il settimanale Time. È l’autore della biograia Steve Jobs che sarà pubblicata in Italia da Mondadori il 24 ottobre.
Com’è cambiato Steve Jobs James Surowiecki, The New Yorker, Stati Uniti Negli anni ottanta creò dei computer più potenti e più facili da usare di quelli dell’Ibm. Ma costavano troppo e nessuno li comprava. Così decise di cambiare strategia ome ormai è noto a tutti, la caratteristica principale di Steve Jobs era il perfezionismo. La nascita del Macintosh, per esempio, aveva richiesto più di tre anni a causa della sua ossessione per i dettagli. Jobs aveva bocciato l’idea di una ventola interna, perché pensava che fosse rumorosa. E voleva che i suoi tecnici riprogettassero la scheda madre del Mac, perché non era abbastanza elegante. Alla NeXT, la società che aveva fondato dopo essere stato buttato fuori dalla Apple nel 1985, aveva fatto impazzire i tecnici perché voleva un computer che somigliasse a uno splendido cubo di magnesio. Dopo il suo ritorno alla Apple, cominciò a interessarsi personalmente di cose come il numero di viti che c’erano nel guscio di un portatile. Ci vollero sei mesi prima che fosse soddisfatto di come funzionavano le barre di scorrimento del sistema operativo Os X. Jobs pensava che un oggetto doveva essere perfetto nei minimi particolari, anche quelli nascosti. Questo perfezionismo è stato determinante per il successo della Apple. Spiega anche perché i suoi prodotti trasmettono una sensazione di integrità: sembrano un tutto unico, non un insieme di parti. Ma il perfezionismo di Jobs aveva anche un prezzo molto alto. Negli anni ottanta Jobs voleva che nelle pubblicità per le riviste e sulle confezioni il logo della Apple fosse stampato in sei colori invece di quattro, e questo faceva salire il costo del 30 o del 40 per cento. E c’erano anche spese più importanti. La sua idea era che la Apple dovesse controllare ogni aspetto dell’esperienza dell’utente. L’hardware era brevettato, l’azienda aveva
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la sua fabbrica di Mac e preferiva montare cavi, unità disco e ili elettrici speciali invece di quelli standard. Anche il software era brevettato: se si volevano usare i suoi programmi bisognava avere un computer della Apple. Questo rendeva i computer più costosi e più diicili da personalizzare, e alle imprese non piaceva. Perciò, anche se negli anni ottanta la Apple ha cambiato completamente il mondo dell’informatica, con macchine che erano più facili da usare e più potenti di quelle dell’Ibm, tutti compravano un pc.
Mercati più caotici Quando Jobs tornò, voleva ancora che la Apple possedesse e controllasse la tecnologia di base dei suoi prodotti. Ma era un po’ meno ossessionato dall’idea del controllo. Era più disponibile a giocare con gli altri, e questo è stato fondamentale per lo straordinario successo della Apple negli ultimi dieci anni. Prendiamo l’iPod. Il vecchio Jobs avrebbe insistito perché riproducesse solo musica codiicata nel formato digitale preferito dalla Apple, l’advanced audio coding. Questo le avrebbe permesso un maggior controllo sulla qualità, ma avrebbe limitato le vendite, dato che milioni di persone possedevano già dei ile mp3. Perciò la Apple ha reso l’iPod compatibile con gli mp3. Jobs avrebbe anche potuto insistere, come voleva fare all’inizio, perché iPod e iTunes fun-
Da sapere u Richard Stallman, uno dei principali difensori del software libero, il 6 ottobre ha scritto sul suo sito: “Steve Jobs, il pioniere del computer inteso come una prigione dorata, è morto. Il sindaco di Chicago Harold Washington una volta disse di un collega corrotto: ‘Non sono felice che sia morto, ma sono felice che se ne sia andato’. Nessuno merita di morire. Né Jobs né Bill né le persone con colpe più gravi delle loro. Ma noi meritiamo la ine dell’inluenza deleteria di Jobs sul mondo dei computer. Purtroppo quell’inluenza continua nonostante la sua assenza. Speriamo che i suoi successori facciano meno danni”.
zionassero solo con i Mac. Ma questo avrebbe tagliato fuori la stragrande maggioranza delle persone che usavano un computer. Quindi nel 2002 la Apple ha lanciato un iPod compatibile con Windows, e le vendite sono salite alle stelle. L’iPhone ha segnato un ulteriore allentamento delle redini. Anche se la Apple fabbrica direttamente sia il telefono sia il sistema operativo, e anche se ogni applicazione si vende attraverso l’App Store, il sistema è molto più aperto di quanto il Mac non sia mai stato: esistono più di 400mila applicazioni per iPhone create da programmatori esterni. Alcune sono state prodotte dalla concorrenza – per leggere un libro si può usare Kindle invece che iBooks – e alcune sono così brutte che Jobs deve averle odiate. Queste applicazioni rendono l’iPhone meno elegante di come avrebbe potuto essere, ma ne aumentano il valore commerciale. Il vecchio Jobs probabilmente avrebbe cercato di limitare il numero delle applicazioni nell’interesse della qualità: ripeteva sempre che dire di no a certe idee è importante quanto dire di sì. Il nuovo Jobs ha cambiato strategia. E così l’efetto network che aveva penalizzato la Apple negli anni ottanta, facendone in pratica una marca da boutique, oggi è un vantaggio: più applicazioni ci sono, più le persone vogliono usare i prodotti Apple, più i programmatori creano altre applicazioni, e così via. Non c’è dubbio che il successo dell’azienda sia dipeso dalla capacità di Jobs di introdurre prodotti che coglievano lo spirito del tempo. Ma se è diventata una delle aziende più potenti del mondo è perché Jobs non ha solo creato oggetti fantastici, ma ha creato mercati che ruotano intorno a quegli apparecchi. Forse sono mercati più caotici di quanto avrebbe voluto, ma sono anche più redditizi. Per gli standard dell’informatica open source di oggi, le piattaforme della Apple sono ancora troppo chiuse. Google, invece, quando ha progettato il sistema operativo Android per i cellulari, ha accettato che i fabbricanti di telefonini lo usassero come volevano. Ma oggi la Apple è molto più aperta rispetto al passato. Rinunciando a un po’ di controllo, Jobs ha conquistato molto più potere. u bt L’AUTORE
James Surowiecki è un giornalista statunitense. Questo articolo è uscito sul New Yorker. Altre column di James Surowiecki sono su newyorker.com.
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In copertina Nessuna nostalgia Mike Daisey, The New York Times, Stati Uniti Apple aveva a disposizione tutte le risorse per rendere i suoi stabilimenti più umani. Ma ha subappaltato la produzione in Cina, dove le condizioni di lavoro sono spaventose teve Jobs era un nemico della nostalgia. Credeva che il futuro richiedesse spirito di sacriicio e coraggio. Ha scommesso sulle nuove tecnologie anche quando la strada era incerta. Diceva spesso ai giornalisti che era iero sia dei prodotti che lanciava sul mercato, sia di quelli che scartava. Era un maestro del cosiddetto kniing the baby (“accoltellare il bambino”, che nel gergo della Silicon valley indica la capacità di saper sacriicare alcuni prodotti in partenza), qualcosa che gli innovatori più sensibili non riescono a fare, perché si innamorano delle loro creazioni. Uno dei segreti del successo della Apple sotto la guida di Steve Jobs era la sua capacità di analizzare le nuove tecnologie con occhio freddo e distaccato, per eliminare tutto ciò che non era essenziale. Questo atteggiamento critico era il suo dono più grande. Jobs ha creato un modello di stile nel mondo dei computer proprio perché sapeva correggere e migliorare i suoi prodotti. Chissà cosa penserebbe delle manifestazioni di cordoglio arrivate da tutto il mondo dopo la sua morte, il 5 ottobre scorso. Sicuramente ne sarebbe lusingato, ma il suo acuto spirito di osservazione potrebbe avere la meglio. Stiamo parlando di un uomo che una volta chiamò un ingegnere di Google durante un ine settimana per dirgli che la tonalità di giallo della seconda “o” era imperfetta. Un uomo che, pur essendo l’amministratore delegato più famoso del mondo, rispondeva alle email inviate da sconosciuti con una regolarità impressionante. La sua insoferenza verso gli stupidi era leggendaria, e la valanga di articoli sulla sua vita che si pubblicano oggi gli darebbe sicuramente ai nervi. Di fronte a un
problema, molti dirigenti della Silicon valley si chiedono con fervore quasi religioso: “Cosa farebbe Steve al mio posto?”. Credo che il signor Jobs darebbe un giudizio freddo e obiettivo della sua vita, e non si risparmierebbe qualche critica severa. Non avrebbe alcun problema a riconoscere che era un genio, visto che aveva un ego estremamente sviluppato, ma spiegherebbe anche con parole pungenti quali aspettative ha deluso e, con il senno di poi, cosa avrebbe dovuto fare per perfezionare il suo stile. Steve Jobs lascia dietro di sé un’azienda importante nel settore tecnologico. Ha mantenuto la promessa che fece nel lontano 1997, quando tornò a Cupertino: salvare la Apple dalla rovina. Grazie al suo straordinario successo nella vendita di musica online e dispositivi mobili, la Apple è più forte che mai e usa questa posizione di vantaggio per limitare la libertà dei suoi utenti
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e imporre restrizioni più severe che in passato. Tutti i prodotti Apple – l’iPod, l’iPhone e l’iPad – usano sistemi operativi chiusi. Gli utenti non possono installare i programmi da soli: devono scaricarli dai server della Apple, controllati e gestiti dalla casa madre, che decide a suo piacimento cosa si può distribuire e cosa no, e quando intervenire con la censura senza dare spiegazioni, o quasi.
Gli operai della Foxconn Lo Steve Jobs che fondò la Apple come un’azienda anarchica per promuovere un’idea di libertà (i primi progetti con Stephen Wozniak erano dispositivi pirata e schede informatiche aperte) sarebbe spiazzato dal modo in cui il colosso di Cupertino sta costruendo il suo futuro. Oggi nessuna azienda del settore tecnologico somiglia più della Apple al Grande Fratello di 1984, usato in un celebre spot pubblicitario della Apple. È la dimostrazione della velocità con cui il potere riesce a corrompere. Il successo dell’azienda è andato di pari passo con la trasformazione del sistema industriale globale. Appena dieci anni fa i computer della Apple erano assemblati negli Stati Uniti, mentre oggi sono prodotti nella Cina meridionale in condizioni di lavoro spaventose. Come la stra-
Da sapere Fatturato annuale della Apple, miliardi di dollari. I dati si riferiscono agli anni iscali, che cominciano a settembre. Dati per il 2011 non ancora disponibili. iPad Incassa 5 miliardi di dollari miliardi di dollari 60 nel primo anno sul mercato
iPhone Diventa la parte più grande del fatturato Apple
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Lancio dell’iPhone
iTunes e prodotti collegati Apple è tra i pionieri della vendita di musica online
Steve Jobs torna come amministratore delegato. Se n’era andato nel 1985
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iPod Dal 2007 più di 50 milioni venduti ogni anno
Lancio dell’iMac Lancio dell’iBook
FONTE: THE NEW yOrk TIMES
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Software Soprattutto piccole applicazioni scaricabili
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Computer e periferiche È il settore con cui Apple ha cominciato. Sta attraversando una nuova fase di crescita
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grande maggioranza delle aziende dell’industria elettronica, la Apple aggira le leggi sul lavoro subappaltando tutta la produzione a imprese come la Foxconn, tristemente nota per i suicidi nei suoi stabilimenti, per un operaio morto dopo aver fatto un turno di 34 ore, per i numerosi casi di maltrattamenti e per la tendenza a fare qualsiasi cosa pur di soddisfare gli alti standard di produzione issati da colossi del settore tecnologico come la Apple. Ho viaggiato nella Cina meridionale e ho intervistato molti operai dell’industria elettronica. Uno di loro aveva la mano destra rattrappita: era stata schiacciata da una pressa metallica in uno stabilimento della Foxconn, dove si assemblano i portatili e gli iPad. Resterà deformata a vita. Quando gli ho mostrato il mio iPad l’operaio è rimasto a bocca aperta, perché non ne aveva mai visto uno acceso. Ha passato la mano sullo schermo ed è rimasto incantato di fronte alle icone che scorrevano avanti e indietro. Poi ha detto al mio traduttore: “Sembra magico”.
Un giudizio severo La magia di Steve Jobs ha i suoi costi. Possiamo ammirare la perfezione del design e il suo iuto per gli afari, ma dobbiamo anche riconoscere la verità: avendo a disposizione delle risorse immense, Steve Jobs avrebbe potuto rivoluzionare il settore introducendo un sistema di produzione più umano e aperto. A essere impietosi, senza cedere alla nostalgia, Jobs è stato un grande uomo con un talento per il design, una capacità di comunicare e una competenza nel mondo delle tecnologie che resteranno a lungo senza rivali. Ma è stato anche un uomo che in deinitiva non è riuscito a “pensare in modo diverso” – come recitava uno slogan della Apple, Think diferent – nel senso più profondo del termine, alle esigenze umane dei suoi utenti e dei suoi dipendenti. È un giudizio molto severo, ma Steve Jobs ha sempre creduto fortemente nella sincerità brutale, e la verità è quasi sempre spiacevole. Dopo la sua morte, il compito di realizzare gli obiettivi che lui non è riuscito a raggiungere spetta a tutti i ribelli, i disadattati e i folli che pensano di poter cambiare il mondo. u eds L’AUTORE
Mark Daisey è l’autore del monologo The agony and the ecstasy of Steve Jobs.
L’opinione
Un leader globalizzato Le Monde, Francia Jobs è stato un uomo fuori dal comune. Ma le sue esigenze, talvolta assurde, hanno anche provocato dei danni iori nella notte, candele e perino delle lacrime. Tutto questo davanti a dei negozi. Possibile che solo gli eroi del capitalismo siano capaci di suscitare simili emozioni? No. Steve Jobs, morto nella notte di mercoledì 5 ottobre a 56 anni, era molto più di un grande imprenditore. Il cofondatore della Apple ha cambiato il mondo. Più di tanti grandi capi di stato, il suo lavoro ha trasformato la vita di centinaia di milioni di persone. La sua scomparsa ha provocato un numero di reazioni uiciali e anonime perino superiore a quello che ci si potrebbe aspettare per la morte di una grande rock star. Su Sina Weibo, l’equivalente cinese di Twitter, quasi 35 milioni di microblog la mattina del 6 ottobre hanno parlato della sua morte. La genialità di questo americano è consistita nel controllare la tecnologia per farla entrare nelle nostre vite. Mentre dal dopoguerra in poi molte aziende informatiche si sono lanciate nella corsa alla potenza, alle prestazioni, all’innovazione tecnologica, l’ossessione di quest’uomo della Silicon valley è stata creare dei prodotti semplici e utili. Il mouse non è stato inventato dalla Apple, ma l’azienda della mela è stata la prima ad avere l’idea di lanciare un computer con un mouse: il
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Mentre le altre aziende cercavano la potenza, lui studiava la semplicità
Macintosh. Era il 1984. I lettori mp3 non sono stati inventati dalla Apple, e neanche la musica online, ma il lancio nel 2001 dell’iPod e dell’iTunes store ha attirato le generazioni che fuggivano dalle grandi case discograiche. Internet sul cellulare, gli schermi touchscreen o i servizi online esistevano già da anni, ma è stata l’azienda californiana con l’iPhone nel 2007, l’App Store nel 2008 e l’iPad nel 2010 a rendere questo universo accessibile a tutti.
Senza diploma Più volte Jobs ha saputo rompere con il passato, segnando delle date che rimarranno nella storia industriale insieme ad alcune grandi invenzioni. Un successo ancora più emblematico poiché si lega strettamente al mondo della Silicon valley. Nel 1976, a 21 anni, senza nemmeno avere un diploma fondò la Apple con un suo amico di origine polacca, Steve Wozniak. La sua è stata la carriera di un imprenditore fuori dal comune, in particolare per il ritorno nel 1997 a capo della “sua” impresa, da cui era stato allontanato dodici anni prima dagli azionisti. Ma prima ancora di essere una star mondiale, Jobs era un leader globalizzato, che ha saputo sfruttare senza limiti i vantaggi forniti dalla globalizzazione. La fabbrica taiwanese Foxconn, che nei suoi stabilimenti giganti della Cina meridionale produce gli iPhone e gli iPad, è uno degli strumenti di questo successo. E i dipendenti della Foxconn e anche quelli della stessa Apple ne sanno qualcosa. Le esigenze, talvolta assurde, di Steve Jobs hanno provocato non pochi danni alla società. È stato uno degli inventori del mondo di oggi, famoso come pochi potranno esserlo. Tanto di cappello. u adr Internazionale 919 | 14 ottobre 2011
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ThIERRy RoGE (REUTERS/CoNTRASTo)
Europa insuiciente. Ma la qualità principale di un primo ministro non è la conoscenza delle lingue. Un primo ministro deve avere una visione d’insieme, un progetto federale equilibrato, un programma coraggioso e un carisma capace di mobilitare il governo e i cittadini. E deve avere rispetto per tutti i belgi. Di Rupo ha le qualità per essere un bravo premier. Se poi riuscirà a rimanerlo a lungo è un’altra faccenda.
I rischi dell’unità
Il leader socialista francofono Elio Di Rupo a Bruxelles, 14 luglio 2011
Il Belgio trova l’accordo su governo e riforme Francis Van de Woestyne, La Libre Belgique, Belgio Alla ine di una crisi durata 16 mesi, iamminghi e francofoni hanno raggiunto un’intesa sul nuovo assetto dello stato. Grazie anche alla perseveranza del leader socialista Elio Di Rupo ravo! Congratulazioni al principale arteice di questo accordo, il leader socialista francofono Elio Di Rupo. Diicile immaginare l’energia, la pazienza e la creatività necessarie per arrivare a un simile risultato. Dopo essersi dannato l’anima per trovare una soluzione alla crisi con Bart De Wever, il leader dei separatisti iamminghi, Di Rupo ha dovuto negoziare con partner fragili, imprevedibili e divisi. Non vogliamo fare il panegirico di Di Rupo, ma bisogna riconoscere che è stato il solo, in un paese caratterizzato da forze centrifughe ed egoiste, in grado di compiere una sintesi politica tra il nord e il sud, tra la sinistra e la destra. Certo, anche Di Rupo ha i suoi difetti. Le lingue non sono il suo forte, e anche se manifesta un grande rispetto per i iamminghi, la sua dimestichezza con il neerlandese è ancora
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Da sapere u L’8 ottobre gli otto partiti belgi coinvolti nelle trattative guidate dal socialista francofono Elio Di Rupo hanno raggiunto un accordo per la riforma dello stato, che dovrebbe portare alla nascita di un nuovo governo. Il paese è senza esecutivo dalle elezioni del giugno 2010. Ai negoziati hanno partecipato i socialisti, i cristianodemocratici, i liberali e i verdi, francofoni e iamminghi, ma non i separatisti iamminghi dell’N-Va, usciti vincitori dal voto del 2010. La riforma istituzionale, la sesta dal 1970, prevede, tra le altre cose, una maggiore autonomia in materia di isco e sanità per le regioni federali (Vallonia, Fiandre e Bruxelles) e un nuovo assetto per il distretto elettorale di Bruxelles-halle-Vilvoorde (Bhv).
Anche gli altri partiti coinvolti nell’accordo meritano un elogio. Tutti hanno dato il loro contributo per far sì che questo negoziato, uno dei più delicati della storia del paese, si chiudesse con un accordo equilibrato, che i francofoni e i iamminghi possono sostenere a testa alta nelle loro comunità. Non ci sono né vincitori né vinti: solo uomini e donne che hanno avuto il coraggio di dire “sì”, quando sarebbe stato più comodo trincerarsi dietro un’opposizione sterile. Bravi. Anche perché senza questa riforma, di vitale importanza per il paese, il rischio di una spaccatura sarebbe stato reale. Così è stato rimandato, almeno di qualche anno. Questi accordi, seppure imperfetti, rappresentano anche una sida. I belgi hanno saputo trovare un’intesa, mostrare rispetto reciproco e accettare dei compromessi. Senza questa capacità, qualsiasi coesistenza pacifica sarebbe impossibile. Rimane però un dubbio. I valloni sono favorevoli all’unità nazionale, cioè alla partecipazione di tutti i partiti francofoni al futuro governo. Innanzitutto perché il governo sarà più stabile se potrà fare aidamento su una maggioranza ampia. Inoltre è logico che i partiti che hanno negoziato siano inclusi nell’esecutivo. Ma c’è un rischio: l’opposizione sarà quasi esclusivamente iamminga. Inoltre, alle prossime elezioni, gli elettori che vorranno contestare l’azione del governo potranno votare solo per un partito di protesta o dichiaratamente estremista. Il punto non è chiedere l’esclusione dal governo dei verdi, partner leali e costruttivi, ma sottolineare i pericoli di un’unità nazionale troppo allargata. Di Rupo avrà presto la possibilità di riformare e rendere più dinamico lo stato. Sia a nord sia a sud gode di una popolarità insolita per un primo ministro. A questo punto possiamo solo rivolgergli un doppio augurio. Che sappia approittare della luna di miele con gli elettori, e che i francofoni usino questo periodo di tregua per mettersi d’accordo sul loro futuro comune. u adr
Polonia
UCRAINA
Condannata l’ex premier
STePHANe MAHe (reuTerS/CoNTrASTo)
La conferma di Tusk
L’ex premier ucraina Julia Timoshenko (nella foto con la iglia) è stata condannata da un tribunale di Kiev a sette anni di carcere per abuso di potere. La condanna riguarda un accordo sulle importazioni di gas siglato con Mosca nel 2009. Secondo il quotidiano polacco Gazeta Wyborcza, è stato un processo politico, che dimostra come l’ucraina, sette anni dopo la rivoluzione arancione, stia diventando di nuovo un paese autoritario. La sentenza è stata già criticata dall’unione europea, dagli Stati uniti, dall’onu e perino da Mosca. e, scrive Kyiv Post, potrebbe rappresentare un boomerang politico per il presidente Viktor Janukovich, che secondo molti osservatori è il vero ispiratore del processo alla sua ex rivale.
Donal Tusk a Varsavia, 9 ottobre 2011
Il 9 ottobre si è svolto il primo turno delle primarie del Partito socialista (Ps) per decidere chi siderà Nicolas Sarkozy, che quasi sicuramente si candiderà per un nuovo mandato, alle presidenziali dell’aprile 2012. L’operazione è stata un “enorme successo popolare”, scrive Libération: hanno votato oltre 2,6 milioni di persone, un risultato molto superiore alle attese, dopo un’inedita campagna elettorale che ha visto i sei candidati sidarsi anche in dibattiti televisivi. Come previsto dai sondaggi, a spuntarla sono stati l’ex segretario del Ps François Hollande (nella foto), con il 39 per cento dei voti, e la donna che ha preso il suo posto, Martine Aubry, con il 30 per cento. L’ex sidante di Sarkozy nel 2007, Ségolène royal (che in quella occasione vinse le primarie al primo turno) si è piazzata quarta, dietro alla sorpresa del voto, Arnaud Montebourg, che ha raccolto consensi tra gli elettori della sinistra radicale. I voti del candidato della “deglobalizzazione” saranno essenziali per decidere l’esito del ballottaggio del 16 ottobre. Le primarie socialiste francesi, percentuale di voto %
François Hollande
39,2
Martine Aubry
30,4
Arnaud Montebourg
17,2
Ségolène royal
7,0
Manuel Valls
5,6
Jean-Michel baylet
0,6
Il nuovo parlamento polacco. 460 seggi, aluenza 48,9%
Po 207 | Pis 157 | Movimento di Palikot 40 | Partito dei contadini 28 | Sinistra democratica 27 | Minoranza tedesca 1
“Hanno vinto i polacchi che vogliono un paese moderno e aperto”. Così il quotidiano Gazeta Wyborcza commenta il successo alle elezioni del 9 ottobre di Donald Tusk, leader di Piattaforma civica (Po) e primo premier polacco a essere riconfermato al potere dal 1989. Con il 39,2 per cento dei voti, Tusk ha ottenuto “una vittoria chiara, non certo un trionfo”, e ha distanziato di quasi dieci punti il rivale Jarosław Kaczyński, leader del partito populista Legge e giustizia (Pis). “La formazione di Kaczyński”, osserva Rzeczpospolita, “non è riuscita a scrollarsi di dosso l’immagine di partito inaidabile. Così gli elettori hanno dato iducia a Po, convinti che saprà garantire stabilità al paese”. I polacchi, infatti, spiega il quotidiano conservatore, “apprezzano il fatto che il loro livello di vita sia migliorato, o comunque non sia peggiorato, rispetto a quello degli altri europei”. Nella prossima legislatura, il partner di Po sarà ancora il Partito dei contadini (Psl), che ha ottenuto poco più dell’8 per cento dei voti. Forte di una maggioranza solida, il nuovo governo, scrive Dziennik Gazeta Prawna, non ha più alibi: la riforma del settore pubblico va varata subito e Tusk non può più nascondersi dietro alle “scelte del presidente o all’aggressività dell’opposizione”. Al di là della prevedibile vittoria di Po, la vera sorpresa del voto è stato l’ottimo risultato del movimento di Janusz Palikot, ilogay e anticlericale, che ha ottenuto il 10 per cento dei voti. “Stanchi dell’intolleranza e del tradizionalismo, molti polacchi hanno trovato in Palikot il loro portavoce”, scrive Gazeta Wyborcza. u
GLeb GArANICH (reuTerS/CoNTrASTo)
Primarie di successo
PeTer ANDreWS (reuTerS/CoNTrASTo)
FRANCIA
IN BREVE
Armenia Il 6 ottobre, durante una visita a erevan, il presidente francese Nicolas Sarkozy ha invitato la Turchia a riconoscere il genocidio degli armeni del 1915. Georgia Il governo ha annunciato l’8 ottobre che non revocherà il suo veto all’ingresso della russia nella Wto perché Mosca continua a riconoscere le regioni separatiste dell’Abkhazia e dell’ossezia del Sud. Gran Bretagna L’11 ottobre l’ispettore capo Mike Weightman ha dato il via libera al programma nucleare britannico dopo i controlli seguiti all’incidente di Fukushima.
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Africa e Medio Oriente
KHALIL HAMrA (AP/LAPrESSE)
Il Cairo, 10 ottobre 2011. I familiari dei manifestanti copti uccisi
L’esercito egiziano cavalca l’odio religioso
tre, bastoni e armi, che scandivano slogan contro i copti. E l’esercito è rimasto a guardare. I conflitti religiosi in Egitto erano già difusi prima della rivoluzione di gennaio. Invece di essere afrontato seriamente, il problema è stato aggravato da chi detiene il potere. La pretesa dell’esercito di presentarsi come il custode dell’ordine si è dissolta rapidamente quando le autorità hanno permesso – e forse incoraggiato – l’esplosione dell’odio religioso. Tutto questo va contro i princìpi della rivoluzione – libertà, dignità e uguaglianza – e rappresenta una minaccia non solo per la minoranza cristiana, ma anche per l’intera democrazia egiziana. Da quando ha assunto il potere, il consiglio supremo delle forze armate (Scaf) non ha risposto alle richieste degli egiziani, non ha rispettato le proteste paciiche e non ha protetto i luoghi di culto e gli ospedali. Invece, ha lasciato montare lo scontento della popolazione e, quando la rabbia collettiva è esplosa, ha reagito con la violenza e le minacce.
Elezioni necessarie
Al Masry al Youm, Egitto Dopo la dura repressione della manifestazione dei copti il 9 ottobre, il consiglio supremo delle forze armate non potrà più presentarsi come il guardiano della rivoluzione egiziana li scontri del 9 ottobre 2011 al Cairo sono stati i più violenti da gennaio. Mentre familiari e amici piangono i manifestanti morti, bisogna chiedersi come si è arrivati a un bilancio tanto sanguinoso e dove sta andando l’Egitto otto mesi dopo la caduta di Hosni Mubarak. La frustrazione dei copti egiziani cova da tempo. Le loro lamentele sono giustiicate dalle restrizioni imposte alla costruzione di nuove chiese, dalle discriminazioni che subiscono nella pubblica amministrazione e dall’assenza di una vera rappresentanza politica. Negli ultimi mesi sono aumentati gli attacchi contro i loro luoghi di culto. La distruzione a inizio ottobre di una chiesa nella provincia di Assuan – l’evento che ha scatenato le ultime proteste – è stata almeno la quarta dalla caduta di Mubarak.
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La sera del 9 ottobre un’assemblea di manifestanti paciici, in gran parte copti, è stata afrontata con una violenza ingiustiicata dall’esercito e dalla polizia. All’alba si contavano almeno 25 morti e più di duecento feriti. La causa di queste morti non è ancora chiara ma i testimoni oculari parlano di sparatorie indiscriminate e di veicoli militari lanciati contro la folla. Nel frattempo la tv di stato alimentava le violenze. Il telegiornale ha accusato i “manifestanti copti armati” di aver aggredito i soldati, incitando i cittadini a scendere in strada per difendere l’esercito. Al tramonto i manifestanti sono stati attaccati da uomini armati di pie-
Da sapere u Nonostante gli scontri del 9 ottobre, il consiglio supremo delle forze armate ha annunciato che sarà rispettata la tabella di marcia verso le elezioni legislative del 28 novembre, con la presentazione dei candidati il 12 ottobre. u L’11 ottobre Hazem al Beblawy, ministro delle inanze e vicepremier, ha annunciato di volersi dimettere in segno di protesta per la repressione delle proteste copte. Molti egiziani chiedono le dimissioni del primo ministro Essam Sharaf. Al Masry al Youm
Anche se la repressione del 9 ottobre si distingue per l’alto numero di vittime, la mentalità che le sta dietro non è nuova. Il regime di Mubarak ha sempre concepito l’Egitto come un paese intrinsecamente instabile, da tenere sotto controllo attraverso un rigido apparato di sicurezza. Ha preferito risolvere i problemi ricorrendo al pugno di ferro più che al dialogo politico, e questo atteggiamento è costato la poltrona all’ex presidente. Tuttavia, chi ha preso il potere dopo di lui non sembra aver imparato la lezione. Lo Scaf dovrebbe smetterla di comportarsi come il guardiano della rivoluzione al di sopra di ogni critica. Anche se una parte della popolazione gli ha conferito il mandato di guidare la transizione verso la democrazia, nessuno gli ha garantito la libertà di monopolizzare il processo politico e di mettere a tacere gli oppositori, meno che mai con l’uso della forza. L’Egitto deve eleggere al più presto un governo, che afronti i molti problemi politici e sociali del paese in modo aperto e secondo giustizia. Negli ultimi mesi, nelle fasi più critiche, l’esercito ha mostrato di voler ritardare, e non accelerare, questo processo. I generali non possono guidare l’Egitto verso la democrazia. Per questo percorso, l’Egitto ha bisogno di rappresentanti eletti dal popolo . u gim
Israele
TUNISIA
Contro
JESSICA RINALDI (REUTERS/CONTRASTO)
Verso la liberazione di Shalit Persepolis Gerusalemme, 11 ottobre 2011
Il 7 ottobre il premio Nobel per la pace è stato assegnato alla presidente liberiana Ellen Johnson Sirleaf, all’attivista liberiana Leymah Gbowee (nella foto) e all’attivista yemenita Tawakkul Karman, per il ruolo che hanno svolto nel far avanzare la democrazia dei loro paesi. “Da otto mesi Karman guida le proteste contro il regime”, scrive lo Yemen Times. “Con il suo esempio ha aperto nuove strade alle yemenite”. Il 10 ottobre a Ta’izz quaranta donne sono rimaste ferite quando la polizia ha disperso una manifestazione a favore di Karman. Non ha suscitato altrettanto entusiasmo l’attribuzione del premio a Sirleaf, a causa della concomitanza con le presidenziali liberiane dell’11 ottobre, in cui la presidente uscente rischia di perdere. “Sirleaf è molto più amata in occidente che nel suo paese. L’assegnazione del Nobel avrà sicuramente un efetto sulle elezioni”, scrive il Liberian Journal. Il 10 ottobre è stato assegnato anche il premio Mo Ibrahim per il buon governo. Il vincitore è l’ex presidente di Capo Verde, Pedro Pires, che quest’anno ha lasciato l’incarico dopo due mandati. Vincitori del premio Nobel per la pace dal 1901
Uomini
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Donne
15 Fonte: The Guardian
Istituzioni
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GALI TIBBON (AFP/GETTy IMAGES)
SOCIETÀ
L’Africa premiata
A pochi giorni dalle elezioni dell’assemblea costituente, sale la tensione tra laici e religiosi. Il 9 ottobre un gruppo di integralisti islamici ha attaccato a Tunisi la sede di Nessma Tv, che aveva trasmesso il ilm Persepolis, considerato blasfemo. La polizia ha arrestato cinquanta persone. Ci sono state proteste anche all’università, contro le restrizioni al velo islamico, scrive Slate Afrique.
IN BREVE
Il 12 ottobre il governo israeliano ha approvato un accordo con Hamas per liberare Gilad Shalit (nella foto, i suoi genitori), il soldato rapito nella Striscia di Gaza nel 2006. In cambio Israele rilascerà 1.027 detenuti palestinesi. Secondo Ha’aretz, Hamas uscirà raforzata dallo scambio perché otterrà un risultato concreto, contro il successo simbolico di Abu Mazen all’Onu. Anche il premier israeliano Benjamin Netanyahu vedrà aumentare la sua popolarità. L’11 ottobre duemila palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane hanno indetto uno sciopero della fame per chiedere condizioni di vita migliori. u
Camerun Tre persone sono morte il 9 ottobre nelle violenze scoppiate durante le operazioni di voto per le elezioni presidenziali. Libia L’11 ottobre i combattenti del Consiglio nazionale di transizione (Cnt) hanno assunto il controllo del quartier generale della polizia nel centro di Sirte. Siria Il 9 ottobre 14 civili e 17 soldati sono morti negli scontri tra manifestanti e polizia. Sette civili sono stati uccisi a Homs.
Da Montréal Amira Hass
La strage delle donne indigene All’inizio mi sembrava impossibile: “In Canada uccidere le donne indigene è un’abitudine. Ed è legato al processo di colonizzazione”. Sarà un’esagerazione, pensavo. I canadesi sono brave persone, non permetterebbero mai un simile orrore. Poi però i pezzi del puzzle hanno cominciato ad andare al loro posto. Ho scoperto che le donne indigene vivono nei quartieri più poveri delle città canadesi, e che molte di loro sono tossicodipendenti e si prostituiscono. Sono un bersa-
glio facile, ma anche strategico, perché trasmettono la cultura indigena ai loro igli. I bianchi si sentono minacciati dai nativi, che rivendicano la terra e le risorse naturali. Dall’inizio degli anni novanta più di seicento donne sono state assassinate o sono scomparse. La maggior parte di loro erano indigene. In proporzione, è come se fossero scomparse 20mila donne bianche. La storia di Robert Pickton è stata una delle poche a conquistare le prime pagine dei giornali. Nella sua fat-
toria sono stati trovati i resti di alcune donne. Il caso era talmente eclatante che le autorità non hanno potuto insabbiarlo. Pickton è stato condannato per l’omicidio di sei donne, ma probabilmente ne ha uccise una cinquantina. Secondo l’associazione delle donne indigene del Canada, la polizia non si è mai impegnata per arrestare e punire i responsabili. Improvvisamente il legame tra gli omicidi delle donne indigene e la colonizzazione non mi sembra più campato in aria. u as
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Americhe
FErnAnDo LLAno (Ap/LAprEssE)
Caracas, Venezuela. Hugo Chávez il 24 agosto 2011
Hugo Chávez, la malattia e le elezioni Joaquín Espert, Página 12, Argentina Da quando a giugno il presidente del Venezuela ha ammesso di essere stato operato per un tumore, le sue condizioni di salute sono al centro della vita politica nazionale a malattia del presidente venezuelano Hugo Chávez ha modiicato il ritmo del suo lavoro e ha alimentato i dubbi sulle presidenziali del 7 ottobre 2012. Chávez ha garantito ai venezuelani che non dovrà sottoporsi ad altre sedute di chemioterapia e ha annunciato che tornerà a Cuba per avere la conferma di essere completamente guarito. Finora le informazioni sulla sua malattia sono state poche, al punto che non si sa di quale tipo di tumore sofra. Ma basta un giorno senza che Chávez si faccia vedere in pubblico per alimentare congetture di ogni genere. Il 30 giugno il presidente del Venezuela aveva annunciato dall’Avana di essersi sottoposto a un intervento chirurgico. E da allora il suo stato di salute è diventato l’ar-
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gomento principale della politica del paese e della campagna elettorale per le presidenziali. In quell’occasione il leader bolivariano, che non appariva in tv da venti giorni, ha ammesso che i medici avevano trovato “un tumore ascessualizzato con presenza di cellule cancerogene”. I mezzi d’informazione e i politici dell’opposizione hanno avanzato dei dubbi sulla capacità di Chávez di continuare a guidare il governo e amministrare il paese, sostenendo che i suoi viaggi a Cuba per curarsi fossero incostituzionali.
volte, privilegiando il lavoro in uicio e comunicando da palacio de Miralores attraverso delle videoconferenze. Chávez ha sospeso il programma televisivo Aló Presidente, che non va in onda da diciotto settimane e ha cambiato il tono dei suoi discorsi: pur continuando ad attaccare i suoi avversari è apparso più conciliante e ha smorzato la violenza delle invettive. poi ha dichiarato di aver cominciato “una nuova fase della vita, più spirituale e più rilessiva”. Questo spiega una serie di cambiamenti simbolici, come la scelta delle camicie gialle al posto di quelle tradizionali rosse e la sostituzione dello slogan “patria socialista o morte” con “patria socialista e vittoria: vivremo e vinceremo”. L’approccio più moderato del presidente ha convinto i leader dell’opposizione che usare le sue condizioni di salute per attaccarlo sarebbe controproducente. Gli avversari di Chávez preferiscono insistere sulle questioni che stanno più a cuore ai venezuelani: la delinquenza e la mancanza di alloggi. A insistere sulla malattia del presidente sono stati invece alcuni mezzi d’informazione antichavisti, che hanno difuso varie voci sull’aggravarsi delle sue condizioni di salute. Due settimane fa Chávez ha smentito la notizia di un suo ricovero difusa dal quotidiano El nuevo Herald. “Dovrò sempre sottopormi a visite e a esami di controllo”, ha puntualizzato Chávez in un’intervista televisiva, “perché la mia malattia non è una stupidaggine”. Il 7 ottobre 2012 Chávez cercherà di ottenere un terzo mandato contro un’opposizione pronta a presentarsi con un candidato unico. “non è il momento di morire”, ha dichiarato il presidente, “devo vivere perché ho una missione importante per il futuro: vincere le elezioni e continuare a guidare la battaglia”. u sb
Smorzare i toni Ma la malattia non ha danneggiato l’immagine del leader venezuelano. Al contrario, la popolarità di Chávez è aumentata e i suoi consensi hanno raggiunto il 60 per cento. Fatta eccezione per i giorni in cui si è sottoposto al ciclo di chemioterapia, il presidente ha cercato di mostrarsi attivo e di non alimentare le voci sulla sua malattia. Ma il calo d’intensità nell’attività politica di Chávez è comunque evidente: se prima girava senza sosta per il paese tenendo lunghi discorsi, dal giorno dell’operazione ha visitato gli stati interni solo due
Da sapere u Le nazionalizzazioni delle proprietà private potrebbero costare caro al presidente Hugo Chávez. Molte aziende straniere, tra cui quella petrolifera Exxon Mobil, hanno chiesto a Caracas migliaia di milioni di dollari di risarcimento danni. “Le multinazionali”, scrive Reforma, “pretendono almeno un terzo del bilancio approvato dall’assemblea nazionale, una cifra che limiterebbe la capacità del presidente di inanziare la campagna elettorale per le presidenziali del 2012”.
