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Attivismo per la verità
Vent’anni fa i movimenti di protesta su Internet hanno aperto senza volerlo la strada alla manipolazione on line dei mezzi di comunicazione. La via d’uscita è nel farsi paladini della verità
di Joan Donovan
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Durante la conferenza dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO, da World Trade Organization) a Seattle, negli Stati Uniti, nel 1999, decine di migliaia di contestatori scesero in piazza con striscioni e fantocci per respingere la globalizzazione dell’economia, incontrando una violenta repressione militarizzata. Allo stesso tempo un piccolo gruppo di artisti-attivisti, gli Yes Men, realizzò un sito web parodistico che fingeva di essere quello della WTO. Mascherato con logo e design ufficiali, tramite il sito parodistico gli Yes Man fecero affermazioni critiche riguardo all’organizzazione. La bufala riuscì così bene che gli Yes Men furono invitati a intervenire come WTO a numerose conferenze in giro per il mondo. Mentre questa assurdità continuava a crescere, i visitatori del sito web iniziarono a dubitare di quello che vedevano: che poi era il punto chiave. Resisi conto che potevano portare a termine bufale simili usando imitazioni di siti ufficiali, gli Yes Men costruirono una carriera su queste prese in giro, spacciandosi per National Rifle Association, «New York Times» e Shell, fra i tanti altri. In un inquietante presagio delle campagne di disinformazione attuali, questi attivisti scherzarono sulle gaffe commesse da George W. Bush come candidato alla presidenza degli Stati Uniti su un sito denominato GWBush.com. Per tramite delle parodie, gli Yes Men hanno compreso la potenza di Internet come nuovo terreno interconnesso dove poter combattere battaglie sulla verità. Hanno giocato con l’ambiguità dell’autenticità in tempi in cui la maggior parte degli utenti di Internet era già scettica sui contenuti on line. La tattica di «sabotaggio culturale» (cultural jamming) usata dagli Yes Men prendeva spunto da Guy Debord e dal movimento situazionista degli anni sessanta, che aveva promosso una critica sociale e politica. Negli anni ottanta e novanta il sabotaggio culturale ha unito gli attivisti intorno a una causa comune e a tattiche, come quella di apportare minime modifiche a un annuncio pubblicitario per cambiarne drasticamente il significato. Questa forma di «artivism» [contrazione di «art» e «activism», N.d.T.] è stata sostenuta in particolare da «Adbusters», una rivista canadese che ha condotto numerose campagne contro grandi multinazionali, e che in particolare ha lanciato il movimento Occupy Wall Street nel 2011. Cambiare di poco lo slogan sotto il logo di Nike in just buy it [«comprala e basta», invece dell’originale just do it, «fallo e basta», N.d.T.] era un modo efficace di riorientare le idee del consumatore su che cosa significava indossare il logo di un’azienda come fatto di moda. Fondamentalmente per attivisti come gli Yes Men questa rivelazione forte era la ragion d’essere della bufala. Far vivere al lettore o allo spettatore una dissonanza cognitiva era un’abile strategia che apriva la strada al pensiero critico. Dopo aver aperto questo abisso mentale, doveva cominciare il lavoro vero e proprio: convincere nuove platee di pubblico che quelle grandi multinazionali erano il vero nemico della democrazia e della giustizia. Le tattiche degli Yes Men erano una forma di manipolazione dei mezzi di comunicazione. Per loro e per altri attivisti Internet era un mezzo per trasmettere conoscenza e un modo di contrastare la credulità nella stampa dominante (mainstream) e di chiedere conto alle multinazionali delle loro responsabilità. Ma la genialità di usare Internet come spazio per interventi maliziosi e critici ha funzionato fin troppo bene. Appena vent’anni dopo le aziende tecnologiche hanno creato un ecosistema mediatico che permette a governi, a operatori politici, a chi lavora nel marketing e ad altre parti interessate di esporre costantemente gli utenti di Internet a una pericolosa misinformazione (informazione incorretta, falsa, ma non deliberatamente ingannevole, dall’inglese misinformation) e di indurli con l’inganno ad amplificarla. Ci sono sempre più prove dell’attività di operatori stranieri, opinionisti faziosi, suprematisti bianchi, misogini violenti e imbroglioni che sui social media si spacciano per qualcosa di diverso da ciò che sono per far soldi, guadagnare importanza e orientare l’attenzione dei media. Come siamo arrivati a una situazione in cui le bugie viaggiano più lontano e più velocemente della verità? La risposta coinvolge le promesse delle tecnologie di comunicazione di rete, la nuova economia dei dati e il diluvio sempre più forte della misinformazione strategica redditizia. Dobbiamo ammettere che la verità è spesso noiosa dal punto di vista emotivo e che la motivazione per agire on line tramite, per esempio, la condivisione di un video richiede una combinazione di indignazione, novità e speranza. Ma invece di proporre soluzioni che richiedono modifiche del sistema dei social media, caccia ai bot o insistenza sulla verifica delle identità, per capire come siamo arrivati a questo punto e come uscirne fuori possiamo guardare all’attivismo.
