HARĀM
INDAGINE SULLO SPAZIO SACRO DELL’ISLAM
Politecnico di Milano Scuola di Architettura e Società Tesi di Laurea in Scienze dell’Architettura
Stefano Minocchi Margherita Pascucci Relatore: Marco Stefano Biraghi
A Luca Scacchetti
Indice
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Introduzione
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Ummah
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Premessa
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Sviluppo della moschea nella storia
19 35 41 51 59 73
Macroarea � Macroarea � Macroarea � Macroarea � Macroarea � Macroarea �
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‘asr an-nahdah
Haram
2 3 101
103 117 125 141 147
Elementi concettuali
Harト[ Zulla Kulliyト》 Qibla Dト〉 al-Islト[
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Conclusioni
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Bibliografia
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Harām
I
ntroduzione
Graecia capta ferum victorem cepit, et artes intulit agresti Latio. Orazio, Epistole I, Libro II, vv. 156-157
La Grecia conquistata il barbaro vincitore conquistò, e le arti portò nell’agreste Lazio.
La citazione riportata, estratta e svincolata dall’opera oraziana, interpretata attraverso la sua traduzione esclusivamente letterale, suggerisce un atteggiamento che, ancor prima della sua validazione, fa riflettere sulla potenzialità del contrasto con il diverso. Si deduce quindi come una cultura coinvolta in un primo momento da una sottomissione forzata da parte di una diversa coscienza, riesca, in seconda istanza, ad accrescere un legame di confronto capace di tradurre un’espressione unitaria per entrambe. Di conseguenza, la repressione di tale contrasto risulta sconveniente per entrambe le parti dal momento che la sottomessa riesce a sopravvivere mentre la vincitrice accresce la propria condizione. Questo potenziale ad oggi risulta essere offuscato e interdetto da interpretazioni massimaliastiche e approssimative di diverse realtà sociali che molto
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spesso,erroneamente, vengono lette in maniera semplicistica; l’attenzione dunque si focalizza non tanto sul timore e la paura nelle diversità ma piuttosto su un atteggiamento nei confronti di ciò che non si comprende. Questo tipo di rapporto, in antitesi, contribuisce ad alimentare un’incomunicabilità da entrambe le parti; un fenomeno come l’esclusione sociale favorisce la rivendicazione della propria cultura nel senso di una ricerca del senso di appartenenza. Il caso sicuramente più emblematico è quello inerente alla cultura islamica dal momento che incarna notevoli problematiche sociali relazionate al processo di occidentalizzazione che li coinvolge. In accordo con quanto detto quindi non sussiste la necessità di riflettere su questi processi sociali peraltro già verificatesi nella storia, piuttosto che comprendere l’atteggiamento culturale e sociale che inevitabilmente
Introduzione
è destinato a schierarsi sempre maggiormente da ambo le parti. Si rifletta, quindi, sulla capacità individuale di comprendere in maniera esaustiva una cultura così universale e diversa dalla nostra, svincolandosi dalle tensioni sociali e dalle informzaioni mediatiche, sempre che l’intento sia propositivo ad un confronto. Il vero problema sussiste, molto spesso, nella stigmatizzazione di questa diversità che, in quanto onnicomprensiva di cultura, religione e società, viene tendenzialmente stereotipata a quella interpretazione parziale. Attraverso un’attenta analisi, invece, è possibile intuirne i numerosi punti di contatto che ci accomunano; la storia della Repubblica Marinara di Venezia può esserne l’esempio. Ugo Bernasconi scrive che la Storia è ben la maestra della vita: ci insegna che ad onta de’ suoi ammaestramenti gli uomini ricadon sempre nei
medesimi errori, quegli errori che, secondo il nostro punto di vista, sono stati commessi nella stessa Venezia in occasione della 56esima Biennale d’Arte (cfr. articolo riportato a pagina seguente). In tale occasione l’iniziativa dell’artista Christoph Büchel, in collaborazione con la Comunità Musulmana di Venezia, consiste nell’allestire, nel vero senso della parola, una moschea all’interno della chiesa Santa Maria della Misericordia con l’intento provocatorio di rievocare la profonda influenza della cultura islamica nello sviluppo della coscienza veneziana. Tale gesto, decisamente avventato, a nostro avviso risulta essere particolarmente valido per esplicitare diverse problematiche, come la suddetta necessità di un punto di riferimento per la comunità islamica, il bisogno concreto di uno spazio valido per l’attuazione di un rito collettivo, potenzialità come gli innumerevoli
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punti di confronto e, al contempo, timore, come la reazione del comune di Venezia e della curia. In conclusione si puntualizza che con tale argomentazione non intendiamo giudicare o giustificare nessuno dei due atteggiamenti ma semplicemente ‘provocare’ una riflessione.