Polizia meno corrotta
IN BREVE
Colombia Il 12 ottobre migliaia di studenti hanno partecipato alle manifestazioni in varie città del paese contro la riforma dell’istruzione superiore voluta dal governo del presidente Juan Manuel Santos. Stati Uniti L’11 ottobre il governo ha accusato l’Iran di aver pianiicato un attentato in territorio statunitense contro l’ambasciatore saudita a Washington, Abdel al Jubeir. Due cittadini iraniani sono stati arrestati.
Santiago, 6 ottobre 2011
STATI UNITI
Il senato boccia Obama
IVAN ALVARADO (REUTERS/CONTRASTO)
Il 10 ottobre il presidente peruviano, Ollanta Humala, ha avviato una riorganizzazione della polizia. Ha annunciato la pensione anticipata per trenta generali, compreso il capo dell’agenzia antidroga. E ha promosso 48 uiciali per lasciare spazio ai più giovani. “È un’operazione senza precedenti”, scrive América Economía, “per combattere la corruzione e afrontare l’insicurezza nelle città”.
Salta il dialogo con Piñera
Dopo cinque mesi di proteste, il 5 ottobre il dialogo tra il governo di Sebastián Piñera e i leader del movimento studentesco si è interrotto. Gli studenti accusano il presidente di essere intransigente e di non volere garantire il diritto universale all’istruzione. Il 7 e l’8 ottobre il movimento studentesco ha convocato un referendum non uiciale per chiedere ai cittadini se sono d’accordo con le principali richieste degli studenti: un’educazione pubblica e gratuita, e la ine del sistema scolastico ereditato dalla dittatura. Ha votato più di un milione di persone. ◆
I soldi di Solyndra
Oro nero, salvezza e rovina nità. Finora i pochi giacimenti di greggio del territorio nazionale davano un prodotto di bassa qualità con un’alta percentuale di zolfo. Ma questa situazione potrebbe cambiare. Secondo gli esperti, nelle acque territoriali cubane del golfo del Messico ci potrebbero essere circa venti miliardi di barili di petrolio. La compagnia petrolifera Repsol Ypf ha cominciato i lavori di esplorazione, ma prima ha assicurato agli altri paesi dell’area che svolgerà le sue operazioni nel rispetto degli standard di sicu-
“Il voto del senato non segna la ine di questa battaglia”. Con queste parole Barack Obama ha commentato la bocciatura al senato del suo piano da 447 miliardi di dollari per rilanciare l’occupazione. Oltre ai repubblicani, anche due senatori democratici, Ben Nelson del Nebraska e Jon Tester del Montana, hanno votato contro il provvedimento, che non ha raggiunto la maggioranza di 60 voti. Ora la Casa Bianca cercherà di far approvare la legge dividendola in parti da votare singolarmente, spiega il New York Times.
STATI UNITI
Dall’Avana Yoani Sánchez
La raineria emette una lingua di fuoco perenne insieme a una colonna di fumo che, a seconda del vento, si posa su uno dei tanti quartieri dell’Avana. Negli anni più duri del periodo speciale la iammella di questa ciminiera era il segnale più visibile della nostra rovina materiale. Poi è arrivato Hugo Chávez e la iamma è aumentata di pari passo con la dipendenza dal Venezuela. Il bisogno crescente di quest’importazione ha reso più fragile l’economia del paese e ha minato la nostra sovra-
JONATHAN ERNST (REUTERS/CONTRASTO)
Cile
PERÙ
rezza. Washington non perde di vista neanche per un attimo i movimenti della Repsol, anche per accertarsi che non infranga l’embargo economico imposto all’isola da più di cinquant’anni. Il processo di esplorazione del giacimento è appena cominciato. Ma, se sarà possibile estrarre il tanto desiderato combustibile, forse eviteremo di doverci piegare ai disegni di un’altra potenza e gli autocrati stranieri non potranno iccare il naso nella nostra politica nazionale. ◆ sb
“Mentre emergono nuovi dettagli sul fallimento di Solyndra, l’amministrazione Obama è sempre più incapace di spiegare il prestito da 535 milioni di dollari concesso all’azienda nel 2009”. Il Wall Street Journal si scaglia contro la Casa Bianca: in base ad alcune email rese pubbliche il 7 ottobre, alcuni funzionari vicini a Barack Obama avrebbero fatto pressioni per far approvare il inanziamento dell’azienda produttrice di pannelli solari pur sapendo che rischiava la bancarotta. “Ecco l’economia secondo la Casa Bianca: Washington assegna i fondi, e se qualcosa va storto pagano i contribuenti”.
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Asia e Paciico Un anniversario imbarazzante The Economist, Gran Bretagna Il centenario della rivoluzione del 1911, che portò alla ine dell’impero e alla nascita della repubblica, evoca richieste di democrazia che Pechino preferisce dimenticare l 10 ottobre di cento anni fa la rivolta della città di Wuhang, nella Cina centrale, portò al crollo dell’ultima dinastia imperiale del paese e alla nascita della repubblica. A Taiwan, che si è separata dalla Cina continentale dopo la guerra civile del 1949 e che tuttora si ritiene l’erede legittima della repubblica fondata nel 1911, l’anniversario è stato festeggiato con una parata, con tanto di performance dell’aviazione militare. Pechino, invece, ha un atteggiamento ambivalente. Il governo non ha badato a spese per i festeggiamenti, ma il Partito comunista è impegnato a sofocare il dibattito sul sogno democratico dei rivoluzionari, realizzato a Taiwan ma non nella madrepatria. Pechino e Taiwan hanno sempre messo in discussione le reciproche rivendicazioni sull’eredità della rivoluzione del 1911. Sun Yat-sen, il leader della rivolu-
ChInA PhoToS/GeTTY ImAGeS
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zione e primo presidente della repubblica, è considerato un eroe da entrambi i paesi. Come ogni anno, il 1 ottobre un enorme ritratto di Sun è stato aisso in piazza Tiananmen, di fronte a quello di mao. ma gli sforzi del Partito comunista per celebrare la ricorrenza tradiscono un certo nervosismo. Alla ine di settembre è uscito un ilm sulla rivoluzione dal titolo 1911, interpretato da Jackie Chan. Le autorità hanno presentato il film in pompa magna, ma l’afluenza al botteghino è stata modesta. Il ilm evita accuratamente di parlare delle riforme radicali introdotte dall’ultima dinastia imperiale, i Qing, che avrebbero portato alla caduta dell’impero. Una popolare serie tv, L’avanzata verso la Repubblica, incentrata proprio su quelle riforme e trasmessa nel 2003, fu cancellata dalla censura. In una scena si vede Sun che, sei anni dopo la rivoluzione, si rivolge ai politici lamentandosi del fatto che “solo i potenti hanno la libertà”. Il rimando alla Cina di oggi era in troppo esplicito. nell’ultimo anno le autorità hanno cercato di evitare che il dibattito sulla rivoluzione sconinasse su questo terreno. A novembre del 2010 il Xiaoxiang morning herald, un quotidiano dell’hunan, si è messo
Cerimonia per ricordare la rivoluzione del 1911. Wuhan, 10 ottobre 2011
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nei guai dopo aver pubblicato un supplemento sulla rivoluzione. C’era una citazione da una lettera scritta nel 1975 da Vaclav havel, che all’epoca era ancora un dissidente, al presidente comunista cecoslovacco Gustav husak: “Ancora una volta la storia pretende di essere ascoltata”. Il giornale non spiegava il contesto, ma la lettera di havel parlava della sterilizzazione della storia da parte del Partito comunista. Il messaggio indicava chiaramente che le istanze democratiche del 1911 non potevano essere represse per sempre.
Occasione d’oro negli ultimi mesi le rivolte nel mondo arabo hanno messo ancora più in agitazione le autorità. Ad aprile è stato cancellato un convegno sulla rivoluzione organizzato dagli studenti delle principali università di Pechino. Un sito web sponsorizzava l’evento scrivendo che non si sarebbe parlato solo dell’“ispirazione delle vittorie rivoluzionarie” ma anche di aspetti “più nascosti e profondi” della democrazia. Poche settimane fa le autorità hanno annullato la prima mondiale di un’opera, Il dottor Sun Yat-sen, che avrebbe dovuto essere messa in scena da una compagnia di hong Kong a Pechino, vicino a piazza Tiananmen. Si è parlato di “motivi logistici”, ma secondo la stampa di hong Kong parte dei contenuti – soprattutto i riferimenti alla vita amorosa di Sun – sono stati giudicati fuori luogo. nonostante le preoccupazioni politiche, le autorità non intendono sprecare l’occasione di spendere un po’ di denaro pubblico. A Wuhang è stato annunciato un piano di spesa di 20 miliardi di yuan (2,3 miliardi di euro) per eventi dedicati al centenario e l’abbellimento della città. L’amministrazione di Wuhang mantiene il massimo riserbo sulla violenza che travolse i manciù durante la rivoluzione. Secondo alcuni studiosi, la rivoluzione aprì la strada al caos e al latifondismo, e quindi a un governo autoritario. In efetti dopo il 1911 la Cina precipitò nel caos. ogni speranza di democrazia fu spazzata via dai tentativi di tenere sotto controllo il paese in rivolta, ino alla presa del potere dei comunisti nel 1949. Il Partito giustiica la rivoluzione del 1911, ma si trova in un profondo imbarazzo. Un altro film uscito all’inizio del 2011 per il novantesimo anniversario della fondazione del Partito ha scatenato molti commenti sui blog cinesi a proposito dell’opportunità di ribellarsi a un cattivo governo. Idea interessante. u fas
Nuova Zelanda, 12 ottobre 2011
CAMBOGIA
THAILANDIA
I pirati del Mekong
Il 10 ottobre Siegfried Blunk, uno dei giudici del tribunale misto che sta indagando sui crimini commessi in Cambogia durante il regime dei Khmer rossi, si è dimesso. Pochi giorni prima Blunk, nominato dalle Nazioni Unite, e la sua controparte cambogiana You Bunleng, erano stati accusati da Human rights watch di essersi lasciati influenzare dal governo di Phnom Penh – contrario a ogni ulteriore procedimento giudiziario da parte del tribunale – e di non aver svolto indagini trasparenti, accurate e imparziali. Il Phnom Penh Post scrive che Blunk stava seguendo due casi e che molti dei suoi collaboratori hanno lasciato l’incarico perché sconcertati dal modo in cui conduceva le indagini.
Il 5 ottobre due cargo cinesi che navigavano lungo il fiume Mekong sono stati presi d’assalto a Chiang Rai, al confine tra Birmania e Thailandia, e tredici marinai sono stati uccisi. La zona di confine tra la Birmania, la Thailandia e il Laos, nota come Triangolo d’oro, è un importante centro di produzione di droga e non è raro che i trafficanti sequestrino le navi di passaggio per trasportare gli stupefacenti. A bordo dei due cargo la polizia tailandese ha trovato 900mila pasticche di metamfetamina, per un valore di 3 milioni di dollari. China Daily scrive che Pechino ha sospeso il transito delle sue navi sul Mekong e ha chiesto alle autorità tailandesi e birmane di aumentare le misure di sicurezza.
BLAIR HARKNESS (REUTERS/CONTRASTO)
Giudice parziale
Petrolio tra i coralli X Il 5 ottobre una nave da 47.230 tonnellate battente bandiera liberiana con un carico di centinaia di container si è incagliata contro la barriera corallina a 22 chilometri da Tauranga, sulla costa orientale della North Island, l’isola più settentrionale della Nuova Zelanda. Il rischio di una catastrofe ambientale è forte: la nave ha perso 200 tonnellate di petrolio, che sono già arrivate sulla costa, e 70 container sono caduti in mare. Il capitano della nave è stato arrestato.
Giappone
Più controlli sul cibo INDONESIA
Fuoco sui minatori Il 10 ottobre la polizia ha aperto il fuoco sui lavoratori in sciopero della Freeport, un gigante minerario che estrae rame e oro nella provincia di Papua, uccidendone uno e ferendone gravemente un altro. Da due mesi i minatori bloccavano la produzione della miniera di Grasberg per chiedere un aumento del salario, attualmente di circa 3 dollari all’ora, adeguandolo agli standard globali, tra i 17 dollari e mezzo e i 43 dollari all’ora. La miniera gestita dalla Freeport non è nuova alle proteste. In passato diverse organizzazioni non governative avevano accusato la multinazionale di saccheggiare le risorse di Papua senza dare nulla in cambio alla comunità locale. Il Jakarta Post scrive che il presidente Susilo Bambang Yudhoyono ha ordinato di punire il poliziotto che ha aperto il fuoco.
Aera, Giappone Anche se in Giappone si continua a ripetere che i prodotti alimentari nei supermercati sono sicuri, non c’è nessuna certezza che l’area da cui arrivano non sia stata contaminata dalle perdite radioattive della centrale di Fukushima. Da un’ indagine di Aera si è scoperto che in 120 città, sulle settecento esaminate, non sono mai stati fatti controlli per verificare il livello di radioattività nei prodotti agricoli. Questo è dovuto a diverse ragioni, spiega il settimanale, tra cui l’insufficienza degli strumenti disponibili per le misurazioni. “I tempi per avere un macchinario sono lunghissimi. Il governo dice di voler fare i controlli ma non si preoccupa di come farli e con quali mezzi”, spiega un responsabile della prefettura. Inoltre viene data la priorità alle aree ritenute più a rischio, ma il livello di radiazioni dipende anche dalla direzione dei venti e dalla conformazione del terreno, per questo è necessario garantire che i controlli siano uniformi. Intanto, il ministero del lavoro ha reso noto che da agosto il centro di ricerca per l’igiene alimentare ha cominciato controlli a sorpresa per capire da dove provengono i prodotti che hanno superato i livelli di guardia di cesio. X
IN BREVE
India Il 10 ottobre la polizia ha perquisito le proprietà dell’ex ministro per il tessile Dayanidhi Maran, accusato di essere coinvolto in un caso di corruzione legato alle licenze per le telecomunicazioni. Sri Lanka L’8 ottobre la coalizione guidata dal presidente Mahinda Rajapaksa ha conquistato 21 circoscrizioni su 23 nella terza fase delle elezioni amministrative. Lo Sri Lanka freedom party è stato però sconfitto dallo United national party (opposizione) nella capitale Colombo. Tre persone sono morte nelle violenze durante il voto.
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Attualità
LarrY fINk
Manhattan, 1967
Occupy America The New York Times, Stati Uniti. Foto di Larry Fink
Non è solo una rivolta giovanile. È una denuncia contro un sistema ingiusto e corrotto, che concentra la ricchezza nelle mani di pochi. L’editoriale del New York Times entre le proteste degli indignati che occupano Wall street si estendono da Manhattan a Washington e ad altre città americane, quelli che chiacchierano per mestiere si lamentano del fatto che i manifestanti non trasmettono un messaggio chiaro e non danno indicazioni
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politiche speciiche. Il messaggio, e le soluzioni, dovrebbero apparire evidenti, almeno per chi non è stato troppo distratto da quando l’economia è entrata in una recessione che continua a colpire la classe media. Il problema è che a Washington nessuno ha prestato attenzione a quello che stava succedendo. Oggi il messaggio è la protesta: la disparità di reddito sofoca la classe media, fa
aumentare il numero dei poveri e minaccia di creare una sottoclasse di persone capaci e volenterose ma senza lavoro. In un certo senso i manifestanti, che sono quasi tutti giovani, stanno dando voce alla generazione delle occasioni perdute. Nell’ultimo anno il tasso medio di disoccupazione tra i laureati statunitensi sotto i 25 anni è stato del 9,6 per cento, mentre quello dei giovani diplomati è stato del 21,6
Le foto u Le foto di queste pagine sono state scattate dal fotografo statunitense Larry Fink il 10 febbraio 1967, durante un corteo contro Wall street nel quartiere inanziario di Manhattan, nelle stesse strade in cui si svolgono le manifestazioni di questi giorni. I manifestanti, una ventina di persone del collettivo anarchico Black Mask, avevano i volti coperti da passamontagna e portavano dei teschi simbolo delle vittime della guerra e del potere inanziario.
per cento. Queste percentuali non tengono conto dei laureati che hanno un posto ma sono sottopagati e fanno un lavoro che non richiede particolari qualiiche. Cominciare così una carriera lavorativa signiica essere destinati per tutta la vita a non avere prospettive e a guadagnare poco: è quello che di solito si chiama mobilità verso il basso. Questa, tuttavia, non è semplicemente una rivolta di giovani. I problemi sollevati dai manifestanti sono solo un esempio del fatto che l’economia non funziona per la maggior parte degli americani. I ragazzi di Occupy Wall street hanno perfettamente ragione quando dicono che il settore inanziario, grazie alla connivenza tra chi doveva stabilire le regole e i politici, si è goniato e arricchito con una bolla del credito che è costata a milioni di statunitensi il posto di lavoro, lo stipendio, la casa e i risparmi. E con la crisi che continua, i cittadini hanno perso anche la iducia in una possibile ripresa. La rabbia iniziale è stata alimentata dai salvataggi delle banche e dalla fame di denaro dei politici, che si sono rivolti a Wall street per inanziare le loro campagne elettorali. Una combinazione micidiale che ha riafermato il potere economico e politico della banche e dei banchieri.
Una strategia a lungo termine L’estrema disparità di reddito è tipica di un’economia che non funziona, dominata da un settore inanziario che non vive di investimenti produttivi ma di speculazioni, trufe e aiuti di governo. Quando i manifestanti dicono di rappresentare il 99 per cento degli statunitensi, alludono alla concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi. Prima della recessione la fetta di reddito nelle mani dell’1 per cento dei più ricchi era del 23,5 per cento, la quota più alta dal 1928. Una percentuale che è raddoppiata dagli anni
settanta a oggi. Questa fetta si è leggermente ridotta nel 2008, quando i mercati inanziari sono crollati. Oggi i dati aggiornati non sono ancora disponibili, ma il divario è quasi sicuramente aumentato di nuovo. Negli ultimi anni, per esempio, gli utili delle aziende hanno raggiunto il livello più alto come percentuale del pil dal 1950, mentre i salari dei lavoratori sono al livello più basso dalla metà degli anni cinquanta. L’aumento del reddito dei più ricchi non sarebbe così preoccupante se fosse cresciuto anche quello delle classi medie e di quelle più povere. Ma nei primi dieci anni di questo secolo il reddito reale delle famiglie dei lavoratori è diminuito. La recessione e le sue conseguenze hanno solo accelerato il declino. Diverse ricerche hanno dimostrato che questa estrema disparità è correlata a una serie di altri fattori negativi, come un livello più basso di istruzione, maggiori problemi di salute e investimenti pubblici in calo. Anche la politica viene condizionata, perché tende a rispecchiare le esigenze degli americani più ricchi.
Non spetta ai manifestanti fare proposte di legge. È compito dei politici Non c’è da meravigliarsi se il movimento Occupy Wall street è diventato una calamita per tutti gli scontenti. Ci sarebbero molte risposte possibili alle proteste dei manifestanti: la sospensione dei pignoramenti, una tassa sulle transazioni inanziarie, una maggiore difesa dei diritti dei lavoratori e un diverso sistema iscale. La politica deve smettere di proteggere le banche e deve invece favorire la piena occupazione, spendendo anche i soldi pubblici per creare posti di lavoro e programmare una strategia solida e a lungo termine per aumentare la produzione interna. Non spetta ai manifestanti fare proposte di legge. È compito dei politici e, se lo avessero fatto prima, oggi non ci sarebbe bisogno di cortei e raduni. Ma dato che non l’hanno fatto, le proteste sono legittime e importanti. Sono anche la prima linea di difesa contro un ritorno di Wall street ai metodi che ci hanno fatto precipitare in una crisi economica da cui gli Stati Uniti non sono ancora usciti. u bt
Da sapere
Da New York a Seattle u La protesta che il 17 settembre è cominciata a Wall street si allarga: l’8 e il 9 ottobre migliaia di statunitensi hanno manifestato in 600 cittadine e settanta grandi centri urbani, da Los Angeles e Seattle ino a Tampa (Florida) e Providence (Rhode Island). Nelle ultime due settimane i manifestanti hanno silato per le strade di Washington, Chicago, Boston, Memphis, New Orleans, Las Vegas, Filadelia, Austin, Louisville, Atlanta e decine di altre città. A Los Angeles, il sindaco Antonio Villaraigosa ha distribuito impermeabili ai dimostranti colpiti da un temporale. La manifestazione Occupy Austin, in Texas, ha riunito mille persone davanti agli uici del comune, e lo stesso è accaduto a Dallas e a Houston. A Boston almeno cento persone sono state arrestate durante la marcia di protesta. In Canada si preparano occupazioni a Vancouver, Toronto, Montréal e Calgary. Il prossimo obiettivo è il summit economico del G20 che si svolgerà a Cannes, in Francia, il 3 e 4 novembre. u Intanto i politici statunitensi prendono posizione. “Condivido il loro messaggio”, ha detto in tv l’ex presidente della camera Nancy Pelosi. Secondo Barack Obama “chi contesta dà voce alla frustrazione del paese” per una crisi economica e occupazionale frutto della crisi inanziaria. Il capogruppo dei repubblicani alla camera, Eric Cantor, ha accusato i manifestanti di spingere “i cittadini statunitensi gli uni contro gli altri”. Il sindaco di New York Michael Bloomberg ha detto che i manifestanti potranno rimanere a Liberty plaza “a patto che non violino la legge”. u Intanto su Facebook si difonde l’appello alla mobilitazione fuori dagli Stati Uniti per il 15 ottobre. Centinaia di manifestazioni sono previste in almeno venticinque paesi, dall’Irlanda all’Italia, da Hong Kong al Cile. Il gruppo Occupy the London stock exchange, con quasi diecimila like sulla sua pagina Facebook, ha in programma manifestazioni per due mesi. The Guardian, Bbc, Cnn Internazionale 919 | 14 ottobre 2011
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Attualità
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Manhattan, 1967
Non siamo sognatori Slavoj Žižek, Verso Books, Gran Bretagna Slavoj Žižek è andato a Liberty plaza per parlare ai manifestanti di Occupy Wall street. Ecco il suo intervento on siate narcisisti e non innamoratevi dei bei momenti che stiamo passando qui. Le feste costano poco, la vera prova del loro valore sta in quello che resta il giorno dopo. Innamoratevi del lavoro duro e paziente: siamo l’inizio, non la ine. Il nostro messaggio di fondo è: il tabù è stato violato, non viviamo nel migliore dei mondi possibili, siamo autorizzati e addirittura costretti a pensare a possibili alternative. La strada davanti a noi è lunga, e presto dovremo affrontare le questioni più diicili: non ciò che non vogliamo, ma quello che vogliamo davvero. Quale organizzazione sociale può sostituire il capitalismo? Come dovranno essere i nuovi leader? Le alternative del ventesimo secolo non hanno funzionato. Non prendetevela con i comportamenti delle persone: il problema non sono la corruzione e l’avidità, il problema è il sistema che spinge le persone a essere corrotte. La
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soluzione è cambiare un sistema in cui la vita delle persone comuni non può funzionare senza Wall street. Attenti non solo ai nemici, ma anche ai falsi amici che ingono di sostenerci ma sono già al lavoro per indebolire la nostra protesta. Un po’ come il caffè senza cafeina, la birra senza alcol, il gelato senza grassi: cercheranno di trasformarci in una innocua protesta morale. Ma la ragione per cui siamo qui è che non ne possiamo più di un mondo in cui per sentirci buoni basta riciclare le lattine di CocaCola, dare un paio di dollari in beneicenza o comprare un cappuccino da Starbucks destinando l’1 per cento al terzo mondo. Dopo aver esternalizzato il lavoro e la tortura, dopo che le agenzie matrimoniali hanno cominciato a esternalizzare perino i nostri incontri sentimentali, ci rendiamo conto che per troppo tempo abbiamo permesso di esternalizzare anche il nostro impegno politico. E vogliamo riprendercelo. Ci diranno che siamo antiamericani. Ma quando i fondamentalisti conservatori vi dicono che l’America è un paese cristiano, ricordatevi cos’è il cristianesimo: lo spirito santo, la libera comunità egualitaria di credenti uniti dall’amore. Noi siamo lo spirito
santo, mentre quelli di Wall street sono pagani che adorano falsi idoli. Ci diranno che siamo violenti, che il nostro linguaggio è violento. Sì, siamo violenti, ma nel senso in cui era violento il Mahatma Gandhi. Siamo violenti perché vogliamo cambiare le cose, ma cos’è questa violenza puramente simbolica rispetto alla violenza che fa funzionare il sistema capitalistico globale? Ci hanno chiamato perdenti, ma i veri perdenti sono quelli di Wall street, che sono stati salvati con miliardi di dollari presi dalle vostre tasche. Ci chiamano socialisti, ma negli Stati Uniti esiste già un socialismo per i ricchi. Vi diranno che non rispettate la proprietà privata, ma le speculazioni di Wall street che hanno provocato la crisi del 2008 hanno cancellato più proprietà ottenute con il lavoro di quante potremmo distruggerne noi sgobbando giorno e notte. Pensate alle migliaia di case pignorate.
L’inchiostro rosso Non siamo comunisti, se il comunismo è il sistema crollato nel 1990: e ricordate che i comunisti ancora al potere oggi dirigono il sistema capitalistico più spietato (in Cina). Se siamo comunisti lo siamo solo nel senso che abbiamo a cuore le risorse comuni – quelle della natura e della conoscenza – minacciate dal sistema. Vi diranno che state sognando, ma i sognatori credono che le cose possano andare avanti all’ininito così come sono e si accontentano di qualche ritocco. Noi non siamo sognatori, siamo il risveglio da un sogno che si sta trasformando in incubo. Conosciamo tutti la scenetta dei cartoni animati: il gatto raggiunge il precipizio ma continua a camminare, come se avesse ancora la terra sotto i piedi. Comincia a cadere solo quando guarda in basso e si accorge dell’abisso. Noi ci limitiamo a ricordare ai potenti che devono guardare in basso. Ma il cambiamento è possibile? Oggi il possibile e l’impossibile sono distribuiti in modo strano. Nel campo delle libertà personali, della scienza e della tecnologia, l’impossibile diventa sempre più possibile (o almeno così ci dicono): possiamo godere del sesso nelle sue forme più perverse, possiamo caricare interi archivi di musica e ilm, possiamo viaggiare nello spazio, possiamo aumentare le nostre capacità isiche e psichiche intervenendo sul genoma, ino al sogno di ottenere l’immortalità trasformando la nostra identità in un software. Nel campo delle relazioni sociali ed economi-
che, invece, siamo continuamente bombardati da un “non potete”. Non potete compiere atti politici collettivi (perché inevitabilmente iniscono nel terrore totalitario), non potete restare aggrappati al vecchio stato sociale (perché fa perdere competitività e provoca la crisi economica), non potete isolarvi dal mercato globale. Forse è arrivato il momento di invertire le coordinate di ciò che è possibile e impossibile. Magari non possiamo diventare immortali, ma è possibile avere più solidarietà e assistenza sanitaria? A metà aprile il governo cinese ha proibito i ilm che parlano di viaggi nel tempo e di versioni alternative della storia, considerandoli troppo pericolosi. Noi, nell’occidente liberale, non abbiamo bisogno di questo divieto: l’ideologia esercita un potere suiciente a impedire che le versioni alternative della storia vengano prese sul serio. Per noi è facile immaginare la ine del mondo – vediamo tanti ilm apocalittici – ma non la ine del capitalismo. In una vecchia storiella dell’ex Germania Est, un operaio viene mandato a lavorare in Siberia. Sapendo che la sua posta sarà controllata dalla censura, dice ai suoi amici: “Concordiamo un codice: se vi scriverò usando l’inchiostro blu, vorrà dire che è tutto vero; se userò l’inchiostro rosso, vorrà dire che è tutto falso”. Dopo un mese i suoi amici ricevono la prima lettera, scritta con l’inchiostro blu: “Qui è tutto meraviglioso: i negozi sono pieni, c’è da mangiare in abbondanza, gli appartamenti sono grandi e ben riscaldati, al cinema danno ilm occidentali e ci sono tante belle ragazze pronte all’avventura. L’unica cosa che manca è l’inchiostro rosso”. Non è forse questa la nostra situazione? Abbiamo tutte le libertà che vogliamo, ma ci manca l’inchiostro rosso: ci sentiamo “liberi” perché non abbiamo un linguaggio capace di esprimere la nostra mancanza di libertà. La mancanza di inchiostro rosso signiica che i termini che usiamo oggi per indicare il conlitto – “guerra al terrore”, “democrazia e libertà”, “diritti umani” eccetera – sono falsi, che mistiicano la nostra percezione della situazione invece di aiutarci a pensarla. Voi, qui, state dando a tutti noi l’inchiostro rosso. u gc L’AUTORE
Slavoj Žižek è un ilosofo e studioso di psicoanalisi sloveno. Il suo ultimo libro è Vivere alla ine dei tempi (Ponte alle grazie 2010).
Tutti possono partecipare Nathan Schneider, Occupy Wall Street Journal, Stati Uniti Il giornale del movimento risponde alle domande più frequenti sull’occupazione di Liberty plaza hi ha creato questo movimento? Il primo appello lo ha lanciato la rivista canadese Adbusters a metà luglio. Anche Us day of rage, il sito dell’informatica Alexa O’Brien, ha partecipato soprattutto raccogliendo le persone e inviando tweet. Il collettivo di hacker Anonymous è entrato in gioco alla ine di agosto. A New York, tuttavia, buona parte del lavoro organizzativo è stato fatto dalla Nyc general assembly, un gruppo di attivisti, artisti e studenti convocati per la prima volta dai New Yorkers against budget cuts, una coalizione di studenti e sindacalisti che aveva appena concluso un’occupazione di tre settimane davanti al municipio contro il progetto del sindaco di imporre tagli al bilancio e licenziamenti. Ma non c’è un’unica persona, o un singolo gruppo, che gestisce l’occupazione di Wall street. E allora chi prende le decisioni? La Nyc general assembly di fatto prende le decisioni per l’occupazione di Liberty plaza, qualche isolato più a nord di Wall street (Liberty plaza era il nome dello Zuccotti park ino al 2006, quando lo spazio è stato ristrutturato dalla Brookield properties che gli ha dato il nome del suo presidente). L’assemblea è un’organizzazione orizzontale, autonoma, senza leader, basata sul consenso, che trova le sue radici nel pensiero anarchico ed è simile alle assemblee che hanno guidato i movimenti in Argentina, a piazza Tahrir al Cairo, a Puerta del Sol a Madrid. Il lavoro per costruire il consenso è faticoso e lentissimo. Ma gli occupanti si prendono il tempo necessario. Quando alla ine si mettono d’accordo su una questione, dopo giorni di discussioni, un grido di gioia riempie la piazza. Parallelamente alla Nyc general assembly sono nati comitati e gruppi di lavoro che si occu-
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pano di vari temi, dall’alimentazione ai mezzi d’informazione, alla sanità. Tutti possono partecipare, e ognuno fa il suo lavoro in tacito coordinamento con l’assemblea. Cosa chiedono i manifestanti? Questa è una domanda da un milione di dollari. Tecnicamente una richiesta non è ancora stata formulata. Nella settimana prima del 17 settembre sembrava che la Nyc general assembly stesse rinunciando alle “richieste”, almeno ino a quando il movimento non fosse diventato politicamente più forte. Per cominciare ha preferito concentrarsi sull’occupazione in sé, e sulla democrazia diretta, che prima o poi potrebbe produrre delle richieste speciiche. A pensarci bene quest’azione è già un attacco alla corruzione di Wall street. Cosa signiicherebbe “vincere” per il movimento di occupazione? Tutto dipende dalla persona a cui lo si chiede. Alla vigilia del 17 settembre, la Nyc general assembly pensava che il suo obiettivo fosse innanzitutto costruire un nuovo tipo di movimento. Voleva far nascere assemblee in tutta la città e nel mondo, da cui rilanciare l’organizzazione politica di questo paese, contro il potere delle grandi aziende. Un’altra grande occupazione è cominciata il 6 ottobre a Freedom plaza a Washington. Quando Liberty plaza è stata invasa dalle telecamere qualcuno ha detto: “Abbiamo già vinto!”. Altri invece pensano di aver appena cominciato. Se non posso venire a Wall street, cosa posso fare? Partecipare online, seguendo le riprese dal vivo, facendo donazioni, twittando. Alcune persone si sono oferte di aggiornare i siti del movimento e di montare i video. Presto i dibattiti si svolgeranno anche online. Fuori della rete si può partecipare a un’occupazione in qualche altra città o cominciarne una. Inine, si può seguire il consiglio che è diventato uno degli slogan del movimento: “Occupate il vostro cuore, non con la paura ma con l’amore”. u bt Internazionale 919 | 14 ottobre 2011
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Le opinioni
Obama al bivio di Wall street David Rief n un piccolo slargo subito a sud della sede della altre due e il marciapiede sono occupati dalle forze Borsa di New York c’è una statua di bronzo alta dell’ordine. Perino al culmine delle proteste contro la quasi tre metri e mezzo che si chiama Charging guerra del Vietnam l’atteggiamento delle autorità di bull, “toro alla carica”. Il suo autore è Arturo Di New York era più misurato. Occupy Wall street è Modica, uno scultore nato in Sicilia, che volle l’espressione inora più signiicativa di un’avversione dare una risposta patriottica al crac della borsa difusa al capitalismo che, negli Stati Uniti, non si è mai del 1987 e la fece mettere vicino a Wall street a sue spe- manifestata neanche dopo che la crisi inanziaria del se e senza il permesso delle autorità. Di Modica la dei- 2008 ha rivelato agli americani che Wall street pensava nì “un simbolo della forza del popolo americano”. Do- solo a saccheggiare sistematicamente l’economia. Ma la reazione a queste proteste mostra po un po’ il comune la fece rimuovere, chiaramente la portata dei danni inlitti ma le proteste costrinsero le autorità a Una cosa è chiara: ai nostri diritti di cittadini dopo l’11 setrimetterla al suo posto. E così è diventata più le manifestazioni tembre. il simbolo di Wall street. Per il momento né gli arresti di massa I tempi sono cambiati. Dal 17 settem- crescono, e più né il rancore dell’amministrazione cobre, giorno d’inizio delle manifestazioni diventa scomoda la munale, guidata dal sindaco multimiliodi Occupy Wall street – cioè da quando posizione del nario Michael Bloomberg, né l’apparencentinaia di giovani si sono accampati in presidente Obama, te decisione dei mezzi di comunicazione un giardinetto di proprietà di un’impresa all’inizio della sua – compresi giornali di solito progressisti a qualche strada di distanza dal toro – la campagna per la come il New York Times – di minimizstatua è guardata a vista notte e giorno rielezione zarne la portata, hanno impedito che le dalla polizia di New York. proteste si allargassero sempre più. Re“La verità è concreta”, ha scritto una volta Bertolt Brecht. E via via che la reazione alle prote- sta da vedere se questo movimento, ancora embrionaste passava dalla sorpresa e dalla brutalità della polizia le, darà vita a qualcosa di più solido e duraturo, alla (che ha sicuramente contribuito a estendere la rivolta) faccia di ciò che resta della sinistra americana, che conalla rabbia, si è capito che la città, pur sbandierando da tinua a scambiare i fari di un treno in arrivo per la luce sempre il suo cosmopolitismo, la sua tolleranza e la sua in fondo al tunnel, e continua a cullare la speranza di irriverenza, non è disposta a sopportare nessuna mi- veder diventare il movimento una specie di Tea party naccia seria a Wall street. Le manifestazioni sono co- di sinistra. Una cosa è chiara: più le manifestazioni crescono, e minciate meno di una settimana dopo il trionfalismo listato a lutto delle commemorazioni per il decennale più diventa scomoda la posizione del presidente Obadegli attentati dell’11 settembre 2001. Ma le proteste di ma, pronto a cominciare la campagna per la rielezione. Occupy Wall street hanno dimostrato che dopo l’11 set- Il suo successo del 2008 si deve in parte al sostegno ritembre New York non sa più reagire in maniera sensata cevuto da Wall street. Oggi la comunità inanziaria gli a manifestazioni paciiche: è capace solo di afrontare è ostile ed è pronta a sostenere qualsiasi candidato reatti terroristici o manifestazioni che minacciano di pubblicano minimamente credibile. Da quarant’anni almeno la tragedia del Partito democratico è di avere prendere una piega violenta. Nel complesso le proteste sono state sorprendente- una base elettorale di centrosinistra (almeno secondo mente paciiche e mentre molti dei giovani di questo gli standard statunitensi), ma di dipendere dai soldi di movimento sono indistinguibili, per il loro aspetto, dai Wall street e di Hollywood. I candidati democratici che militanti noglobal di tutta l’Europa occidentale, oggi sono riusciti a conquistare la presidenza hanno sempre Lower Manhattan è lontanissima dalla Seattle del 1999 dissimulato questa contraddizione almeno ino all’eleo dalla Genova del 2001. Se violenza c’è stata, è venuta zione: dopo, di solito, si sono spostati sulle posizioni di dalla polizia, che si è comportata come se i manifestan- Wall street, come ha fatto lo stesso Obama, nonostante ti fossero una minaccia per lo stato e andassero tenuti ciò che pensa di lui il mondo dell’alta inanza. Durante la prossima battaglia elettorale, però, questrettamente sotto controllo. Ogni volta che parte un corteo, viene aiancato e arginato da ile di agenti del- sta manovra rischia di essere impossibile. La questione le unità antisommossa, che indossano giacche a vento è se Obama sarà abbastanza coraggioso da schierarsi con sopra scritte come Disorder Control e ilmano tut- con i manifestanti. La sua tendenza a fare concessioni to con i telefonini o le videocamere. Le strade vengono sempre più generose all’opposizione repubblicana in chiuse per consentire ai cortei di silare, ma i manife- congresso sembra indicare che la risposta è no. Ma forstanti sono costretti a usare solo una corsia, mentre le se la realtà non gli lascerà scelta. u ma
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DAVID RIEFF
è un giornalista statunitense. I suoi ultimi libri pubblicati in Italia sono Senza consolazione. Gli ultimi giorni di Susan Sontag (Mondadori 2009) e Sulla punta del fucile (Fusi orari 2007).