Come è cambiata Internet
In questi giorni è difficile ricordare che c’è stato un tempo in cui quello che accadeva on line non aveva risonanza mondiale. A metà degli anni novanta, ai tempi d’oro di America Online, gli utenti di Internet proteggevano il proprio anonimato con pseudonimi e profili criptici pieni di versi di canzoni. La maggior parte di loro non
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avrebbe mai pensato di poter digitare in sicurezza un numero di carta di credito su un sito web o di condividere informazioni di identificazione personale. Dato che la larghezza di banda era limitata, e tutto correva sul filo del telefono, andare on line significava fermare la «vita reale» e formare legami su interessi comuni o magari per la voglia di giocare a backgammon su Yahoo Games. Su Internet si poteva andare per essere se stessi o qualcun altro. John
Perry Barlow e altri degli entusiasti pionieri di Internet affermavano che era «la casa della mente», dove né i corpi né le leggi avevano molta importanza. Dato che le notizie erano ancora costose da produrre e la loro distribuzione restava in larga misura in mano ai grandi magnati dei media, Internet non era considerato un luogo dove cercare informazioni autorevoli. A metà anni novanta gli organi di informazione stavano ragionando sul «passare al digitale», il che significava soprattutto mettere on line articoli stampati. Non c’era alcun timore diffuso che le cronache locali scomparissero. Semmai sembrava che la comunicazione tramite la rete avrebbe prodotto risultati opposti: ogni persona dotata di una connessione avrebbe potuto scrivere riguardo alla propria comunità e ai propri interessi rivolgendosi al mondo intero, in forma anonima o meno. Spesso scherzando dico che Internet è morta il giorno in cui qualcuno ha trovato il modo di convincere gli utenti a pagare on line per farsi consegnare a casa la pizza. Via via che Internet si sviluppava in un’economia digitale, un’identità verificabile è diventata indispensabile per il flusso del commercio. Ovviamente, la prima merce ampiamente trattata on line è stata la pornografia, e questo illustra un punto importante: spesso non sono le meraviglie dell’innovazione dirompente a guidare il cambiamento sociale, ma l’adattamento tecnologico delle cose più ordinarie e mondane. Mentre la tecnologia si sviluppa, lo stesso fanno gli esseri umani; nell’adottare nuove tecnologie, le persone diventano parte di un circuito ricorsivo che le cambia insieme al mondo che le circonda. Se il torchio tipografico è stato la piattaforma che ha dato origine a una società di lettori, Internet ha fatto di ciascuno un editore. Le prime piattaforme di social networking, come LiveJournal, BlackPlanet, Friendster e MySpace erano come elenchi telefonici self-service; davano la possibilità di condividere storie e conversare. Similmente, le più grandi società tecnologiche di oggi della Silicon Valley sono partite con intenzioni modeste: un desiderio di collegare tra loro persone per ragioni specifiche. Facebook ha costruito la sua base di utenti garantendo l’esclusività. Era social networking, ma solo per i college di élite degli Stati Uniti. Le sue prime versioni includevano anche una funzionalità misogina con cui gli utenti potevano confrontare e votare l’attrattività delle compagne di studi. YouTube ha iniziato come aggiornamento dei videoappuntamenti: lo «you» di YouTube era un invito agli utenti affinché caricassero brevi video in cui descrivevano il proprio partner perfetto nella speranza di trovare il vero amore. Twitter avrebbe dovuto funzionare come messaggistica di testo tra gruppi di colleghi, tuttavia sembra che abbia trovato il suo vero senso solo quando l’élite tecnologica di SXSW lo ha usato per migliorare le comunicazioni in una rete tecnologica ormai densa. In quel contesto, il limite di caratteri di Twitter è stato celebrato come una forma virtuosa di micro-blogging, in cui brevi stringhe di testo erano favorite rispetto alle prolisse