Harト[
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Introduzione
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Harām
P
remessa
sacro: - lat. SAC-RU(M) osc. sak-ra, sak-oro, umbr. sak-ra, sakre; da una radice indo-europea SAC-, SAK-, SAG- attaccare, aderire, avvincere; onde ne avrebbe il senso di cosa avvinta alla divinità. |cfr. lit. seg-ti attae|(Cfr. sagace, sago, sancire, santo). Ma potrebbe anche con altri riferirsi anche alla radice del sscr. sac-arte seguire, accompagnare, e talvolta nel Rigvèda adorare, specialmente sotto la forma dialettale ed accessoria sap-ati, che vale servire, onorare (una divinità): al modo stesso che il lat. obsequiàre ossequiare trae da sèqui seguire.
A partire dall’etimologia della parola è facile intuire la complessità legata al concetto del sacro capace di essere inteso come elemento unificante e fondamentale nello sviluppo di qualsiasi società e cultura. Per comprenderne veramente l’essenza è necessario, come suggerisce lo stesso Rudolf Otto, intendere il termine nella sua più essenziale connotazione; risulta quindi necessario identificare il concetto come ciò senza cui la religione stessa, ogni religione, non sarebbe, senza per questo elevarlo ad unica ragione di esistenza della stessa. “Il sacro” costituisce l’intima essenza, momento centrale e costitutivo dell’esperienza religiosa ma Mircea Eliade spiega come l’eterogeneità di questi ‘fatti sacri’, conturbante all’inizio, diventa a poco a poco paralizzante. Perché si tratta di riti, miti, forme divine, oggetti sacri e venerati, simboli, cosmologie, teologumeni, uomini consacrati,
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animali, piante, luoghi sacri, eccetera. E ogni categoria ha una morfologia propria, densa, ricca e lussureggiante. Ci troviamo così di fronte a un materiale documentario immenso ed eteroclito. Astraendo il concetto del sacro dunque risulterà affine sia a caratteri di origine razionale di spiegazione concettuale e metafisica, sia a elementi irrazionali, ineffabili e incomprensibili propri della coscienza individuale; tali elementi si comprendono nella categoria, specifica, caratterizzante e irriducibile razionalmente, del numinosum. Il numinoso incarna l’esperienza peculiare, extra-razionale, di una presenza invisibile, maestosa, potente, che ispira terrore ed attira: tale esperienza costituisce l’elemento essenziale del sacro e la fonte di ogni atteggiamento religioso dell’umanità e si esplica all’interno della coscienza individuale come sentimento creaturale, d’impotenza, d’inettitudine umana di fronte
Premessa
all’immensità del tutto. Secondo la definizione il sacro è mysterium tremendum et fascinans e risiede nell’animo umano come potenzialità del proprio sorgere. Citando Galimberti, si evince come dal sacro l’uomo tende a tenersi lontano, come sempre accade di fronte a cio che si teme, e al tempo stesso ne è attratto come lo si può essere nei confronti dell’origine da cui un giorno ci si è emancipati. Questo rapporto ambivalente è l’essenza di ogni religione che, come vuole la parola, recinge, tenendola in se raccolta (re-legere), l’area del sacro, in modo da garantire ad un tempo la separazione e il contatto, ... . Di fatto, la religio, ha la prima finalità di legare insieme gruppi di uomini in funzione del loro riconoscimento nella comune individuazione del sacro e del profano e, all’interno della coscienza dell’uomo religioso, di uno spazo relazionato alla quotidianità e di uno spazio separato, altro, saturo di
essere in quanto lascia intravedere la la presenza di Dio. In un certo senso la religione rappresenta la difesa dell’uomo religioso che fugge dai sentimenti del numinoso e dalle incomprensioni delle ierofanie che, in quanto senso della presenza o della manifestazione di qualcosa di ‘sacro’ che l’uomo avverte o può avvertire, a qualsiasi tipo di religione appartenga, esprimono una modalità del sacro e un momento della sua storia. Questo senso di appartenenza, visto piu come un rifugio ed una razionalizzazione del numinoso, ha comportato, secondo la teoria di ‘Sacro’ e ‘Profano’ di Eliade, alla mistificazione di una religiosità solipsistica e quindi al camuffamento del sacro in profano secondo un processo di desacralizzazione del mondo, della vita e della storia che oggi trionfa. Così, nell’esperienza dell’uomo non religioso, il paese natale, il luogo dei
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primi amori, oppure una strada o un angolo della prima città straniera visitata in gioventù e quindi, nella sua collettività, un certo paesaggio che fa da sfondo alla figura urbana (visibile solo in certe giornate in cui l’aria è più limpida), la piazza centrale più rappresentativa, l’immagine di un fiume e una serie di edifici dotati di particolare forza evocativa, le porte e le mura, una fontana o un monumento, continuano ad essere occasione della manifestazione del numinoso, di un’intima discontinuità spaziale. L’uomo religioso, al contrario, sacralizza lo spazio attraverso un rito che non per forza esprime una spazialità sacrale tanto da peter essere perfettamente scindibile dalla stessa. Spiritual Devices, la ricerca di Matilde Cassani, esprime proprio tale peculiarità del rito che, da un lato riesce, all’interno di una collettività, a rendere sacro qualsiasi spazio ma allo stesso tempo può essere ridotto ad un puro strumento.