Le opinioni
La soluzione islandese Manuel Castells ll’inizio del movimento degli indigna- elezioni. Il partito al governo è crollato e un’alleanza di dos uno degli slogan era: “L’Islanda è socialisti e rosso-verdi guidata da Jóhanna Sigurðarla soluzione!”. Ora, con l’aggravarsi dóttir è arrivata al potere. Le tre banche principali sono della crisi e l’aumento dei tagli socia- state nazionalizzate e ristrutturate. I risparmi dei cittali in Europa, l’Islanda ha un tasso di dini sono stati protetti dal governo. Ma la decisione su crescita del 2,3 per cento, il suo siste- cosa fare con i debiti contratti con gli investimenti spema inanziario è tornato stabile dopo il collasso del culativi degli stranieri è stata sottoposta a referendum. 2008, la disoccupazione è diminuita e il sistema politi- Il 93 per cento degli islandesi ha votato no alla restituco gode di nuova legittimità grazie a una riforma costi- zione di 5,9 miliardi di dollari a investitori inglesi e tuzionale fatta con la partecipazione dei cittadini. Tut- olandesi. I soliti economisti avevano previsto una catastrofe. Non è successo nulla di tutto to è nato da un movimento di indignaquesto. La svalutazione della corona zione popolare lanciato l’11 ottobre del Gli economisti islandese del 40 per cento (una manovra 2008 dal cantante Hörður Torfason e poi avevano previsto che la Grecia non può fare) ha stimolato una catastrofe. ampliicato da internet. le esportazioni di pesca e alluminio, ha L’Islanda era diventata il paradigma Invece l’economia reso più economico il turismo e ha limidi una crescita basata sulla speculazione islandese è solo tato le importazioni. La disoccupazione inanziaria. Nel 2007 era il quinto paese tornata alle sue del mondo per reddito pro capite, una proporzioni reali. E è scesa al 6,7 per cento. Il governo ha ricchezza generata dall’espansione di un le persone hanno un adottato misure di austerità ma la spesa sociale non è diminuita, perché non si settore inanziario dominato da tre granlavoro e dei risparmi sono dilapidati soldi per ricapitalizzare di banche, che avevano alimentato con le banche. Tutta l’economia si è ridimenun credito facile l’aumento della doman- sicuri sionata tornando alle sue proporzioni da interna e avevano goniato il loro capitale usando le azioni di una banca per comprare reali e le persone hanno un lavoro e dei risparmi sicuri, quelle delle altre e aumentarne il valore. Nel 2007 il pagano meno per la casa e non si indebitano perché patrimonio bancario equivaleva all’800 per cento del nessuno gli presta dei soldi. La nuova costituzione è stata scritta con la partecipil. Per nascondere i loro maneggi le banche avevano creato delle aziende in paradisi iscali, e da lì usavano i pazione dei cittadini. Nel novembre del 2010 è stato loro capitali goniati come garanzia per chiedere altri creato un comitato di 25 cittadini che supervisionerà il prestiti internazionali. Non sono riuscite a farla franca, processo costituzionale. Le riunioni del comitato sono e nel 2006 l’agenzia di rating Fitch ha declassato state trasmesse in streaming su Facebook. Nel 2011, l’Islanda, provocando una minicrisi. Le banche hanno usando i social network, migliaia di persone hanno scelto la fuga in avanti: hanno creato dei conti online presentato le loro proposte. Sono stati estratti a sorte ad alto rendimento (Icesave) e li hanno pubblicizzati in 950 cittadini per discutere gli aspetti principali della Inghilterra e nei Paesi Bassi. Era un classico schema costituzione e informare in tempo reale della discuspiramidale: quello che incassavano dagli uni serviva a sione su Twitter. A luglio è stata approvata una bozza, pagare gli altri. Si scambiavano titoli di debito tra loro, che sarà sottoposta a referendum. Molti non credono che la soluzione islandese sia usandoli come garanzia per ottenere prestiti. Nell’aprile del 2008 il Fondo monetario internazionale ha detto applicabile ad altri contesti. Meno che mai la possibilial governo islandese di controllare le sue banche. La tà di non pagare il debito estero, a causa della reazione risposta è stata chiedere nuovi prestiti internazionali. punitiva che potrebbero avere i mercati inanziari. EpA settembre la Banca centrale ha comprato il 75 per pure tutti sanno che il debito greco è insolvibile. Il salcento delle azioni della banca Glitnir. A quel punto è vataggio greco consiste nel decidere come spartire crollata la iducia nel sistema inanziario: nell’ottobre quel debito tra i cittadini greci (perdendo stipendi e del 2008 il valore delle azioni e degli immobili è preci- pensioni), i cittadini europei (che inanziano la Bce e il pitato, e in molti sono rimasti senza risparmi e senza fondo di stabilità dell’Unione) e le banche creditrici. È un default, in Grecia come in Islanda. In un caso avvielavoro. Le banche sono fallite. Sembrava un vicolo cieco. Ma a quel punto sono ne tutto sotto il controllo dei cittadini, nell’altro è tutto intervenuti i cittadini. In migliaia si sono uniti a Torfa- nelle mani di governi e banche, che se la vedranno tra son occupando la piazza Austurvöllur di Reykjavik nel loro per decidere chi paga cosa. Quello che nessuno gennaio del 2009. La protesta è proseguita per giorni, dice è che alla ine la soluzione greca è uguale alla soportando allo scioglimento del parlamento e a nuove luzione islandese, ma senza trasparenza. u sb
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MANUEL CASTELLS
è un sociologo spagnolo che insegna all’University of Southern California. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Comunicazione e potere (Università Bocconi editore 2009).
Birmania
Aung San Suu Kyi è tornata Elizabeth Rubin, Vogue, Stati Uniti Foto di Mada Nead
a Birmania è uno strano posto da visitare di questi tempi, specie se si vuole incontrare “la Signora”, come la maggior parte dei birmani chiama Aung San Suu Kyi, rilasciata nel novembre del 2010 dopo sette anni di arresti domiciliari. I giornalisti non sono i benvenuti, per cui si può andare nel paese solo come turisti. Un giornalista straniero non ha quasi mai la possibilità di parlare con generali, sindaci o funzionari politici. E una volta ottenuto un appuntamento per incontrare la Signora – cosa in sé piuttosto facile, dato che lei e gli esponenti del suo partito lo ritengono uno dei modi per mantenere viva la sua causa – bisogna evitare di dare nell’occhio, altrimenti si rischia l’espulsione prima di riuscire a vederla. Quanto ai giornalisti birmani, dopo aver dedicato alcuni articoli alla sua scarcerazione sono stati prontamente convocati dalla Divisione per il controllo e la registrazione della stampa (l’immancabile organo di censura di ogni regime che si rispetti), dove gli è stato “consigliato” di non pubblicare altre interviste. Forse perché Aung San
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Suu Kyi, almeno secondo la versione dei generali (quella riportata dal quotidiano di stato), è la “strega cattiva” che, potendo, “costruirebbe il suo palazzo imperiale sugli scheletri e i cadaveri del paese”. Oppure perché il generalissimo Than Shwe cominciava a innervosirsi per tutta l’attenzione che le veniva dedicata. Nelle cronache della versione birmana della Bella e la Bestia – la premio Nobel Aung San Suu Kyi e il dittatore Than Shwe – un episodio spicca per la particolare combinazione di capriccio, crudeltà e ossessione. Alcuni anni fa Than Shwe (che oggi ha 78 anni e ha governato la Birmania per due decenni prima di lasciare il suo posto da presidente a Thein Sein nel marzo del 2011) decise di avviare la produzione su larga scala di carburante a partire dai semi di un arbusto, la jatropha curcas. Gli agricoltori di tutto il paese furono costretti a piantarlo, nonostante i semi contengano tossine che hanno avvelenato decine di bambini. A quanto pare l’ossessione di Than Shwe per questi semi ha meno a che vedere con la loro capacità di produrre olio combustibile che con il loro nome birmano: kyet suu, due parole associate al lunedì e al mar-
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La leader democratica birmana ha ripreso la sua attività politica. Deve conciliare le richieste del regime con il desiderio di cambiamento dei suoi sostenitori. Reportage da Rangoon
tedì. Nell’astrologia birmana i nomi dei giorni della settimana sono così importanti che i neonati prendono parte del loro nome proprio dal giorno di nascita. Il nome di Aung San Suu Kyi è associato al martedì e al lunedì. E dunque pare che uno degli astrologi di Than Shwe gli abbia consigliato di far piantare semi di “lunedì-martedì” in tutta la Birmania per colpire la rivale e “impedire ai suoi semi di attecchire”. Ai contadini sono stati coniscati quasi tre milioni di ettari di terreni, e perino gli abitanti delle città hanno dovuto cominciare a coltivare semi sui balconi. Perché? Qual è il motivo di un simile sforzo rivolto contro una vedova sessantacinquenne che
Aung San Suu Kyi pochi giorni dopo il suo rilascio a Rangoon, novembre 2010
ha trascorso quindici degli ultimi ventidue anni chiusa in casa sua, di fatto isolata dal mondo? Perché non ucciderla e basta? In in dei conti ci hanno provato, prima nel 1996 e poi nel 2003. Non si sono fatti scrupoli a radere al suolo interi villaggi e a buttare in galera migliaia di manifestanti. Nel 2007 non hanno esitato ad ammazzare di botte i monaci che protestavano paciicamente durante la cosiddetta rivoluzione zaferano. Ancor più diicile è capire come Aung San Suu Kyi possa provocare tanta rabbia e tanto odio nei dittatori onnipotenti che governano la Birmania. Di questo rigoglioso paese tropicale, infatti, possiedono tutte le
ricchezze e i poteri: rubini, giada, tek, oro, un esercito di 400mila soldati, miliardi in investimenti cinesi, indiani e tailandesi. Spinti dalla loro paranoia, sono riusciti a spendere miliardi di dollari per far sorgere in gran segreto, alla Fitzcarraldo, una capitale nuova di zecca nel cuore della giungla. Credendosi la reincarnazione degli antichi re guerrieri birmani, Than Shwe ha deciso di chiamare la sua nuova città Naypyidaw, “sede dei re.” Come ha avuto modo di spiegarmi un diplomatico statunitense, la nuova capitale è un posto indescrivibile. Poi ha trovato le parole giuste: “Una Disneyworld nazista”. “Sono solo invidiosi”, mi dice un anzia-
no docente universitario, che ha chiesto di rimanere anonimo, quando ci incontriamo per un tè nel sontuoso hotel Savoy: “Noi due non ci siamo mai visti”. Ma invidiosi di cosa? Come al liceo? Perché Aung San Suu Kyi è più popolare di loro? La scelta del termine “invidia” sta a indicare il fatto che la Birmania – o Myanmar, com’è stata ribattezzata dai generali per cancellare qualsiasi ricordo del nome coloniale britannico – è diventata teatro di un dramma che afonda le radici tanto nella politica quanto in una vendetta personale nei confronti di una donna che è riuscita a conquistare l’immaginario delle persone e del mondo. In un dramma come questo, Internazionale 919 | 14 ottobre 2011
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Birmania ogni dettaglio contribuisce a tessere una trama di predestinazione, opera non solo di biograi solidali e militanti, ma anche dello stesso rabbioso dittatore, che ha fatto e continua a fare quasi tutto ciò che è in suo potere pur di riscrivere la storia birmana. Cancellando proprio lei.
La Lega nazionale per la democrazia, il partito di Aung San Suu Kyi, ha sede in un modesto ediicio di legno a due piani in una traicata via di negozi a due passi dall’hotel Savoy. Pareti, tavoli e scafali sono coperti da poster e cartoline con il volto della leader birmana. Adagiato sopra un armadietto ammuito con le ante di vetro, c’è un vecchio cartello con la scritta “Il lavoro minorile non è un gioco”. Uno striscione appeso a una parete e irmato da centinaia di persone dice: “Liberate Aung San Suu Kyi”. Disseminate qua e là ci sono pile di fogli di carta, accanto a megafoni e adattatori di corrente ed enormi pentole per cucinare in grandi quantità. Dietro un piccolo tavolo di vetro siede una donna di mezz’età che vende fotograie della Signora e biglietti d’auguri da lei realizzati personalmente al computer mentre Suu Kyi era ancora detenuta. In parte sembra la sgangherata sede di un partito, in parte un luogo di culto. Tutti si danno da fare e chiacchierano, in attesa che arrivi la Signora. Appena entra, l’intera stanza si blocca, e macchine fotograiche e cellulari vengono accesi all’istante per catturarne ogni movimento. Sul lato opposto della strada, anche i poliziotti seduti con gli auricolari nel retro di un furgone riprendono chiunque entri o esca. Aung San Suu Kyi indossa una camicetta rosa chiaro e un sarong malva a iori azzurri, rosa e lavanda. Tra i capelli, appena sopra la nuca, porta due rose bianche. Si ferma a salutare un novantenne venuto appositamente dalla Malesia per vederla e renderle omaggio. Lei gli augura ancora molti anni, per poter ritornare quando ne avrà cento. Poi sale al piano di sopra, dove incontrerà i primi cinque giornalisti venuti da tutto il mondo per intervistarla. Tra le immagini che afollano l’uicio, una risalta in modo particolare. È un fotomontaggio di San Suu Kyi con il padre, Aung San, appeso sopra la porta d’ingresso. Lui è sullo sfondo: giovanile, iero, immortalato all’età di 32 anni. Sovrapposta in primo piano c’è una foto di lei: si direbbe abbia poco meno di sessant’anni, e più che la iglia sembra la madre. Salta all’occhio l’uniforme del padre: cappello e giacca da ui-
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Luogo di culto
Rangoon, Suu Kyi parla in pubblico dopo la liberazione ciale. Ecco il fondatore dell’esercito birmano moderno, quello che oggi tiene in ostaggio la iglia e il paese intero. Aung San faceva parte del circolo di rivoluzionari che si ribellò contro il governo coloniale britannico. Nel 1947, prima di riuscire a realizzare il sogno di una Birmania indipendente e governata dai civili, fu assassinato dai suoi rivali politici. Eppure nei quindici anni successivi il paese ebbe regolari elezioni, un parlamento, una costituzione. Ma tutto naufragò nel sangue nel 1962, quando il generale Ne Win – “amico” e collega di Aung San – rovesciò il governo,
della madre, Khin Kyi, dalla quale ha imparato le sue prime due parole di inglese: egoismo e spreco. Due cose che la donna non tollerava. “Ha vissuto al servizio degli altri, e credo sia per questo che anch’io sono cresciuta pensando che una vita, per poter essere davvero signiicativa, debba essere dedicata agli altri”. Aung San Suu Kyi e i suoi fratelli crebbero sotto la stretta tutela di Khin Kyi, che fu la prima donna ambasciatrice della Birmania in India. “Da piccola avevo il terrore del buio”, ricorda lei con una risata discreta. “Mia madre non approvava, perché non aveva paura di nul-
Quel che da lei non ci si aspetterebbe sono i piccoli lampi di ironia o irriverenza, e gli accenni al caratteraccio del padre instaurò una dittatura militare al fine di percorrere la “via birmana al socialismo”, e quindi lo “smilitarizzò”, consegnandolo a un partito unico. Ne Win sarà stato livido di rabbia, vedendo la iglia di Aung San tornare nel 1988 a visitare la madre malata e poi assumere, dall’oggi al domani e nel nome di suo padre, la guida di un movimento nonviolento per la democrazia. Di lì a un mese fu nominata segretario generale della neonata Lega nazionale per la democrazia (Nld). L’anno dopo Suu Kyi, che ino a quel momento era stata liquidata come una casalinga straniera con scarsissimo peso politico, fu messa agli arresti domiciliari. Quando inine la incontro, al piano di sopra, in un ufficio silenzioso e arredato con semplicità, parla meno del padre che
la”. E così all’età di undici anni Suu Kyi cominciò a scendere al pianterreno vagando al buio da sola, paralizzata dal terrore. Nel giro di qualche giorno riuscì a dominare la paura. “È stato un bene essermi abituata, altrimenti sarebbe stato diicile vivere lì da sola per tutti quegli anni”, spiega, e con “lì” intende il civico 54 di University avenue, la fatiscente villa a due piani in stile coloniale che da anni è la sua casa e talvolta la sua prigione. Prima degli arresti domiciliari Suu Kyi aveva vissuto in una sorta di versione asiatica di un romanzo di Jane Austen (li ha letti quasi tutti, oltre a quelli di Dickens e Sherlock Holmes: “Il mio primo amore!”, racconta). Frequentava un college femmicontinua a pagina 40 »
Politica
La lunga strada verso la democrazia Larry Jagan, Asia Sentinel, Hong Kong Negli ultimi mesi il regime ha mostrato segnali di apertura alle riforme politiche ed economiche l nuovo governo birmano sembra avere l’intenzione di imboccare la via della democrazia, almeno in parte. Per la prima volta da quando i militari hanno preso il potere nel 1992, le autorità stanno facendo uno sforzo concreto per combattere la povertà nel paese. Il nuovo parlamento, nato con le elezioni palesemente irregolari del novembre del 2010, sta cominciando a funzionare. Recentemente il presidente Thein Sein ha deciso di sospendere la costruzione della diga di Myistone, nello stato Kachin, in seguito alle proteste della popolazione locale. Inoltre sembra deciso a rilasciare alcuni prigionieri politici. L’elemento chiave del cambiamento è la volontà di Thein Sein di ascoltare le richieste di Aung San Suu Kyi. L’avvicinamento tra i due, dopo un primo incontro avvenuto lo scorso agosto, sembra aver segnato l’inizio di una nuova era per la Birmania.
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Oltre la demagogia A questo punto tutto dipende dalla liberazione dei prigionieri politici, che secondo Amnesty international sono più di duemila. A settembre il ministro degli esteri birmano Wanna Maung Lwin aveva comunicato all’Assemblea generale delle Nazioni Unite l’intenzione del governo di rilasciare tra breve alcuni carcerati. La conferma è arrivata l’11 ottobre con l’annuncio dell’amnistia per 6.300 detenuti, senza che però si sappia quanti siano i prigionieri politici. Con la loro liberazione il governo manderebbe un preciso segnale sia al paese sia alla comunità in-
ternazionale, dimostrando che il programma di riforme di Thein Sein va oltre la demagogia. Il governo eletto a novembre ha dato prova in più di un’occasione della volontà di percorrere la via delle riforme politiche ed economiche.
Di punto in bianco In Birmania raramente i cambiamenti sono stati preceduti da un annuncio formale. In occasione della giornata della democrazia il governo, senza preavviso, ha sbloccato diversi siti d’informazione internazionali inaccessibili nel paese da vent’anni, tra cui quelli del Bangkok Post, della Bbc, della Democratic voice of Burma, gestita dai birmani in esilio, di Radio Free Asia e di Voice of America. Nel frattempo si è allentata la censura nei confronti dei mezzi d’informazione e i birmani hanno potuto accedere a Skype, Yahoo e YouTube. “Ce n’è abbastanza da essere ottimisti, anche se con prudenza”, ha dichiarato Steve Marshal, capo dell’uficio dell’Organizzazione internazionale del lavoro di Rangoon. Anche Aung San Suu Kyi sembra iduciosa: “Sono convinta che ci sia una reale opportunità di cambiamento”, ha detto recentemente davanti a una piccola folla radunata davanti al quartier generale della Lega nazionale per la democrazia. Thein Sein sembra addirittura voler coinvolgere Suu Kyi nel futuro politico del paese. Nonostante la leader democratica abbia mantenuto un certo riserbo a proposito dei colloqui con il presidente, il suo atteggiamento nei confronti del governo è cambiato radicalmente. “Si ida di Thein Sein, è convinta che sia sincero e abbia
Thein Sein sa che il suo rapporto con Suu Kyi è la chiave di volta per migliorare i rapporti con la comunità internazionale
bisogno di sostegno”, ha riferito un testimone presente a un incontro recente tra Suu Kyi e alcuni diplomatici occidentali. I ministri di orientamento liberale che sostengono le iniziative di Thein Sein sono convinti che Suu Kyi sia fondamentale per la transizione democratica nel paese. “Era importante dimostrarle che siamo pronti a lavorare insieme a lei”, ha dichiarato un politico vicino al presidente. “La consideriamo un alleato potenziale, non un nemico”. Naturalmente la questione dei prigionieri politici è in cima all’agenda di Aung San Suu Kyi, che considera la loro liberazione la condizione essenziale per proseguire nel dialogo con il presidente. Thein Sein sa benissimo che il suo rapporto con la premio Nobel per la pace è la chiave di volta per migliorare le relazioni con la comunità internazionale e con l’Asean (l’Associazione dei paesi del sudest asiatico), di cui Rangoon dovrebbe assumere la presidenza nel 2014. E anche se il generale Than Shwe, capo della giunta che ha guidato il paese ino alle elezioni, sulla questione dei dissidenti resta irremovibile, la mozione per la liberazione dei prigionieri politici adottata recentemente dal parlamento potrebbe essere decisiva. Comunque non bisogna essere troppo ottimisti. Se si dovesse presentare l’occasione, infatti, i falchi all’interno dell’esecutivo sono pronti a dare una spallata al governo in qualsiasi momento. La corrente guidata dal vicepresidente Thin Aung Mying Oo, per esempio, non ha nascosto la disapprovazione per l’incontro tra Thein Sein e Suu Kyi. Anche se per il momento ci sono buone prospettive per il futuro democratico del paese, le insidie sono sempre dietro l’angolo. Un nuovo golpe militare non è da escludere, se l’esercito dovesse decidere che le riforme vanno contro i suoi interessi. Lo prevede la costituzione del 2008. Prima di lasciare la carica di presidente Than Shwe ha fatto promettere al capo dell’esercito, il generale Min Aung Hlaing, che se necessario avrebbe guidato un colpo di stato. Per il momento Min Aung Hlaing sostiene Thein Sein, ma non è afatto scontato che l’esercito continui ad appoggiare il presidente. ◆ as
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Birmania nile a New Delhi, andava a cavallo, creava composizioni floreali, incontrava diplomatici e leader politici, studiava pianoforte e lingue straniere. A diciannove anni andò a Oxford, dove si innamorò di Michael Aris, un affascinante giovane studioso di cultura tibetana e buddismo. Dovendo separarsi per quasi tre anni – Aris fu assunto come docente privato dalla famiglia reale del Bhutan, lei si trasferì a New York per frequentare un corso di specializzazione postlaurea, dopodiché andò a lavorare per l’Onu – Suu Kyi e Aris portarono avanti un amore epistolare. Le lettere sono oggi conservate nella biblioteca Bodleiana di Oxford, e senza dubbio finiranno nel film sulla vita di Aung San Suu Kyi (una settimana prima che io arrivassi in Birmania, l’attrice Michelle Yeoh, nota per il film La tigre e il dragone, aveva trascorso alcuni giorni con Suu Kyi per prepararsi a interpretarla nella pellicola di Luc Besson). I due si sposarono infine a Londra, vissero per un po’ in Bhutan e quindi si stabilirono a Oxford, dove Suu Kyi si occupava di crescere i loro due figli, organizzava cene per gli intellettuali di Oxford, studiava e scriveva di storia birmana, pubblicando tra l’altro un breve libro sul padre, e proseguendo lo studio, una costante nella sua vita, del movimento di disobbedienza civile di Gandhi.
tenere la schiena dritta, per così dire. Quel che da lei non ci si aspetterebbe sono i piccoli lampi di ironia o irriverenza, e gli accenni al caratteraccio del padre. Scherza sul fatto che con l’età si è appassionata di più alla poesia, e cita una parodia di Casabianca, una poesia di Felicia Dorothea Hemans che le hanno fatto imparare a memoria da bambina. L’originale comincia così: “Il bimbo attendeva sul ponte incendiato/Da cui ognuno era fuggito tranne lui/ Le fiamme che la guerra aveva portato/Rischiaravano i morti negli angoli bui...”. Prosegue poi descrivendo l’obbediente stoicismo con cui il bambino attende dal padre il permesso di andarsene. La parodia che Suu Kyi ama: “Il bimbo attendeva sul ponte incendiato/Da cui ognuno era fuggito tranne lui/Fesso!”. Il tempo di dirlo, e subito si mette a ridere, quasi sapesse quanto può essere buffo sentire Aung San Suu Kyi pronunciare la parola “fesso”. Anch’io sono sempre stata di quest’idea. Trovavo davvero stupido che rimanesse lì impalato sul ponte a chiamare il padre. Questo è più o meno tutto ciò che rivela del suo mondo interiore, ma in momenti del genere si percepiscono chiaramente le tracce del carisma con cui ha conquistato milioni di bir-
L’ostaggio perfetto Come altri attivisti birmani, anche Suu Kyi e la sua famiglia hanno pagato l’impegno politico a caro prezzo. Dal 1988 la premio Nobel non ha più avuto modo di vivere con i suoi figli, Alexander e Kim, che all’epoca della separazione avevano rispettivamente quindici e undici anni. Nel 1997 a Michael Aris fu diagnosticato un cancro alla prostata. Il regime gli negò il visto per andare a trovare la moglie. E neppure due anni dopo, mentre lui si stava spegnendo in ospedale, i generali smisero di perseguitarla: ogni volta che tentavano di comunicare, interrompevano le linee telefoniche. Suu Kyi non ha mai più rivisto il marito. Con una vicenda così drammatica alle spalle, ci si potrebbe aspettare un’intervista piena di entusiasmo. Ma la sua liberazione non è stata affatto un “momento Mandela”, come mi fa notare lei stessa. Di persona, Suu Kyi ha un’aria di totale autocontrollo, disinvoltura, autorità morale e perfino un certo candore vagamente puritano. La vedova perfetta, “l’ostaggio perfetto”, come l’ha definita Justin Wintle nell’azzeccato titolo della sua biografia. Uno dei suoi amici di Oxford una volta ha detto che Suu Kyi tira fuori il meglio delle persone, le spinge a
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Da sapere X 2010 A novembre si tengono le prime elezioni in vent’anni. Vince il partito degli ex generali della giunta militare, al governo dal 1992. Gli osservatori denunciano brogli. Poco dopo Aung San Suu Kyi viene liberata. X 2011 A marzo Thein Sein prende il posto di Than Shwe alla guida del paese. X L’11 ottobre la tv di stato annuncia l’amnistia per 6.300 detenuti. Il 12 ottobre vengono liberati più di 100 detenuti politici.
mani. Durante gli arresti domiciliari è stata vigile, disciplinata, rigorosa, cosa che probabilmente le ha anche permesso di conservare la sua salute mentale. Non aveva internet, né la tv satellitare, né il telefono. Il suo unico appiglio era la radio: la ascoltava anche cinque o sei ore al giorno: “Di fatto, era come un lavoro, che mi piacesse o meno”. Meditava e faceva esercizio regolarmente. La sua fedelissima guardia del corpo, a sua volta scarcerata solo di recente, mi ha raccontato che usava ancora le vecchie videocassette di aerobica di Jane Fonda e Olivia Newton John. Ma soprattutto ha avuto un sacco di tempo per leggere e per pensare. “Confesso di essermi davvero affezionata a Jean Valjean, il mio eroe”, dice, riferendosi al protagonista dei Miserabili di Victor Hugo. Nel romanzo Valjean si riscatta attraverso vari cambi d’identità, dopo essere stato bollato come criminale per aver rubato un pezzo di pane. “Tutto quel romanzo parla di rivoluzioni, no?”. Qualche settimana prima del nostro incontro Aung San Suu Kyi è stata intervistata da John Simpson della Bbc, che ha cercato di paragonare la situazione birmana alla rivoluzione di velluto cecoslovacca. “È scoppiato un putiferio”, racconta Suu Kyi, senza nascondere la sua irritazione. “Le persone hanno collegato subito la rivoluzione alla violenza, invece non è affatto così. Rivoluzione significa semplicemente un cambiamento importante. Radicale, se vogliamo, e io ho sempre detto che la rivoluzione democratica birmana dev’essere una rivoluzione dello spirito. I birmani devono capire che sono loro gli unici a poter produrre il cambiamento. Devono assumersi la responsabilità di trasformare il destino del nostro paese”. L’ex presidente Than Shwe è spesso descritto come uno psicopatico, come Idi Amin, Robert Mugabe, e perfino il nordcoreano Kim Jong-il. Lee Kuan Yew, l’ex primo ministro di Singapore, si è spinto oltre, arrivando a paragonare i generali a degli zombi: avere a che fare con loro, ha dichiarato, è come “parlare con dei morti”. Eppure Than Shwe ha saputo muoversi in modo magistrale, superando in astuzia, forza e tenuta nel tempo i suoi rivali militari, i gruppi ribelli delle minoranze etniche, l’opposizione democratica, l’occidente e perfino l’eroina nazionale birmana, Aung San Suu Kyi. Oggi il partito di Suu Kyi, la Lega nazionale per la democrazia, è spesso descritto dai diplomatici occidentali, dai militanti e dagli ex iscritti come un relitto scollato dalla realtà, e formato perlopiù da “vecchietti.” Gran parte degli intellettuali
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I sostenitori di Suu Kyi aspettano la sua liberazione, novembre 2010
del partito si trova in carcere o in esilio, e la stessa Suu Kyi viene accusata, quasi come Than Shwe, di aver contribuito all’isolamento del paese. Se Than Shwe ha alimentato una sorta di favola intorno alla igura di Aung San Suu Kyi, probabilmente non è la favola che lei si sarebbe scelta. Isolata dal mondo per così tanto tempo, la Signora del Lago è diventata una specie di incrocio tra Rip Van Winkle (il protagonista dell’omonimo racconto di Washington Irvin, isolatosi dal mondo per vent’anni per sfuggire alle angherie della moglie) e la Bella addormentata. Radio o non radio, è vissuta in un bozzolo. Perino i suoi sostenitori di Rangoon deiniscono il suo pensiero datato, fermo a un’epoca di ideali e princìpi puri, in cui le masse erano pronte a ribellarsi per delle idee ed erano aperte al cambiamento. Le qualità un tempo tanto ammirate dai suoi sostenitori oggi appaiono come una zavorra. La sua compostezza passa per rigidità, l’autocontrollo per inlessibilità politica. “È questione di gap. Generazionale, tecnologico, perfino ideologico”, mi ha spiegato un famoso scrittore birmano, descrivendo il nuovo contesto al quale Suu Kyi deve adattarsi. “Ed è quello ideologico a rappresentare per lei la sida più grande”.
I saggi e i discorsi di Suu Kyi degli anni novanta ruotano tutti intorno all’idea che l’uomo sia più di una semplice creatura economica, ma dopo cinquant’anni di dittatura militare, malnutrizione, hiv difuso, malaria, mortalità infantile, sommati a uno dei sistemi sanitari peggiori del mondo, e a un devastante ciclone al quale le autorità hanno reagito facendo ben poco, chi può ancora avere le energie per sostenere i princìpi morali?
Una città indecifrabile Perino i monaci scesi in piazza nel 2007 l’hanno fatto in seguito a enormi e improvvisi rincari del prezzo dei carburanti che nessuno era in grado di sostenere. Ecco perché, quando Suu Kyi ha chiesto l’apertura di un’indagine sulle elezioni truccate di inizio novembre, in pochissimi si sono schierati dalla sua parte. Eppure tutti sapevano dei brogli. Quando poi ha chiesto una revisione della nuova costituzione voluta dai generali, ancora una volta il disinteresse è stato assoluto. Come mi ha detto un economista: “Io le ho spiegato che la popolazione vuole da mangiare!”. Rangoon è una città diicile da decifrare. Gran parte di quello che vi accade realmente è invisibile. Per strada non si vedono
soldati né carri armati. La paura instillata dal regime è più insidiosa e interiorizzata. La prima cosa che si avverte, arrivandoci, è il suo isolamento, l’apatia di un luogo abbandonato a se stesso. Bar e cafè sono un misto a metà tra il cattivo gusto asiatico, la latteria anni cinquanta e il Far West (John Denver, e in generale il country americano, vanno fortissimo nei locali di karaoke). Gli ediici vittoriani di epoca coloniale sopravvivono, ma sono stati abbandonati all’erosione dei monsoni. I taxi andrebbero esposti in un museo dell’ingenuità umana: poco più che gusci delle Toyota originarie, sembrano lamiere dotate di batteria che sobbalzano per le strade. In giro si vedono Jeep della seconda guerra mondiale modiicate alla bell’e meglio con cavi e batterie per trainare pianali da camion. Visito un villaggio della Birmania centrale dove non arriva un turista da anni. È rimasto al medioevo. I buoi trascinano carretti carichi di ieno. L’irrigazione non esiste. L’acqua viene portata in barili dai pozzi nei dintorni del villaggio, oppure raccolta in tinozze quando piove. E non c’è l’elettricità. Un tempo la Birmania era il gioiello dell’Asia, uno dei suoi paesi più istruiti e avanzati. Ma non appena i generali hanno intuito che l’istruzione e gli studenti erano Internazionale 919 | 14 ottobre 2011
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Birmania la vera minaccia al loro potere, hanno cominciato a privarli di risorse e di strutture. La splendida, antica università di Rangoon oggi è ridotta a un cumulo di ediici abbandonati ed erba. Chi vuole studiare deve andare fuori città. “Anche il carattere dei birmani si è corroso. La moralità è scomparsa”, spiega Kyaw Thu, uno dei divi cinematograici più famosi del paese. “La corruzione è diventata la norma. Ci sono bambine che lavorano nei karaoke e nei centri per massaggi. L’unica cosa che conta è avere il denaro per sopravvivere”. Banditi dall’industria cinematograica per aver osato dar da mangiare ai monaci durante le manifestazioni del 2007, Kyaw Thu e sua moglie, Myint Myint Khin Pe, gestiscono sette giorni su sette un servizio di pompe funebri gratuito e un ambulatorio medico in un’ex discarica alla periferia di Rangoon. Lui sembra un samurai: lunga coda di cavallo, orecchini, sarong nero e gilet di lino alla Nehru. Parla soprattutto la moglie. Come tutte le persone che ho cono-
non avrebbe mai più assistito a una scena simile. I tempi sono cambiati. L’ideologia non va più di moda. Il pragmatismo sì. E questo vale anche per il dibattito sull’embargo riaperto con la liberazione di Aung San Suu Kyi. Sono dieci anni che l’occidente punisce le brutalità del regime con l’embargo. E ino a quando Suu Kyi e le sue lobby in esilio continueranno a invocare sanzioni, è improbabile che qualunque politico o inanziatore occidentale si azzardi a contestare la linea dura di un premio Nobel. Di conseguenza non ci sono aiuti della Banca mondiale o del Fondo monetario internazionale, né microprestiti, e pochissimi aiuti umanitari, quasi il tasso pro capite più basso del mondo.
La via del compromesso “Nel 1996 Suu Kyi ha dichiarato: ‘Non è tempo di aiuti umanitari. A noi serve un cambiamento politico’. Be’, tanti auguri, ma nel frattempo qui si muore come topi”, mi ha raccontato un medico europeo indi-
“Deve trattare i generali con gentilezza. Ricordarsi che sono dei porci maschilisti e cercare di ingraziarseli” sciuto a Rangoon, anche loro sono grandi ammiratori di Aung San Suu Kyi, eppure temono che una sua visita al loro ambulatorio potrebbe avere conseguenze negative. Quando ha visitato la clinica per malati di aids gestita dal suo partito, il governo ha minacciato di chiuderla e trasferire i pazienti in una struttura statale. Kyaw Thu, allora, è andato alla clinica insieme a un famoso cantante e regista birmano, apparendo in televisione per chiedere al governo di avere pietà dei pazienti. Miracolosamente, e alquanto inspiegabilmente, il governo ha fatto dietrofront. Chiedo alla moglie se secondo lei Aung San Suu Kyi è ancora in grado di aiutare il paese. “Se non cerca troppo lo scontro con il regime”, risponde lei con un sorriso. “Loro sono molto potenti. Deve muoversi con intelligenza”. Fuori dal centro, Kyaw Thu mi indica il loro parco di carri funebri. Nella cultura birmana, il becchino occupa il gradino più basso della società. Nessuno vuole toccare i morti, eppure per una famiglia la morte è il momento più duro, e nessuno può permettersi di pagare un funerale. Dopo aver visto ammassare corpi senza nome sul carro funebre che trasportava al cimitero la sua ricca nonna, Kyaw Thu ha deciso che
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gnato, bevendo l’ultimo sorso della sua birra e ordinandone un’altra. Eravamo al 356 Café, un ristorante di noodles con i menù in inglese, pessima techno music e rampicanti di plastica ovunque. Nel locale non c’era nessun altro: troppo costoso per la maggior parte dei birmani. “Siccome i generali non ci stanno simpatici, allora priviamo le persone di farmaci che potrebbero salvargli la vita? Che senso ha?”. Vista in questi termini, nessuno. Ma le sanzioni e i tagli agli investimenti hanno aiutato la lotta contro l’apartheid in Sudafrica. In Birmania, invece, le sanzioni hanno lasciato il paese in balia dei suoi famelici vicini. Cina, India e Thailandia stanno saccheggiando le sue risorse naturali, costruendo gigantesche dighe e aree industriali senza la minima regolamentazione ambientale, e senza farsi scrupolo a cacciare migliaia di contadini dalle loro case. “I cinesi sversano il cianuro utilizzato per estrarre l’oro nel iume Irrawaddy, tanto che gli abitanti dei villaggi hanno dovuto smettere di mangiare pesce”, mi spiega una birmana che lavora nello sviluppo rurale. Lei preferirebbe avere a che fare con le aziende occidentali, che perlomeno qualche regola sono costretti a rispettarla. “Il
governo non sa nulla d’inquinamento. Sono militari che vivono nel medioevo. C’è bisogno di aria nuova. Bisogna far uscire i militari dal loro isolamento”. A Rangoon sta nascendo un movimento che alcuni deiniscono “la terza forza” o “la via di mezzo”. Chi vi aderisce vuole aprire le porte del paese alle aziende occidentali che hanno l’obbligo di agire secondo le regole, e vuole programmi di formazione per la società civile che includano anche persone del regime, siano poliziotti o funzionari statali. Compromesso: ecco cosa chiedono tutti ad Aung San Suu Kyi. Lei dice di essere sempre stata disposta ad aprire un dialogo con i generali. Il suo problema è che non è troppo brava a mentire, abbozzare, fare buon viso a cattivo gioco. Durante i suoi periodi di libertà, nel 1996 e nel 2001, i generali la portavano a vedere i loro ponti e le loro strade, e si aspettavano che lei dicesse: “Avete fatto un ottimo lavoro”. Volevano la sua approvazione. Ma lei vedeva solo che i ponti non portavano da nessuna parte, che erano stati costruiti con il lavoro forzato, che le persone a cui erano destinati non avevano scuole né ospedali. Quando la portarono a vedere i loro progetti nel nord, lei non vide altro che la sinizzazione della regione: casinò, prostitute, karaoke. Quello che ho avvertito, parlando con scrittori, giornalisti, cooperanti, attivisti e artisti, è il desiderio di un nuovo ruolo per la premio Nobel, al di sopra della mischia politica. Vogliono che abbandoni la politica di partito, che si faccia mediatrice tra la popolazione e i militari e si dedichi a promuovere la democrazia. Ironia della sorte, è proprio la trama della Bella e la Bestia, solo che il pubblico il inale lo vuole subito. “Deve trattare i generali con gentilezza. Rispettarli. Ricordarsi che sono dei porci maschilisti, e quindi cercare di ingraziarseli e rendersi indispensabile”, spiega l’anziano docente che ho incontrato all’hotel Savoy. In altre parole, trasformare con un bacio la bestia in un principe, o almeno in qualcosa con cui il paese possa convivere. È questo il fardello che grava sulle spalle di Aung San Suu Kyi. Malgrado le frustrazioni che suscita, rimane il simbolo di speranza più potente della Birmania. Le persone vogliono che sia una stratega, una ine psicologa, un’economista, una madrina benevola per il popolo e per la giunta. Il che spiega forse le ultime, malinconiche parole che mi rivolge. “Non credo di aver realizzato nulla di cui essere davvero orgogliosa”, dice. “Quando avremo ottenuto la democrazia, glielo farò sapere”. u mc
Studi scientifici dimostrano la validità dell’Omeopatia
Guna. È medicina omeopatica di documentata efficacia terapeutica.
Omeopatia moderna
Le prove dell’efficacia dell’Omeopatia
GUNA è giunta ad essere, nell’arco di oltre venticinque anni, leader nel nostro Paese nel campo della Medicina naturale. Particolarmente impegnata nella diffusione delle conoscenze sull’Omeopatia moderna e nella ricerca, GUNA è in grado di dimostrare che la validità clinica dell’Omeopatia può essere provata utilizzando gli stessi criteri scientifici propri della medicina convenzionale.