diatribe dei blog tradizionali. Ciascuno di questi strumenti si è evoluto non solo dal punto di vista tecnologico ma anche da quello culturale, mentre la società passava da una fase di entusiasmo a una fase di disillusione. Fin dalla loro nascita, incombevano grandi domande su come le aziende dei social media sarebbero diventate finanziariamente redditizie. La ricerca del profitto ha guidato le decisioni sull’espansione della base degli utenti, sulla rielaborazione dei modelli della pubblicità e sulla conversione degli utenti in valore di mercato. La tecnologia della telefonia mobile e la banda larga hanno accelerato le capacità delle aziende tecnologiche di espandere i propri servizi in nuove aree, come la raccolta di una gran quantità di dati. I dati personali sono stati visti come un prodotto del tempo trascorso su questi servizi e, semplicemente interagendo, gli utenti on line si lasciano dietro abbastanza dati residuali da dare energia a un’economia digitale famelicamente tesa ad aggregare e monetizzare ogni click, «mi piace», condivisione o movimento del mouse. I siti di social networking si sono trasformati in social media, il cui modello di business non è più solo connettere fra loro le persone riempiendo quelle pagine di annunci pubblicitari, ma anche connettere le persone ai «contenuti»: informazioni, immagini, video, articoli, intrattenimento. Il risultato è stata un’economia digitale fondata sul coinvolgimento degli utenti, in cui fabbriche di contenuti (content farm) che producono esche per click (click-bait) sono diventate un principio guida dell’economia di Internet. Ma non sono solo i siti di notizie spazzatura a fare soldi. Creando un ambiente ricco di contenuti, le aziende tecnologiche hanno trasformato gli inserzionisti in clienti e gli utenti in vacche da mungere. I dati sui comportamenti possono essere riconfezionati per finalità che vanno dal marketing alla ricerca alla propaganda politica. Modelli di condivisione dei profitti che fanno dell’utente medio un produttore di contenuti hanno generato una cosiddetta cultura influencer, in cui creativi imprenditoriali hanno coltivato reti di follower e sottoscrittori che poi hanno
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monetizzato mediante donazioni, sottoscrizioni o contenuti sponsorizzati. Via via che i dati personali sono diventati una miniera d’oro per le aziende dei social media, l’esperienza vissuta dagli utenti è stata personalizzata per prolungare il tempo che trascorrono sui siti. La conseguenza, come oggi ben sappiamo, è stata lo sviluppo di ecosistemi informativi personalizzati. Gli utenti di Internet non vedono più le stesse informazioni. Invece,
casse di risonanza (echo chamber) algoritmiche danno forma a flussi (feed) di notizie e a cronologie individuali, al punto che due persone sedute l’una accanto all’altra potrebbero ricevere raccomandazioni assai diverse in base ai loro comportamenti on line del passato. Truffe e imbrogli che verrebbero bloccati se si svolgessero in strada, come vendere merce contraffatta o gestire un’azienda di taxi illegale, hanno prosperato on line. Le società tecnologiche si proteggono dall’assunzione di responsabilità affermando di essere un umile insieme di binari su cui l’informazione è trasportata da un posto all’altro. Soprattutto a causa di un iniziale impegno ideologico secondo cui il cyberspazio non era neppure un luogo, queste aziende hanno fatto leva su un miraggio metaforico per cui la giurisdizione sul cyberspazio è incerta e le responsabilità elusive. Mentre studiosi dei rapporti tra genere, razza e tecnologia come Lisa Nakamura, dell’Università del Michigan, Alice E. Marwick, dell’Università del North Carolina a Chapel Hill, e T.L Taylor, del Massachusetts Institute of Technology (MIT), scrivevano continuamente sui pericoli dello spogliare Internet di un’esistenza materiale, politici e autorità regolatorie non sono riusciti a trattare la rete come un luogo in cui si possono fare danni reali.