Harām
Il rito in tal senso diventa esclusivamente una legittimazione di quello spazio sacro e non la sua vera essenza. L’Islam, al tempo stesso cultura, religione e società, comprende tale ambivalenza e la risolve attraverso l’individuale spiritualizzazione del culto. Il sacro rappresenta la volontà di Allah e l’uomo islamico, in quanto sottomesso e sacerdote di se stesso, ha la possibilità di sacralizzare un qualsiasi luogo attraverso il mezzo della religione, grazie ad Allah. Il rito prevede l’orientamento nei confronti della Mecca e la consacrazione del terreno, in segno di devozione nei confronti della divinità. Con tale considerazione non si vuole denunciare la mancanza della necessità di riconoscimento e rifugio della società in uno spazio sacro ma, piuttosto, la necessaria iteriorizzazione dello stesso.
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Premessa
Spiritual Devices, 2011; Matilde Cassani
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Harト[
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Harām
U
mmah
ummah: Nel Corano, la comunità dei credenti. Il termine, usato anche in epoca preislamica, con vari significati, da quello religioso a quello politico-ideologico, indicò la prima comunità islamica costituitasi ai tempi del Profeta a Medina, da cui il senso più generale di comunità islamica universale (ummat alislāmiyya), che comprende cioè tutti i paesi in cui vige la legge islamica. Con la nascita degli Stati-nazione anche nell’area mediorientale alcuni movimenti politici hanno utilizzato il termine u. per tradurre il concetto di nazione, da cui ummat al-‘arabiyya, «comunità araba», nel senso di nazione araba.
Quando intorno al 610 Muhammad inizia la propria predicazione alla Mecca, la penisola araba si trovava circondata dall’impero bizantino e da quello sassanide. L’inospitale terra del deserto accoglieva confederazioni di tribù nomadi ( a’ràb ) e seminomadi in totale condizione autonoma, collegate esclusivamente da un’intensa rete di commerci. La frammentazione e la parcellizzazione dei territori e delle società, contrastavano con la salda consapevolezza della tradizione di indipendenza delle culture preislamiche, che, tradotta da un forte senso di appartenenza, giocava un ruolo fondamentale all’interno dei rapporti fra le diverse tribù, viste come la patria del singolo individuo, in opposizione al sentimento di una comune coscenza nazionale, propria degli ‘agàm ( persiani o non-arabi ). In questa situazione la Mecca, grazie alla sua strategica posizione situata fra le due più importanti
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vie del commercio dei due imperi, aveva assunto un ruolo centrale dal punto di vista politico-economico e, insieme alla sua crescente prosperità economica, aquisiva sempre più rilevanza anche nell’ambito religioso; la ka’ba, camera litica a forma di cubo, rappresentava già in epoca preislamica un luogo di culto per le tribù pagane. Le vie del commercio diventarono così, luoghi di confronto fre le grandi idee che cirolavano nel mediterraneo; rabbini, commercianti ebrei, asceti, preti, carovanieri cristiani venivano a contatto nelle strade, nelle oasi e negli accampamenti. E’ in quest’ambiente che Muhammad riceve la propria formazione e viene a contatto con le dottrine monoteiste, in antitesi con i culti delle divinità tribali. Le contaminazioni pagane e le dispute fra le diverse sette cristiane, insieme alle forti tradizioni tribali, avevano contribuito alla mancata diffusione della cultura monoteista
Ummah
nei territori dell Hejaz, tanto da alimentare movimenti ascetici che, in completa autonomia ricercavano l’esistenza di un loro unico Dio. La sfiducia nel monoteismo, la pluralità di culture pagane decadenti, la condizione sociale delle tribù incapaci di realizzare quel desiderio di appartenenza, le tensioni, il ruolo sempre più condizionante dell’ascesa della città della Mecca, favorivano la diffusione delle rivelazioni dell’Arcangelo Gabriele confidate a Maometto, motivatrici di un’identità comunitaria. Il ruolo del profeta acquistò con il tempo sempre più seguaci e consenso da parte delle popolazioni tribali, tanto che l’aristocrazia mercantile mecchese fu costretta ad arrendesi al credo nascente per evitare complicazioni economiche; le importanti vie del nord venivano controllate dai medinesi e dal loro capo legislatore, politico e religioso, Mohammad.