Studi rigorosi, che forniscono inequivocabilmente la prova dell’efficacia terapeutica dei medicinali omeopatici ed omotossicologici, sono stati pubblicati da Guna Editore - Divisione di Guna S.p.a. (5ª edizione aggiornata, 2010) e sono a disposizione di tutti i medici, i farmacisti, i ricercatori e le istituzioni pubbliche che intendano farne richiesta all’indirizzo internet: www.guna.it/ricerca.htm
Autorità Nazionale Palestinese
GETTY IMAGES PER bLooMbERG buSINESSwEEk
Nablus, 2011. Gli uici della società di intermediazione inanziaria Target
La borsa a prova di crac Sarah A. Topol, Bloomberg Businessweek, Stati Uniti Foto di Uriel Sinai Dalla metà degli anni novanta la Palestine exchange ha superato indenne l’assedio israeliano, una guerra civile e un embargo internazionale. Il mercato è virtuale e può essere gestito a distanza anche durante un coprifuoco. Reportage da Nablus 44
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el 2002, quando Nablus era sotto l’assedio israeliano, Mohammad Hijaz doveva scavalcare recinzioni, nascondersi e infilarsi al volo nelle ambulanze per andare al lavoro alla Palestine exchange (la borsa palestinese, Pex). L’operazione Scudo difensivo, con i carri armati israeliani schierati nelle città della Cisgiordania, impediva le contrattazioni, ma Hijaz s’introduceva furtivamente in uicio per inire i report. La Palestine exchange aveva aittato un albergo in città per i suoi impiegati che venivano da fuori. Hijaz, che si occupa delle relazioni con le società quotate in borsa, poteva passare un’intera settimana senza vedere la moglie o i igli, tornando a casa solo nel weekend. Considerati i tanti checkpoint militari
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scambiati su questa piazza è di circa 2,8 miliardi di dollari, contro i 65 miliardi della borsa egiziana. Il suo listino comprende 46 importanti aziende palestinesi, anche se il grosso degli scambi si concentra solo su diciotto di queste. La più importante è la Palestine telecommunications (Paltel), che vale circa un miliardo di dollari, ma ci sono anche la Palestine electric di Gaza e la Golden wheat mills di Ramallah. Secondo i dati della Pex gli operatori palestinesi realizzano circa il 50 per cento degli scambi, il resto è attribuibile a operatori stranieri.
Vantaggi non scontati
israeliani, era quasi impossibile fare avanti e indietro tutti i giorni. “Dovevamo sidare l’occupazione per ragioni nazionali e per continuare a lavorare”, spiega Hijaz, mentre beviamo un cafè nella luminosa sala conferenze della borsa di Nablus. “In in dei conti, bisogna lavorare per mantenere una famiglia”. Quando il coprifuoco era sospeso, ricorda Hijaz, telefonava ai colleghi e ai broker per vedere se riuscivano a entrare in città e partecipare alle sedute convocate all’ultimo momento. Quando, dopo 39 giorni di chiusura, la Pex ha ricominciato a funzionare a pieno regime, il volume degli scambi era decisamente basso ma la borsa ha tenuto. Negli ultimi quattordici anni la Pex è sopravvissuta alle invasioni israeliane, a una guerra civile e a un embargo interna-
zionale. Durante le rivolte arabe del 2011, quando le borse in Egitto, in Libia, in Bahrein e in Tunisia hanno dovuto sospendere gli scambi per evitare il crollo, la Pex è riuscita a tirare avanti, traendo forza dalla storia tumultuosa dei Territori occupati. Nella prima metà di quest’anno è stata la borsa araba con il miglior andamento dopo quella irachena. “Siamo un caso unico perché la nostra borsa è a prova di traumi”, spiega il direttore generale della Pex, Ahmad Aweidah, nel suo uicio di Ramallah. “L’instabilità politica non ci influenza negativamente perché la Pex è nata in mezzo a un caos ancora più grande. Dal nostro punto di vista, quello che è successo al Cairo è un gioco da ragazzi”. La borsa palestinese è nata nel 1995, due anni dopo gli accordi di Oslo, ed è minuscola. Il valore complessivo dei titoli
Gestire un mercato azionario sotto occupazione e nell’epicentro di un conlitto regionale può avere dei vantaggi. Se non altro, questa situazione ha costretto la Pex a prevedere delle misure d’emergenza per affrontare le stesse diicoltà che hanno fatto chiudere molte altre borse arabe. Il mercato è virtuale – non c’è una sala delle contrattazioni – e può essere gestito a distanza anche durante i periodi di coprifuoco o le manifestazioni. Gli scambi avvengono sulle linee telefoniche di un’azienda locale, con un sistema di backup aidato a una ditta israeliana che garantisce lo svolgimento delle contrattazioni anche se le linee telefoniche vengono tagliate. I server si trovano in due luoghi diversi, nel caso scoppiassero degli scontri. “Se ci colpisce un missile possiamo continuare a lavorare”, spiega Aweidah, facendo notare che le attività palestinesi, compresa la borsa, non si fermano neanche nei momenti più diicili. Gran parte delle contrattazioni avviene al telefono, e il 20 per cento su internet. La Target investment & securities, una società di intermediazione inanziaria con sede a Nablus, è uno dei pochi luoghi dov’è possibile assistere dal vivo alla compravendita dei titoli. In una stanza poco illuminata della sede di Target, un gruppo di uomini di mezz’età guarda verso il muro dove vengono proiettati in tempo reale i valori dei titoli quotati alla Pex. L’immagine sulla parete è un foglio di calcolo simile a un documento Excel. Occupa gran parte del muro e rimane ferma inché una casella non diventa verde, il segnale che il prezzo di alcune azioni è aumentato. A quel punto un mormorio riecheggia nella stanza e Youssef Halaweh si alza in fretta. Halaweh, un falegname in pensione, esce dalla porta e percorre il corridoio ino alla postazione dove si comprano e vendono i titoli. Riempie un modulo per vendere diecimila delle sue azioni a un prezzo leggermente superiore a quello corrente. HaInternazionale 919 | 14 ottobre 2011
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Autorità Nazionale Palestinese laweh ci pensa su qualche minuto prima di consegnare il modulo irmato al broker. Poi il suo volto segnato s’illumina di un sorriso imbarazzato, che rivela qualche dente mancante. “Vendo perché ho bisogno di contanti”, spiega. “Devo comprare alcune cose per la mia famiglia”. Halaweh ha cominciato a investire alla borsa palestinese nel 1997. Inizialmente aveva comprato le azioni di un’unica società. Ora sostiene di possedere più di centomila azioni di tredici aziende diverse. Ha perino venduto dei terreni per poter continuare a investire. “A volte ci ho rimesso, ma nel lungo periodo ci ho guadagnato”, dice con orgoglio. Per Halaweh e per molti altri palestinesi, investire in borsa è una questione di orgoglio nazionale. Intanto, nella sala delle proiezioni, un’altra casella diventa verde e Hikmat Duekait, anche lui in pensione, lancia un ischio di approvazione. “Adoro il colore verde”, si rallegra, confessando di far parte di un gruppetto di irriducibili, talmente ossessionati dalla borsa che frequentano gli uffici di Target tutti i giorni. “Non ho nient’altro da fare”, spiega Duekait. “In casa mi annoio. Vengo qui e parlo di tutto, di politica, dei mercati. È come stare al bar”. Ha cominciato a investire nel 2004 e conosce il nome di tutti i broker di Target.
Io investo in Palestina La borsa palestinese ha dovuto afrontare alti e bassi a causa delle varie fasi del conlitto. Cresciuta più del 300 per cento nel 2005, è crollata dopo le elezioni del 2006, quando nelle strade si scontravano i militanti di Al Fatah e quelli di Hamas, e l’embargo internazionale ostacolava le attività commerciali. “Nel 2005 questa stanza era così piena che alcuni rimanevano nel corridoio”, ricorda Duekait. Quell’anno molti palestinesi hanno venduto i loro terreni e i gioielli delle loro mogli per comprare delle azioni, ma poi sono rimasti praticamente senza niente quando la borsa ha perso il 50 per cento del suo valore verso la ine del 2006. “Nessuno è immune dalle perdite”, ammette Majdi Aqqad, il proprietario di una fabbrica di scarpe che investe in borsa dal 2005. “Ma è come giocare d’azzardo: quando perdi vuoi rifarti guadagnando di più”, dice con gli occhi incollati allo schermo. Come molti mercati azionari emergenti, la Pex sofre della mancanza di liquidità e della scarsa professionalità degli investitori. Gli uomini nella sala di Target non sanno spiegare bene perché comprano o vendono azioni, e una legge vieta ai broker
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di ofrire consulenze sugli investimenti. La Pex e le società di intermediazione come Target hanno cercato di incoraggiare gli investitori a prendere informazioni sulle aziende in cui investono. “Consigliamo agli investitori di procurarsi i bilanci aziendali. Devono leggerli e capire qual è la migliore, quale ha registrato dei proitti e quale invece è in perdita”, dice Assmaa Mohammed Saeed al Masri, direttore generale di Target. “Devono sapere chi siede nel consiglio d’amministrazione, sapere se si tratta di persone buone o cattive, se sono ladri o se si fanno corrompere”. Gli uomini nella sala delle proiezioni si consultano tra loro per decidere quando vendere e quando comprare. “Sono un vecchio investitore. Tutti mi chiedono consigli”, si vanta Halaweh. Ci racconta che grazie ai soldi guadagnati è riuscito a far studiare i suoi nove igli. Non è stato facile convincere i palestinesi a investire in borsa. All’inizio le attività inanziarie venivano associate al divieto islamico di fare scommesse. “C’è voluto molto tempo per far capire alle persone che il mercato inanziario non è haram, proibito dalla religione, perché non si tratta di scommettere, ma di investire su determinate aziende”, racconta Masri. Target ofre anche un accesso al mercato inanziario giordano, ma molti investitori comprano solo sulla Pex. “Io investo in Palestina per far crescere il mercato locale”, dice Halaweh. Ultimamente giocare in borsa è diventato redditizio. Secondo il Fondo monetario internazionale l’econo-
Da sapere u Nel 2011 la crescita economica della Cisgiordania sarà più lenta del previsto perché i paesi donatori non hanno versato all’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) gli aiuti promessi. Secondo un rapporto della Banca mondiale, l’economia palestinese è molto dipendente dal denaro dei donatori e quando questi soldi non arrivano, l’impatto è immediato. Le previsioni sul tasso di crescita per il 2011 sono state abbassate dal 9 al 7 per cento. Quest’anno sono stati soprattutto i paesi arabi a non rispettare gli impegni: nei primi sei mesi dell’anno hanno versato 80 milioni di dollari, contro i 231 milioni del 2010 e i 462 milioni del 2009. Il 5 ottobre 2011 la camera statunitense ha votato per congelare 200 milioni di dollari di aiuti ai palestinesi, dopo che Abu Mazen ha presentato all’Onu la richiesta di riconoscimento dello stato palestinese. Ap
mia palestinese è cresciuta del 9,3 per cento nel 2010 e del 7 per cento nella prima metà del 2011. Quest’anno la borsa ha quotato sei nuove aziende. Alla ine di agosto l’indice Al Quds, che segue l’andamento di una decina di aziende quotate alla Pex, era aumentato dello 0,4 per cento rispetto all’andamento dei primi otto mesi dell’anno. I broker e gli operatori ammettono che il mercato è ancora soggetto ai capricci della politica legata al conlitto. Una nuova esplosione di violenza potrebbe azzerare gli ultimi successi. “Senza la speranza non si fanno investimenti”, dice Masri. L’economia palestinese è cresciuta soprattutto grazie agli aiuti dei governi occidentali. “La comunità palestinese dipende dai donatori internazionali, e questo ha efetti negativi sull’economia”, dice Khaled al Sabawi, direttore generale della società immobiliare Union construction & investment, con sede a Ramallah. “Con il iume di aiuti che si riversa in Cisgiordania, prima o poi dovremo afrontare una bolla economica”. Invece, se le donazioni straniere subissero un brusco calo, gli efetti si farebbero sentire sui proitti delle aziende, con un abbassamento del valore delle azioni e della disponibilità dei palestinesi a investire in borsa. “Sembra che la crescita economica sia stabile ma è solo una sensazione. Dipende fortemente dalla situazione politica o dalle condizioni imposte dalla comunità dei donatori”, fa notare Al Sabawi. “Al primo problema politico ci tagliano i fondi”. Nonostante i rischi, gli investitori stranieri hanno già notato questo piccolo mercato. La Lotus inancial investment è una società di intermediazione finanziaria creata nel 2005 con l’obiettivo di far entrare gli stranieri nel mercato palestinese. “Abbiamo avuto successo. Ora siamo la più grande società di intermediazione inanziaria presente qui e trattiamo con investitori stranieri”, dice Tareq Shaka, il direttore generale della Lotus. “Molte persone non hanno la più pallida idea dell’esistenza di una borsa valori da queste parti”, dice Shaka ridendo. In questi giorni l’80 per cento degli scambi trattati dalla Lotus proviene da investitori stranieri. La possibilità di una conclusione paciica del conlitto potrebbe far decollare deinitivamente la Pex. “Non vedo l’ora che arrivi un vero accordo di pace con Israele”, dice Aweidah. “Immaginate che una domenica Abu Mazen e Benjamin Netanyahu irmassero un accordo di pace. Il lunedì sì che ne vedremmo delle belle”. u gim
Brasile
Un successo di carta Ricardo Moreno, Monocle, Gran Bretagna Foto di André Vieira
La Folha de S. Paulo è il giornale più letto del Brasile. Le vendite aumentano e l’edizione cartacea va meglio di quella online. Merito di un gruppo di giornalisti con il iuto per le notizie
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proitti della pubblicità crescono del 10 per cento (che diventa il 20 per cento per la ver sione online). “La carta stampata è ancora al primo posto. Per ogni 100 euro incassati dalla società, 90 provengono dalla versio ne stampata”, spiega il direttore Sérgio Dávila. Una situazione che nei giornali eu ropei e statunitensi non si veriica più da decenni.
Scoop alla vecchia maniera Secondo Dávila, il boom dei lettori rende la Folha ancora più influente. “Vuole un esempio del nostro potere? Dei ministri brasiliani che di recente sono stati costretti a dimettersi, tre lo hanno fatto a causa no stra”. Dávila, che da diciotto anni lavora alla Folha, ne è orgoglioso. Ha cominciato la sua carriera come freelance, poi è diven tato redattore, ha seguito la guerra in Iraq, ha lavorato come corrispondente dagli Sta ti Uniti per dieci anni e, nel marzo del 2010, è tornato in Brasile per ricoprire il ruolo che ha oggi. Ad agosto si è dimesso il ministro della difesa Nelson Jobim. La Folha aveva pub blicato alcuni estratti di un articolo che do veva uscire sulla rivista Piauí, in cui Jobim deiniva gli altri ministri “deboli” e “confu si”, e rivelava di aver votato per l’avversario di Dilma Roussef, José Serra, alle presi denziali del 2010. Una dichiarazione simile avrebbe potuto passare inosservata su
MoNocLE (4)
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on l’aiuto di un sistema logistico che stupirebbe un matematico, le prime copie della Folha de S. Paulo arrivano nelle edi cole della città brasiliana alle 3.50 del mattino. Quattro ore dopo, è possibile trovare la stessa edizione a 4.800 chilometri di distanza, a Boa Vista, all’estremo nord del paese. Niente può an dare storto. E niente va storto. Un solo er rore, un minuto di ritardo e sarebbe un di sastro: centinaia di migliaia di lettori si sveglierebbero senza il loro quotidiano da vanti alla porta di casa o dal giornalaio all’angolo. Questa perfezione, che dura da no vant’anni, si ottiene grazie al lavoro di due mila persone tra cui ci sono, oltre a 450 giornalisti, anche piloti, tipograi, camerie ri e inserzionisti. Ma in un’epoca in cui molti prevedono la morte della carta stam pata, perché s’investono tanti soldi e tanto impegno in un giornale? Nel caso della Fo lha la risposta è semplice: il numero di bra siliani che lo legge continua ad aumentare. Il quotidiano vende 305mila copie al gior no, e dal momento che ogni copia viene letta da più persone, i lettori sono 2,4 milio ni. Un sondaggio condotto a luglio dall’Ivc, l’agenzia che valuta la difusione dei gior nali brasiliani, ha rivelato che le vendite aumentano del 5 per cento ogni anno, e i
La riunione di redazione
La graica Ana Beatriz de Castro
In redazione
Il bar nella Folha de S. Paulo Internazionale 919 | 14 ottobre 2011
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Brasile Piauí, che vende poche copie, ma una volta apparsa sulla Folha ha segnato il destino del ministro. La popolarità del giornale non dipende dalle notizie politiche o finanziarie che pubblica quotidianamente, ma dalle sue analisi, dai lunghi racconti e da un lusso continuo di scoop alla vecchia maniera. Il merito è anche dei suoi venticinque reporter speciali: tutti giornalisti esperti che non sono costretti a scrivere un articolo al giorno, ma hanno a disposizione il tempo e le risorse per scovare le verità più scomode. “Il loro unico compito è portarci notizie che gli altri non hanno”, dice Dávila. La storia del giornale, nato il 19 febbraio 1921 come Folha da Noite, rispecchia quella del Brasile. All’inizio fu fondato per denunciare le carenze dei servizi pubblici a São Paulo. Nei dieci anni successivi, sotto la direzione di un coltivatore di cafè che lo aveva comprato, la Folha difese gli interessi degli agricoltori e lanciò delle campagne per migliorare la sanità pubblica. Il grande cambiamento avvenne nel 1962. Il giornale, che ormai si chiamava Folha de S. Paulo, fu comprato dall’uomo d’affari Octávio Frias de Oliveira. Ancora oggi la Folha appartiene alla sua famiglia.
Liberi di scrivere Negli anni sessanta, come molti altri giornali del paese, la Folha appoggiò la dittatura militare. Subì vari attentati e, nei dieci anni successivi, la sua sede e le sue auto furono regolarmente danneggiate dagli oppositori della giunta. Poi negli anni ottanta, quando il Brasile ha cominciato la sua trasformazione democratica, la Folha ha svolto un ruolo importante nel chiedere le riforme e ha conquistato un pubblico di lettori più impegnati, oltre a moltiplicare i ricavi. Oggi il Folha Group è formato da cinque società, divise in undici aziende, tra cui il Datafolha Institute (che studia i mezzi d’informazione), i giornali Agora e Valor Econômico, una tipograia, la casa editrice Publifolha, l’agenzia di stampa Folhapress e il più grande portale internet brasiliano, Uol. Nel 2010 il Folha Group ha incassato 1,8 miliardi di euro, con un guadagno netto di 262 milioni. Dopo la morte di Octávio de Oliveira nell’aprile del 2007, a occuparsi della Folha de São Paulo è uno dei suoi quattro igli, Otávio Frias Filho, un uomo tranquillo e riservato. Nel tempo libero, Otávio scrive opere teatrali, saggi e libri per bambini. Suo fratello, Luiz Frias, è il presidente del portale Uol e del Folha Group, oltre a essere un musicista e a suonare la chitarra in un
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Quello che ci sta a cuore è far uscire il lettore dalla sua zona di sicurezza. Un giornale che compiace sempre il suo pubblico non ha personalità
gruppo rock. Dagli anni cinquanta la sede del giornale è in un vecchio palazzo a nove piani al centro di São Paulo, ben recintato per tenere alla larga gli spacciatori e le prostitute del quartiere. Guardandolo dall’esterno è diicile immaginare che al suo interno c’è una redazione al lavoro ventiquattr’ore su ventiquattro. Il personale è distribuito su due piani. Al primo ci sono le sezioni “calde” (la politica, la cronaca, l’economia). Al secondo ci sono le redazioni che si occupano di argomenti più “leggeri”, come la cultura, gli inserti e le riviste (il settimanale Sãopaulo e il mensile Seraina). L’ediicio è di un’eleganza un po’ sbiadita. Nonostante la recente ristrutturazione curata da uno studio di architettura cittadino all’avanguardia, che nel suo progetto si è ispirato alla redazione del New York Times, gli uici della Folha non potrebbero mai vincere un premio per il comfort. Il personale si lamenta dell’illuminazione, l’aria condizionata di solito è troppo forte,
Da sapere 384 gli articoli pubblicati in media ogni giorno sulla Folha de S. Paulo 305mila copie vendute ogni giorno 1.372 mezzi di trasporto consegnano il giornale (auto, furgoni, moto e aerei) 1.104 le città dove arriva la Folha 2,4 milioni di persone leggono il quotidiano 10 corrispondenti internazionali 500 nuovi articoli pubblicati ogni giorno su folha.com 450 giornalisti 2.000 impiegati Più di 500mila fan su Facebook
le sedie sono scomode e non c’è un posto dove mangiare. L’altra cosa che scoraggia i redattori è la mancanza di copy editor e di fact-checker. Ogni giornalista è responsabile della precisione e della correttezza del suo lavoro. “Abbiamo perino pensato alla possibilità di assumere un copy editor a nostre spese”, dice scherzando Kátia Lessa, una giornalista del settimanale Sãopaulo. Fino a tre anni fa una specie di lavagna elettronica segnalava gli errori dell’edizione del giorno e i nomi dei giornalisti che li avevano commessi. Oggi l’organizzazione è meno severa, ma una volta al mese tutti i giornalisti ricevono una specie di pagella con gli errori che hanno fatto, che si tratti di un fatto non veriicato, di una virgola al posto sbagliato o di un verbo usato male. “Qui mi sento libero di scrivere quello che voglio e come voglio”, aferma l’editorialista Adriana Küchler. “Tra tutti i giornali brasiliani, la Folha è uno dei pochi che rispettano certi princìpi, come quello di ammettere i propri errori”. Nell’arena digitale la Folha de S. Paulo ha seguito la strada più saggia: non ha mai oferto l’accesso gratuito ai suoi contenuti online. “Se cominci a regalare qualcosa, poi non puoi più fartela pagare”, sostiene Dávila. Non c’è una redazione separata che si occupi del sito. I redattori del giornale selezionano e scrivono le notizie da mettere online e nelle applicazioni per i cellulari, e decidono quali notizie possono aspettare la mattina dopo per uscire sul giornale e quali meritano di essere pubblicate immediatamente sul web. L’allargamento della classe media brasiliana ha assicurato lunga vita ai quotidiani. Oltre a spendere per i viaggi, l’abbigliamento e l’elettronica, questa nuova fascia sociale della popolazione è alla ricerca di un’identità culturale. Per questo sta abbandonando giornali popolari come Agora (che costa l’equivalente di 65 centesimi di euro) o il Diário de São Paulo (40 centesimi) e preferisce testate più elitarie come la Folha, che costa più del doppio (1,10 euro). Ma in in dei conti, cosa rende la Folha de S. Paulo una parte così essenziale della vita di tante persone? “Quello che ci sta a cuore è far uscire il lettore dalla sua zona di sicurezza. Un giornale che compiace sempre il suo pubblico non ha personalità”, sostiene Dávila. “La Folha promuove l’innovazione ed è sempre insoddisfatta di sé, perché pensa di avere continui margini di miglioramento”, conclude Otávio Frias Filho. u bt
Scienza
La fatica di decidere John Tierney, The New York Times Magazine, Stati Uniti. Foto di CJ Burton
Tutti i giorni prendiamo centinaia di decisioni. Questo processo provoca un afaticamento mentale che rende ogni scelta sempre più diicile e spesso costringe a non scegliere niente o a lasciar fare agli altri. Alcuni ricercatori cercano di capire perché succede e come limitare i danni empo fa tre detenuti delle carceri israeliane sono comparsi davanti alla commissione che concede la libertà condizionale. Tutti e tre avevano già scontato almeno due terzi della pena, ma la commissione ha concesso la libertà solo a uno di loro. Il primo detenuto si è presentato alle 8.50. Era un arabo israeliano condannato a due anni e mezzo per frode. Alle 15.10 è arrivato un ebreo israeliano che scontava un anno e quattro mesi per aggressione. Alle 16.25 è stato discusso il caso di un altro arabo israeliano condannato a due anni e mezzo per frode. C’era una logica nelle decisioni della commissione, ma non aveva niente a che fare con l’origine dei detenuti né con il reato commesso né con l’entità della pena. Era tutta una questione di orari. Lo ha scoperto un gruppo di ricercatori che ha analizzato più di 1.100 decisioni prese dalla commissione in un anno. Dopo aver esaminato le richieste dei detenuti ed essersi consultati tra loro, i giudici avevano concesso la libertà in circa un terzo dei casi. Ma le probabilità che lo facessero variavano a seconda dell’ora: i detenuti che comparivano davanti alla commissione di mattina ottenevano la libertà nel 70 per cento dei casi, quelli che comparivano di pomeriggio in meno del 10 per cento dei casi. La fortuna, quindi, aveva
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favorito il detenuto delle 8.50, mentre l’altro arabo israeliano, che scontava la stessa condanna per lo stesso reato ed era comparso davanti alla commissione alle 16.25, non era stato altrettanto fortunato. Gli era stata negata la libertà come al detenuto delle 15.10, che scontava una condanna più leggera. Il loro caso era stato semplicemente esaminato all’ora sbagliata. Secondo uno studio realizzato da Jonathan Levav, dell’università di Stanford, e Shai Danziger, dell’università Ben Gurion, nella decisione dei giudici non c’era niente d’intenzionale o d’insolito. Gli autori della ricerca, presentata all’inizio del 2011, sostengono che un comportamento incostante è un rischio che corre chiunque debba prendere decisioni. I giudici erano stati logorati dalla fatica mentale accumulata dopo aver valutato un caso dopo l’altro. Questo tipo di afaticamento può far compiere scelte sbagliate ai giocatori di football nel inale di una partita o spingere i dirigenti di un’azienda a prendere decisioni disastrose a tarda sera. La fatica mentale distorce il
Evitare di scegliere può creare problemi successivamente, ma allenta la tensione
giudizio di tutti, manager e operai, ricchi e poveri. Anzi, può essere particolarmente pericolosa per i più poveri. Eppure poche persone ne sono consapevoli, mentre i ricercatori cominciano solo ora a capire perché succede e come si possono limitare i danni. L’afaticamento da decisione ci aiuta a capire perché persone di solito sensate si arrabbiano con colleghi e familiari, spendono somme spropositate in vestiti o comprano alimenti scadenti al supermercato. Per quanto cerchiamo di essere razionali e distaccati, non possiamo prendere una decisione dietro l’altra senza pagarne il prezzo a livello biologico. È una fatica diversa da quella isica: non siamo coscienti di essere stanchi, ma la nostra energia mentale diminuisce. Più scelte facciamo durante il giorno, più diventa diicile continuare a scegliere. Alla fine il nostro cervello cerca una scorciatoia, solitamente di due tipi. La prima è l’avventatezza: agiamo impulsivamente invece di pensare alle conseguenze. L’altra è il modo migliore per risparmiare energia: non fare niente. Invece di angosciarci, non prendiamo nessuna decisione. Evitare di scegliere può creare dei problemi successivamente, ma sul momento allenta la tensione mentale. Resistiamo a qualsiasi cambiamento e a qualsiasi mossa potenzialmente rischiosa, come rilasciare un detenuto che potrebbe commettere di
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nuovo un reato. Perciò anche il giudice affaticato sceglie la soluzione più facile, e il detenuto resta in carcere. L’afaticamento da decisione è l’ultima scoperta su un fenomeno che il sociopsicologo Roy F. Baumeister ha chiamato esaurimento dell’ego in omaggio a un’ipotesi freudiana. Sigmund Freud aveva ipotizzato che l’io, o ego, dipendesse dalle attività mentali che implicano un trasferimento di energia. Ma era rimasto nel vago sui dettagli. Anzi, alcuni erano sbagliati, come l’idea che gli artisti “sublimano” l’energia sessuale nel loro lavoro: in base a questo presupposto l’adulterio dovrebbe essere particolarmente raro nel mondo dell’arte. Il
modello di energia dell’io di Freud è stato generalmente ignorato ino alla ine del novecento, quando Baumeister ha cominciato a fare degli esperimenti sulla disciplina mentale, prima alla Case Western e poi all’università della Florida. I suoi esperimenti hanno dimostrato che il cervello ha una quantità di energia limitata per esercitare l’autocontrollo. Le persone coinvolte nei test resistevano alla tentazione di mangiare caramelle o biscotti al cioccolato appena sfornati, ma in seguito cedevano più facilmente ad altre tentazioni. Quando si sforzavano di restare impassibili vedendo un ilm commovente, poi dimostravano meno resistenza in un
test di laboratorio che richiedeva autodisciplina, come risolvere un quesito di geometria o stringere un manubrio a molla. Si è scoperto che la forza di volontà non è solo un’idea popolare o una metafora, ma una forma di energia mentale che si può esaurire. Gli esperimenti hanno confermato l’ipotesi ottocentesca che la forza di volontà è come un muscolo che si afatica con l’uso e può essere conservata evitando le tentazioni. Per studiare l’esaurimento dell’ego, i ricercatori si erano concentrati inizialmente sulle azioni che richiedono autocontrollo, il tipo di autodisciplina solitamente associato alla forza di volontà. Per esempio, dovevano resistere davanti a una Internazionale 919 | 14 ottobre 2011
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Scienza coppa di gelato. Non avevano preso in considerazione le decisioni di routine, come scegliere tra cioccolato e vaniglia, perché implicavano un processo mentale ritenuto diverso e meno faticoso. A livello intuitivo non sembrava che la scelta tra cioccolato e vaniglia richiedesse forza di volontà. Ma in seguito arrivò nel laboratorio di Baumeister la ricercatrice Jean Twenge, che aveva appena organizzato il suo matrimonio. Mentre studiava i risultati degli esperimenti sull’esaurimento dell’ego, Twenge si ricordò di quanto si era stancata la sera che lei e il suo idanzato avevano fatto la lista di nozze. Volevano un servizio di piatti bianco o con qualche disegno? Quale marca di coltelli? Quanti asciugamani? Che tipo di lenzuola? “Alla ine avrebbero potuto convincermi a scegliere qualsiasi cosa”, aveva raccontato ai colleghi. Dato che quei sintomi erano sembrati familiari a tutti, avevano avuto un’idea. Un grande magazzino svendeva i suoi prodotti perché doveva chiudere i battenti. I ricercatori decisero di andare lì e comprare oggetti semplici ma abbastanza utili da piacere ai loro studenti. Quando tornarono in laboratorio, dissero che alla ine dell’esperimento ogni studente avrebbe potuto tenere un oggetto, ma prima avrebbe dovuto fare una serie di scelte. Meglio una penna o una candela? Una candela o una maglietta? Una maglietta nera o rossa? Nel frattempo il gruppo di controllo, formato da quelli che non dovevano decidere, doveva solo osservare gli stessi oggetti, esprimendo un parere su ognuno e dicendo con che frequenza l’aveva usato negli ultimi sei mesi. In seguito tutti i partecipanti furono sottoposti a una classica prova di autocontrollo: lasciare una mano nell’acqua ghiacciata il più a lungo possibile. Quelli che nella prova precedente avevano dovuto fare delle scelte si arresero molto prima, resistendo solo 28 secondi. Gli altri resistettero in media 67 secondi. Evidentemente quelle scelte avevano indebolito la loro forza di volontà. Il dato fu confermato anche da altri esperimenti, durante i quali gli studenti avevano dovuto scegliere dei corsi nel programma del college. Per veriicare la loro teoria, i ricercatori fecero delle interviste in un centro commerciale, chiedendo ai clienti com’erano andati gli acquisti quel giorno. Poi gli chiesero di risolvere alcuni semplici problemi di aritmetica, aggiungendo che potevano smettere quando volevano. Com’era prevedibile, le persone che avevano preso più decisioni nei negozi si arresero prima.
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Quando si fanno spese ino allo sinimento, vacilla anche la forza di volontà. Qualsiasi decisione, sia quella di comprare un paio di pantaloni sia quella di scatenare una guerra, può essere riportata a quello che gli psicologi chiamano il modello Rubicone dell’azione, in onore del iume che separava l’Italia dalla provincia romana della Gallia. Nel 49 aC Cesare raggiunse il Rubicone tornando dalla conquista della Gallia. Il condottiero romano sapeva che un generale non poteva portare le sue legioni al di là del iume, perché sarebbe stata considerata un’invasione di Roma. Mentre aspettava dal lato del iume che si trovava in Gallia, Cesare era ancora nella “fase predecisionale”, perché analizzava i rischi e i vantaggi di una guerra civile. Poi smise di fare calcoli e attraversò il Rubicone. A quel punto entrò nella fase “postdecisionale”, dicendo la famosa frase: “Il dado è tratto”. L’intero processo avrebbe potuto esau-
Quando siamo mentalmente esauriti, scendiamo di meno a compromessi rire la forza di volontà di chiunque, ma per scoprire qual era stata la fase più faticosa, Kathleen Vohs, un’ex collega di Baumeister che ora lavora all’università del Minnesota, ha condotto un esperimento con il sito della Dell Computers. Un gruppo di persone doveva studiare attentamente i pro e i contro di varie caratteristiche di alcuni computer, come il tipo di schermo o la capacità del disco rigido, senza fare una scelta deinitiva. Un secondo gruppo aveva una lista di speciiche e doveva conigurare un computer individuando passo per passo tutte le speciiche tra la miriade di opzioni possibili. Lo scopo di questa parte dell’esperimento era riprodurre quello che succede nella fase postdecisionale, quando si mettono in pratica le scelte fatte. Un terzo gruppo doveva scegliere le caratteristiche del computer: non doveva semplicemente valutare le possibili opzioni (come il primo gruppo) né applicare le scelte di altri (come il secondo), doveva lanciare il dado. E questo è stato il compito più diicile di tutti. Quando è stata misurata la capacità di autocontrollo, quelli del terzo gruppo erano di gran lunga i più stanchi. L’esperimento ha dimostrato che attraversare il Rubicone è più diicile di qualsiasi cosa si possa fare sulle due sponde: sia
stare dalla parte della Gallia esaminando le diverse opzioni sia marciare su Roma dopo aver attraversato il iume. Di conseguenza, chiunque non abbia la forza di volontà di Cesare rischia di bloccarsi. A un giudice affaticato negare la libertà condizionale sembra la scelta più facile, non solo perché mantiene lo status quo ed elimina il rischio che il detenuto commetta altri reati, ma anche perché lascia aperte più possibilità: il giudice può concedergli la libertà in seguito, senza rinunciare all’opzione di tenerlo in prigione in quel momento. La parola decidere ha la stessa radice etimologica di omicidio: entrambe derivano dal latino caedere, che signiica tagliare o uccidere, quindi perdere qualcosa. Questa perdita è molto importante quando interviene l’afaticamento da decisione.
Predatore e preda Quando siamo mentalmente esausti, siamo più riluttanti a scendere a compromessi che richiedono una capacità di decidere particolarmente elaborata e faticosa. Nel resto del mondo animale il predatore e la preda non negoziano a lungo. Raggiungere un compromesso è una capacità umana complessa e quindi una delle prime a venir meno quando la forza di volontà è esaurita. A quel punto interviene quella che gli psicologi chiamano avarizia cognitiva e cerchiamo di risparmiare le nostre energie. Se stiamo facendo acquisti, tendiamo a considerare un solo aspetto, per esempio il prezzo: mi dia quello che costa meno. Oppure pensiamo alla qualità: voglio il meglio. L’afaticamento da decisione ci rende facili prede dei commercianti che sanno fare il loro mestiere, come ha dimostrato Jonathan Levav in alcuni esperimenti sugli abiti e le automobili. L’idea alla base di questi esperimenti ricorre anche nei preparativi per un matrimonio, un rituale che dal punto di vista dell’afaticamento da decisione equivale a una settimana all’inferno. Spinto dalla sua idanzata, Levav è andato da un sarto a farsi fare un vestito su misura e ha cominciato a esaminare elementi come il tessuto, il tipo di fodera, la forma dei bottoni, i risvolti, i polsini. “Quando sono arrivato al terzo campionario di tessuti, volevo morire”, ricorda Levav. “Non distinguevo più niente. Dopo un po’ ho cominciato a chiedere al sarto: ‘Lei cosa mi consiglia?’ Non ce la facevo più”. Alla ine Levav non si è fatto cucire nessun vestito (il fatto di dover spendere duemila dollari ha facilitato la sua decisione), ma ha usato quell’esperienza
CorbIS
per condurre due esperimenti con Mark Heitmann, all’epoca ricercatore dell’università tedesca Christian Albrechts di Kiel, Andreas Herrmann, dell’università svizzera di San Gallo, e Sheena Iyengar, della Columbia university. In uno dei due esperimenti gli studenti svizzeri di un master dovevano ordinare un vestito su misura. Nell’altro i clienti di alcune concessionarie di automobili tedesche dovevano scegliere gli optional per la loro nuova macchina. I clienti, che erano veri e avrebbero pagato le scelte di tasca propria, dovevano scegliere tra quattro tipi di pomelli del cambio, tredici tipi di cerchioni, 25 conigurazioni del motore e del cambio e 56 colori per la tap-
pezzeria. Quando cominciavano a scegliere, i clienti esaminavano attentamente le varie possibilità, ma quando subentrava l’afaticamento da decisione, cominciavano ad accettare l’opzione di default. Inoltre, più le scelte iniziali erano diicili, come esaminare i 56 colori per la tappezzeria, prima si afaticavano. I ricercatori hanno scoperto che alla ine la diferenza di prezzo tra le conigurazioni scelte dai clienti era in media di 1.500 euro a macchina. Se un cliente decideva di spendere qualcosa di più per un tipo di cerchioni o per un motore più potente dipendeva dal momento in cui gli veniva sottoposta la scelta e da quanta forza di volontà gli era rimasta.
