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Più disattenzione che mala fede dietro la diffusione di fake news

La maggior parte delle persone che condivide notizie false o fuorvianti sui social media non lo fa quasi mai per faziosità o con intenzioni distruttive, ma perché si affida all’emozione e non si ferma a chiedersi se sono vere e se provengono da una fonte affidabile. A dimostrarlo è una ricerca che suggerisce anche un nuovo modo – oltre alla verifica dei fatti, che rimane fondamentale – per limitare la diffusione delle “bufale”

di David Rand e Gordon Pennycook

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Fake news e disinformazione sono una fonte di preoccupazione costante fin dalle elezioni presidenziali statunitensi del 2016. Malgrado la maggiore consapevolezza e un (apparente) interesse delle aziende di social media, il problema sembra tutt’altro che risolto. Basti pensare alla proliferazione di contenuti falsi su COVID-19, con la loro probabile influenza sulla scelta di vaccinarsi, e alla disinformazione sulle elezioni presidenziali del 2020, che ha avuto quasi certamente un ruolo cruciale nell’assalto a Capitol Hill dello scorso 6 gennaio. Si è tentati

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di concludere che viviamo in un mondo di “post-verità”, in cui la gente è incapace di distinguere fra la finzione e i fatti, o li ignora volontariamente e condivide falsità in piena consapevolezza. Non è una questione oziosa: se fosse davvero così, le nostre democrazie sarebbero in serio pericolo, e forse l’unica opzione che avremmo sarebbe quella di accettare (e perfino sollecitare) una stretta censura delle falsità da parte dei gestori dei social media.

Un problema di attenzione

Per fortuna un nuovo lavoro pubblicato su “Nature” mette in discussione questo modo di vedere. La nostra ricerca mostra che la maggior parte di noi non desidera condividere informazioni inesatte (anzi, l’80 per cento circa degli intervistati considera molto importante condividere on line solo contenuti corretti), e in molti casi nel complesso riesce a distinguere abbastanza bene le notizie fondate da quelle false e fuorvianti (iper faziose). Stando ai risultati ottenuti, non sono le scelte di parte a impedire di distinguere i contenuti veri da quelli falsi, ma piuttosto la solita vecchia pigrizia mentale. Si crede nelle fake news quando ci si affida a intuizioni ed emozioni personali, e quindi non si riflette abbastanza su ciò che si sta leggendo: un problema più che esacerbato dai social media, che si scorrono in fretta e distraggono con una valanga di informazioni e notizie mescolate a contenuti emotivamente coinvolgenti (foto di bambini, video di gatti eccetera). Ciò significa che l’ascesa della disinformazione on line non è un problema dovuto a un cambiamento nel nostro atteggiamento nei confronti della verità quanto a un cambiamento più sottile nell’attenzione che le accordiamo. C’è una forte disconnessione tra ciò che la gente crede e ciò che condivide. Per esempio, in uno studio è stato chiesto ad alcuni partecipanti di condividere vari titoli di notizie, e ad altri di giudicarne l’accuratezza. Abbiamo scoperto che i titoli infondati condivisi erano il 50 per cento in più dei titoli falsi valutati come corretti. La domanda quindi è: perché? La risposta è ovvia: le piattaforme dei social media sono, appunto, sociali. Concentrano la nostra attenzione sugli aspetti sociali: quante interazioni otterranno i nostri post, quanto piaceranno ai nostri amici, cosa lasciano trapelare della nostra identità, e così via. Queste considerazioni possono distrarci al punto da tralasciare di soffermarci sull’attendibilità della notizia prima di condividerla, un atteggiamento senz’altro favorito dagli algoritmi che governano questi mezzi di comunicazione, che sono ottimizzati per ottenere una massima interazione e non certo la verità.