Tecnologia a due facce
Subito prima del lancio della banda larga, negli anni novanta, un modello iper-locale di giustizia nei mezzi di comunicazione ha preso forma tramite l’uso di Internet da parte di attivisti e militanti. Jeffrey Juris, un antropologo dei movimenti sociali di rete, ha studiato da una prospettiva etnografica i modi in cui il movimento contro la globalizzazione delle multinazionali tra fine anni novanta e primi anni duemila ha usato ogni tecnologia a sua disposizione per organizzare grandi riunioni di protesta contro WTO e Fondo monetario internazionale. Come ha scritto Juris, l’uso da parte del movimento zapatista delle tecnologie di comunicazione di rete è stato il precursore dei grandi raduni di protesta: gli insorti usavano le reti on line per collegarsi a livello globale con altri gruppi di orientamento simile e per comunicare alla stampa internazionale aggiornamenti sulla lotta per l’indipendenza del Chiapas. Per pianificare la protesta contro la WTO a Seattle nel 1999, gli attivisti hanno sfruttato siti web e mailing list per coordinare le loro tattiche e costruire una reciproca fiducia al di là delle frontiere. Juris ha scritto su questa forma di attivismo tramite i mezzi di comunicazione nel 2005, studiando lo sviluppo di un hub di giornalismo partecipativo, o fatto dai cittadini (citizen journalism), che ha scelto di chiamarsi Indymedia.org. Scriveva che «Indymedia ha reso disponibile un forum on line su cui pubblicare file audio, video o di testo, mentre anche gli attivisti hanno creato hub temporanei per produrre informazione alternativa, sperimentare le nuove tecnologie e scambiarsi idee e risorse. Influenzati da anarchismo e logiche di collaborazione in rete peer-to-peer, gli attivisti anti-globalizzazione delle multinazionali non solo hanno assunto le tecnologie digitali come strumento pratico ma le hanno anche usate per esprimere immaginari politici alternativi basati su un ideale emergente di rete». L’insieme di questi strumenti digitali condivisi includeva modelli di siti web da adattare e mettere in rete rapidamente tramite un deposito centralizzato. Lo slogan dei collaboratori di Indymedia è diventato: «Non odiare i media, diventa i media!». È stato questo stesso ottimismo tecnologico a spingere più tardi gli attivisti ad adottare Facebook, Twitter e YouTube, accanto a liste di posta elettronica, gruppi di condivisione di SMS testuali e trasmissioni in streaming dal vivo, durante le cosiddette primavere arabe, il movimento Occupy e le prime repliche di Black Lives Matter. Questi movimenti sociali di rete erano multipiattaforma in vari sensi della parola: esistevano su un’infrastruttura computazionale che considerava se stessa una piattaforma tecnologica dove gli attivisti offrivano una piattaforma politica alternativa orientata alla giustizia sociale. Poiché gli attivisti usavano queste infrastrutture per creare cambiamenti molto diffusi, le aziende tecnologiche hanno concepito una nuova finalità per i propri prodotti. Per sfruttare il momento, aziende come Facebook e Twitter hanno ridefinito i propri prodotti come strumenti per la libertà d’espressione. In questo nuovo schema di marketing, le aziende dei social media erano l’analogo di strade digitali o della pubblica piazza, e i loro prodotti erano inquadrati come sinonimo della stessa democrazia. In verità, la scivolosità del termine «piattaforma» ha permesso ad aziende come YouTube, Facebook e Twitter di aggirare regolamenti e obblighi di pubblico interesse che tipicamente sono applicati ai mezzi radiotelevisivi. Poi, nel 2013, lo scandalo di Edward Snowden ha svelato al pubblico un profondo paradosso: la stessa tecnologia usata dagli attivisti per incitare al cambiamento sociale era usata dai governi per spiare i propri cittadini, e da aziende e responsabili di campagne elettorali per effettuare esperimenti di vario genere. Per inciso, Shoshana Zuboff ha recentemente esplorato questo tema nel suo trattato del 2019 sul capitalismo della sorveglianza. La partecipazione degli attivisti sulle piattaforme tecnologiche riguardava in larga misura l’uso di ogni mezzo necessario per ottenere una società più giusta. Con il cambiamento dei prodotti delle piattaforme è cambiata anche la loro utilità per altri attori, come polizia, agenzie d’informazione, politici e brand commerciali. Espandendo la loro clientela a questo genere di professionisti, le aziende tecnologiche hanno diluito la propria reputazione di sede della democrazia
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digitale e assunto il sinistro carattere di un sistema di mezzi di comunicazione panottico, deciso a fare profitti a discapito degli utenti e di chiunque ne minacciasse la crescita.