“O Re! Noi eravamo un popolo ignorante ed idolatra. Noi avevamo l’abitudine di mangiare anche le carogne degli animali morti e di fare ogni sorta di cose abominevoli. Eravamo ingrati verso i genitori e cattivi nei confronti dei nostri vicini. I più forti si arricchivano a spese dei più deboli, fino al momento in cui, alla fine, Allah suscitò un profeta per riformarci. A tutti sono note la sua origine, la sua integrità, la sua dirittura e la sua pietà. Egli ci ha esortato ad adorare il Dio unico, Allah, e ad abbandonare il culto degli idoli e l’adorazione delle pietre. Egli ci ha ordinato di dire sempre la verità, di mostrarci sempre degni di fiducia, di rispettare le obbligazioni verso la famiglia, di essere accomodanti con i vicini. Egli ci ha insegnato ad evitare ogni cosa impura e a non spargere il sangue. Egli ha interdetto ogni indecenza, la menzogna, l’appropriazione delle sostanze degli orfani, la calunnia sulla castità delle
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donne ... Così, noi abbiamo creduto in lui, l’abbiamo ascoltato ed abbiamo seguito il suo insegnamento.” Nell’estratto del discorso di Giàdar, tenuto al cospetto del tribunale del Negus contro le persecuzioni dei mecchesi nei confronti dei musulmani, sono espresse le risposte e le promesse di una dottrina, capace di risollevare i territori arabi dall’insensatezza. Con le sua erudizione Maometto costituì l’elemento catalizzatore che avrebbe liberato energie latenti, presenti ma incapaci di indirizzarsi unitariamente; fu l’uomo giusto, giunto al momento giusto. E’ molto importante ricordare che Maometto fù soprattutto un genio attivo, un mistico che seppe anche rimanere un realizzatore eccezionale, un vero capo di popolo. Questo carattere pratico del fondatore, pervade ancora oggi l’Islam; l’Islam infatti ignora il contrasto così vivo tra i cristiani e i buddisti, tra la
Harām
vita attiva, in cui il fedele si trova immerso tutti i giorni, e la così detta vita santa, modello difficilmente realizzabile, di un’esistenza ascetica separata dal mondo, dalle sue lotte e dalle sue passioni. Il musulmano, seguendo l’esempio del suo profeta, che fu commerciante, guerriero e ebbe svariate mogli, non soffre invece questa contraddizione e affronta il suo destino più serenamente, nella convinzione che gli atti della vita di tutti i giorni, abbiano in se stessi un potere santificante. Sono da queste premesse che si svilupperà la cultura, la società e la religione islamica, sancita dai cinque punti fondamentali dell’insegnamento del profeta, quali la professione della fede, la preghiera rituale, il digiuno, l’elemosina obbligatoria, il pellegrinaggio alla Mecca; atti questi che miravano alla costruzione di una coscenza individuale e successivamente di un ideale comunitario.