Un approccio alternativo

Ma c’è una buona notizia! Se l’impostazione attuale dei social media distoglie l’attenzione dalla correttezza, allora un’impostazione alternativa potrebbe riportarla verso la

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verità. Con un approccio di questo tipo faremmo un passo cruciale nella lotta alla disinformazione on line. A differenza dei consueti approcci educativi e della verifica dei fatti (che, sia chiaro, resta fondamentale), degli stimoli che spingano a riflettere sull’attendibilità di una notizia non richiedono specialisti di verifiche al passo con il flusso continuo di menzogne prodotte. Né serve che gli utenti investano

grandi quantità di tempo a interagire con strumenti educativi: per spostare l’attenzione sulla veridicità può bastare una semplice domanda. Abbiamo effettuato un ampio esperimento pratico su Twitter, che è consistito nell’inviare un semplice richiamo alla correttezza a oltre 5000 utenti che di recente avevano condiviso link da Breitbart o Infowars [testate online della destra americana estrema o alternativa, NdT.]. Il nostro intervento non forniva informazioni nuove, né invitava esplicitamente a essere più accurati o attenti alle fake news. Ci siamo limitati a chiedere l’opinione dei partecipanti sulla correttezza di una singola notizia non politica. Il nostro scopo non era ottenere una risposta, ma ricordare con la domanda il concetto di correttezza delle informazioni (che, come abbiamo visto, la grande maggioranza delle persone ritiene importante). Abbiamo scoperto che quella sola domanda migliorava la qualità media delle fonti condivise successivamente dagli utenti su Twitter. Per esempio, nelle 24 ore successive riduceva la frazione di retweet contenenti link a Breibart, e aumentava la percentuale di retweet a siti come il “New York Times” e la CNN. Altri esperimenti basati su sondaggi hanno evidenziato risultati simili. Per esempio, in uno studio di approfondimento con i ricercatori di Jigsaw, una filiazione di Google, abbiamo scoperto che anche molti altri approcci volti a spostare l’attenzione sulla correttezza aumentano in modo efficace la qualità delle notizie condivise. L’effetto vale anche per notizie su COVID-19 e per quelle politiche, e riguarda tanto i democratici quanto i repubblicani. È evidente che i richiami alla correttezza non basteranno a risolvere il problema della disinformazione. Ma rappresentano un nuovo strumento su cui le piattaforme possono far leva per giocare d’anticipo invece di limitarsi al ruolo di inseguitori verificando i fatti solo dopo che sono stati condivisi, o censurandoli solo quando la situazione è sfuggita di mano. Per questo nuovo approccio serve però un nuovo modo di considerare il problema, accettando il fatto che è legato alla psicologia degli utenti, spesso spinta alle sue estreme conseguenze proprio dai social media. Ciò significa che per progettare interventi efficaci bisognerà tenere conto della psicologia e delle scienze cognitive. I richiami alla correttezza dell’informazione non valgono solo per i social media. Anche organizzazioni civiche e no profit potrebbero applicare questo metodo, per esempio con pubblicità mirate a far comparire i richiami soprattutto a quegli utenti più a rischio di condividere fake news (anziani, o chi frequenta noti siti di disinformazione), un approccio che abbiamo sviluppato in collaborazione con Reset, iniziativa gestita da Luminate. Anche ciascuno di noi, come singolo cittadino, può contribuire a migliorare la natura del dialogo on line in due modi: diffondendo l’idea che spesso ci disinteressiamo dell’accuratezza delle informazioni, e che è importante fermarsi a riflettere sulla verità di una notizia prima di condividerla; e naturalmente facendolo noi stessi quando condividiamo un contenuto con il mondo. Viviamo in un’epoca in cui la disinformazione è un problema grave che riguarda quasi tutti, anche molti di coloro che (involontariamente) la condividono. Noi stessi, ricercatori che si occupano dell’argomento, siamo caduti nella trappola e abbiamo condiviso contenuti inaccurati senza riflettere. Comprendere che si tratta più di un problema di disattenzione che di un cattivo comportamento volontario, fa apparire meno minaccioso il futuro, ci aiuta a guardare oltre l’illusione che i cittadini dall’altra parte siano sempre solo o stupidi o malintenzionati, e ci guida alla ricerca di soluzioni concrete.

Gli autori

David Rand è docente di gestione della scienza e di scienze cognitive al MIT. Gordon Pennycook è assistant professor di scienze del comportamento alla University of Regina’s Hill/Levene Schools of Business

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(L’originale di questo articolo è stato pubblicato su “Scientific American” il 17 marzo 2021. Traduzione di Antonio Casto, editing a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.)

www.lescienze.it, 12 aprile 2021

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