Falsi per comunicare
Nel primo decennio degli anni duemila gli Yes Men hanno continuato a fare scherzi con la loro forma di attivismo digitale. Hanno concepito un programma politico di istruzione, in cui molti hanno considerato l’uso delle bufale come meccanismo di protesta sociale. Le bravate hanno indubbiamente impressionato in modo duraturo e memorabile, ma bufale e travestimenti possono essere controproducenti, dando false speranze. A nessuno piace sentirsi imbrogliato o manipolato, e questa tattica ha ricevuto critiche significative da persone che erano realmente vittime delle grandi multinazionali. Nel 2007, per esempio, gli Yes Men hanno finto di essere Dow Chemical in un’intervista per la BBC prendendosi la responsabilità del disastro dovuto a una fuga di gas tossici a Bhopal, in India, e promettendo di pagare 12 miliardi di dollari di risarcimenti. La «notizia» ha suscitato entusiasmi che poi sono mutati in tristezza e delusione quando le vittime hanno scoperto che in realtà Dow Chemical non aveva fatto una cosa del genere. Negli anni novanta non c’erano solo persone di sinistra a realizzare convincenti siti bufala. La sociologa Jessie Daniels ha studiato la miriade di modi in cui i suprematisti bianchi hanno usato siti web «mascherati» per diffamare Martin Luther King Jr. e altri attivisti e gruppi neri, con tattiche simili a quelle adottate dall’FBI per far circolare storie sullo stesso King. Le fazioni dei suprematisti bianchi che agiscono in rete sono consapevoli di non potersi presentare on line per quello che sono. Che mantengano l’anonimato per evitare le stigma sociale o per sfuggire alle investigazioni per crimini di odio, i suprematisti bianchi continuano a vedere nel Web e nei social un’opportunità politica per reclutare nuovi adepti. Come risultato hanno innovato le strategie per nascondere le loro identità on line in modo da massimizzare il danno reputazionale di chi percepiscono come oppositore. Adesso il campo è aperto a ogni gruppo spinto da motivazioni ideologiche. Fra le tattiche c’è assumere l’identità di singoli esponenti politici, la creazione massiccia di falsi account e le molestie a giornalisti e attivisti coordinate mediante piattaforme di streaming, chat e bacheche digitali. Alcuni gruppi hanno automatizzato l’invio di post per ingannare i segnali algoritmici, e sfruttato strumenti pubblicitari a pagamento per attaccare popolazioni vulnerabili. Altri hanno prodotto video e immagini denigratori con tecniche avanzate di falsificazione di immagini e filmati (deepfake). Hanno anche adottato tecniche per influenzare gli algoritmi che stabiliscono le tendenze e per aggirare la moderazione dei contenuti. Pioniere di molte di queste tecniche, come l’uso dei bot, sono state le agenzie di pubblicità, che avevano capito che i dati erano denaro e la creazione di dati falsi sul coinvolgimento degli utenti può generare profitti veri. Oggi creare account fasulli e manipolare il coinvolgimento degli utenti sono mezzi per realizzare altri imbrogli. A differenza degli artisti-attivisti, per cui l’inganno era uno strumento per svelare verità più profonde sullo sfruttamento capitalista, questi impostori si avvalgono dell’occultamento e dello pseudo-anonimato per attaccare giornalisti, politici e utenti. Con Brian Friedberg, mio collega della Harvard University, ho scritto dell’impatto delle «operazioni di influenza pseudo-anonime», in cui attori politicamente motivati impersonano gruppi emarginati, sottorappresentati e vulnerabili per diffamarli, scompaginarli o esagerarne le istanze. Di recente, account gestiti da suprematisti bianchi che affermavano di essere attivisti antifascisti sono stati smascherati come impostori.