I successori di Maometto conquistarono la Siria, la Palestina, la Persia, l’Afghanistan, il nord Africa, la Spagna fino alle porte della Francia, mentre ad est si estesero fino all’Asia centrale e all’Oceano Indiano, sempre facendo affidamento su un unico insegnamento, il Corano. In poco tempo la penisola araba, da culla di tribù pagane, vide sorgere l’impero islamico sotto una spinta unitaria disarmante, generata da un unico credo e motivata da quel senso collettivo d’incompletezza e di appartenenza.
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foto di Harsh Singh Lohit
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Harām
S
viluppo della moschea nella storia
“Studiare la storia significa abbandonarsi al caos, ma nello stesso tempo conservare la fede nell’ordine e nel senno.” H.Hesse, Il gioco delle perle di vetro
La mappatura che segue intende consentire una comprensione globale dello sviluppo e della reiterazione di principi di organizzazione spaziale ed elementi ricorrenti che hanno caratterizzato la storia della moschea subendo un’evoluzione nei secoli. Attraverso la rilevazione e comparazione dei caratteri di ogni edificio si vuole determinare la prevalenza e rilevanza degli elementi ricorrenti nonchè il carattere regionale/geografico della loro organizzazione spaziale; l’intento è quello di giungere alla ricostruzione di un quadro generale, facendo affidamento sulla comprensione dei caratteri del singolo e, simultaneamente, di ogni singolo esempio. Da questa mappatura emerge la possibilità di delineare dei confini regionali attraverso la localizzazione delle diverse tipologie di moschee; è osservabile tuttavia anche una diffusione di alcune tipologie
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culturali oltre i confini territoriali, dato significativo che esprime identità e fervore culturale all’interno dell’intero mondo musulmano.
edirne istanbul manisa
cordoba siviglia rabat
fez
algeri tlemcen
amasya konya
beysehir
tunisi kairouan mahdia sfax
dirvigi
damasco gerusalemme
marrakesh tinmal
tabriz
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samarra baghdad kufa
il cairo
medina mecca chinguetti timbuktu
agadez san’
djenne bobo-dioulasso
zaria
larabanga
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varamin dÄ mghan zavareh
nayin isfahan yazd basra
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balkh
turpan
Infografica xi’ an
enfasi degli elementi hangzhou quanzhou
tipologia spaziale
I I I Q C A
postila postila con
telok manok
c
upola
postila con cupole
malacca
uattro Iwan
upola centrale
jakarta kudus semarang
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ltro
v
oltate
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Harām
M
acroarea �
L’architettura islamica è caratterizzata da una notevole diversità nel corso del suo sviluppo che intercorre fra il VII ed il XIX secolo attraverso, l’Anatolia, la Mesopotamia, l’intero mondo arabo, gran parte dell’Africa occidentale, la penisola iberica, l’India ed in ultimo l’Estremo Oriente. Questa diffusione promossa dalla politica di conquiste della potenza islamica, con l’assunto che lo stato islamico si costituisce da un punto di vista anzitutto religioso, ha fatto si che il luogo di culto rappresentasse al contempo un baluardo ed un polo magnetico, attrattore di fedeli e
catalizzatore di spazi, forme, elementi e soluzioni architettoniche proprie del luogo in cui si stabilisce, della cultura con cui entra in collisione. É possibile individuare otto tradizioni, in relazione all’area geografica di sviluppo, di cui quattro “maggiori”, più significative nei traguardi spaziali e quattro “minori”, ognuna con le relative varianti. Le maggiori sono quella Araba, quella Iraniana, quella Turca e quella Indiana; le minori quella centro Africana (est/ovest), quella Indonesiana e quella Cinese. La tradizione araba, che vede i suoi riferimenti diretti nei templi mediterranei e della Mesopotamia, si sviluppa in modo altrettanto caleidoscopico nelle regioni ecologiche in cui si stabiliscono popolazioni convertite al culto dell’Islam; si possono individuare infatti delle varianti in Egitto, Iraq, Siria, Maghreb, Arabia Saudita e Spagna, rispetto ad un paradigma,