Gli esperimenti con i vestiti su misura avevano prodotto risultati simili: quando cominciavano a essere afaticate, le persone accettavano i consigli dei commessi. Se dovevano afrontare le decisioni più diicili all’inizio – quelle con più scelte possibili, come i cento tipi di tessuti – si stancavano prima e dicevano di essersi divertiti di meno. Comprare può essere particolarmente faticoso per chi non ha molti soldi e deve continuamente scendere a compromessi. La maggior parte degli statunitensi non sprecherebbe troppo tempo a chiedersi se si può permettere una saponetta, ma nelle campagne indiane questa decisione può Internazionale 919 | 14 ottobre 2011
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Scienza essere molto faticosa. L’economista di Princeton Dean Spears ha oferto agli abitanti di venti villaggi del Rajasthan, uno stato dell’India nordoccidentale, la possibilità di comprare due saponette di una marca famosa per 20 centesimi. Era un forte sconto rispetto al prezzo normale, ma anche quella somma aveva messo in diicoltà gli abitanti dei dieci villaggi più poveri. Il fatto stesso di dover prendere una decisione logorava la loro forza di volontà, che in seguito veniva misurata vedendo per quanto tempo riuscivano a stringere un manubrio a molla. Nei villaggi un po’ più ricchi, questo calo della forza di volontà non si veriicava. Dato che avevano più soldi, gli abitanti non dovevano sprecare troppe energie per decidere se comprare le saponette piuttosto che qualcosa da mangiare o un farmaco. Spears e altri ricercatori sostengono che questo tipo di afaticamento da decisione è uno dei fattori chiave che mantengono le persone intrappolate nella povertà. Dato che la loro situazione inanziaria li costringe a fare molte scelte, i poveri hanno meno energie per studiare, lavorare e fare altre cose che potrebbero consentirgli di entrare nella classe media. È diicile sapere esattamente quanto sia importante questo fattore, ma non c’è dubbio che avere forza di volontà è un problema che nel caso dei poveri ha un signiicato particolarmente importante. Molti studi hanno dimostrato che un basso livello di autocontrollo è collegato a un basso reddito e a una serie di altri problemi, tra cui il cattivo rendimento scolastico, il divorzio, la criminalità, l’alcolismo e la malattia. Negli Stati Uniti la mancanza di autocontrollo ha portato a parlare di “poveri immeritevoli”, simboleggiati dalla madre di famiglia che vive con il sussidio pubblico e usa i buoni alimentari per comprare cibo scadente. Ma Spears invita ad avere più comprensione per chi deve prendere decisioni tutto il giorno con pochi soldi. Nel corso di uno studio ha scoperto che quando un povero e un ricco vanno a fare la spesa, è più probabile che il povero mangi qualcosa lungo la strada. Questa potrebbe sembrare una conferma della sua debolezza di carattere: potrebbe risparmiare soldi e mangiare cibo più sano a casa invece di comprare uno di quegli snack che contribuiscono a far salire il tasso di obesità tra i poveri. Ma andare al supermercato afatica più i poveri che i ricchi, perché ogni acquisto richiede un compromesso mentale. Quando arrivano alla cassa, avranno meno forza
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di volontà per resistere a una merendina o a una barretta di cioccolato. Non per niente questi si chiamano “acquisti d’impulso”. È una delle ragioni per cui gli snack si trovano vicino alla cassa, dove le persone arrivano esauste dopo le scelte fatte nei reparti. Con una forza di volontà ridotta è più probabile che cedano a qualsiasi tentazione, e soprattutto ai dolci, alle bibite e a qualsiasi cosa possa fornire una dose immediata di zuccheri. I supermercati lo hanno capito da tempo, mentre gli scienziati ne hanno scoperto da poco il motivo grazie al risultato accidentale di un esperimento fallito. I ricercatori del laboratorio di Baumeister volevano
Un basso livello di autocontrollo è collegato a un basso reddito verificare la teoria del martedì grasso, l’idea che si può aumentare la forza di volontà concedendosi qualche piacere, come fa chi festeggia il carnevale prima dei rigori della quaresima. Al posto della solita colazione gli chef del laboratorio dell’università della Florida avevano preparato un gustoso frullato per chi partecipava all’esperimento. I volontari facevano una pausa tra due attività di laboratorio che richiedevano forza di volontà. Senza dubbio il frullato aveva raforzato la loro volontà aiutandoli a svolgere meglio il compito successivo. Ma l’esperimento prevedeva anche un gruppo di controllo formato da persone a cui era stato somministrato un bibitone insapore a basso contenuto di grassi. La bibita non era piaciuta a nessuno, ma aveva comunque fatto aumentare l’autocontrollo. Questo smentiva la teoria del martedì grasso. Oltre a non fornire più una buona scusa per scatenarsi nelle strade di New Orleans, il risultato era imbarazzante per i ricercatori. Matthew Gailliot, lo specializzando che dirigeva lo studio, lo aveva ammesso sottovoce. Baumeister aveva cercato di essere ottimista. Forse l’esperimento non era fallito. Dopotutto, qualcosa era successo. Perino il bibitone insapore aveva funzionato. Ma perché? Forse quello che contava non era il sapore ma le calorie. All’inizio l’idea gli era sembrata insensata. Gli psicologi studiavano da anni i risultati degli esercizi mentali senza preoccuparsi troppo del consumo di latte e derivati. Pensavano che la mente
umana fosse una specie di computer e si erano concentrati sul modo in cui elaborava le informazioni. Nell’ansia di scoprire l’equivalente umano dei microcircuiti integrati, gli psicologi avevano dimenticato un aspetto fondamentale: una macchina ha bisogno di energia. Il cervello, come il resto del corpo, ricava energia dal glucosio, lo zucchero contenuto in tutti gli alimenti. Per stabilire il rapporto di causa ed efetto, i ricercatori del laboratorio di Baumeister hanno cercato di alimentare il cervello con una bibita a base di limone a cui veniva aggiunto dello zucchero o un dolciicante artiiciale. La limonata con lo zucchero provocava una scarica di glucosio i cui efetti potevano essere veriicati immediatamente in laboratorio. L’alternativa senza zucchero aveva più o meno lo stesso sapore, ma non provocava la scarica di glucosio. Ripetendo l’esperimento, hanno osservato che lo zucchero raforzava la forza di volontà, mentre il dolcificante artificiale non produceva nessun efetto. Il glucosio riusciva a mitigare l’esaurimento dell’ego e a volte a bloccarlo completamente. Questo migliorava l’autocontrollo delle persone e la qualità delle loro decisioni: quando facevano una scelta resistevano ai loro pregiudizi irrazionali, e quando dovevano prendere decisioni economiche era più probabile che scegliessero una strategia a lungo termine invece di un vantaggio immediato. Questo effetto è stato verificato anche nei cani grazie a due studi condotti da Holly Miller e Nathan DeWall, dell’università del Kentucky. Dopo aver obbedito all’ordine di sedersi e rialzarsi per dieci minuti, gli animali mostravano meno autocontrollo e spesso prendevano la pericolosa decisione di invadere il territorio di un altro cane. Ma bastava una dose di glucosio per restituirgli la forza di volontà.
Donne a dieta Nonostante questa serie di scoperte, i ricercatori avevano ancora delle riserve sulla funzione del glucosio. I più scettici sostenevano che l’uso complessivo dell’energia da parte del cervello resta più o meno lo stesso, indipendentemente da quello che una persona sta facendo. Questo contraddice l’ipotesi che l’esaurimento dell’energia influisca sulla forza di volontà. Uno degli scettici era Todd Heatherton, che all’inizio della sua carriera aveva lavorato con Baumeister e poi era finito a Dartmouth, dov’era diventato un pioniere della cosiddetta neuroscienza, lo studio dei rap-
sorpreso molto. I risultati ottenuti non costituiscono solo un’ulteriore conferma del fatto che il glucosio è determinante per rafforzare la volontà, ma hanno anche contribuito a capire in che modo il glucosio può funzionare senza modificare l’uso complessivo di energia nel cervello. Sembra che l’esaurimento dell’ego aumenti l’attività in alcune aree cerebrali e la riduca in altre. Quando i livelli di glucosio sono bassi, il cervello non smette di lavorare, ma smette di fare alcune cose e comincia a farne altre. Risponde di più alle gratiicazioni immediate e prende meno in considerazione le prospettive a lungo termine. Queste scoperte sugli efetti del glucosio ci aiutano a capire perché seguire una dieta è una prova di autocontrollo particolarmente diicile. Perino le persone con una forza di volontà eccezionale fanno fatica a perdere peso. Cominciano la giornata con le migliori intenzioni, resistono alla tentazione di far colazione con un cornetto o di mangiare il dolce a pranzo, ma ogni atto di resistenza indebolisce ulteriormente la loro forza di volontà. E alla fine della giornata devono reintegrarla. Ma per ritrovare l’energia devono dare al loro corpo un po’ di glucosio. Sono intrappolati in un circolo vizioso: chi è a dieta ha bisogno di forza di volontà per non mangiare ma, per avere questa forza di volontà, ha bisogno di mangiare.
CoRbIS
Voglia di cioccolato
porti tra processi mentali e comportamenti sociali. Heatherton credeva nella teoria dell’esaurimento dell’ego, ma non riusciva a capire come questo processo neuronale potesse essere provocato semplicemente dalle variazioni dei livelli di glucosio. Così Heatherton e i suoi colleghi hanno reclutato 45 donne che seguivano una dieta e hanno registrato le reazioni del loro cervello alle immagini di alcuni alimenti. Subito dopo le donne dovevano vedere un ilm comico e sforzarsi di non ridere, un metodo standard, anche se crudele, per prosciugare l’energia mentale e indurre l’esaurimento dell’ego. Poi gli venivano mostrate di nuovo le immagini delle cose da mangiare, e le scansioni cerebrali rivelavano l’effetto dell’esaurimento: si notava una maggiore attività nel nucleus accumbens, la zona del
cervello che registra le gratiicazioni, e una corrispondente diminuzione dell’attività dell’amigdala, che contribuisce a controllare gli impulsi. L’attrazione per il cibo era più evidente quando il controllo degli impulsi era indebolito, una pessima combinazione per chi è a dieta. Ma se gli fosse stata somministrata una dose di glucosio, cosa avrebbero rivelato le scansioni cerebrali? I risultati di questo esperimento sono stati resi noti a gennaio, durante il discorso con cui Heatherton ha accettato di presiedere la Society for personality and social psychology, l’associazione di sociopsicologi più grande del mondo. Nel suo intervento al convegno annuale di San Antonio, Heatherton ha rivelato che la somministrazione di glucosio inverte i cambiamenti provocati nel cervello dall’esaurimento dell’ego. Una scoperta, ha detto, che lo ha
Quando ha consumato il glucosio, il corpo cerca un modo rapido per reintegrarlo, e quindi prova un forte desiderio di zuccheri. Dopo una prova di laboratorio che richiede autocontrollo, le persone tendono a mangiare più dolci, ma non altri tipi di snack, come le patatine. La sola prospettiva di dover esercitare l’autocontrollo ci fa desiderare qualcosa di dolce. Un effetto simile spiega perché molte donne hanno voglia di cioccolato e di altri dolci prima delle mestruazioni: il corpo sta cercando una rapida integrazione perché i loro livelli di glucosio sono luttuanti. Una merendina o una bibita migliorano subito l’autocontrollo (è per questo che si usano spesso negli esperimenti), ma la soluzione è solo temporanea. È molto più utile la regolare assunzione del glucosio contenuto nelle proteine e in altri alimenti più nutrienti. I vantaggi del glucosio sono stati confermati in modo chiaro dallo studio sulla commissione israeliana per la concessione della libertà condizionale. A metà mattinata, di solito prima delle 10.30, la commissione faceva una pausa e i giudici mangiaInternazionale 919 | 14 ottobre 2011
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Scienza vano un sandwich e della frutta. I detenuti che comparivano prima della pausa aveva no circa il 20 per cento di probabilità di ot tenere la libertà, mentre per quelli convo cati dopo la pausa le chance erano intorno al 65 per cento. Le probabilità tornavano a diminuire nel corso della mattinata. Poco prima del pranzo scendevano al 10 per cen to. Dopo pranzo risalivano al 60, ma solo per poco tempo. Ricordate il detenuto rice vuto alle 15.10 che non aveva ottenuto niente? Aveva avuto la sfortuna di essere il sesto caso esaminato dopo il pranzo. Un altro che scontava la stessa pena per lo stes so reato era stato ricevuto alle 13.27 – il suo era stato il primo caso discusso dopo la pausa – e aveva ottenuto la libertà. Avrà pensato che fosse un esempio del buon funzionamento della giustizia, ma proba bilmente la decisione era dipesa solo dai livelli di glucosio del giudice. È facile immaginare come si potrebbero evitare queste diferenze, magari facendo lavorare i giudici solo mezza giornata, pre feribilmente di mattina, con frequenti pau se per riposarsi e mangiare qualcosa. Ma non è altrettanto facile risolvere il proble ma dell’afaticamento da decisione nel re sto della società. Anche se tutti potessimo permetterci di lavorare solo mezza giorna ta, finiremmo comunque per esaurire la nostra forza di volontà, come hanno sco perto Baumeister e i suoi colleghi con un esperimento condotto a Würzburg, in Ger mania. Gli psicologi hanno dato un Black berry a più di duecento persone, che hanno continuato a seguire la loro routine quoti diana per una settimana. I telefoni avreb bero squillato a intervalli irregolari, chie dendo alle persone di dire se in quel mo mento provavano un desiderio o se lo ave vano provato poco prima. Con questo complicato studio Wilhelm Hofmann, che all’epoca lavorava all’università di Würz burg, ha raccolto diecimila risposte relative a diversi momenti della giornata. E ha scoperto che provare desideri è la norma, non l’eccezione. Quando il telefo no squillava, metà delle persone stava pro vando un desiderio – di mangiare, di ripo sarsi o di dire al proprio capo quello che pensavano veramente di lui – e un altro quarto diceva di aver provato un desiderio nella mezz’ora precedente. Molti di questi desideri erano quelli ai quali cercavano di resistere, e più esercitavano la loro forza di volontà più era probabile che cedessero al la tentazione successiva. Quando si pre sentava un altro desiderio che provocava un conlitto interiore del tipo “vorrei ma non dovrei”, se poco prima avevano già re
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sistito a una tentazione, cedevano più facil mente. Dai risultati dell’esperimento gli stu diosi hanno dedotto che le persone passa no dalle tre alle quattro ore al giorno a resi stere ai desideri. In pratica, intervistando quattro o cinque persone in un momento qualsiasi della giornata, si scopriva che al meno una usava la sua forza di volontà per resistere a una tentazione. I desideri prova ti più spesso dai soggetti dell’esperimento erano quelli di mangiare e di dormire, se guiti dalla voglia di rilassarsi, smettere di lavorare per un momento e fare un cruci
Le persone passano dalle tre alle quattro ore al giorno a resistere ai desideri verba o un gioco. Subito dopo venivano i desideri sessuali, seguiti dal bisogno di al tri tipi d’interazione, come la voglia di col legarsi a Facebook. Per resistere alle tenta zioni, le persone usavano diverse strategie. La più comune era cercare di distrarsi o di cominciare una nuova attività, ma a volte avevano provato semplicemente a reprimere il desiderio. I risulta ti variavano. Le persone erano abbastanza brave a resistere al sonno, al desiderio sessuale e a quello di spendere soldi, ma non altrettanto brave a ignorare il richiamo del la tv e di internet e più in generale la tenta zione di rilassarsi invece di lavorare.
Una trentina di siti web Non è possibile sapere quanto i nostri ante nati esercitassero il loro autocontrollo pri ma dell’era dei Blackberry, ma è probabile che molti di loro sofrissero meno di esau rimento dell’ego. Quando c’erano meno decisioni da prendere, anche l’affatica mento era minore. Oggi ci sentiamo so prafatti perché dobbiamo fare molte scel te. Il nostro corpo forse arriva al lavoro in orario, ma la nostra mente può evadere in qualsiasi momento. Chi usa regolarmente il computer vede una trentina di siti web al giorno. Le conti nue decisioni che deve prendere lo afati cano: deve continuare a lavorare a un pro getto, leggere gli ultimi gossip, guardare un video su YouTube o comprare qualcosa su Amazon? In dieci minuti di shopping on line possiamo rovinarci per il resto dell’an no. L’effetto di tutte queste tentazioni e decisioni non è intuitivo. Nessuno si rende
conto di quanto sia faticoso decidere. Ma le piccole e le grandi decisioni si accumulano. Scegliere cosa mangiare a colazione, dove andare in vacanza, chi assumere, quanto spendere sono tutte cose che consumano la nostra forza di volontà e non c’è nessun sintomo che ci rivela quando il suo livello si è abbassato. Non è come restare senza iato durante una maratona. L’esaurimento dell’ego non si manifesta come una sensa zione, ma come una propensione a vivere tutto con maggiore intensità. Quando i si stemi di regolazione del cervello sono in deboliti, le frustrazioni sono più irritanti del solito. L’impulso a mangiare, bere, spendere o dire stupidaggini è più forte (e l’alcol abbassa ulteriormente l’autocon trollo). Come i cani dell’esperimento, gli esseri umani rischiano di litigare inutil mente per il territorio. Nel prendere deci sioni scelgono scorciatoie illogiche e ten dono a preferire i vantaggi immediati. Co me i giudici della commissione israeliana, sono inclini a prendere la decisione più fa cile e meno rischiosa anche se può danneg giare qualcun altro. “La capacità di prendere decisioni non è un tratto del carattere, nel senso che è sempre lì”, dice Baumeister. I suoi studi dimostrano che le persone con più autocontrollo organizzano la loro vita in modo da conservare la forza di volontà. Non program mano riunioni interminabili, evi tano i bufet dove si può mangia re di tutto, scelgono abitudini che elimina no la fatica di fare continue scelte. Invece di decidere ogni mattina se costringersi a fare ginnastica, prendono un appuntamen to regolare con un amico per farlo insieme. Invece di contare sempre sulla forza di vo lontà, la conservano per le emergenze. “Perino le persone più sagge non scelgono bene quando sono stanche”, dice Baumei ster. Chi è davvero saggio non ristruttura la sua azienda alle quattro del mattino, non prende impegni importanti all’ora del cocktail. E se deve decidere alla ine della giornata, sa che è meglio non farlo a stoma co vuoto. “Chi prende le decisioni migliori”, con clude Baumeister, “è una persona che sa quando non può idarsi di se stesso”. u bt L’AUTORE
John Tierney è un giornalista scientiico del New York Times. Questo articolo è tratto dal libro che ha scritto con Roy F. Baumeister, intitolato Willpower: rediscovering the greatest human strength (Penguin Press Hc 2011).
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Testimoni del mondo Dieci anni fa sette fotograi fondarono l’agenzia VII per documentare conlitti, crisi umanitarie e catastroi naturali. Oggi un libro raccoglie il loro lavoro
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L’
agenzia fotograica VII è nata l’8 settembre 2001, tre giorni prima degli attentati a New York e a Washington. Sette fotografi – John Stanmeyer, Gary Knight, Alexandra Boulat, Ron Haviv, Antonin Kratochvil, Christopher Morris e James Nachtwey – la lanciarono durante il festival Visa pur l’image di Perpignan. L’11 settembre Nachtwey (che ha lasciato l’agenzia quest’anno) era già a New York per documentare il crollo delle torri gemelle. Nei giorni successivi fu raggiunto da Morris, Haviv e Kratochvil, mentre Stanmeyer, Knight e Boulat partivano per A pagina 60-61: John Stanmeyer, Lost lives. Un bambino dorme per terra nel centro per malati psichiatrici di Edhi village, a Karachi, in Pakistan (2003).
Sopra: Antonin Kratochvil, Landscapes of war. Due bambini giocano a Umm Qasr, nel sud dell’Iraq (2003). Qui accanto: Christopher Morris, George W Bush. Dick Cheney, George W. Bush e Donald Rumsfeld nel ranch dell’ex presidente statunitense a Crawford, in Texas (2004).
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l’Afghanistan. È nata così la vocazione dell’agenzia a seguire i principali conlitti mondiali. In seguito VII si è dedicata anche alle crisi umanitarie, alle catastroi naturali e ad altri temi d’attualità. Oggi l’agenzia rappresenta una trentina di fotoreporter e collabora con alcune ong, tra cui Human rights watch e Medici senza frontiere. “Negli ultimi anni i fotograi di VII, senza trascurare i campi di battaglia, hanno rivolto lo sguardo a forme di conlitto più sfumate, documentando i profondi cambiamenti in corso nella società e nella cultura mondiali”, scrive David Friend, direttore dello sviluppo creativo di Vanity Fair, nell’introduzione del libro Questions without answers – The world in pictures by the photographers of VII. “Le loro storie dimostrano che, anche in un’epoca globale, quello che conta veramente è il locale, cioè la vita delle persone”. u
Sopra: Ron Haviv, Blood and honey. Paramilitari serbi durante la prima battaglia della guerra di Bosnia a Bijeljina (31 marzo 1992). In basso, al centro: Franco Pagetti, The people’s revolution. Ribelli libici alla periferia di Ajdabiya, in Libia (20 marzo 2011). Qui accanto: Ed Kashi, Curse of the black gold. Una donna cammina tra gli oleodotti a Okrika, nella regione del delta del Niger, in Nigeria (2006). Internazionale 919 | 14 ottobre 2011
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Da sapere
Nella pagina accanto, in alto: Joachim Ladefoged, Lost in Tokyo. Un ristorante nel tunnel della metropolitana nel distretto di Shinjuku, a Tokyo, in Giappone (aprile 2004). In basso: Stephanie Sinclair, Child brides. Tahani (a si-
nistra) è stata costretta a sposarsi quando aveva nove anni ad Hajjah, in Yemen. Anche l’altra bambina, una sua ex compagna di classe, è sposata (20032010). In questa pagina, in alto: Marcus Bleasdale, The rape of a nation. Una
miniera d’oro a Watsa, nella Repubblica Democratica del Congo (2003-2008). Qui sopra: Gary Knight, The bridge. La battaglia per il controllo del ponte dell’autostrada di Diyala, a sudest di Baghdad, in Iraq (6 aprile 2003).
u Il libro Questions without answers – The world in pictures by the photographers of VII, con un’introduzione di David Friend, 368 pagine, Phaidon 2011 (phaidon.com), raccoglie più di vent’anni di lavoro dei fotograi dell’agenzia VII. Il volume, che sarà pubblicato a novembre in Gran Bretagna, in occasione del decimo anniversario dell’agenzia, comprende 50 storie, per un totale di 450 immagini, di undici fotograi: Marcus Bleasdale, Alexandra Boulat (morta nel 2007), Ron Haviv, Ed Kashi, Gary Knight, Antonin Kratochvil, Joachim Ladefoged, Christopher Morris, Franco Pagetti, Stephanie Sinclair e John Stanmeyer. Organizzato in ordine cronologico, documenta alcuni degli eventi fondamentali degli ultimi vent’anni, dalla caduta del muro di Berlino alle rivoluzioni in Libia e in Egitto, passando per lo tsunami in Indonesia nel 2004, il terremoto ad Haiti e l’uragano Katrina. Contiene anche dei ritratti di personalità pubbliche come Nelson Mandela e Barack Obama, oltre ad alcune storie che meritano di essere raccontate, come quella delle spose bambine in India, Yemen, Afghanistan ed Etiopia.
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Ritratti
Gulnara Karimova La festa è inita John Carlin, El País, Spagna. Foto di Pascal Le Segretain Stilista, ambasciatrice e amica dei potenti. Ma, soprattutto, iglia di un feroce dittatore. Ora la sua popolarità è in calo, dopo le denunce delle associazioni per i diritti umani mmaginate la iglia di un tiranno asiatico che abbia accumulato una fortuna colossale grazie agli abusi del padre. E immaginate anche che questa donna se ne va da in giro per il mondo e venga accolta con tutti gli onori da star della mu sica, da politici, da calciatori e da stilisti. Come se non bastasse, immaginate che sia anche ambasciatrice del suo paese in Spa gna. Difficile, vero? Ma la realtà è proprio questa. Stiamo parlando di Gulnara Kari mova, megamilionaria, disegnatrice di ve stiti e gioielli, cantante pop e iglia del ditta tore uzbeco Islam Karimov. Nel 2005, se condo le denunce delle organizzazioni in ternazionali per i diritti umani, Karimov ha ordinato l’uccisione a sangue freddo di centinaia di uomini, donne e bambini dopo averli fatti riunire di proposito nella piazza centrale di una città dell’Uzbekistan, il pae se dove governa da ventun anni. Sempre secondo le denunce delle organizzazioni per i diritti umani, migliaia di altre persone sarebbero state assassinate, torturate e de tenute in condizioni atroci, e centinaia di migliaia di bambini sarebbero stati costret ti ai lavori forzati con l’unico obiettivo di raforzare il potere e la ricchezza del tiran no e della sua adorata iglia Gulnara, che dal gennaio del 2010, come recita la sua pa gina web, è “ambasciatrice straordinaria e plenipotenziaria della repubblica dell’Uz bekistan nel Regno di Spagna”. Una volta il pugile Floyd Patterson, tito
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lo mondiale dei pesi massimi nel 1955, ha detto: “Quando hai milioni di dollari, hai milioni di amici”. La fortuna della “princi pessa” uzbeca, una delle donne più ricche della Svizzera, dove vive quando non è a Londra o a New York, è stimata in più di cinquecento milioni di euro. Ecco una bre ve lista di alcuni dei suoi amici: Elton John, Julio Iglesias, Rod Stewart, Sting, Bill Clin ton, Vladimir Putin, Óscar de la Renta, Va lentino, Cristiano Ronaldo e Lionel Messi. Probabilmente in alcuni di questi casi la parola “amici” è eccessiva. Sarebbe più corretto parlare di persone che hanno par tecipato alle sue feste faraoniche o che so no andate in Uzbekistan su invito della diva in cambio di ingenti quantità di denaro (Jo an Laporta, deputato indipendentista cata lano ed ex presidente della squadra di cal cio del Barcellona, ha il merito di essere ri uscito a scucirle dei soldi). Oggi Karimova (o Gugusha, come la chiama suo padre) è in crisi. Ha subìto la peggiore sconitta possibile per una perso na che ha usato tutte le sue risorse per otte nere il riconoscimento del jet set interna zionale e una rispettabilità sociale profon
Biograia ◆ 8 luglio 1972 Nasce a Fergana, in Uzbekistan. ◆ Marzo 1990 Suo padre Islam Karimov diventa presidente del paese. ◆ 1996 Si laurea in economia all’università di Tashkent. ◆ Settembre 2008 Viene nominata ambasciatrice presso le Nazioni Unite a Ginevra. ◆ Gennaio 2010 Diventa ambasciatrice dell’Uzbekistan in Spagna. ◆ Settembre 2011 A causa delle accuse delle organizzazioni per i diritti umani, che denunciano la brutalità del regime uzbeco, viene allontanata dalla settimana della moda di New York.
damente immeritata: alla metà di settem bre è stata allontanata dalla settimana della moda di New York. Partecipare all’evento, in cui avrebbe dovuto presenta re le ultime creazioni del suo marchio, Guli, sarebbe stato il momento più importante della sua vita. Ma stavolta le organizzazioni per i diritti umani, dopo aver passato anni a criticarli, ci sono riuscite. Hanno colpito lei e le persone che, accecate dalla sua ricchez za, le hanno concesso la loro eimera ami cizia. Ci sono state manifestazioni per le strade di Manhattan, e minacce di boicot tare le imprese che organizzavano l’evento, Mercedes Benz e Img, alle quali non è ri masta altra scelta che informare Gulnara di essere persona non gradita nel festival del glamour.
Ingredienti del successo Gulnara Karimova, 39 anni, ha avuto la sfortuna che la sua silata coincidesse con il periodo in cui in Uzbekistan si raccoglie il cotone. Secondo le denunce delle organiz zazioni umanitarie, a settembre centinaia di migliaia di bambini dagli undici anni in poi sono obbligati dal regime ad abbando nare la scuola e le loro case per andare nei campi a raccogliere il cotone, l’oro bianco su cui si basa la fortuna di Gulnara e di suo padre. Nello stesso periodo, la donna ha avuto un altro colpo di sfortuna: l’azienda di gio ielli Chopard, importante alleata commer ciale di Gulnara (che disegna anche gioiel li), ha deciso di interrompere i rapporti con lei. E questo nonostante Caroline Gruosi Scheufele, la copresidente del marchio di lusso svizzero, sia stata per anni una delle sue principali alleate. GruosiScheufele è molto amica di Elton John, e Chopard sponsorizza le sue feste. Secondo fonti lon dinesi, Gulnara si è presentata a una serata di gala organizzata da Elton John a giugno, ma il cantante ha preferito ignorarla.
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Gulnara Karimova (al centro) con le sue modelle a Mosca, il 2 aprile 2011 La grande casa di bambole che la pupilla del tiranno si è costruita in questi anni sta velocemente crollando, un mondo di fantasia in cui è riuscita a riunire tutti gli ingredienti necessari per presentarsi al mondo come una donna afascinante. Quali sono gli ingredienti del suo successo? Prima di tutto i soldi. E ha avuto anche la fortuna di nascere bella. Poi i titoli: è professoressa universitaria nella capitale dell’Uzbekistan, Tashkent, dove ha accumulato un’ampia gamma di titoli tra cui un dottorato in scienze politiche. Ha anche preso un master ad Harvard. È divorziata e ha due igli; ha ottenuto la custodia esclusiva di entrambi dopo l’arresto di tre parenti dell’ex marito, che è fuggito negli Stati Uniti. Ha un guardaroba sconinato di abiti e gioielli, i capelli tinti biondi ed è regina delle discoteche (un ex ambasciatore britannico ha detto che nelle sale da ballo di Mosca si confondeva con “le modelle che pullulano alla corte di Vladimir Putin”). Sa difendersi da sola: è cintura nera di karate. È creativa: oltre a disegnare vestiti e gioielli, canta – ha duettato con Julio Iglesias in Besame mucho. È lei a comandare nel più importante club di calcio dell’Uzbekistan, il Bunyodkor (conosciuto nel suo paese come “la squadra della iglia del dittatore”), attraverso cui ha stretto un legame economico (oggi
interrotto) con il Barcellona e ha attirato a Tashkent calciatori del calibro di Cristiano Ronaldo. Difende i diritti umani: è a capo di un’organizzazione per la difesa dei bambini, di un’altra per le donne, e si considera un’attivista nella lotta contro l’aids. È circondata da uomini: oltre ai personaggi famosi, ha sempre a sua disposizione un gruppo di guardie del corpo, tutte molto più giovani di lei. È un’imprenditrice: grazie al sostegno del padre, è arrivata alla guida di Zeromax, l’azienda più potente dell’Uzbekistan, che ha interessi nel settore minerario, nei trasporti e nel cotone. È attiva politicamente: vicecancelliera dell’Uzbekistan, specializzata in questioni culturali e umanitarie, è anche ambasciatrice presso le Nazioni Unite a Ginevra e ambasciatrice in Spagna.
La più odiata dagli uzbechi Gulnara Karimova, insomma, si è costruita un’immagine che riunisce tutti gli attributi a cui le dive hanno aspirato in epoca classica e nei tempi moderni. Cleopatra, Hillary Clinton, Bond girl, Evita Perón, Madonna, Caterina la Grande, madre Teresa, Coco Chanel, Paris Hilton, Ana Botín: nel suo immaginario infantile, Karimova ha assimilato alcune delle caratteristiche di ognuna di loro.
Adesso ha tutto da perdere. New York le ha voltato le spalle. La Svizzera, attraverso Chopard, ha fatto lo stesso. A Londra non è più la benvenuta. Le riviste di moda come Vogue, Harper’s Bazaar o Hello! sicuramente ci penseranno bene prima di pubblicare altri articoli su di lei. Anche il governo spagnolo potrebbe finire per dichiararla persona non gradita, ora che il suo nome viene associato solo alle accuse formulate in questi anni dalle organizzazioni per i diritti umani. Forse a Gulnara non rimane altra scelta che ritirarsi nel suo covo uzbeco all’ombra del padre. E delle sue guardie del corpo, che d’ora in poi dovranno stare un po’ più all’erta di quanto abbiano fatto inora durante le giornate in Svizzera o a Madrid. Secondo un dispaccio diplomatico statunitense fatto trapelare da Wikileaks, Gulnara è “la donna più odiata del suo paese”. Forse nel suo intimo lo sa, e per questo ha lasciato l’Uzbekistan e si è reinventata come Superbarbie globale. Il Gugusha show è inito. Il pugile Patterson aveva ragione a dire che i soldi comprano le amicizie. Ma aveva avuto ancor più ragione un altro suo concittadino peso massimo, Abraham Lincoln, quando aveva detto: “Potete ingannare tutti per qualche tempo e alcuni per tutto il tempo, ma non potete ingannare tutti per tutto il tempo”. u sb Internazionale 919 | 14 ottobre 2011
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Viaggi
Il richiamo della savana tra gli elefanti e i leoni del parco nazionale di Gorongosa, in Mozambico, salvato da un ilantropo statunitense e da un progetto ecosostenibile l sole tramonta sul parco naziona le di Gorongosa, in Mozambico. Perlustriamo la savana in cerca di leoni. In quest’area di più di tre mila chilometri quadrati vivono appena 45 esemplari. Non abbia mo molte speranze di successo. Siamo in sette, i soli ospiti dell’unico campeggio del parco. Abbiamo già avvistato un discreto numero di animali selvatici. Ma questa se ra, il nostro ultimo giorno, siamo a caccia di leoni e abbiamo bisogno di molta fortuna. La fortuna alla ine arriva. All’improvvi so, al crepuscolo, appaiono due giovani maschi dalla criniera scura. Sembra che vogliano giocare. Andy Smith, la nostra guida, nato in Zimbabwe, è convinto che abbiano circa quattro anni. Sono ancora degli adolescenti potenti e agili e si com portano come tali: scappano dalla nostra jeep, poi cambiano idea e la inseguono. Si fermano e riprendono il loro gioco preferi to, la lotta. Illuminati dai fari si avvicinano di nuovo, ansiosi di scoprire le creature da un altro pianeta. Di solito i leoni del Masai Mara amano riposare al sole e mettersi in posa davanti ai fuoristrada stipati di foto grai dilettanti, ma non questi. I due giovani leoni continuano a girarci intorno, spinti da una curiosità insaziabile. Dopo un’ora sia mo noi a cedere sotto i colpi della fame. An diamo via, seguiti dal loro sguardo indaga tore. “L’arca di Noè si è fermata a Gorongo sa”, si diceva in Mozambico prima del con litto che ha diviso il paese dal 1975, anno dell’indipendenza dal Portogallo. Nel pe riodo coloniale Gregory Peck e John Wayne venivano a caccia nella parte meridionale
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della Great Rift valley, e per quanto sparas sero non riuscivano nemmeno a scalfire una popolazione di animali selvatici più nu merosa di quella delle pianure del Serenge ti. La bella vita, però, è inita con la parten za dei portoghesi. Prima di abbandonare il paese, i colonizzatori, sconfitti e furiosi, hanno avvelenato le sorgenti idriche in tut to il paese. Ma non sono stati loro a distrug gere il Mozambico. A quello ci ha pensato la guerra tra il Frelimo, partito politico armato spalleggia to da Mosca e alla guida della rivolta contro i portoghesi, e il Renamo, movimento i nanziato dai razzisti bianchi in Sudafrica e Zimbabwe. Quando nel 1992 è stata rag giunta la pace, i morti erano ormai un mi lione. Gli animali selvatici, per la gran par te, erano stati mangiati o uccisi per riven derne la pelle, l’avorio o le corna.
Personale locale Greg Carr si è innamorato del Mozambico durante il suo primo viaggio nel 2004 e ha deciso di creare un ecoprogetto che potesse garantire lavoro e istruzione agli abitanti del posto. Dopo aver visitato sei possibili luoghi, ha scelto Gorongosa. “È meravi glioso, rimettiamolo in sesto”, ha pensato. Fortunatamente Greg ha accumulato un patrimonio colossale vendendo sistemi di segreteria alle aziende telefoniche. Non soltanto può garantire fondi grazie alla sua Gregory C. Carr foundation, creata nel 1999, ma ha abilità ed energie suicienti per dialogare con Frelimo, ancora al potere dopo vent’anni di elezioni democratiche. Il Mozambico vende gas naturale al Su dafrica e carbone al Brasile. I diritti per la pesca nelle acque a largo degli oltre duemi la chilometri di magniica costa sono stati venduti ad alcuni imprenditori cinesi, che hanno importato dal loro paese la forza la voro necessaria a sfruttare la concessione. Un’altra risorsa preziosa è rappresentata dalle miniere di titanio. Ma, come spiega
DeRek HUDSoN (CoNtoUR/Getty IMAGeS)
Minty Clinch, The Independent, Gran Bretagna
Mozambico. Il parco nazionale di Gorongosa Carr, la corruzione impedisce di ridistribui re il benessere tra la popolazione. Sulla co sta gli abitanti dei villaggi sopravvivono a malapena grazie all’agricoltura di sussi stenza. Intorno a Gorongosa il bracconag gio è diventato una tentazione irresistibile, alterando profondamente l’equilibrio natu rale. Carr ha capito subito che era necessario fare dei cambiamenti. Ha promesso un in vestimento trentennale da 35 milioni di eu ro per riportare il parco ai fasti del passato e garantire agli abitanti del posto un tenore di vita adeguato che non li costringa a ucci dere gli animali. Per prima cosa ha organizzato un siste
ma di sorveglianza. Alcuni abitanti dei villaggi che conoscevano bene il territorio sono stati chiamati a collaborare e ricompensati in base ai risultati ottenuti. I bracconieri si sono trasformati in guardiacaccia. Contemporaneamente è cominciato il programma per il ripopolamento della fauna, e il numero degli animali è cresciuto costantemente. Poche ore dopo l’avvistamento dei leoni, ci imbattiamo in un gruppo di femmine di elefante con i loro piccoli. Dopo aver messo la prole al riparo, la matriarca ci si para davanti con tutta l’aria di voler caricare. Il suo barrito rimbomba nell’aria, fa sul serio. Una jeep non può reggere il confronto con un animale infuriato che pesa 3,5 tonnellate, e così Andy decide di andarsene. L’elefante rimane immobile fino a
Informazioni pratiche X Arrivare Non ci sono voli diretti dall’Italia verso il Mozambico. L’aeroporto più vicino al parco nazionale di Gorongosa è quello della città di Beira. Ci si arriva prendendo un volo (Ethiopian Airlines, British Airways, Klm) per Johannesburg (il prezzo parte da 604 euro a/r) e da lì un volo della South African Airways. Il biglietto per quest’ultima tratta parte da 450 euro a/r. Da Beira si può noleggiare un’auto per raggiungere il parco. X Dormire A Maputo, l’albergo Kaya Kwanga
(kayakwanga.co.mz), sulla Costa do Sol, offre una doppia a partire da 56 euro a notte. X Mangiare A Beira, il bar ristorante Biques offre ottimi gamberi e granchi da gustare sulla spiaggia. La sera è
meglio non arrivarci a piedi perché la strada è buia. X Escursione Da non perdere la spiaggia e il faro di Macuti, a dieci chilometri dal centro di Beira. X Leggere Alberto Givanni, Boa viagem. Reportage dal Mozambico, Minerva edizioni 2004, 13 euro. X La prossima settimana Viaggio lungo le coste del Maine, negli Stati Uniti. Ci siete stati e avete suggerimenti su tariffe, posti dove mangiare o dormire, libri? Scrivete a viaggi@internazionale.it.
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Viaggi quando non sente che il pericolo per lei e per la famiglia è ormai scampato. Poi si allontana. Il ripristino delle mandrie che vivono nei pascoli è un’altra priorità di Carr. La carne di bufalo è deliziosa, e i circa 14mila esemplari che popolavano la zona prima della guerra non avevano alcuna possibilità di sopravvivenza. I 400 bufali arrivati dopo il conlitto si stanno invece moltiplicando rapidamente, ormai liberi dalla minaccia degli esseri umani e senza troppa competizione nel regno animale. Nel parco ci sono quattromila ippopotami e molti zibetti, con un manto maculato che risplende alla luce dei fari durante le escursioni notturne. Le zebre, invece, sono in cima alla lista delle “importazioni fondamentali” per la ine del 2011. Fino a qui tutto bene. Ma attorno ai dieci chilometri che segnano il perimetro del parco vivono 250mila persone, e se Carr vuole davvero dare un lavoro a un buon numero di abitanti della zona, Gorongosa deve diventare autosuiciente e avere molti più posti letto.