Reagire alla disinformazione
Se e quando gli operatori degli account pseudo-anonimi sono scoperti, non c’è una grande rivelazione di una critica sociale o politica più ampia: in genere il loro scopo è indurre i giornalisti a sporcare l’immagine degli oppositori o semplicemente provocare il caos. Questi «disinformatori» si spostano rapidamente sulla prossima potenziale campagna di manipolazione dei mezzi di comunicazione per far portare avanti le loro agende politiche. Estirpare queste tattiche ingannevoli è possibile, ma richiederebbe che le aziende ammettessero che la progettazione dei loro sistemi aiuta e favorisce i manipolatori dei mezzi di comunicazione. In effetti, non abbiamo uguali opportunità nell’ecosistema dei mezzi di comunicazione. L’angoscia di vedere queste tattiche dispiegate più e più volte per diffamare i movimenti per la giustizia illustra che, a lungo andare, sono efficaci solo per chi vuole ottenere guadagni a breve termine rispetto a sicurezza e fiducia sul lungo periodo. Molte persone credono di poter riconoscere notizie false e propaganda, ma la realtà è che assai difficile, perché il modello stesso dei social media e gli incentivi a introdurre misinformazione sono sbilanciati a favore dei disinformatori. In un ambiente in cui nuove affermazioni viaggiano lontano e veloce, la verità è pesantemente in svantaggio. La reticenza delle aziende tecnologiche a gestire le guerre informative che vanno in scena sulle loro piattaforme porta la società nel suo complesso a pagarne il prezzo. Gli organi di informazione, e anche i singoli giornalisti, stanno investendo una gran quantità di risorse per combattere il
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problema. Esperti di sicurezza nazionale e centri di ricerca accademica di tutto il mondo stanno creando programmi di moderazione dei contenuti per monitorare i social media. Ma anche gli attivisti, che da tempo subiscono i danni di copertura di una stampa male informata, sono ora chiamati a difendere la loro stessa esistenza dagli impostori: i disinformatori che stanno deliberatamente rubando l’autorità morale e la fiducia che gli attivisti hanno costruito in anni e anni di coinvolgimento digitale. Per chiunque tenga ancora profondamente alla verità, e all’accesso delle persone alla verità, reagire implica dismettere l’ideologia secondo cui le piattaforme tecnologiche sarebbero la democrazia in azione. Sono invece passate dal connettere persone a persone a connettere persone all’informazione, spostando l’asse del potere verso quei gruppi che hanno la maggior parte delle risorse. Si tratta, inoltre, di attività fondamentalmente economiche che hanno cambiato scala senza alcun piano per mitigare i propri effetti dannosi sulla società.
Paladini della verità
Riprogettare i social media affinché assicurino un’informazione tempestiva, locale, rilevante e autorevole richiede un impegno a progettare la giustizia, che vede la tecnologia non come uno strumento neutrale ma come un mezzo per costruire il mondo che vogliamo. Secondo le ricerche di Sasha Costanza-Chock, studiosa della comunicazione al MIT, il processo di progettazione deve aderire a un’etica che dica: «Niente su di noi senza noi». Per esempio, non ci sarebbe alcuna responsabilità di chi usa tecnologie di riconoscimento facciale senza l’attivismo di gruppi come Algorithmic Justice League, le ricerche di AI Now, il lavoro politico dell’American Civil Liberties Union e le tante persone comuni che esprimono apertamente il loro appoggio on e off line. Gli attivisti sono visionari, nel senso che vedono le cose non solo per come sono ma per quello che possono diventare. Nei primi anni duemila hanno trasformato la tecnologia in modi nuovi ed entusiasmanti, ma quell’era è finita. Non possiamo continuare a farci travolgere dalla «tecnonostalgia» per ciò che è stato, o che sarebbe potuto essere. Se vogliamo sopravvivere al nostro ecosistema malato dei social media, la verità ha bisogno di paladini.
L’autrice
Joan Donovan è adjunct professor alla Harvard Kennedy School e direttrice di ricerca dello Shorenstein Center on Media, Politics and Public Policy. Questo articolo è dedicato alla memoria, alle ricerche e all’attivismo di Jeffrey Juris (1971-2020).
Le Scienze, n. 629, gennaio 2021