Per pulire la piscina useranno piante speciali iltranti, e non prodotti chimici Al momento, i visitatori che vogliono risparmiare possono dormire a Chitengo, nelle tende e nei bungalow dello spartano campeggio gestito dallo stato, dove c’è anche un bar e uno spaccio per comprare da mangiare. La struttura si trova fuori dall’entrata principale del parco. Chi ha voglia di spendere può invece soggiornare nell’Explore Gorongosa, un lussuoso camping in cima a un basso altopiano da dove è possibile vedere il fiume pieno di coccodrilli. Dopo il tramonto è raccomandata la massima prudenza. L’Explorer appartiene a Rob e Jos Janish, una coppia originaria dello Zimbabwe, impegnati a fare in modo che il campeggio abbia un impatto ambientale minimo. Non esistono recinzioni, e le sei tende sono lontane l’una dall’altra per creare un’atmosfera di isolamento nella natura selvaggia. All’Explorer c’è anche una piccola biblioteca, ricca di libri sulla lora e la fauna locali. I pasti preparati dal cuoco zimbabwano Akim sono molto più rainati di quelli in stile britannico coloniale che ho consumato nei resort da cinquecento euro a notte
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in Botswana e Zambia. Mangiare sotto le stelle e scambiarsi racconti di viaggio attorno al fuoco è un’esperienza indimenticabile. Secondo la ilosoia dei Janish il miglior modo di avvistare le prede è seguire l’esempio dei leoni. All’alba Andy ci guida lungo il iume Msicadzi. Un’aquila marziale volteggia sulle nostre teste mentre due aironi golia, i più grandi del mondo, scrutano la terra dall’alto in cerca di una preda. Le teste dei coccodrilli aiorano appena dalle acque torbide del iume. Il sole non è ancora abbastanza alto da convincere i rettili a venire a riscaldarsi a riva. La grossa coda di un varano scompare rapidamente sott’acqua. I facoceri, le antilopi d’acqua e gli oribi scorrazzano attorno a noi. È un segnale rassicurante, signiica che non ci sono leoni nelle vicinanze. Ma dove sono gli elefanti? Andy si ferma di colpo, ci indica dove dobbiamo guardare: un elefante maschio, mimetizzato quasi alla perfezione, appare tra gli alberi.
Tende in riva al iume Dato che nelle vicinanze non esistono strutture in grado di ospitare turisti il governo ha concesso ai privati tre nuove licenze in alcune zone che coninano con il parco. Quella per il campeggio permanente a Dingue, nel pressi del perimetro est, è stata assegnata a due imprenditori portoghesi, Pedro e Ana Meireles, anche loro, come Carr, colpiti dal mal d’Africa. “Quando nel 2009 sono arrivate le concessioni, Greg ha sostenuto finanziariamente il nostro progetto perché è altamente sostenibile”, racconta Pedro. Il piano è di costruire due gruppi di dieci tende sulle rive del iume Urema. L’architetto sudafricano Allan Schwartz ha progettato tende con una copertura fatta con un materiale che riduce il calore, simile a quello usato per fare le vele. Il campeggio userà acqua piovana ed energia solare. Per pulire la piscina useranno piante speciali filtranti, e non prodotti chimici. Nel frattempo, sulle montagne che segnano il conine settentrionale del parco, stanno per prendere il via gli altri due progetti. Ad accogliere i turisti non saranno le tende ma i bungalow, e verranno organizzate attività ed escursioni di gruppo per avvistare gli animali selvatici. Preparatevi a un’arrampicata di sei ore per arrivare in cima a una vetta alta 1.800 metri. Non troverete la calma e la tranquillità dei campeggi, ma si potrà ammirare Gorongosa prima che i turisti diventino troppi. u as
A tavola
Tra l’Africa e Lisbona u Vongole cotte con vino di Porto, arachidi tritate e foglie di zucca accompagnate da riso bianco: è la matata, una delle più classiche ricette mozambicane, sintesi perfetta fra le tradizioni locali e le inluenze gastronomiche derivate da cinque secoli di dominazione coloniale portoghese. La cucina del Mozambico ha diversi tratti in comune con quella degli altri paesi lusofoni dell’Africa: São Tomé, Capo Verde, Angola e Guinea-Bissau. Gli ingredienti principali sono sempre il riso, la farina di mais e il miglio, ma m0lti piatti di uso comune hanno evidenti radici lusitane: per esempio il pãozinho (una specie di panino ripieno di formaggio), i rissois (frittelle di gamberi), il prego (fagottini di carne), l’espetada (spiedini alla griglia) e il pudim (che sembra crème caramel). Un altro piatto popolarissimo è il pollo condito con una salsa a base di limone, aglio e piri-piri, i peperoncini locali, e poi arrostito sui carboni: molto piccante e tipicamente africano. Nella cucina mozambicana non mancano nemmeno le suggestioni indiane, come dimostra la popolarità del caril (il curry locale, particolarmente difuso quello di granchio), servito con accompagnamento di arachidi, cocco, cetrioli, banane e manga achar, simile al chutney di mango. Per assaggiare il pesce, soprattutto scampi, gamberoni e aragoste, il New York Times consiglia di rivolgersi direttamente ai pescatori alla periferia di Maputo, che cucinano il pescato del giorno alla griglia e proprio davanti al mare. Per i dolci, invece, il quotidiano newyorchese segnala la Pasteleria Nautilus, nel centro della capitale. Secondo il sito timeout.co.mz, il locale migliore per assaggiare le specialità locali, sempre a Maputo, è A Canoa, mentre Manjar dos Deuses prepara solo piatti portoghesi, in particolare dell’Alentejo e dell’Algarve.
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Graphic journalism Cartoline da Cuba
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José Carlos Romero è un autore di fumetti cubano nato nel 1992. Internazionale 919 | 14 ottobre 2011
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Cultura
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Cinema
Prigioniero della cinepresa Jacques Mandelbaum, Le Monde, Francia In Francia è uscito In ilm nist, di Jafar Panahi, il regista iraniano condannato a non girare ilm per vent’anni a tentazione è quasi quella di presentare il nuovo film del regista iraniano Jafar Panahi usando un classico schema promozionale: “Se avete amato Una separazione, il ilm di Asghar Farhadi che quest’estate ha battuto tutti i record al botteghino francese (e che uscirà in Italia il 21 ottobre), adorerete In ilm nist (Questo non è un ilm)”. Ma per onestà intellettuale bisogna ammettere che, anche se le due pellicole arrivano a un livello simile di intensità emotiva e lucidità politica, in fondo non hanno nulla
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a che vedere l’una con l’altra. È bene precisare, per evitare di non capirci più nulla, il contesto in cui nasce questo documentario. Prima di tutto va ricordato che Panahi, 51 anni e cinque lungometraggi al suo attivo a partire dal 1995 (tra cui due capolavori come Il cerchio, nel 2000, e Oro rosso, nel 2004) è, insieme ad Abbas Kiarostami, uno dei più grandi registi viventi, la punta di diamante di quel neorealismo persiano che da qualche decennio sta facendo tremare il cinema e i vertici del potere iraniano. Figlio di un imbianchino e originario di Teheran, Panahi è di gran lunga il regista iraniano più impegnato a denunciare i mali del suo paese. E ora ha dovuto pagarne le conseguenze. Da più di un anno il regista è al centro di un caso giudiziario che ha raggiunto ormai il livello di una farsa kakiana. Arrestato il 1 marzo 2010 a casa sua, Panahi è accusato
di “propaganda contro il regime” per aver girato un documentario sul movimento di protesta scoppiato dopo la rielezione di Ahmadinejad nel giugno del 2009. Condivide con lui questo privilegio un altro regista, coautore del documentario incriminato, Mohammad Rasoulof, che dopo essere uscito di prigione si è dedicato alla lavorazione di Bé omid é didar (Arrivederci), presentato al festival di Cannes di quest’anno. Quanto a Panahi, liberato sotto cauzione il 25 maggio 2010, il suo processo si è svolto qualche mese più tardi e la sentenza è arrivata solo alla ine di dicembre: sei anni di prigione più il divieto per vent’anni di girare ilm, uscire dal territorio iraniano e di comunicare con i mezzi d’informazione. La sentenza è grottesca, e farebbe sorridere se non fosse simbolicamente la condanna a morte dell’artista.
Nella torta Da allora Panahi ha fatto ricorso in appello, vive a Teheran senza poter lavorare, e convive con l’incertezza assoluta riguardo alla sua sorte. Questa era la situazione ino al maggio del 2011, quando il suo ilm è stato presentato al festival di Cannes, contemporaneamente a quello del suo compagno di sventura Mohammad Rasoulof. Alcuni critici ben informati sostengono che In ilm nist abbia passato la frontiera grazie a una chiavetta usb nascosta in una torta.
KAnIBAL FILMS 2010/EvERETT/COnTRASTO
Jafar Panahi in due scene di In ilm nist. Non è prevista una distribuzione del ilm nelle sale italiane Oggi tutti possono vedere quest’opera nelle sale cinematograiche e apprezzarne il coraggio, l’irriverenza e la dignità. Chiaramente non è un kolossal, piuttosto una lettera scritta con la cinepresa e indirizzata al mondo intero, amara e intrisa di un umorismo distruttivo. Panahi, prigioniero tra le quattro mura del suo appartamento, fa della sua condizione il soggetto del ilm: cosa resta a un regista che non può più girare e che aspetta di essere sbattuto in prigione? In ilm nist ofre un’ampia gamma di risposte, ed è la cronaca di un giorno qualunque nella vita di Jafar Panahi. Fa colazione, telefona all’avvocato, gira in tondo per l’appartamento vuoto. Poi chiede all’amico documentarista Mojbata Mirtahmasb di venire a riprenderlo mentre legge alcuni estratti di una sceneggiatura censurata: la storia di una ragazza rinchiusa dai genitori nel suo appartamento. Prende alla lettera il divieto di ilmare per aggirarlo meglio e mette in scena, con l’aiuto del nastro adesivo usato per segnare le posizioni sul pavimento, i primi piani immaginari di questo lavoro mai nato. Poi, in un accesso d’ira, osserva che tutto ciò non serve a niente. Si abbandona allora davanti allo schermo del computer, alla tv, al cellu-
lare, o medita in compagnia di un’iguana di nome Iggy che passeggia per l’appartamento. In una parola: ilma il vuoto, l’angoscia, ma allo stesso tempo, per il semplice fatto di ilmarli, riiuta caparbiamente di rassegnarsi. Tutto questo culmina in una sequenza inale, di un virtuosismo impressionante, in cui la storia prende il volo. È calata la sera, Mirtahmasb deve tornare a casa sua. Panahi lo riprende a sua volta con il cellulare. Il suo amico, che lo ilma sempre, gli dice di continuare le riprese solo nel caso in cui anche lui sia arrestato. “Le immagini restano”, scrive Panahi in sovrimpressione mostrando il volto dell’amico ripreso con il telefono cellulare. Il fotogramma, di per sé ironico, ha oggi uno strano retrogusto: il 18 settembre Mirtahmasb è stato arrestato insieme ad altri cinque documentaristi e a una produttrice cinematograica, accusati
Panahi è di gran lunga il regista iraniano più impegnato a denunciare i mali del suo paese. E ora è costretto a pagarne le conseguenze
di essere agenti della Bbc, il canale tv che stava trasmettendo in Gran Bretagna i loro ilmati censurati in Iran. Il bello della sequenza deve ancora arrivare. Mirtahmasb posa la telecamera sul tavolo della cucina lasciandola accesa (bel gesto, che aferma che il cinema continuerà a ogni costo, anche se non ci sarà più nessuno dietro la cinepresa) e Panahi mostra le immagini che ha ilmato con il cellulare.
I riiuti del regime Mentre lo accompagna alla porta, esce dall’ascensore un ragazzo che si occupa di raccogliere i secchi dell’immondizia. Il ragazzo chiede a Panahi come mai riprende con il cellulare quando ha una bella telecamera appoggiata sul tavolo della cucina. Allora Panahi aferra la cinepresa e si precipita nell’ascensore con lui, fermandosi a ogni piano a riprendere l’immondizia. Questo viaggio con i riiuti, che avvicina l’artista a uno scarto, termina davanti al cancello dell’ediicio, mentre sullo sfondo si accendono i fuochi e i bracieri dell’antichissima – e oggi proibita – festa del fuoco. La sequenza si chiude così, sul nero fondo della notte, alludendo all’insurrezione a venire, e lascia lo spettatore a chiedersi se sia una ine casuale o premeditata. Risiede in questa chiusura tutta la sua bellezza: Panahi da recluso ha voluto mandarci un segno della sua incrollabile fede nella libertà. u nv Internazionale 919 | 14 ottobre 2011
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Cultura
Cinema Italieni
Dalla Danimarca
I ilm italiani visti da un corrispondente straniero. Questa settimana Lee Marshall, collaboratore di Condé Nast Traveller e Screen International.
Il voto del silenzio
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In un breve comunicato Lars Von Trier aferma di non voler mai più rilasciare interviste o dichiarazioni pubbliche. Il regista danese ha maturato questa decisione dopo aver subìto un interrogatorio dalla polizia a causa di un intervento al festival di Cannes in cui sembrava simpatizzare per Hitler. Von Trier è stato accusato formalmente, ad agosto, di aver violato la legge francese che vieta ogni giustiicazione dei crimini di guerra. “Queste gravi accuse”, scrive Von Trier, “mi han-
Lars Von Trier no fatto capire che non riesco a esprimermi chiaramente e quindi ho deciso che da oggi eviterò ogni tipo di dichiarazione pubblica o di intervista”. Dopo l’infelice battuta per cui è stato dichiarato “persona non gradita” dai dirigenti di Cannes, cinque mesi fa, Von
Trier si è più volte scusato. Ma recentemente in un’intervista a GQ ha precisato: “Non sono dispiaciuto per quello che ho detto. Sono dispiaciuto di non essere stato chiaro. Non sono dispiaciuto per aver fatto una battuta. Sono dispiaciuto che non si è capito che era una battuta”. Molte le reazioni in Danimarca per l’interrogatorio preteso dalle autorità francesi. Peter Aalbæk Jensen, proprietario di Zentropa, società di produzione dei ilm di Von Trier, ha parlato di “assassinio giuridico” e il regista Jorgen Leth ha giudicato la vicenda come “una pessima farsa”. The Guardian , Le Monde
Massa critica Dieci ilm nelle sale italiane giudicati dai critici di tutto il mondo T G HE ra D n A Br I e LY LE tag T n EL Fr F EG an I G a ci A R a R A O PH G C LO an B ad E a AN D T M G HE A ra G IL n U Br A et R T a D G H E gn I A ra a N n IN Br D et E P L a E Fr IBÉ gna N D an R EN ci AT a T IO LO N St S at A iU N n GE L E i ti L E Fr M S T an O IM ci N a D E S E T St H E at N iU E n W T i t i YO St H E R at W K T iU A IM ni S H E ti I S N G T O N PO ST
This must be the place Di Paolo Sorrentino. Italia/ Francia/Irlanda 2011, 118’ ● ● ● ●● Ho l’impressione che l’ironia e il surrealismo dei ilm di Paolo Sorrentino siano scudi usati dal regista per ripararsi dal sentimentalismo. Lui sa di avere pulsioni melò nel profondo dell’anima e ha inventato tutto un metodo di lavoro per tenerle a bada. This must be the place, prima pellicola di Sorrentino in inglese, è un bel ilm sotto tre importanti aspetti: quello visivo (il regista evita in tutti i modi di fare inquadrature normali, per la gioia dei produttori di gru), quello musicale (il clou è un concerto di David Byrne, che canta per intero la canzone che dà il titolo al ilm) e, soprattutto, quello della recitazione. Sean Penn, in particolare, è delizioso ma anche commovente nei panni di Cheyenne, un rockettaro invecchiato, truccato alla Robert Smith dei Cure. Ma dietro la facciata, sia nella storia laterale del suicidio di due fan sia in quella principale del viaggio che questo dark con il cinto ernario intraprende per trovare l’aguzzino nazista del padre ebreo, si nasconde il nucleo strappalacrime del ilm. Forse anche perché il protagonista stavolta non è uno strozzino mostruoso né Andreotti, ma un simpatico Sean Penn in parrucca. La riuscita – non solo tecnica – del ilm è merito di un sano umorismo e di una malinconia molto umana.
Il regista danese Lars Von Trier non rilascerà mai più dichiarazioni o interviste
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I consigli della redazione
Cowboys & aliens
In uscita Cowboys & aliens Di Jon Favreau. Con Daniel Craig, Harrison Ford, Olivia Wilde. Stati Uniti 2011, 118’ ● ●● ●● Il titolo non è ironico e signiica proprio quello che dice. Ci sono uomini a cavallo, con i cappelli a tese larghe, come il fuorilegge Jake (Daniel Craig) o il vecchio proprietario terriero Mr. Dolarhyde (Harrison Ford). Ma ci sono anche mostruose creature aliene con artigli ailati, acquosi occhi neri e sangue verde. Mettete tutto insieme nel selvaggio west e otterrete il nuovo ilm di Jon Favreau, che ha diretto i due Iron Man e sembra perfettamente a suo agio con le pellicole rumorose. E così si comincia con un attacco degli ufo sulla polverosa strada di una cittadina del west e si inisce, molto dopo, con una coppia di eroi che, come succedeva in Indipendence day, vanno a colpire gli alieni dove fa più male. In mezzo c’è a malapena una pausa per pensare, mentre la trama cancella la storia, mettendo dalla stessa parte visi pallidi e indiani, e mettendo d’accordo il buono, il brutto e il cattivo contro un nemico cimune. Il ilm si prende troppo sul serio, privilegiando la brutalità sul divertimento. A sembrare di un altro pianeta, per il suo aspetto, è Olivia Wilde. Anthony Lane, The New Yorker
L’amore che resta Di Gus Van Sant (Stati Uniti, 95’)
Arietty Di Hiromasa Yonebayashi. Giappone 2010, 94’ ● ●● ● ● Il nome di Mary Norton è molto popolare per una generazione di bambini anglosassoni, quando la iction per l’infanzia non era ancora dominata da Harry Potter. Ai suoi racconti si ispirò la Disney per Pomi d’ottone e manici di scopa. Anche The borrowers (Gli sgraignoli, nella versione italiana classica), la storia su cui si basa Arietty, è stata portata sullo schermo con scarso successo (I rubacchiotti, 1997). L’adattamento curato dallo Studio Ghibli, conferma la grazia, la delicatezza e l’eleganza dell’animazione classica della scuola di Hayao Miyazaki. I personaggi sono sostanzialmente gli stessi della storia scritta da Mary Norton: esseri minuscoli che vivono negli interstizi di una casa e che rubano oggetti e cibo lasciati incustoditi dagli esseri umani. Lo spostamento dalla campagna inglese ai dintorni di Tokyo ha funzionato alla perfezione per il pubblico giapponese, ma potrebbe spiazzare un po’ quello occidentale. Tanto più che al ilm manca quell’approccio esotico nel racconto che è un marchio di fabbrica di altri capolavori dello Studio Ghibli come La città incantata e Il castello errante di Howl. Leslie Felperin, Variety Amici di letto Di Emma Stone e Will Gluck . Con Justin Timberlake, Mila Kunis. Stati Uniti 2011, 109’ ●●●●● Justin Timberlake e Mila Kunis interpretano due giovani in carriera super sexy che decidono di fare sesso insieme restando comunque solo amici. Ma poi… Anche andando nella foresta pluviale amazzonica,
Io sono Li Di Andrea Segre (Italia, 100’)
trovando la più sperduta delle tribù e descrivendo questa premessa al suo capo grazie a un interprete ci sentiremmo rispondere: “Be’ ovviamente s’innamorano e scoprono profondi valori”. E in efetti succede proprio questo, ma non prima che una sceneggiatura frenetica, poco romantica e poco divertente, cerchi disperatamente di convincerci che non siamo di fronte alla solita commedia romantica. C’è una scena in cui Justin e Mila guardano dei ilm melensi e strappalacrime alla tv e prendono in giro tutti i trucchi e i cliché in cui anche questo ilm, presto o tardi, inisce per cadere. Insomma non c’è molto da scoprire. Peter Bradshaw, The Guardian I tre moschettieri. 3d Di Paul W.S. Anderson. Con Logan Lerman. Stati Uniti/ Gran Bretagna/Francia/ Germania 2011, 110’ ● ●● ●● Una serie di costosissimi efetti digitali fanno rivivere la Francia del seicento con un cast che riunisce un gran numero di star britanniche, più o meno afermate. Ma l’adattamento di Anderson delle spacconate dei personaggi creati da Alexandre Dumas è divertente come mettere i propri genitali in una ghigliottina. Matthew Macfadyen, Luke Evans e Ray Stevenson interpretano rispettivamente Athos, Aramis e Porthos, impegnati in uno
I tre moschettieri
Exit through the gift shop Di Banksy e Thierry Guetta (Gran Bretagna/ Stati Uniti, 86’) scontro con la perida Milady (Milla Jovovich) per recuperare i piani segreti per costruire un dirigibile. Un’interminabile serie di duelli e battute stiracchiate si alternano con le apparizioni di Orlando Bloom, Christoph Waltz, Juno Temple, James Corden e Logan Lerman nei panni di D’Artagnan. Anche se non è indecente come altri progetti di Paul W.S. Anderson (Mortal Kombat e la serie di Resident Evil), I tre moschettieri ci va davvero molto vicino. David Edwards, The Daily Mirror I want to be a soldier Di Christian Molina. Con Fergus Riordan, John Cluster. Spagna/Italia 2010, 88’ ●● ●●● Alex è un bambino come tanti altri. Quando la madre partorisce due gemelli, sofre per la scarsa attenzione da parte dei genitori, ma ottiene una tv nella sua stanza. Quello che succede dopo non è una sorpresa. Il giovane regista spagnolo Christian Molina è riuscito a trasformare una trama non molto originale in un realistico racconto su quella che può essere l’inluenza dei moderni mezzi d’informazione sugli adolescenti, quando i genitori lasciano a loro la responsabilità di educare e intrattenere i loro igli. La fantasia di Alex è catturata dalla violenza e il suo amico immaginario si trasforma da un benevolo astronauta in un truce sergente. Notevole l’interpretazione del giovanissimo Fergus Riordan. Troppo stilizzate e innaturali, invece, le performance degli adulti. Comunque il ilm, a tratti estremamente inquietante e spiacevole, costringe chi lo vede a rilettere su un tema che non è certo una novità. TheSkyKids.com
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Cultura
Libri Dalla Svezia
I libri italiani letti da un corrispondente straniero. Questa settimana Jennifer Grego, del quotidiano britannico Financial Times.
Vittoria casalinga
Claudio Rossi Marcelli Hello daddy! Mondadori, 188 pagine, 17,50 euro ● ●● ●● Claudio è l’amico che tutti vorremmo: divertente, intelligente, autoironico, afettuoso. E non cerca di nascondere i suoi difetti: uno snobismo latente e un certo autocompiacimento per le sue “brillanti battute”. Manlio è il partner ideale, più tranquillo e discreto. La storia comincia quando i due, dopo dieci anni di convivenza, decidono di avere un bambino. Claudio trova la donatrice d’ovulo giusta negli Stati Uniti (in Italia, dice, “non se ne parla!”). Il problema ora è come dirlo a sua madre. Il fatto incoraggiante che emerge dal libro è che gli italiani sono anni luce più avanti rispetto allo stato nell’accettazione delle nuove famiglie. Anzi, la madre è l’asso nella manica, è lei che trova Ruriko, la fantastica tata giapponese incredibilmente sbadata. Appena scossi dalla notizia che ad attenderli è una coppia di gemelle, Claudio e Manlio volano in Ohio per incontrare le iglie, Clelia e Maddalena, e risolvono brillantemente il rompicapo di come farsi chiamare dalle bambine: papà Claudio e papà Manlio. Il lavoro di Manlio porta la famiglia a Ginevra, e anche la Svizzera, scopriranno, ha le sue comodità. È un libro tutto da gustare: divertente e commovente, per niente sdolcinato. Tutto sembra confermare il vecchio adagio dei Beatles: “All you need is love”.
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Il Nobel per la letteratura va allo svedese Tomas Tranströmer Tomas Tranströmer è il settimo svedese a ricevere il Nobel per la letteratura. Una ricca rappresentanza nella storia del premio. Ma questa è una di quelle occasioni, forse l’unica, in cui tutto il mondo può condividere la scelta dell’Accademia svedese. L’opera di Tranströmer è tradotta in una sessantina di lingue. Igor Panin sulla celebre rivista letteraria russa Literaturnaja Gazeta ha scritto: “Un grande poeta, uno dei più grandi, che ha inluenzato gli autori di tutta Europa e del mondo”. L’ultima volta che il Nobel per la letteratura è stato assegnato a uno svedese è stato nel 1974, quando Harry Martinson ed Eyvind Johnson
JESSICA GOw (EPA/ANSA)
Italieni
Tomas Tranströmer si divisero il premio. Non sono mai mancate le polemiche. Ma stavolta nessuno ha protestato e addirittura i social network, in particolare Twitter, hanno accolto positivamente la vittoria di Tranströmer. A sollevare una piccola voce controcorrente ci ha pensato il
quotidiano britannico The Guardian che ha commentato: “L’accademia svedese ha ritenuto che in tempi di crisi economica non fosse opportuno far uscire dal paese dieci milioni di corone”. Andreas Ekström, Sydsvenskan
Il libro Gofredo Foi
Melodramma politico Daniel Alarcón Radio città perduta Einaudi, 313 pagine, 20 euro Daniel Alarcón, nato a Lima nel 1977, vive sin da ragazzo negli Stati Uniti, scrive in inglese, e in questo romanzo racconta, senza precisare l’ambiente ma in modo riconoscibile, il suo paese natale negli anni della feroce guerra civile tra l’esercito e Sendero Luminoso, qui chiamato Li invece che Sl. Bella l’idea di partenza: la guerra è inita e nell’unica radio della capitale la
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trasmissione più seguita è quella in cui Norma, la voce più amata dall’intero paese, legge l’interminabile lista degli scomparsi, che sono gli ascoltatori a fornire. L’uomo di Norma, Rey, è scomparso anche lui, forse nelle ile della Li. Un bel giorno le arriva in studio un ragazzino, Victor, emissario del suo villaggio senza nome, giunto nella città con il suo maestro, a consegnare una nuova lista. Tra un lashback e l’altro scopriamo che Victor è iglio di Rey e di una india e anche il
destino di Rey, oppositore del regime ma guerrigliero riluttante. L’abilità della costruzione e l’interesse dello sfondo storico sono indubbi, ma siamo molto lontani dalla forza e dall’arte di Arguedas – il maggior scrittore peruviano del novecento, da riscoprire – e i primi romanzi di Vargas Llosa. Qui il melodramma politico è costruito ad arte per un pubblico internazionale piuttosto compiacente e ipocrita. Leggiamo e ammiriamo volentieri, ma con qualche sospetto. u
I consigli della redazione
Edmund De Waal Un’eredità di avorio e ambra (Bollati Boringhieri)
I racconti
Enrique Vila-Matas Esploratori dell’abisso Feltrinelli, 262 pagine, 18 euro ● ●● ●● In uno dei suoi libri più citati, Jorge Luis Borges confessa nella prima riga che “è all’altro, a Borges, che accadono le cose”. Chiunque conosca lo scrittore Enrique Vila-Matas, nato a Barcellona nel 1948, sa benissimo che Vila-Matas non ha un altro. Che è a quest’unico Vila-Matas che succedono le cose, che la sua vita, notturna o diurna, interiore o esteriore, riguarda solo il suo indivisibile se stesso. Uno dei suoi tratti più riconoscibili è di essersi procurato una vita all’altezza della sua opera. Così, come un serpente che si morde la coda, Vila-Matas è già da diverso tempo uno di quegli scrittori puri per i quali la vita non può essere altro che un genere letterario. Almeno in parte questo si percepisce in Esploratori dell’abisso, dove il dottor VilaMatas si autoprescrive un ritorno al racconto come possibile cura, intendendo la pratica del testo breve come una terapia alternativa per produrre o recuperare l’altro borgesiano perduto. Detto questo, resta da veriicare se Vila-Matas è cambiato davvero o se è riuscito a incorporare un doppio che cammina con un passo nuovo in nuove direzioni. La risposta è sì e no. Ed è bene che sia così. C’è già uno stile Vila-Matas impossibile da estirpare dal dna di questo scrittore. Ci sono un ritmo, un tono, una melanconia, un umorismo che solo potrebbero scomparire con il silenzio.
BASSO CANNARSA (BLACkARCHIVES)
L’autore e il suo doppio
Enrique Vila-Matas Perché in Esploratori dell’abisso decide, per la prima volta, di riconoscere questo inlusso e in qualche modo di dare spiegazioni senza chiedere scuse, preoccupandosi di stabilire esattamente cos’è stato a portarlo a fare quello che ha fatto, cosa lo spinge a disfarsi di quello che non vuole più fare, e in che modo potrebbe rifare tutto da capo. Esploratori dell’abisso non è una raccolta di racconti ma un tutto organico in cui le molte teste iniscono per formare un’unica intelligenza che va in una direzione precisa. Di questo viaggio di andata e ritorno – della rilassata tensione e del duro sforzo non tanto di sparire, ma di essere un altro – si nutrono i diciannove racconti, diciannove “pretesti abissali”. La letteratura ha sempre bisogno sia del metaletterario Jekyll sia dell’etereo Hyde. Vila-Matas – come Borges con Borges – non riuscirà mai a liberarsi di Vila-Matas. Rodrigo Fresán, Letras Libres
Vittorio Agnoletto e Lorenzo Guadagnucci L’eclisse della democrazia (Feltrinelli) Maggie O’Farrell La mano che teneva la mia Guanda, 384 pagine, 18,50 euro ● ●●● ● L’irlandese Maggie O’Farrell non è tipo da prendere il lettore per mano: con uno strattone lo trascina nei suoi romanzi complessi e intricati su donne che riiutano il conformismo. Il suo ultimo ipnotico romanzo, La mano che teneva la mia, ruota intorno alle storie, separate da quasi cinquant’anni, di due madri single e indipendenti, una giornalista e una artista. Lexie fugge dalla sua casa nel Devon per raggiungere Londra a metà anni cinquanta. Al racconto di Lexie si alterna una storia, sulle prime meno coinvolgente, ambientata nella Londra contemporanea. Elina Vilkuna è un’artista inlandese che per poco non muore durante un parto cesareo: adattarsi alla maternità è terribile per la donna esausta e sofferente. Quando le due trame cominciano a convergere, questa seconda storia diventa sempre più importante. Con una prosa visceralmente poetica O’Farrell coglie l’estrema solitudine della maternità e “la risacca costante dell’ansia materna”. Una lettura appassionante e commovente. Heller McAlpin, The Washington Post Richard Mason Alla ricerca del piacere Einaudi, 306 pagine, 20 euro ● ●●● ● Piet Barol, il cercatore di piaceri a cui allude il titolo, è un giovane ambizioso e priapesco venuto a cercare fortuna nella Amsterdam della belle époque. A diferenza del Frédéric Moreau dell’Educazione sentimentale di Flaubert (verso cui il libro ha un debito non piccolo), Piet è ricco di talenti: non solo è “estremamente attraen-
Yuri Herrera La ballata del re di denari (La Nuova Frontiera)
te per la maggior parte delle donne e per molti uomini”, ma è anche un ottimo pianista, disegnatore e amante. Lo incontriamo la prima volta durante un colloquio per ottenere il ruolo di precettore del iglio del ricco albergatore Maarten Vermeulen-Sickerts. Non tutto va bene in questa blasonata famiglia: Egbert, il iglio, è agorafobico e la matriarca, Jacobina, da quasi dieci anni non viene toccata dal marito. In questa atmosfera di tensione arriva Piet, con l’incarico di liberare Egbert dalla sua paura. Ma Egbert non è il solo ad aver bisogno d’aiuto. Piet si accinge a liberare la libido di questa famiglia repressa attraverso la musica e il sesso orale. Se l’ambientazione è olandese le inluenze (Bel-Ami, Le relazioni pericolose e L’immoralista) sono francesi. Un gioco coinvolgente e ritmato che dà nuova vita al genere picaresco. Alex Preston, The Guardian Robert Harris L’indice della paura Mondadori, 285 pagine, 19,90 euro ●● ●●● Il mondo inanziario è un ambiente diicile per lo scrittore di thriller. Il problema è che, sul piano umano, il lavoro dei banchieri d’investimento non è molto più interessante di quello dei ragionieri: l’avidità è un buon tema, ma è anche banale. Imperterrito, Robert Harris ha raccolto la sida. Il risultato è una sottile parabola distopica, suggestiva, perché invece di rinunciare a raccontare quello che succede veramente nella maggior parte delle banche e dei fondi speculativi e di farne il mero sfondo per il riciclaggio di denaro e altri imbrogli, il suo “cuore di tenebra” è la inanza stessa. La
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Cultura
Libri trama può sembrare improbabile, ma è solo la logica dei mercati di oggi portata all’estremo. Alex Hofman gestisce un fondo speculativo di grande successo basato su un algoritmo. È un genio introverso, socialmente gofo, arrogante e sprezzante, ma ha una vulnerabilità che sua moglie ama e che i nemici sfruttano. Tutto sembra pronto per un crollo, sia inanziario sia emotivo. La trama s’impernia sul software di Alex che usa l’intelligenza artiiciale per fare afari sulla paura. Chi conosce la storia recente dei mercati coglierà l’allusione. John Gapper, Financial Times Liliana Lazar Terra di uomini liberi Marco Tropea, 176 pagine, 16 euro ●● ● ●● C’è qualcosa di Bram Stoker in questa nuova scrittrice di 36 anni, originaria della Romania, che ha scelto la lingua
francese per sondare i bassifondi del suo villaggio natale. Liliana Lazar irma un primo romanzo inquietante, pieno di squarci di luce e di zone d’ombra, intorno a una specie di Frankenstein, un taglialegna di cento chili le cui mani uccidono quando credono di stringere. Nascosto a casa della madre per scappare alla polizia, tenta di riconquistare una buona condotta facendosi monaco copista. Le sue mani abbandonano l’accetta per impugnare la penna e coprono interi quaderni di testi religiosi che Ceausescu ha vietato. Questo atto di resistenza non spegne le pulsioni omicide del colosso, la cui ambivalenza dà al libro un andamento deliziosamente traballante. Nei Carpazi, l’esistenza è una messa nera che Lazar dipinge con piccoli tocchi, come in un quadro naïf. Ambientato tra il 1970 e il 1989, Terra di uomini liberi è un racconto politico sull’insostenibile tranquillità dell’essere. Marine Landrot, Télérama
Lore Segal Lucinella Cargo, 192 pagine, 18,50 euro ●● ●●● Questo racconto, pubblicato nel 1976, appartiene alla scena culturale della New York dell’epoca quanto un ilm di Woody Allen, con i suoi personaggi nevrotici, le loro ambizioni smisurate e le loro conversazioni soisticate. Al centro di un giro interminabile di party letterari, la poetessa Lucinella è ignara, quanto il resto degli scrittori che la circondano, della natura competitiva del suo mondo. Comincia una relazione con un altro poeta, ma non può fare a meno di chiedersi se lui sia alla sua altezza. Segal si diverte a prendere in giro un gruppo di persone convinte di essere divinità letterarie (c’è anche un divertente scambio tra Lucinella e la moglie di Zeus). Ma la sua satira acuta può sfuggire a chi è estraneo a quell’ambiente. Lesley McDowell, The Independent
Non iction Giuliano Milani
LeoNARdo CeNdAMo (BLACkARCHIVeS)
Santa Matrigna Horacio Verbitsky Doppio gioco Fandango, 724 pagine, 22 euro Appassionato rivelatore di verità scomode, il giornalista Horacio Verbitsky è noto in Italia per aver scoperto, provato e raccontato nel libro Il volo come i militari al potere in Argentina negli anni 1976-1983 gettavano in mare dagli aerei persone vive. Doppio gioco porta avanti la ricerca cominciata in quel libro e proseguita con L’isola del silenzio mettendo al centro di una vasta indagine storica la chiesa naziona-
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le. Attraverso un numero sorprendente di vicende rintracciate in tanti documenti uiciali, Verbitsky dimostra che gli alti livelli della gerarchia ecclesiastica conoscevano bene ciò che facevano i militari e che gli alti prelati furono interlocutori fondamentali che Videla, Massera e gli altri golpisti tennero sempre presenti nel loro operare e nelle loro scelte. Mentre nelle diocesi del paese i fedeli si rivolgevano a sacerdoti e vescovi per chiedere protezione dagli arresti e
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dalle aggressioni che l’esercito perpetrava sotto il pretesto di ristabilire l’ordine, i membri della conferenza episcopale decidevano di tenere riservate quelle notizie, di mettere a disposizione del regime informazioni e risorse, nonché di rassicurare quanti tra i militari avevano partecipato ai voli della morte e manifestavano rimorsi di coscienza spiegando loro che quella procedura era stata approvata uicialmente dalla chiesa che l’aveva giudicata una forma di morte cristiana. u
Austria/Svizzera
Ilija Trojanow Eis Tau Carl Hanser Questo romanzo è un inno ai ghiacciai e un grido di allarme perché stanno scomparendo, narrato da un geologo che fa da guida a una spedizione di turisti nell’Antartico. Ilija Trojanow è nato nel 1965 a Soia, in Bulgaria, è cresciuto in kenya e ora vive a Vienna. Michel Božikovic Drift Klett-Cotta Martin, giornalista disoccupato e tossicodipendente, è abbandonato dalla donna che ama. Cerca il riscatto scrivendo la storia di Julien, che negli anni novanta ha combattuto nei Balcani come volontario. Božikovic nato a Zurigo, vive tra Zurigo e Basilea. Peter Stamm Seerücken S.Fischer Nei suoi racconti, Stamm (secondo il New York Times una delle voci più interessanti d’europa) esplora i dubbi, le paure, le alienazioni dei giovani, ma anche qualche raro momento di gioia. Stamm è nato a Zurigo nel 1963. Peter Henisch Grosses Finale für Novak Residenz Un anziano uccide la moglie che lo tormenta, per poter ascoltare in pace La traviata. Una trama costruita come un libretto d’opera. Peter Henisch è nato a Vienna nel 1943. Maria Sepa usalibri.blogspot.com
Cultura
Libri Ricevuti Ferdinando Scianna Autoritratto di un fotografo Bruno Mondadori, 216 pagine, 19 euro “Il mondo, la vita, le persone mi appassionano. Li fotografo per cercare di conoscerli, per conoscermi, per esprimere i pensieri, i sentimenti, le emozioni che mi suscitano. Per conservare una traccia”.
Fumetti
Vuoto, contemporaneo David Mazzucchelli Asterios Polyp Coconino Press/Fandango libri, 344 pagine, 29 euro Lo statunitense Mazzucchelli, dopo aver rivisitato i miti dei supereroi su sceneggiatura di Frank Miller (Batman. Year one), è passato al fumetto indipendente. L’avvenimento editoriale dell’anno, per quanto riguarda il fumetto d’autore, è questo suo metafumetto postmoderno con una forma umoristica. Per questa ragione, Asterios Polyp sotto certi aspetti è un’impresa irritante, un po’ vuota, quasi fuori tempo massimo (il postmoderno appartiene al passato, storicizzato con mostre e retrospettive), per altri è un’impresa entusiasmante. Mazzucchelli vede il vuoto della contemporaneità come un’assenza di grandezza nel destino umano. E insieme vede sia il vuoto (la freddezza, la falsità) sia la bellezza inestricabilmente presenti nell’arte contemporanea, malgrado sia
sempre più design, architettura, installazione mortifera, cioè museale. Anch’essa sempre più senza (pre)destinazione. L’opera è imperniata sulla dualità: Asterios, il protagonista, forse ha ucciso in dall’inizio (da quando era nel ventre materno) il fratello gemello, il quale, però, è il narratore. Si cristallizza la decadenza di una civiltà, forse deinitiva, forse ciclica, insieme alla decadenza di un teorico dell’architettura, esempliicativo di tutti gli artisti concettuali e concettosi, con ininiti rimandi e citazioni postmoderne, che a tratti annoiano, generando ovvietà, altre volte sorprendono generando epifanie. I tanti rimandi a miti e a opere greche, creano all’inizio la grandezza di un’apocalisse parziale, alla ine quella di un’apocalisse deinitiva. Quest’ultima, per un bambino è forse una rinascita, un avvento. Questione di punti di vista. Francesco Boille
Peyo Scherzi da pui Black Velvet, 54 pagine, 9,90 euro Scherzi, giochi, battute, burle, pesci d’aprile, sorprese e colpi di scena. Centoventi tra strisce e vignette comiche per entrare nel mondo dei Pui. Giacomo Monti Nessuno mi farà del male Canicola, 160 pagine, 14 euro Una nuova edizione in formato più grande e con maggior cura nella stampa per il libro che ha ispirato il ilm di Gipi L’ultimo terrestre. Anna Vullo Dev’essere così l’inferno Aliberti, 169 pagine, 15 euro Il 5 agosto 2010, 33 uomini rimangono intrappolati in una miniera nel nord del Cile. Ci resteranno per 69 giorni. Anna Vullo ne rivela i retroscena, i litigi, le tensioni, le paure e la commozione attraverso le testimonianze dirette dei minatori e dei loro familiari. Ella Bafoni e Vezio De Lucia La Roma di Petroselli Castelvecchi, 179 pagine, 14 euro La costruzione dei quartieri popolari, il progetto Fori, la consacrazione dell’estate romana e la metropolitana che unisce il centro con le borgate:
il ritratto del sindaco di Roma Luigi Petroselli e dei suoi due anni al Campidoglio. Tim Harford Elogio dell’errore Sperling & Kupfer, 352 pagine, 18 euro Perché nella vita e nel lavoro è meglio sbagliare e perché i grandi successi cominciano sempre da un fallimento. L’economista risponde. Jesús Marchamalo Toccare i libri Ponte alle Grazie, 80 pagine, 8 euro Quanti libri è possibile leggere in una vita? In che modo disporli? Come fare quando sono troppi? Ci piacciono di più se sembrano nuovi o se sono un po’ maltrattati? Bisogna leggerli tutti, o alcuni sono fatti apposta per non essere letti? Marco Cobianchi Mani bucate Chiarelettere, 295 pagine, 15,90 euro L’incredibile mondo delle aziende mantenute dallo stato: banche e multinazionali, giornali, radio e tv, cinema, aziende agricole e allevamenti, compagnie aeree, hotel e perino la maia. Charles Perrault Tutte le iabe Donzelli, 195 pagine, 23 euro Da Cenerentola a Barbablù, dal Gatto con gli stivali a Pelle d’asino. Le iabe di Perrault illustrate da Élodie Nouhen. Marc Chagall Le mille e una notte a colori Donzelli, 200 pagine, 23 euro “Imprevedibile, orientale, sospeso tra la Cina e l’Europa”. Le mille e una notte illustrato da Marc Chagall.
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Cultura
Musica Da Los Angeles
Architecture in Helsinki Bologna, 15 ottobre, estragon.it; Mezzago (Mb), 16 ottobre, bloomnet.org; Roma, 17 ottobre, circoloartisti.it; Conegliano Veneto (Tv), 18 ottobre, apartamentohofman.com
L’orecchio ritrovato
Lee Scratch Perry Roma, 15 ottobre, brancaleone.eu Wim Mertens Catania, 15 ottobre, zoculture.it Get Up Kids Madonna dell’Albero (Ra), 14 ottobre, bronsonproduzioni.com; Roncade (Tv), 15 ottobre, newageclub.it Michael Franti & Spearhead Nonantola (Mo), 17 ottobre, voxclub.it; Roma, 18 ottobre, alpheus.it; Milano, 19 ottobre, magazzinigenerali.it Dirty Beaches Milano, 17 ottobre, lasalumeriadellamusica.com; Madonna dell’Albero (Ra), 20 ottobre, bronsonproduzioni.com Noa + Radiodervish Roma, 19 ottobre, auditoriumconciliazione.it
Architecture in Helsinki
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Ryan Adams torna dopo una vita agitata e una grave malattia all’udito La sindrome di Ménière col pisce l’orecchio interno e pro voca, tra l’altro, la perdita dell’udito a certe frequenze. Per un musicista signiica perdere il lavoro e l’identità. Ryan Adams, star della nuo va country music, ne sofre da cinque anni. “Per curare i sintomi si può provare con gli steroidi, gli antidoloriici o l’amfetamina. Io ci ho dato dentro con una di queste so stanze”, spiega sarcastico Adams presentando il suo nuovo album, Ashes & ire. Nel 2009, dopo la morte di
ALLMUSICIAN.ORG
Dal vivo
Ryan Adams sua madre e del suo bassista, e distrutto dalla droga e dalla malattia, aveva annunciato il suo ritiro. Ora torna con un di sco dal suono più dolce e cura to rispetto ai suoi ultimi lavo ri. Prodotto da Glyn Johns, che ha lavorato con i Rolling Stones e gli Who, Adams tor na al sound che aveva lanciato una decina d’anni fa con He-
artbreaker. Ashes & ire ha an che qualche ospite di lusso, come Norah Jones. “Ora è più vecchio e sta in un posto tran quillo”, dice lei di Adams, con cui lavora dal 2005. “Le can zoni nuove sono molto calde e vive, e lui è un pozzo senza ine di creatività”. L’album è stato registrato con strumenti d’annata, e per l’artista è stato un test di resi stenza: “Fare un disco è come fare il maratoneta, ti alleni molto ma poi parti per un viaggio senza controllo. Io sono così. Non ho un hobby, non gioco a golf. La musica è il mio golf ”. August Brown, Los Angeles Times
Playlist Pier Andrea Canei
Qualunquo vadis Zen Circus I qualunquisti L’ultima volta che erano initi in questo spazietto, can tavano di Gente di merda; con I qualunquisti, si sente che è un po’ lo stesso target, ma con un linguaggio più preciso, più adulto. La band pisana si can dida, con il nuovo album Nati per subire, a portare al posto degli Afterhours la croce della indieband naturalmente rile vante d’Italia: sound ripulito e asciutto, parole intelligenti scandite con chiarezza, cuore e stomaco e tutte le nausee al posto giusto. Finalmente si parla italiano e c’è un’urgenza, un po’ di fame vera senza l’ali to cattivo della presunzione.
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Vittorio Cane Palazzi Quello che / Mai / Uma no / A Milano / Sto bene / Non ne ho / Palazzi / Responsabili tà / Qui/ A Casa mia. Questa specie di preambolo alla Elio Pagliarani dice tutto: è la track list dell’album Palazzi, del can tautore Vittorio Cane. Lui è uno con la chitarra lowi, l’ap proccio disilluso, la pianola elettrica, il campo per giuocare a pallone e un materasso per fare all’ammore. Ce n’è un sac co in giro così; rischiano di an nullarsi a vicenda nel loro aci dulo surrealismo da monolo cale. Ma è buona creanza, per chi vuol bene al pop italiano, adottarne almeno un paio.
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Stereo Mc’s Far out feelings Un po’ di legittimo esca pismo nello spazio e nel tem po: negli anni novanta poche cose tiravano come Connected degli Stereo Mc’s, elettriche ondate di funk blanco y negro, Clapham Junction per qualun quisti da balera, quelli che on deggiavano col gintonic in ma no e la sigaretta ovunque. Boh? Ora noi siamo invecchiati e an che loro eppure questo nuovo Emperor’s nightingale porta il sapore di un lashback non sgradevole. Rigurgito di limo ne, beat nelle gambe, qualche iducia in un futuro qualunque. Poi, non si è capito come, tutto è andato a inire in dubstep.
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Resto del mondo Scelti da Marco Boccitto
MIOJOINDIE
la band di Chicago mette insieme l’intero spettro stilistico che ha caratterizzato la sua carriera: dal country rock degli inizi all’indie rock più recente. Ne è una dimostrazione il pezzo d’apertura, Art of almost, che sfocia in una splendida jam session. Anche se le altre canzoni non sono altrettanto avventurose, l’album propone continue rotture stilistiche e sonore, che spesso rilettono alla perfezione i testi criptici e le emozioni del leader Jef Tweedy. Eppure nessun altro album dei Wilco è così caldo e rilassante, perino consolatorio. Neue Zürcher Zeitung
Feist
Pop Feist Metals (Polydor) ●●●●● Il quarto album di Feist, il primo dopo quattro lunghi anni, deve molto al mondo della natura. Metals, che mostra in copertina un paesaggio desolato, prende il nome dai minerali grezzi, malleabili, pronti per la trasformazione. Quasi si percepiscono i granelli di polvere nell’aria. Registrato a Big Sur, in California, con poche sovraincisioni, l’album è pieno di sferragliamenti e toni, sospiri e battiti di mani. Non è un album da ascoltare al computer. I suoi momenti più calmi richiedono un posto comodo dove stare accoccolati. Quelli più rumorosi – e ce ne sono molti – spazi aperti e compagnia. Ma la chiave dell’album è il ritmo: le percussioni fanno da contrappunto alla voce sottile della cantante canadese, elegante e inaferrabile. Kitty Empire, The Observer
The Duke & the King The Duke & the King (Anti-) ●●●●● Ricavato dai due album pubblicati in Gran Bretagna dalla band di Simone Felice, il batterista dei Felice Brothers, il debutto americano di The Duke and the King sembra una compilation di greatest hits arrivata direttamente da quarant’anni fa. Con una voce alla James Taylor, arricchita da un vibrato che ricorda Neil Young, Simone Felice racconta storie di giovani veterani di guerra ancora traumatizzati (Shaky) e rilette sulla poetica delle relazioni amorose adulte (You and I). Andamento soul, rafforzato da un corista che sem-
MIOJOINDIE
Rock Wilco The whole love (Anti/Phonag) ●●●●● I Wilco sono sempre stati diicili da inquadrare. Nell’ottavo album in studio, The whole love,
Graveola Eu preciso de um liquidiicador
Wilco
The Cambodian space project 2001: A space odissey (Metal Postcard) bra Sam Cooke, e suggestioni psichedeliche: se lo chiamano rock classico ci sarà un motivo. Richard Gehr, Spin
Elettronica Apparat The devil’s walk (Mute) ●●●●● Sascha Ring è stato piuttosto impegnato in collaborazioni e progetti paralleli negli ultimi tempi, ma non pubblicava un album come Apparat dal 2007, anno di uscita di Walls. Il suo ultimo lavoro, a metà tra lo shoegaze e il pop elettronico, era stato una netta svolta rispetto al suo passato dance. Da allora l’elettronica vocale ha conosciuto una forte espansione, e anche se Apparat è abbastanza lontano da James Blake e dalla chillwave, il suo pubblico potenziale si è ampliato. The devil’s walk ha un’ottima produzione e arrangiamenti fantastici: c’è molto movimento, ma pieno di grazia e misura. Quello che delude è la parte vocale, che appare spesso fuori luogo. L’amore di Ring per il pop e le sue innate doti ritmiche meritano una combinazione migliore. Joe Colly, Pitchfork
Aucan Black rainbow (La Tempesta) ●●●●● Immaginate un mondo in tre minuti di crepitii elettronici (In a land), possono essere afascinanti proprio come può esserlo una sarabanda mathrock con rotture e dissonanze che sembrano afrodisiaci per calcolatori elettronici (Heartless). Ebbene, questo mondo esiste, ed è quello degli Aucan, un trio misto italiano che trattano tastiere e campionatori come uno scultore tratterebbe della
Fatoumata Diawara Fatou (World Circuit)
plastilina radioattiva. Le dense atmosfere di questo gruppo italiano cambiano la deinizione di trip-hop. Il loro Black rainbow esce dalle carte geograiche del dubstep che non può contenere la loro audacia e la loro intensità. Volendo coniare un termine, si potrebbe parlare di noisetronica. Benjamin Mialot, Les Inrockuptibles
Classica Alcan Quartet, David Lefevre e Alain Lefevre Mathieu: trio per piano, quintetto per piano; Chausson: concerto per violino, piano e quartetto David Lefevre, violino; Alain Lefevre, piano; Alcan Quartet (Analekta) ●●●●● André Mathieu (1929-1968) era detto “il Mozart canadese” dai suoi contemporanei e sembra essere rimasto completamente fuori da tutte le tendenze radicali del novecento. Il suo trio per piano, che è del 1950, ha molti punti di contatto con la musica francese di molti decenni prima, ma questo non diminuisce il suo fascino, anzi. Ci sono echi di Debussy nel primo movimento e forse di Honegger nel ritmo e nel proilo più spigoloso del secondo, ma la musica crea comunque un orizzonte sonoro originale, con una fusione di romanticismo sognatore e angoscia più aggressiva. Il quintetto ha caratteristiche simili e, come il trio, è scritto con un’attenzione rainata ai timbri degli strumenti. La musica sembra avere un ilo narrativo sotterraneo, che gli ottimi strumentisti presentano con animazione, tenerezza e passione. Una bellissima scoperta. Geofrey Norris, Gramophone
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Cultura
Video In rete 10 ans, 100 regards
Io, la mia famiglia rom e Woody Allen Domenica 16 ottobre, ore 21.00 Babel Laura Halilovic racconta la sua storia in un quartiere popolare alla periferia di Torino, con le diicoltà della vita stanziale, i contrasti con i gagè (ovvero tutti i non rom), svelando la realtà di un mondo noto soprattutto per stereotipi. The mayor of Sunset strip Domenica 16 ottobre, 22.00 Rai5 Documentario biograico su Rodney Bingenheimer, pittoresco protagonista per trent’anni della scena musicale di Los Angeles. Il “sindaco” è stato fan, giornalista, discograico, gestore di locali e di stazioni radio. Cancro, prevenzione senza età Mercoledì 19 ottobre, ore 23.50 Lei In occasione del mese della prevenzione del tumore al seno, uno speciale con la conduttrice britannica Dawn Porter: sia la madre sia la bisnonna sono morte di cancro al seno. Il canto di Malanapoli Giovedì 20 ottobre, ore 0.40 RaiTre Al via la nuova serie di Crash, con un reportage su Napoli e i successi dei cantanti neomelodici: canzoni come ’O capoclan trattano temi quali la latitanza, il carcere e l’onore, alimentando un’ambigua sottocultura che celebra la delinquenza. Permis de tuer en Syrie Giovedì 20 ottobre, ore 1.05, Arte Ad agosto un giornalista francese si è iniltrato in Siria, raccontando la rivolta e la sanguinosa repressione. Documento eccezionale, seguito da un’inchiesta sulla famiglia Assad.
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Dvd Herzog e la preistoria Werner Herzog è stato capace, come pochi altri registi, di reinventarsi una carriera grazie a memorabili documentari su personaggi e vicende che sembrano usciti dai suoi visionari capolavori precedenti. Cave of forgotten dreams segna il suo esordio nel 3d, e l’occasione di calarsi in uno dei luoghi più inaccessibili del mon-
do: la grotta Chauvet in Francia, decorata dalle più antiche pitture mai rinvenute (risalgono a più di 30mila anni fa), immagini molto moderne che riaiorano dalla preistoria trovando un posto nella ilmograia del maestro tedesco. Dvd e blu-ray, in versione sia 2d che 3d, escono in Gran Bretagna. caveoforgottendreams.co.uk
afghanistan.arte.tv Nell’ottobre 2001 scattavano le operazioni militari alleate in Afghanistan. Arte dedica all’anniversario un sito aggiornato quotidianamente e un ambizioso progetto multimediale (disponibile anche in inglese), per dare la parola agli afgani e confrontare i loro punti di vista su questo decennio. Gli estratti di numerosi reportage realizzati da Arte sui taliban, le donne, le prime elezioni, il ritorno della violenza, s’intrecciano con il racconto della vita quotidiana. Sono stati coinvolti anche giovani registi, fotograi, disegnatori, profughi fuggiti all’estero, esperti di politica internazionale. A ognuno è stato chiesto di condividere la loro visione del paese e del suo futuro.
Fotograia Christian Caujolle
Fatal error occurred Appena è stato dato l’annuncio della morte di Steve Jobs la home page del sito della Apple è diventata molto sobria. Niente più annunci multicolorati dei nuovi prodotti disponibili, i cui modelli formano un arcobaleno, ma un ritratto in bianco e nero accompagnato dalla scritta: “Steve Jobs. 19552011”. Un primo piano molto stretto dell’uomo che, senza voler scomodare termini come “genio” o “guru”, in ogni caso usati a profusione in questi giorni, incontestabilmente ha
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cambiato molte cose, molti elementi delle nostre vite, del modo in cui ascoltiamo la musica, del modo in cui usiamo e guardiamo le immagini e del modo di essere consumatori. In quello che ha tutta l’aria di un annuncio uiciale, Jobs ci guarda dritti in faccia, tirandosi qualche pelo della sua barba ben curata. Chissà se è per dimenticanza o per realismo – nel senso che comunque il commercio continua – che la tradizionale barra dei menù, anche se
grigia, è rimasta al suo posto. Qualcuno troverà la cosa di cattivo gusto, ma non è niente di paragonabile a quello che è comparso in rete, in un lusso continuo di omaggi più o meno riusciti. C’è perino una iUrn per raccogliere le ceneri del caro estinto o un’altrettanto classica tomba, in un calmo cimitero dall’aspetto tipicamente americano, con l’epitafio: “Steve Jobs. Fatal error occurred”. Evidentemente Jobs continua a stimolare la nostra creatività. u
Cultura
Arte
Carbone e ghiaccio Coal+Ice, Three Shadows gallery, Beijing, ino al 28 novembre, threeshadows.cn Quando George Mellory arri vò in Tibet per un viaggio sui ghiacciai dell’Everest, fotogra fò le cime e annotò: “C’è una pura bellezza di forme, una sorta di suprema armonia”. Novant’anni dopo David Brea shears davanti allo stesso sce nario notò che più di cento metri del ghiacciaio Rongbuk si erano sciolti. Le sue foto di mostrano l’evidenza dei danni del cambiamento climatico. The New York Times Stein a confronto Matisse, Cézanne, Picasso… l’aventure des Stein, Parigi, ino al 14 gennaio 2012, rmn.fr Leo, Michael, Sarah e Gertru de Stein, ricchi intellettuali statunitensi arrivano a Parigi intorno al 1905 e s’innamora no di Matisse e Picasso molto prima che diventino una mo da. La mostra al Grand Palais illustra il gusto di ognuno di loro, divisi a coppie (Leo e Gertrude, fratelli, Michael e Sarah, marito e moglie). Libération
LINDA NyLIND
Il salone dei corrotti Zhang Binjian, Parco dell’arte di Laiguangying Zhang Binjian ha messo su una fabbrica di ritratti di fun zionari cinesi corrotti. Li di pinge da due anni con una squadra di pittori e ha già col lezionato 1.300 quadri nel suo Salone degli orrori, una vec chia fabbrica di liquori a nord di Pechino. I quadri, allineati sulle pareti e sul pavimento del suo studio, sono tutti rosa, il colore del biglietto da cento yuan, e riportano il nome del funzionario corrotto, l’incari co, il delitto e la pena a cui è condannato. La Vanguardia
Londra
Da dove veniamo Eyeball message Hayward gallery, ino all’8 gennaio, southbankcentre.co.uk Un misero pavese di bianche ria intima sventola fuori dalla Hayward gallery, come un ilo di panni stesi ad asciugare. Vi cino, alcune bolle sferiche gri gie rotolano da una macchina nel cortile delle sculture, de formandosi mentre salgono verso Waterloo bridge. Le bol le scoppiano in nuvole di fu mo. La vita, sembra il messag gio, non è altro che fumo e mutande. All’interno, la prima cosa che ci si trova davanti è un lampadario di biancheria:
le mutande, dice Pipilotti Rist, sono il tempio dell’addome, una parte del corpo sacra, il luogo dal quale si entra nel mondo, il centro del piacere sessuale e il posto dove transi tano le immondizie del corpo. Rist si crogiola nella provoca zione. Dopo il lampadario, il suo mondo esplode di colori. Sul pavimento è proiettato un corpo femminile. La teleca mera indugia sulla bocca ser rata della donna, poi, per una frazione di secondo, sul suo ano. E ancora la bocca. Il lavo ro di Pipilotti Rist è viscerale, terragno, sensuale, pieno di
vita. Ci sono cuscini con la forma di un corpo, jeans im bottiti e torsi decapitati acca tastati in pile orgiastiche, un labirinto di tende diafane con immagini luttuanti proiettate sulla loro supericie, video proiettati in buchi, immagini avvolgenti. Bisogna essere dei miserabili per non trarre pia cere dal bagno caldo di luce e di natura di Pipilotti Rist. Dal le sue gioiose estasi maliziose. Solo una donna può focalizza re il suo lavoro sull’universo femminile senza essere bana le, eccessiva e sofocante. The Guardian
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Pop Ritorno nei Balcani Charles Simić
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ChaRles simić
è un poeta statunitense nato a Belgrado nel 1938. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Club Midnight (Adelphi 2008). Questo articolo è uscito sulla New York Review of Books con il titolo The bright side of the Balkans.
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ono stato a Sarajevo, la scorsa primavera, che anno fa, e subito dopo a partecipare a un simpatico per partecipare a un festival internaziona- reading di gruppo all’interno di un casinò, dove abbiale di poesia, ricevere un premio e presen- mo letto le poesie con in sottofondo il rumore delle itare una mia raccolta di poesie appena ches e delle slot machine. Le Giornate di poesia a Sarapubblicata in Bosnia. Era la prima volta jevo, come s’intitolava la manifestazione, hanno riuniche mettevo piede nella città, che dall’apri- to poeti da Austria, Montenegro, Armenia, Francia, le del 1992 al febbraio del 1996 fu asseCroazia, Cipro, Kosovo, Ungheria, Madiata dalle forze serbe guidate da Rado- Sono sempre cedonia, Malta, Marocco, Germania, van Karadžić e Ratko Mladić, vivendo rimasto sconcertato Romania, Russia, Slovenia, Serbia, Suincredibili soferenze. Sono arrivato in dalla mancanza dan, Svizzera e Turchia, oltre ai poeti di aereo in una giornata limpida e ho potu- di curiosità dei Bosnia ed Erzegovina. Riunioni come to vedere la città dall’alto, stretta tra poeti statunitensi queste tendono a essere faticose e gratimontagne e colline su tre lati. Mi è stato per chi resta ucciso icanti insieme, visto che passi giorno e facile immaginare la distruzione che nelle guerre in notte a bere e a parlare non solo di lettel’artiglieria, i mortai, le mitragliatrici peratura, ad ascoltare poesie in una decina cui è coinvolta santi e i cecchini devono avere inlitto ai di lingue diverse e a scoprire il lavoro di l’America. Ora ho suoi abitanti, che non potevano difenpoeti di cui, tuo malgrado, ignoravi l’esicapito dersi. Ho visto l’assedio di Sarajevo per stenza. quello che è stato: il tentativo deliberato Molte delle poesie bosniache che ho di punire un’intera città, terrorizzando e afamando i ascoltato e letto durante la mia permanenza parlavano suoi abitanti, con il vantaggio di poter sparare da altez- della guerra. Sapendo quanto poco sia presente questo ze sicure e inattaccabili. tema nella poesia contemporanea serba e croata, Una volta atterrato ho sentito ancora di più la vici- in cui non c’è traccia dell’immane strage di innocenti nanza di quelle colline, che dominano il panorama, avvenuta dietro l’angolo, la cosa mi ha fatto rilettere. spuntano in fondo a ogni strada e in tempo di pace ab- Non erano solo testimonianze toccanti di chi aveva belliscono la città con la loro vegetazione e i tetti rossi vissuto quell’orrore: l’eloquenza quasi certosina espridi cui sono punteggiate. Sarajevo ha tante facce: è la meva l’impossibilità di capire come Dio e gli uomilocalità di montagna dove vorresti andare per ritrova- ni avessero potuto permettere tanta cattiveria e ingiure la salute; la città ottomana con moschee e minareti stizia. che sembrano usciti da una cartolina ottocentesca diSono sempre rimasto sconcertato dalla mancanza pinta a mano; una capitale austroungarica d’inizio di curiosità dei poeti statunitensi per chi resta ucciso secolo, con gli ediici che trovi ovunque sia arrivato nelle guerre in cui è coinvolta l’America. Ora ho capito: l’impero, nei Balcani e nell’Europa orientale; e una chi non ha mai visto un bambino o una donna anziana città di grattacieli e palazzi, come ce ne sono tante al- stesi sul marciapiede in una pozza di sangue e sentito tre in Europa. qualcuno gridare il loro nome, non può capire ino in Oggi si resta stupiti a pensare che praticamente tut- fondo cosa succede davvero quando, per sbaglio, bomti gli ediici di Sarajevo hanno subìto danni e che altri bardiamo o attacchiamo con i droni tutte quelle feste trentacinquemila sono andati completamente distrut- di nozze, i funerali e i pastorelli che raccolgono legna ti, come la biblioteca nazionale dove erano custoditi per il fuoco in Afghanistan, Iraq, Pakistan, Libia, e ora migliaia di libri e antichi manoscritti preziosi. Ma dal anche in Yemen. Leggere solo i giornali non basta. momento che buona parte degli ediici distrutti sono Ho dovuto anche abituarmi a parlare una lingua stati ricostruiti, la città ha un aspetto iorente. E con le che non uso più molto spesso. Anche se ho lasciato belle giornate primaverili e la gente a passeggio per le Belgrado 58 anni fa, quindicenne, e ci sono tornato sostrade o seduta nei cafè a chiacchierare piacevolmen- lo di rado e per brevi visite, conservo ancora il suo acte, quello che è successo qui quindici anni fa sembra cento. Dopo aver fatto un po’ di pratica a Sarajevo inconcepibile. ho cominciato a chiacchierare con naturalezza. La Poco dopo l’arrivo ero già tutto preso a incontrare gente del posto indovinava subito da dove venivo, ma gente, rilasciare interviste, mangiare un boccone al me lo chiedeva lo stesso perché il mio abbigliamento e volo con un poeta bosniaco conosciuto a Berlino qual- i miei modi non corrispondevano al modo in cui parla-
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Pop
Storie vere Stephen Frankie Daniel, 21 anni, ha rapinato un benzinaio a Snellville, in Georgia. Secondo il racconto del sergente B.W. Brown, della polizia locale, Daniel “è entrato nel negozio e ha urlato: ‘Dammi tutti i soldi che hai in quella cassa del cazzo e mettili in questo sacco!’. Il benzinaio ha cominciato a ridere e poi glieli ha dati tutti, sempre sghignazzando. Rideva perché vedeva che dietro al rapinatore c’ero io, in uniforme”. Quando il sacco è stato pieno, Brown ha semplicemente appoggiato una mano sulla spalla di Daniel e gli ha detto con calma che era in arresto.
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vo. Anche nelle interviste mi hanno fatto domande sulla mia infanzia a Belgrado, sulla mia vita negli Stati Uniti e la mia poesia, ma nessuna domanda scopertamente politica. La stessa cosa è successa in Serbia, la settimana dopo (l’arresto di Mladić è avvenuto qualche giorno dopo la mia partenza). È stata una sorpresa e un sollievo, perché quando ero stato a Belgrado cinque anni prima, una domanda su due delle interviste conteneva un rimprovero più o meno velato per non avere difeso la Serbia nei dieci anni precedenti. Le mie posizioni sui crimini commessi dai serbi durante la guerra di Bosnia erano note, ma ho avuto l’impressione che la gente si fosse stancata di quell’argomento e preferisse semplicemente parlare d’altro. Due sopravvissuti all’assedio di Sarajevo hanno raccontato in modo pacato e concreto com’era la vita senza acqua né elettricità, e con la paura costante che i propri familiari fossero uccisi per la strada. Entrambi avevano conosciuto Karadžić e alcuni dei suoi amici nazionalisti prima della guerra e non immaginavano che potessero diventare mostri del genere. Era diicile trovare le parole per descrivere la tragedia collettiva che si era consumata. Molte vite erano state distrutte, oltre a quelle di chi era stato ucciso o era rimasto invalido. In tanti erano fuggiti per non tornare mai più. E anche la città alla ine era cambiata: a Sarajevo sono rimasti pochi serbi e quasi nessun croato. L’idea che la gente di tre diverse fedi religiose potesse vivere ianco a ianco in armonia – e che perino l’avesse fatto, un tempo – era qualcosa di profondamente offensivo per i fanatici nazionalisti e religiosi. Bisognava rimediare. Dopo due giorni a Sarajevo, ho preso un autobus con un’altra trentina di poeti bosniaci e sono andato a Mostar, una delle più graziose cittadine dei Balcani, dove una decina di noi hanno tenuto un reading. Siamo partiti da Sarajevo in tarda mattinata e un’ora dopo abbiamo fatto una comoda sosta in un’osteria lungo la strada per mangiare agnello arrosto con grosse fette di uno squisito pane appena sfornato. Eravamo tutti di buonumore, perché la compagnia era ottima e il tempo splendido. Siamo arrivati in albergo a Mostar dopo aver viaggiato per alcune ore lungo una strada stretta e tortuosa a due corsie, attraversando un paesaggio di montagne, iumi e gole di una bellezza sconvolgente. I bosniaci con cui ho parlato non avevano grandi speranze per il futuro. In teoria, le due entità politiche (la Repubblica serba e la Federazione di Bosnia Erzegovina) dovrebbero funzionare grazie a una presidenza a tre, in rappresentanza di musulmani, croati e serbi. Ma non funzionano. I serbi non hanno alcun interesse a coordinare le due economie o a collaborare seriamente in qualsiasi altro modo, anche se questo consentirebbe di aumentare le esportazioni dei loro prodotti e attirerebbe capitale straniero. Dopo aver visitato Mostar – una città che alla ine di un altro durissimo assedio era stata divisa in due, tra musulmani e croati – e aver visto le rovine lungo la linea del fronte, mi sono chiesto come potesse funzionare la federazione con una tensione ancora così alta nell’aria. Ho sa-
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puto di madri croate che impediscono ai igli di attraversare il ponte per andare nei quartieri musulmani. Abbiamo tenuto il nostro reading in un teatro del versante croato della città. La sala era piena di giovani. Alla ine delle letture alcuni di loro avrebbero voluto parlare di poesia, ma siamo stati portati via di corsa a una cena in un monastero francescano che ospita una biblioteca del quattrocento. Siccome tra noi c’era un meraviglioso musicista sloveno che ci accompagnava durante i reading e portava sempre con sé la chitarra, lui e un paio di altri si sono messi a cantare canzoni bosniache, e una volta tornati in albergo hanno continuato ino a notte fonda, con un repertorio che è arrivato a comprendere canzoni serbe, ungheresi e russe. Nonostante tutta l’inimicizia e la diffidenza, ogni gruppo etnico in questa parte del mondo ama la musica degli altri. Il giorno dopo abbiamo visitato la parte vecchia della città con il suo famoso ponte distrutto dai croati durante l’assedio e poi ricostruito, e le città orientaleggianti di Počitelj e Blagaj. Con il mare Adriatico ad appena un’ora di distanza, la vegetazione, il sole e l’aria sono mediterranei. Come la Bosnia, l’Erzegovina è di una bellezza straordinaria. Mangiando una trota alla griglia appena pescata, con davanti agli occhi la parete rocciosa da cui sorge il iume Buna e su cui è arroccata la cinquecentesca casa dei dervisci, e ripensando ai ragazzi croati belli e allegri che la sera prima in albergo avevano ballato quasi tutta la notte per festeggiare il diploma, era facile dimenticare il passato sanguinoso della regione e scacciare il pensiero che potesse succedere di nuovo. a Sarajevo sono andato a Belgrado – dov’era appena stato pubblicato un altro mio libro di poesie – con il volo di una linea aerea serba che è atterrato poco dopo le sette di mattina. All’aeroporto ho trovato ad aspettarmi due cugini, gli ultimi membri della famiglia a ricordarsi di me bambino. Da lì abbiamo preso un taxi ino al mio albergo. Nel traico caotico della mattina abbiamo attraversato la parte nuova della città: costruita negli anni cinquanta, di recente è stata abbellita con grandi viali e giganteschi ediici in vetro che ospitano aziende e banche nazionali e straniere, e perino un centro commerciale con negozi come Zara, Esprit e Marks & Spencer. Al di là del iume siamo entrati nella città vecchia, che si estende oltre una serie di collinette ino alla conluenza della Sava con il Danubio. Le mie visite a Belgrado sono rare ma so ancora orientarmi nei suoi quartieri più vecchi, perché ho passato la mia giovinezza a marinare la scuola ogni volta che potevo girovagando per le strade inché non era ora di tornarmene a casa. Ho trovato la città più pulita e più vitale di cinque anni fa. Con la sola eccezione del mio vecchio quartiere: i suoi piccoli condomini signorili di un tempo, sopravvissuti prima ai bombardamenti della seconda guerra mondiale e poi a quelli della Nato, cadevano a pezzi, con le facciate piene di crepe, i balconi precariamente sospesi e i portoni diroccati e
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poco invitanti. Ma, come sempre a Belgrado quando fa bel tempo, alle dieci del mattino i bar erano tutti afollati di gente che faceva due chiacchiere bevendo il caffè. E all’ora di pranzo anche i ristoranti erano già pieni. Dalla mia ultima visita si erano moltiplicati: quelli vecchi erano stati ristrutturati, e quelli nuovi sfoggiavano interni eleganti e moderni. Non sapevo bene cosa pensare, visto che la Serbia, come gran parte dei suoi vicini dei Balcani e dell’Europa orientale, è in condizioni economiche disastrose, con quasi un milione di disoccupati e un altro milione e mezzo di persone che vivono con una modesta pensione, in un paese di appena sei milioni e mezzo di abitanti. In realtà in Serbia c’è un certo benessere: è un paese ricco di terre fertili, industrie e investimenti stranieri. L’arcivescovo Guglielmo di Tiro, che nel 1179 viaggiò ino a Costantinopoli, scrisse che i serbi disponevano di una straordinaria abbondanza di latte, formaggio, burro e carne. E questo è vero ancora oggi. Eppure, ho saputo che per la prima volta nella storia recente ci sono mense per i poveri. Anche la chiesa serba ortodossa sembra avere un sacco di soldi per costruire nuove grandi chiese con il contributo, pare, di oligarchi locali e russi. Ma sono chiese poco frequentate perché i serbi, anche se non gli piace ammetterlo, non sono molto religiosi: vanno ai battesimi, ai matrimoni e ai funerali, ma la domenica stanno alla larga dalla parrocchia. Come in Bosnia – dove con i soldi dell’Arabia Saudita si erigono moschee e, a Sarajevo, perino un albergo di lusso in cui non si servono alcolici – questo tentativo di incoraggiare una maggiore religiosità senza tenere conto delle tradizioni locali è molto probabilmente destinato a fallire. Riguardo alla politica, i miei amici avevano la stessa aria di esasperazione e disgusto che hanno gli statunitensi quando parlano dei politici di Washington. La politica estera del governo di coalizione del presidente Boris Tadić è stata estremamente moderata. Perino nel caso del Kosovo ha cercato di non esasperare la situazione, pur sapendo che se l’avesse fatto avrebbe
raccolto i consensi della maggioranza dei serbi. Il sistema politico è rimasto corrotto e c’è il pericolo – come in molti altri paesi europei – che con il peggioramento della situazione economica gli elettori comincino a dare retta a qualche demagogo nazionalista che farà quello che i demagoghi nazionalisti fanno di solito: trovare un capro espiatorio per i problemi del paese. Se fossi stato a Belgrado all’epoca dell’arresto del generale Mladić avrei visto il lato oscuro della Serbia. Com’era prevedibile, con la sola eccezione degli ultranazionalisti, i partiti al governo erano decisi a consegnarlo al tribunale dell’Aja. Quello che non ci si aspettava era che la gente comune lo difendesse ino a coprirsi di vergogna deinendolo un eroe nazionale, e che le televisioni e la maggior parte dei giornali si dimostrassero così vigliacchi: non solo non hanno ribadito a chiare lettere i suoi crimini, ma hanno concesso tempo e spazio a chi lo difendeva minimizzando e addirittura negando che lui e i suoi soldati avessero torturato e massacrato i loro nemici in Bosnia. I criminali di guerra vivono indisturbati in molte parti del mondo, ma i serbi si fanno addirittura un vanto di difenderli, per il solo fatto che sono serbi, arrivando perino a gloriicare i crimini commessi in loro nome. Con il risultato di apparire agli occhi del mondo un paese di spietati delinquenti. Si tratta di un classico meccanismo di difesa delle società tribali, che scatta quando qualcuno della tribù o della famiglia è accusato di un crimine. “Era un bravo ragazzo”, dice una madre ogni volta che viene arrestato un assassino a Brooklyn o a Palermo. Quando quell’istinto arcaico si mescola al nazionalismo più virulento, il risultato è un essere umano che ammira la boria degli spietati e disprezza l’impotenza dei deboli. E una delle caratteristiche principali di una persona di questo tipo è l’incapacità di vedersi attraverso gli occhi delle sue vittime. I nazionalisti sono sempre insensibili alle soferenze che inliggono. Eppure i serbi dovrebbero ricordare tutte le volte che nella loro storia sono stati vittime. Alcuni di loro se ne ricordano, certo: la
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Pop ISABELLA PANFIDO
è una poetessa veneziana. Questa poesia è raccolta in Casa di donne (Marsilio 2005).
Serbia ha sempre avuto una piccola, coraggiosa e articolata opposizione. E forse sono moltissimi quelli che, in cuor loro, sanno che i serbi non sono angeli. Belgrado è probabilmente la città più multiculturale dei Balcani. Guardando uomini e donne per la strada, si vedono tutti i tipi etnici della vecchia Jugoslavia. Sono belli, gli appartenenti a queste tribù eternamente in guerra. I ragazzi e le ragazze sono vestiti come i loro coetanei di Sarajevo e di New York. Parlano bene e sono tosti e divertenti come tutti i giovani delle grandi città. Eppure, secondo un sondaggio che ho letto mentre ero lì, due su tre vogliono andarsene perché sanno che per loro non c’è futuro dopo la scuola. Non hanno più bisogno di un visto per viaggiare in Europa, ma né loro né i loro genitori hanno abbastanza soldi, e lasciare il paese, come migliaia hanno fatto in passato, non è più un’opzione realistica. Belgrado è un paradiso culinario. La cucina serba mescola inluenze greche, turche, austroungariche e mediterranee, e il menù di un ristorante può essere una lettura più piacevole e intrigante della cronaca politica di un giornale locale. Come chiunque abbia dovuto fare a meno per anni dei piatti preferiti di casa sua, ho fatto il pieno di memorie gastronomiche insieme ad amici con cui ho ricordato altri piatti e altre persone ormai scomparsi. Ho sempre saputo che se non fosse stato per Hitler e Stalin i miei genitori non avrebbero mai lasciato la città in cui erano nati. Certo non sapevano di essere la prima ondata di quella che sarebbe diventata un’immensa migrazione politica ed economica dei serbi nei cinquant’anni a venire. Passeggiando per alcuni quartieri vecchi, e vedendo un palazzo dove mia madre una volta mi aveva portato a trovare qualcuno da piccolo, hanno cominciato a tornarmi in mente nomi di famiglie e di bambini che oggi non ci sono più: sarà per questo che oggi Belgrado mi sembra una città fantasma. Passando accanto alla casa dove sono nato, mi so-
Poesia
Vajont Ore, giorni interi dentro il mare, ogni estate dei nostri pochi anni a provare il brivido dei tui, i giochi, i trucchi di un’acqua onesta, chiara, conidente il bene piccolo di amici da lontano loro della montagna, io del mare. Poi dal sessantaquattro non sono ritornati. Non c’è più stata estate, un’acqua scura e grande li ha traditi. Isabella Panido
no ricordato le scatole di giocattoli che il nostro unico parente facoltoso teneva nella soitta del nostro palazzo dopo che i comunisti lo avevano cacciato dalla sua villa nel 1945. Comprati nei migliori negozi di Londra, Berlino e Vienna prima della guerra, sono rimasti in quella soitta per anni, con grande disappunto di mia madre e di sua sorella, che continuavano a sperare che quell’uomo egoista e sua moglie inalmente rinsavissero e distribuissero i giocattoli ai loro parenti più poveri. “Non sarebbe stupendo se quei giochi fossero ancora lì?”, ho pensato tra me. Forse c’è qualche vecchietto che vive ancora nel nostro palazzo e sa dove sono nascosti e ogni tanto va a fargli una visitina, per stringere tra le mani una di quelle bambole di pezza ammuite, o un soldato inglese in uniforme kaki e pantaloncini di creta, e dare un giro di carica alla scimmietta che ride, con i suoi occhioni intelligenti. Tornando in albergo, mi ha fatto piacere pensarlo. u dic
Scuole Tullio De Mauro
Insegnare con o senza computer Appoggiare o no la spinta a informatizzare e a dotare di nuove tecnologie insegnamenti, scuole, università? La questione è centrale sotto il proilo educativo, ma ha anche evidente rilevanza nei bilanci pubblici e per le industrie del settore. Bill Keller, ex direttore del New York Times, nello stesso giornale (3 ottobre 2011) esamina con simpatia una nuova iniziativa di Sebastian Thrun, esperto di intelligenza artiiciale e robotica e professore a Stanford. Questa grande università primeggia non
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solo nelle solite classiiche internazionali, ma anche in classiiche meno note che guardano soprattutto alla efettiva vita e crescita delle capacità degli studenti dei campus. A Stanford il campus conta molto, ma Thrun ha avviato, con grandi mezzi, un’università a distanza: gli studenti se ne stanno a casa davanti a un portatile, minimi i costi d’accesso, grande la qualità dei docenti e, pare, grande successo. Keller è cauto, come cauto era un precedente lungo articolo di Matt Richtel,
“Grading the digital school: in classroom of future, stagnant scores” (3 settembre 2011). La rassegna di molti casi concreti porta a condividere le conclusioni cui è giunta un’agenzia educativa indipendente, McRel, cioè Mid-continent research for education and learning: l’insegnamento via computer potenzia nel bene e, però, anche nel male quel che accade in una classe. È prezioso per insegnanti bravi, ma in mano ai mediocri ha efetti nulli o perino pessimi. u
JOE SACCO
Ritratto del fumettista con il suo cane
è un autore di fumetti statunitense. Il suo ultimo libro è Gaza 1956 (Mondadori 2010). Questa storia è uscita sul New York Times.
Joe Sacco Il critico letterario Cyril Connolly, avvertendo gli scrittori dei rischi del mettere su famiglia, scrisse IL NEMICO PIÙ OSCURO DELL’ARTE È UNA CULLA IN CAMERA.
Sì, il cane! Esigente e improduttivo, si piazza subito dopo il bambino nella classifica dei più grandi ostacoli alla creatività.
Eccomi qui, per esempio, un fumettista di fama mondiale, che porta a spasso il cane. Uso que sto tem lontano po dalla sc vania peri r pensare al mio pros simo ca polavoro-?
E MI PERMETTO DI AGGIUNGERE…
No, sto calcolando, al minuto, il tempo totale che passerò facendo sfilare questo rompiscatole per le strade del quartiere nel corso dei suoi 15 anni di vita.
MEZZ’ORA AL GIORNO… CIRCA 180 ORE ALLA SETTIMANA, FA… 2.700 ORE… DIVISE PER UNA GIORNATA DI 8 ORE DI LAVORO… 330 GIORNATE…
CON LE QUALI AVREI POTUTO FARE 135 PAGINE!
UNA VASCHETTA DELL’ACQUA IN CUCINA.
L’EQUIVALENTE DI TUTTO UN GRAPHIC NOVEL BUTTATO PER RACCOGLIERE CACCA DI CANE!
TREMO AL PENSIERO DI COME TI GIUDICHERANNO I MIEI BIOGRAFI, CANE.
Andare in cucina per un panino è un’immersione nel senso di colpa: la povera bestia, che non ha niente da fare tutto il giorno, si lagna per avere la tua attenzione.
Forse voi avete un’idea idilliaca del fumettista al lavoro mentre il suo bastardino gli si addormenta sulle pantofole. Ho provato a fare il piccolo Norman Rockwell
GIOCARE CON IL BASTONCINO.
ALTRI DIECI MINUTI DA TOGLIERE AL MIO LAVORO.
poi, dopo che ogni giorno quando arrivava postino il c’era un’esplo sione, hoespulso a vita l’animale dal mio studio .
In breve, per un fumettista serio un cane non è tanto un caldo, affettuoso conforto, ma una sofferenza autoinflitta.
MA LUI RESTA IN AGGUATO FUORI DALLA PORTA. ASPETTA LA MIA PROSSIMA MOSSA.
Come ho fatto a finire in questa storia del cane? Risposta: è arrivato con la mia ragazza. BE’, ANCHE ELENA DI TROIA AVEVA DEI BAGAGLI.
E il rapporto costi-benefici? PROBABILMENTE
LEI MI FA RISPARMIARE UN’ORA AL GIORNO IN CUCINA… QUINDI SE VALUTIAMO UNA RELAZIONE A LUNGO TERMINE, TIPO 30 ANNI…
EHI! MICA MALE, CARA!
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CHIARA DATToLA
Scienza
Come si fa a contare le folle Rob Goodier, Popular Mechanics, Stati Uniti Calcolare il numero di persone presenti a un evento non è facile e spesso entrano in gioco interessi politici o economici. Ma le tecniche di conteggio sono sempre più accurate
novità. Calcolare grandi numeri è diicile perino quando si hanno le migliori intenzioni. Se contiamo tre volte le caramelle contenute in un grande barattolo, è probabile che otterremo tre numeri diversi perché è impossibile contare grandi numeri senza commettere errori.
In movimento l 4 giugno 2011 una folla enorme si è radunata a Hong Kong per una veglia in ricordo del massacro di piazza Tiananmen a Pechino. Ma quanto enorme era questa folla? Secondo alcuni c’erano 77mila persone. Per altri erano 150mila. La prima stima era della polizia, la seconda degli organizzatori dell’evento. Per scoprire quale fosse quella esatta, Paul Yip dell’università di Hong Kong e Ray Watson dell’università di Melbourne hanno fatto due conti: per poter far entrare 150mila persone in quello spazio, ci sarebbero dovute essere quattro persone per metro quadrato, quindi il calcolo non era realistico. In un nuovo studio sulle tecniche di stima della folla, pubblicato sulla rivista Signiicance, i due ricercatori scrivono che si sarebbe trattato di una “densità da sottopalco”. Le dispute sui conteggi non sono una
I
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La modernizzazione delle tecniche per il calcolo della folla è attribuita a Herbert Jacobs, che negli anni sessanta insegnava giornalismo all’università di Berkeley. Dalla inestra del suo uicio Jacobs vedeva gli studenti nella piazza sottostante che protestavano contro la guerra in Vietnam. Il pavimento della piazza era di cemento e aveva un disegno a forma di griglia, così lui contava i ragazzi in alcuni riquadri per ottenerne una media e la moltiplicava per il totale dei riquadri. Ricavò così una regola fondamentale della densità in base a cui in una folla modesta c’è una persona per metro quadrato, in una folla itta ce n’è una ogni mezzo metro quadrato e nella densità da sottopalco di Yip e Watson c’è una persona per un quarto di metro quadrato. Cinquant’anni dopo Jacobs gli strumenti per contare le folle si sono ainati, ma il
principio è rimasto lo stesso: area per densità. Questo semplice calcolo però ha i suoi limiti. Le folle non sono uniformi, in alcuni punti si raggruppano, in altri si sparpagliano. Aziende come la Digital Design and Imaging Service adattano la formula a densità multiple. Nell’agosto del 2010 il network televisivo statunitense Cbs l’ha ingaggiata per contare il pubblico al Lincoln memorial per il comizio del conduttore radiofonico conservatore Glenn Beck. Per ricavare le presenze, l’azienda ha creato mappe in 3D del luogo segnando i probabili punti ad alta densità e li ha confrontati con le foto passate di eventi simili. Il risultato è stata una previsione della quantità di persone che sarebbe stata presente. “Cerchiamo di prevedere dov’è che la folla si radunerà. Se è inverno cerchiamo dei ripari dal vento, se è estate l’ombra”, spiega il presidente Curt Westergard. Le persone si accalcano vicino al palco e ai megaschermi, ma stanno alla larga dagli altoparlanti. Sapendo cosa aspettarsi, Westergard ha scelto il punto di osservazione e, durante l’evento, ha lanciato in aria un palloncino legato a una corda sollevando una serie di macchine fotograiche comandate a distanza che, nel giro di pochi secondi, hanno scattato foto della folla a 360 gradi da varie altezze: 60, 120 e 250 metri. Le diverse altezze hanno consentito di vedere le persone sotto gli alberi e nei posti più nascosti. Dopo aver inserito le foto nel modello in 3D, il suo team ha contato le presenze nei riquadri di una griglia che teneva conto delle diverse densità. Poi per ogni densità (scarsa o intensa) ha moltiplicato il numero di persone in ogni riquadro per il numero di riquadri di quella categoria, arrivando a un risultato di 87mila persone. Le foto funzionano per le folle statiche, ma per contare le persone in movimento bisogna immergersi nella massa, sostengono Yip e Watson. Per farlo hanno escogitato un metodo che sfrutta un punto d’osservazione della folla e un altro che ne sfrutta due. Nel primo metodo, alcuni ricercatori fermi in un punto contano il numero di manifestanti che passano da lì in un dato intervallo di tempo. La misura è più accurata se si hanno due punti di osservazione, opportunamente distanziati, per registrare i passanti e intervistarne alcuni a caso così da sapere se sono passati anche dall’altro (o se pensano di farlo). Secondo Yip e Watson avere più di due punti di controllo farebbe lievitare i costi, ma non garantirebbe una maggiore accuratezza. u sdf
Biologia
BIOLOGIA
Sulle tracce di Luca
Prove tecniche di clonazione
ASTRONOMIA
Cacciatori di asteroidi La Nasa ha individuato 911 dei 981 oggetti celesti larghi più di un chilometro che si stima orbitino vicino alla Terra. Nel 1998 il congresso americano aveva dato mandato all’agenzia di trovare questi potenziali asteroidi “killer”. Nel 2005 ha esteso il mandato agli oggetti sotto i 140 metri (che sarebbero 13.200). Per ora la Nasa pensa di averne individuato il 35 per cento. Gli asteroidi vicini alla Terra individuati dalla Nasa, in migliaia 8
fONTe: JPL/NASA
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Tutti
2 0
Grandi (> 1km) 1980
1990
2000
2010
NASA/JPL-CALTeCH/UMD
Si chiama Luca, Last universal common ancestor. È l’antenato universale comune da cui discenderebbero tutte le forme di vita. Sembra che non fosse un ammasso di molecole, come da molti ipotizzato, ma avesse una struttura complessa. Lo spunto a sostegno dell’ipotesi Luca viene dall’acidocalcisoma, un organello intracellulare. Anni fa la scoperta che l’acidocalcisoma è presente in un batterio ha smentito l’idea secondo cui gli organelli sono un’esclusiva evolutiva degli eucarioti (piante, animali, funghi, alghe). Ora con le sequenze genetiche di un enzima dell’acidocalcisoma di centinaia di organismi è stato disegnato un albero genealogico. Biology Direct spiega che questo organello sarebbe sorto prima che i tre domini della vita – batteri, archei, eucarioti – divergessero. Il che fa supporre che risalga ai tempi di Luca.
Nature, Gran Bretagna La clonazione della pecora Dolly, nel 1996, fu un successo. Ma i tentativi di estendere la tecnica alle persone a ini terapeutici non hanno funzionato. Uno studio su Nature spiega il perché. La clonazione prevede che si rimuova il dna da una cellula uovo e lo si sostituisca con quello della cellula adulta da clonare. Mentre nella pecora e in altri animali l’ovocita così trattato si duplica molte volte, ino a produrre un embrione e poi un animale identico al donatore della cellula adulta, quando si usano le cellule uovo umane il processo si interrompe molto presto. La causa è la rimozione del dna originario dall’ovocita. Infatti, se nella cellula uovo umana si aggiunge il dna del donatore senza togliere quello già presente, il processo di duplicazione si ferma a uno stadio più avanzato. Le cellule così ottenute hanno tre copie di ogni cromosoma, invece delle normali due copie. “Questo lavoro è importante per la medicina rigenerativa e della riproduzione”, scrive Nature, “per la biologia dello sviluppo e per lo studio della pluripotenza delle cellule staminali. e solleva questioni etiche interessanti sulla donazione degli ovociti”. Tuttavia, poiché le cellule hanno più cromosomi del normale, sono anomale, e potrebbero non dare indicazioni aidabili. u
IN BREVE
Astronomia L’acqua della cometa 103P/ Hartley 2 è simile, nel rapporto tra deuterio e idrogeno, a quella degli oceani terrestri. La scoperta sembra confermare che l’acqua sulla Terra sia in parte di origine extraterrestre. L’acqua trovata sui meteoriti studiati inora, spiega Nature, aveva un’altra composizione. Neuroscienze È stata creata un’interfaccia tra cervello e macchina che permette di muovere un braccio meccanico virtuale e di ricevere le sensazioni tattili. Grazie a questa macchina, collegata con degli elettrodi al cervello, due scimmie hanno potuto distinguere al computer tre oggetti visivamente identici, ma con una diversa consistenza tattile. Secondo Nature, lo studio potrebbe avere applicazioni nell’uso dei bracci robotici, prostetici e virtuali.
Davvero? Anahad O’Connor
Il battito del cuore La frequenza cardiaca a riposo dev’essere tra i 60 e i 100 battiti al minuto? La frequenza di un cuore adulto normale a riposo oscilla tra i sessanta e i cento battiti al minuto, ma per alcuni ricercatori bisognerebbe riesaminare il concetto di normalità: in realtà una frequenza a riposo di cento battiti al minuto può essere indice di un rischio maggiore d’infarto e di cardiopatie. Più di novanta battiti– e forse an-
che ottanta – possono essere un campanello d’allarme. In uno studio pubblicato sul Journal of epidemiology & Community Health i ricercatori hanno seguito per vent’anni 50mila persone per vedere se la massima frequenza cardiaca normale a riposo faceva aumentare il rischio di morte per infarto. Tra le oltre quattromila persone morte per cardiopatie, gli autori hanno visto che la frequenza del cuore a riposo era un buon indicatore:
una diferenza di dieci battiti al minuto in più, aumentava il rischio di morire d’infarto del 18 per cento nelle donne e del 10 per cento negli uomini. Un altro studio ha rivelato che frequenze a riposo superiori agli ottanta battiti al minuto sono correlate a un maggiore rischio di obesità e di diabete. Conclusioni Una frequenza cardiaca a riposo superiore a 80 battiti al minuto può essere un indice di rischio. The New York Times
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Il diario della Terra Ethical living Portogallo
Turismo certiicato
Turchia Afghanistan
Philippe
Nesat
Spagna
45,6°C La Mecca, Arabia Saudita
Jova
Argentina 6,2 M
Kenya
Nalgae Thailandia Cambogia Vietnam
Nuova Zelanda 5,8 M
-69,4°C Vostok, Antartide
C. ARCHAMBAULT (AFP/GETTy)
zionale aiuti urgenti per 142 milioni di dollari per afrontare la siccità che ha colpito il nord e l’est del paese.
Ayutthaya, Thailandia Alluvioni Il bilancio delle alluvioni delle ultime settimane in Thailandia, Cambogia e Vietnam è salito a cinquecento vittime (rispettivamente 269, 207 e 24). u Quattro persone sono morte e cinque risultano disperse negli allagamenti che hanno colpito l’ovest della Turchia. Terremoti Un sisma di magnitudo 6,2 sulla scala Richter ha colpito il nord dell’Argentina, senza causare vittime. Una scossa più lieve, di magnitudo 5,8, è stata registrata nel nord della Nuova Zelanda. Cicloni L’uragano Jova ha raggiunto la costa occidentale del Messico. L’uragano Philippe si è formato nell’oceano Paciico occidentale. u Il bilancio del passaggio degli uragani Nesat e Nalgae sulle Filippine è salito a 101 vittime. Siccità Il governo afgano ha chiesto alla comunità interna-
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Vulcani Un’eruzione vulcanica sottomarina si è prodotta a cinque chilometri dall’isola di Hierro, nell’arcipelago spagnolo delle Canarie. Incendi Più di quattrocento pompieri sono riusciti a spegnere un incendio che si era sviluppato nella regione di Leiria, nel centro del Portogallo. Tre pompieri sono rimasti feriti mentre cercavano di spegnere un altro incendio nel nord del paese. Animali In Kenya sono sempre più frequenti le incursioni di animali selvatici nei villaggi per cercare acqua e cibo. Dieci persone sono rimaste gravemente ferite dopo essere state attaccate da ippopotami, elefanti e bufali. Sole L’attività solare ha un impatto sul clima a livello locale, ma non incide sul riscaldamento globale, spiega Nature Geoscience. La fase di bassa attività solare provoca, attraverso le luttuazioni dell’emissione dei raggi ultravioletti, inverni freddi in
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Nordeuropa e negli Stati Uniti e inverni miti nell’Europa meridionale e in Canada. Epidemie Più di 400 persone, soprattutto bambini, sono morte nel 2011 per un’epidemia di encefalite virale nello stato indiano dell’Uttar Pradesh. La maggior parte delle vittime è stata registrata da luglio in poi. u Il nuovo rapporto dell’Oms rivela che per la prima volta il numero di casi di tubercolosi nel mondo è in calo e diminuiscono anche le morti. Ma i progressi sono a rischio perché si riducono pure i fondi. Morti di tubercolosi nel mondo, in milioni
2003
1,8
2010
1,4
Fonte: Oms 2011
Lucertole Anche la lucertola africana Trachylepis ivensii ha la placenta, scrive Journal of Morphology. Dalla dissezione di nove femmine conservate in un museo si è visto che a uno stadio avanzato l’embrione si attacca alla parete dell’ovidotto materno, che ha la funzione di nutrirlo come una vera placenta.
Nel settore del turismo sostenibile non è facile individuare le proposte serie, forse perché sono ancora relativamente poche le persone attente sia all’ambiente sia al benessere delle popolazioni locali. Secondo un sondaggio dell’associazione professionale britannica Abta, racconta l’Independent, solo il 20 per cento delle agenzie di viaggio ha ricevuto richieste o domande sulla sostenibilità delle vacanze. In Gran Bretagna esistono una ventina di certificazioni o riconoscimenti di turismo “verde”: le imprese aderiscono a pagamento a un sistema di regole oppure vengono giudicate in modo indipendente. Non si tratta di ecoturismo, che rimane un mercato di nicchia, ma di turismo sostenibile. Tuttavia, non sempre la certificazione o il riconoscimento corrisponde a un’attività veramente sostenibile. Per fare chiarezza, VisitEngland, l’ente turistico inglese, ha fatto un’indagine, riconoscendo alla fine solo tre programmi: il Green tourism business scheme, il Peak district environmental quality mark e il Bs8901. A livello mondiale non esiste uno standard comune, anche perché i parametri per giudicare un’impresa sostenibile possono variare da paese a paese. Come orientarsi allora? Il consiglio dell’Independent è di considerare la certificazione come un punto di partenza per informarsi. Per esempio si può chiedere al cameriere dell’albergo se i prodotti alimentari sono locali: dalla risposta ci si può fare un’idea dell’impegno ambientale della struttura.
Il pianeta visto dallo spazio
La vegetazione in Australia EArthobsErvAtory/NAsA
Aprile 2011
Settembre 2011
Nord 500 km
Anomalie della vegetazione, % -100 u Con l’aumento delle temperature, la primavera e l’estate australiane annunciano una stagione d’incendi. Alla ine del 2010 e all’inizio del 2011 la Niña ha riversato piogge torrenziali sul continente. La terra umida ha favorito la crescita dell’erba che ora, però, si sta seccando. A nord sono già bruciati più di 150mila chilometri quadrati di praterie. Queste mappe della vegetazione mostrano l’aumento dell’erba e di altre piante durante l’autunno (aprile) e il ritorno a condizioni più vicine alla norma in primavera (settembre). Le immagini sono state ri-
cavate dai dati dell’Advanced very high resolution radiometer a bordo del satellite Noaa-18 Poes e indicano le anomalie nella crescita della vegetazione ad aprile e a settembre rispetto alla media di ognuno dei due mesi. La misurazione mostra non solo la densità e la rigogliosità delle piante, ma anche l’estensione della fotosintesi in atto. In aprile, con l’erba che cresceva itta, l’Australia era molto più verde del solito, soprattutto all’interno. A settembre la crescita era ancora alta, ma in molte zone la situazione era più vicina alla media. Cos’è successo
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100 Le due immagini indicano le anomalie nella crescita dell’erba in Australia. Le piogge ne hanno favorito l’aumento, ma ora che l’erba comincia a seccarsi si annuncia un’estate ad alto rischio di incendi.
u
in inverno a tutte quelle piante? Ci sono ancora, ma adesso il satellite rileva meno foglie verdi e meno fotosintesi. E tutto questo materiale vegetale morto o secco brucia facilmente. Le autorità hanno avvertito gli australiani che quest’anno il rischio d’incendi nelle praterie è altissimo. La quantità di materiale iniammabile potrebbe essere la più alta degli ultimi trent’anni. Pur non essendo caldi e intensi come quelli boschivi, gli incendi delle praterie si propagano a grande velocità e possono essere imprevedibili, cosa che li rende estremamente pericolosi.
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Economia e lavoro politici europei, per non parlare delle stesse banche, che in molti casi cercano disperatamente di evitare la vergogna del salvataggio statale. Il ministro delle inanze francese François Baroin ha detto che “la reazione, se necessaria, sarà europea e collettiva, non francese”, ma alcuni funzionari europei sostengono che una soluzione comune a tutta l’area sarebbe legalmente impossibile. Gli investitori ritengono che alla fine i paesi della periferia dell’eurozona potrebbero ricorrere al Fondo europeo di stabilità inanziaria (Efsf ), mentre nelle economie più grandi l’iniezione di liquidità potrebbe arrivare dai governi nazionali. “Una possibilità a cui stiamo pensando in Germania”, ha detto il viceministro delle inanze tedesco Jörg Asmussen, “è il ripristino del fondo di salvataggio delle banche Soin”, istituito nel 2008 con una dotazione di 480 miliardi di euro e chiuso alla ine del 2010.
AD VAN DENDErEN (VU/BLoB CG)
Amsterdam, Paesi Bassi. Deposito di oro nella Banca centrale
Quanto costa salvare le banche europee
La situazione della Grecia
P. Jenkins e G. Wiesmann, Financial Times, Gran Bretagna I leader europei hanno capito che bisogna raforzare il capitale degli istituti di credito del continente. L’operazione presenta diicoltà non solo inanziarie, ma anche politiche
A
prescindere da quale sarà il meccanismo scelto dai leader europei per ricapitalizzare le banche del continente servirà molto denaro: quasi 200 miliardi di euro, se gli analisti hanno ragione. Con l’aggravarsi della crisi i governi, le autorità di vigilanza e alcuni banchieri europei si sono convinti che l’unico modo di evitare il disastro sia raforzare il capitale degli istituti. Le inanze pubbliche greche sempre più incerte e il declassamento del debito italiano rendono più probabile la ristrutturazione dei debiti pubblici, che provocherà delle perdite ai possessori dei titoli di stato. Molti addetti ai lavori pensano a una versione europea del Troubled assets relief programme (Tarp), il programma di salvataggio introdotto nel 2008 per le banche statunitensi. Ma quant’è ampio il buco i-
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nanziario? Secondo gli analisti della JPMorgan, ci vogliono 150 miliardi di euro, che salirebbero a 230 se la crisi si aggravasse. La Nomura parla invece di 200 miliardi di euro, mentre la stima della Morgan Stanley è di 190 miliardi. Secondo la JPMorgan, gli istituti più colpiti potrebbero essere la Deutsche Bank (dieci miliardi di euro), Unicredit (otto miliardi) e Société Générale (sei miliardi). Ma se si rapportano le perdite al valore di mercato degli istituti, i casi più gravi sono la belga Kbc, la tedesca Commerz Bank e la britannica Barclays. Come avverrebbe la ricapitalizzazione? Questo è un motivo di forti contrasti tra i
Anche paesi periferici come la Grecia sono nervosi. Atene ha già accesso a dieci miliardi di euro forniti dal Fondo monetario internazionale per le prime quattro banche del paese. Se i detentori di titoli di stato greci dovessero accettare una perdita di valore del 50 per cento, gli istituti avranno bisogno di venti miliardi di euro. Come saranno raccolti i soldi per la ricapitalizzazione? Chi ha partecipato ai colloqui a Bruxelles sostiene che sono allo studio strumenti per evitare che gli stati acquisiscano una partecipazione diretta nelle banche. “Tra le soluzioni c’è l’emissione di azioni privilegiate senza il diritto di voto”, ha scritto la Morgan Stanley in una nota ai suoi clienti. Le banche avrebbero un periodo preissato, per esempio di tre anni, per riacquistare queste quote. In alternativa le azioni privilegiate si convertirebbero in azioni ordinarie. u fp
Da sapere u Il 9 ottobre la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Nicolas Sarkozy hanno annunciato per la ine del mese un pacchetto di misure per le banche e i paesi dell’eurozona in crisi. I due leader politici, che si sono incontrati a Berlino, hanno anticipato che il piano includerà la ricapitalizzazione degli istituti di credito.
L’intervento sarà al centro del prossimo vertice dell’Unione europea il 23 ottobre. u Il 10 ottobre anche il parlamento di Malta ha ratiicato la nuova versione del fondo salvastati dell’eurozona, l’European inancial stability facility (Efsf ). All’appello ora manca solo la Slovacchia, che però l’11 ottobre ha bocciato il nuovo Efsf.
u L’11 ottobre la trojka formata da Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale ha raggiunto un accordo con il governo greco sulle riforme che dovrebbero sbloccare la tranche da otto miliardi di euro dei 110 miliardi di aiuti concessi ad Atene nel maggio del 2010. Bbc
Belgio
CINA
Allarme per il credito
IN BREVE
Stati Uniti Il senato ha approvato una legge per imporre dazi sulle merci di paesi che svalutano la loro moneta. La legge, che sarà votata alla camera dei rappresentanti, ha provocato dure proteste da parte della Cina.
Premiati due
Lo smantellamento di Dexia statunitensi
Thomas Sargent e Christopher Sims hanno vinto il premio Nobel per l’economia del 2011. I due economisti statunitensi, spiega il Guardian, sono stati premiati per i loro studi sugli effetti degli strumenti di politica economica – come il tasso d’interesse e i tagli alle tasse – su variabili macroeconomiche come la crescita e l’inlazione. Sargent e Sims hanno condotto le loro ricerche indipendentemente negli anni settanta e ottanta. Sargent insegna alla New York university, mentre Sims è un docente della Princeton university.
ThIerrY roGe (reUTerS/CoNTrASTo)
Nel tentativo di arginare il crollo in borsa delle quattro principali banche del paese, il fondo sovrano del governo cinese ha cominciato a comprare i titoli di Industrial & Commercial Bank of China, Agricultural Bank of China, Bank of China e China Construction Bank, e prevede altri acquisti l’anno prossimo. L’operazione, scrive il New York Times, ha fatto già risalire le azioni. Dall’inizio del 2011 i titoli bancari cinesi hanno perso un terzo del loro valore. Sui bilanci degli istituti pesano i prestiti concessi agli enti locali cinesi, che nel 2010 hanno raggiunto i 1.700 miliardi di dollari.
NOBEL
Bruxelles, la sede del gruppo Dexia
Il 9 ottobre francia, Belgio e Lussemburgo hanno siglato un accordo per smantellare la banca Dexia, sull’orlo del fallimento. Bruxelles assumerà il 100 per cento della Dexia Banque Belgique e garantirà il 60 per cento delle perdite legate alla bad bank in cui conluiranno i titoli tossici dell’istituto. Alla francia, spiega De Morgen, spetterà il 36,5 per cento e al Lussemburgo il 3 per cento. Secondo alcuni economisti, l’operazione provocherà “il declassamento del debito pubblico dal Belgio”. u
AMERICA LATINA
Lo spettro della recessione Le economie dell’America Latina sono tra le poche a essere scampate alla crisi globale. Nella prima metà del 2011 sono cresciute del 5 per cento. Ma il calo della domanda asiatica e il crollo dei prezzi delle materie prime sollevano lo spettro della recessione anche in quest’area, scrive il Financial Times. Le conseguenze sarebbero la diminuzione del gettito iscale e degli investimenti e l’aumento del debito. Un altro efetto sarebbe la svalutazione delle monete locali, spiega il quotidiano, che favorirebbe paesi esportatori di prodotti manufatti, come Brasile e Messico, ma ridurrebbe il potere d’acquisto di molti consumatori.
Il numero Tito Boeri
21 per cento fallimento greco ricadano solo sui contribuenti e che venga premiato chi ha investito in modo sconsiderato. Lo scambio si preigge di mobilizzare risorse per 54 miliardi di euro dal 2011 al 2014, per arrivare a 135 nel 2020, cioè una parte consistente del debito greco, che è di circa 350 miliardi. Tuttavia il taglio proposto è troppo contenuto per i creditori e troppo oneroso per la Grecia. Secondo molti osservatori, ci vorrebbe un taglio del valore del debito di almeno il 50 per cento. Sarebbero già pronti dei piani di salvataggio per le ban-
che esposte al debito greco, prevedendo un taglio di queste dimensioni. Ma non è detto che sarebbe vantaggioso per la Grecia. Come nota Paolo Manasse su lavoce.info, il dimezzamento del valore dei titoli in circolazione comporterebbe in futuro più costi per il paese debitore, in termini sia di maggiori tassi d’interesse sia di una più lunga esclusione del paese dal mercato internazionale dei capitali. È plausibile quindi che il taglio di capelli si collocherà a un livello intermedio tra il 21 e il 50 per cento. u
Esportazioni di materie prime, in percentuale del pil, 2011 0 10 20 30 ecuador Venezuela Cile foNTe: fINANCIAL TIMeS
Il cosiddetto haircut (taglio di capelli, riduzione del valore del debito) per i possessori di titoli di stato greci dovrebbe essere del 21 per cento secondo il piano proposto dalla Commissione europea e dall’Institute of international inance (Iif ). Con un’economia in recessione (il pil è calato del 5 per cento nei primi sei mesi del 2011), la questione non è più se si debba ristrutturare il debito, ma quanto costerà farlo. Il progetto presentato coinvolge il settore inanziario privato, evitando che i costi del
Perù Argentina Colombia Messico Brasile
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L’oroscopo
Rob Brezsny Chris Richards ha scritto un articolo sul Washington Post in cui si lamenta del numero eccessivo di gruppi musicali dai nomi poco fantasiosi. Al festival di Austin di quest’anno ne ha contati sei che hanno nel nome bear (orso) e due panda. Sette hanno usato gold (oro), compresi i Golden bear. I Marshmallow ghosts erano uno dei sette gruppi con la parola ghost (fantasma) nel nome. Sei in una fase della tua vita in cui per te è particolarmente importante non essere schiava dei cliché, Bilancia, in cui per stare bene è fondamentale trovare un linguaggio originale e scegliere deinizioni uniche e nuovi approcci. Che nome daresti al tuo gruppo musicale?
ARIETE
Se ti riesce, Ariete, questa settimana non frequentare gente noiosa. Cerca la compagnia di persone avventurose che ti costringano sempre a indovinare quale sarà la loro prossima mossa, di ribelli che stimolino la tua fantasia e di amanti del mistero che siano sempre alla ricerca di nuove esperienze e desiderosi di imparare. E non solo: regalati cibi, percezioni e sensazioni particolarmente interessanti. Scegli strade diverse per andare nei soliti posti. In questo momento, il tuo compito principale è coltivare la novità. Sarebbe saggio e divertente mettere da parte le tue vecchie abitudini. Un lusso che meriti e di cui hai bisogno.
ILLUSTRAZIONI DI FRANCESCA GHERMANDI
TORO
“Mio nonno raccontava sempre che vivere è come leccare il miele da un rovo”, ha detto lo scrittore americano di origine slovena Louis Adamic. Sono d’accordo, ma aggiungerei che se trovi un rovo liscio e senza troppe spine, rischi solo quando lecchi vicino alla punta. Finché la tua lingua può percorrere la supericie più liscia sei a posto, non ti tagli e non ti fai male. Secondo la mia analisi, il tuo incontro ravvicinato con la parte ailata di un rovo senza spine si è appena concluso. Adesso sarà tutto più facile. GEMELLI
Sulla copertina dei passaporti inglesi c’è un unicorno incatenato, in piedi sulle zampe posteriori. È uno degli elementi principali dello stemma del Regno
piace e per metà ti annoia? Un’esperienza che per certi versi è positiva e per altri non lo è afatto? Se è così, cosa puoi fare? Forse se agisci subito puoi migliorare le cose. VERGINE
Unito. Mi piacerebbe vederti fare qualcosa di altrettanto stravagante la prossima settimana, Gemelli: portare un tocco di fantasia e di mito in un contesto uiciale. Penso che in questo modo saresti perfettamente allineato con i ritmi cosmici.
Tra non molto avrai buone probabilità di ritrovare qualcosa che hai perso da tempo. Potresti addirittura recuperare una ricchezza che hai sperperato o resuscitare un sogno che avevi dato per morto. A cosa devi questa fortuna? Secondo me l’universo ti sta premiando per il buon lavoro che hai fatto ultimamente prendendoti più cura di quello che è importante per te. Avrai la prova di quanta grazia puoi ricevere quando vivi in perfetto allineamento con i tuoi valori più veri e profondi.
CANCRO
SCORPIONE
Ho trovato due deinizioni dell’espressione americana cameling up. Secondo la prima fonte signiica bere molto prima di andare in un posto torrido in una giornata torrida. La seconda dice che signiica abbofarsi di cibo prima di prendersi una sbornia, perché ti consente di ubriacarti più lentamente. Per quanto riguarda te, Cancerino, propongo una terza versione più metaforica. Ti consiglio di abbofarti dell’amore e del sostegno delle persone a cui tieni di più prima di imbarcarti in un grosso progetto, possibilmente eroico e coraggioso, per migliorare le tue capacità di autoespressione.
Devi piangere ancora una lacrima prima che questa amara commedia ti insegni la sua ultima lezione e ti lasci in pace. Devi fare ancora una promessa a te stesso prima di uscire da questa zona crepuscolare in cui il dolore e il piacere sono così intrecciati tra loro. Devi accettare un’altra piccola resa prima di poter rinascere sul serio. Stai diventando ogni minuto più profondo e meno soggetto alle illusioni. I tuoi tentativi poco convenzionali di trovare la guarigione stanno funzionando.
LEONE
Adoro la voce di Adele. La cantante pop inglese ha uno strumento vocale virtuoso e commovente, tecnicamente perfetto, intrigante, profondo, capace di esprimere una vasta gamma di emozioni, sicuro sia nei toni alti sia in quelli bassi. Eppure non trovo interessanti nessuna delle sue canzoni. Le parole sono banali, le melodie mancano di ispirazione, e gli arrangiamenti non hanno niente di originale. Tutto questi ti ricorda qualcosa della tua vita, Leone? Una situazione che per metà ti
SAGITTARIO
“Molte persone che professano un grande amore per la Bibbia in realtà non l’hanno mai letta”, dice lo scrittore religioso Rami Shapiro. Se l’avessero fatto, saprebbero che Satana non è il tentatore di Adamo ed Eva. Non si fa parola dei re magi che vanno a trovare Gesù né della balena che ingoia Giona. E contrariamente a quanto sostengono gli evangelici come Ayn Rand, la iducia in se stessi non è un tema centrale del libro sacro, e il messaggio predominante della Bibbia è che la bontà si misura in base al bene fatto agli altri. Te lo sto dicendo per aiutarti a capire come non devi comportarti nelle prossime settimane,
Sagittario. Devi veramente sapere molto di più sui testi, le idee, le persone e le situazioni su cui basi la tua vita. CAPRICORNO
“Il compito dell’artista non è quello di soccombere alla disperazione, ma di trovare un antidoto al vuoto dell’esistenza”. Così dice il personaggio di Gertrude Stein nel ilm di Woody Allen Midnight in Paris. Come aspirante maestro di ottimismo, non accetto l’idea che l’esistenza sia intrinsecamente vuota. Vorrei però che ci fossero più artisti spinti dal desiderio di trovare una cura per il malessere collettivo che aligge tutte le epoche storiche, compresa la nostra. In allineamento con i presagi astrali, nelle prossime settimane ti invito ad assumerti questo nobile compito, che tu sia o meno un artista. In questo momento hai più potere del solito di ispirare e incoraggiare gli altri. ACQUARIO
Il whisky Jack Daniel’s viene prodotto nella contea di Moore, nel Tennessee, dove è vietato vendere alcolici nei negozi e nei ristoranti. Quindi nel posto dove lo fabbricano non è possibile berlo. Ho il sospetto che nella tua vita ci sia una situazione simile, Acquario. Forse un tuo particolare talento non viene apprezzato da quelli che ti circondano. Forse un messaggio che stai trasmettendo o un dono che stai ofrendo suscita più interesse da lontano che da vicino. C’è una soluzione a questo problema? Le prossime settimane saranno un buon momento per trovarla. PESCI
Una volta entrati con l’auto nel tunnel di Lærdal, in Norvegia, si dovrà passare un bel po’ di tempo al buio. Si comincia a intravedere di nuovo la luce solo dopo una ventina di chilometri. Usandola come metafora della tua vita in questo momento, ho calcolato che sei intorno al quindicesimo chilometro. Non disperare, Pesci. Ormai la strada è tutta dritta. Pensa a una canzone allegra da cantare a gola spiegata.
Internazionale 919 | 14 ottobre 2011
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BILANCIA
COMPITI PER TUTTI
Veriica questa ipotesi: la risposta a una domanda impellente arriverà tre giorni dopo che avrai celebrato un rituale in cui chiedi chiarezza.
el rOtO, elPaíS, SPaGNa
GarrINcHa, StatI uNItI
L’ultima
dIlem, lIberté, alGerIa
“Ho alzato le braccia per arrendermi, ma mi hanno scambiato per un leader e hanno cominciato ad applaudire”.
barSOttI
darkOW, cOlumbIa daIly trIbuNe, StatI uNItI
la Svizzera vuole vietare il velo integrale. “È sua moglie?”. “No, è un sacco di banconote”.
“No, non faccio parte di Occupy Wall street. Sono qui da tre anni”.
“No grazie, ho già un fossato”.
Le regole Cervelli in fuga 1 Prima di fuggire, assicurati di avere un cervello. 2 Goditi il tuo stipendio in dollari, ma non smettere mai di lamentarti che ti manca l’Italia. 3 Non dire “noi giovani”, soprattutto se hai quarant’anni. 4 Sei partito per non fare la fame? allora sei uno stomaco in fuga. 5 Ok, hai una cattedra a cambridge. resta il fatto che la pasta della mensa è sempre scotta. 6 una volta partito, scoprirai che l’Italia è un posto magniico. Per andare in vacanza. regole@internazionale.it
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L’uomo. La passione. Il sogno. La storia di Guccio Gucci, artigiano dal 1921, a Firenze. Autentica, duratura, rivolta alla perfezione assoluta. La sua dedizione ispira oggi la nostra tradizione. La bellezza di quel che lui ha intrapreso nutre da novant’anni intere generazioni di artigiani. Il suo desiderio di realizzare ciò che dura per sempre continua a stimolare ognuno di noi. Ricordando il passato mentre creiamo il futuro. Imponendoci di tramandare la sua eredità iconica. Ora e per sempre.
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Aldo Gucci, Roma, 1955