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quello arabo, della Moschea PanIslamica. Quest’ultima definizione generale vuole inquadrare una tipologia di moschea, nello specifico quella della moschea ipostila, che per un lungo periodo ha rappresentato l’unico modello di riferimento per l’interno mondo islamico. L’acquisizione dello spazio ipostilo come spazio assembleare, di ritrovo e di preghiera, può essere relazionata alla sopravvivenza di antiche forme mesopotamiche e persiane come ad esempio quella dell’apadana della Persia achemènide, una sala assembleare ipostila i cui resti si conservano tutt’ora nel cuore dell’Iran (Persepoli) e che non hanno di certo lasciato indifferenti i primi popoli islamici in cerca di uno spazio che rispondesse a necessità pratiche, quella dello svolgimento della ṣalāt (cinque volte al giorno) in uno luogo al riparo dalle intemperie e dai disagi del clima, con la possibilità
Macroarea �
di conferirvi un orientamento ed al contempo necessità ideologiche, l’affinità cioè nei confronti di uno spazio che fosse traduzione del loro culto egalitario, che veda cioè ogni uomo uguale di fronte a Dio, che con lui instauri un rapporto diretto, ogni musulmano è “sacerdote”. Un’accumulazione e moltiplicazione indefinita di unità spaziali incorniciate da pilastri architravi e dai piani di suolo e copertura, accumulazione che risponde a ragioni strutturali, denunciando l’impossibilità di coprire grandi spazi senza l’intensificazione dell’elemento strutturale. Una tale frammentazione e compartimentazione dello spazio attraverso gli schermi ideali prodotti dall’elemento strutturale, che si tratti di un sistema pilastro-architrave o del sistema ad archi introdotto poi, produce un offuscamento del campo visivo e della linea retta che segna la continuità dello sguardo. Le singole unità spaziali risultano
così ridotte ad entità statiche, quasi opprimenti, la cui riproduzione, poste l’una accanto all’altra, genera un senso di espansione indefinita in senso orizzontale dello spazio. Questo ambiente così caratterizzato produce un’atmosfera di intimità che tende quasi a soggiogare il fedele, con il contributo della penombra, peculiare delle prime moschee, prive di aperture, la cui illuminazione dipendeva dal maggiore o minore ingresso di luce dal fronte aperto sulla corte. Il prototipo dell’assimilazione di questa spazialità è quello della Moschea di Kufa, in Iraq, eretta nel 670, in cui la pianta dell’edificio achemenide viene occupata dalla sala di preghiera ipostila a pianta rettangolare, con l’eliminazione quindi di alcune campate del quadrato achemenide, finalizzata all’introduzione di una corte interna, fonte di luce e aria, luogo di incontro, di preghiera, con un’importanza che
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andrà accrescendosi nel corso dei secoli. In questo, che può essere considerato il primo edificio monumentale prodotto dalla società islamica, regna una percezione spaziale priva di alcuna direzione o assialità, in continua “distensione”. Non solo l’apadana persiana, ma anche la basilica romana, fu riferimento delle popolazioni arabe stanziatesi in Siria. Una sala ipostila rettangolare a tre navate, gerarchicamente strutturata dal rito cristiano, che ne ha stabilito l’orientamento est-ovest, in senso longitudinale, in attinenza alla liturgia processionale, in cui il fedele cristiano procede attraverso la navata centrale in linea con lo sguardo del Cristo Pantocratore, fino all’altare dove si svolge l’eucaristia. La trasformazione attuata dai fedeli dell’Islam, significativa in primo luogo quella nella Moschea di Damasco, effettua una rotazione di
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90 gradi, per motivi di orientamento e altresì per ragioni di spazio, dal momento che i fedeli avevano la necessità di disporsi in file parallele all’asse della qibla, il muro che definisce la direzione della Mecca. Lo spazio si trasforma così in una sala oblunga e poco profonda, con una disposizione delle navate che nega in un certo senso il moto del fedele, trasportato da uno spazio che si “muove” in senso opposto alla direzione di preghiera. Un altro riferimento Cristiano, che contribuì a strutturare definitivamente la disposizione delle colonne nella Moschea PanIslamica, fu quello della Basilica della Natività (533,565) di Betlemme, che presentava le navate orientate verso il luogo di nascita di Gesù Cristo, come anche la Basilica del Santo Sepolcro (328,336) a Gerusalemme, rivolta verso il luogo di sepoltura e resurrezione di Gesù. Allo stesso modo la Moschea di
Al-Aqsa, proprio a Gerusalemme, assimila da questi esempi la disposizione delle navate in direzione perpendicolare alla qibla e al contempo orientate verso la Cupola della Roccia, eretta sul sito del Tempio di Salomone, affermazione monumentale della legittimità della dinastia Omayyade e del trionfo dell’Islam sulla Cristianità. Nell’intento perciò di strutturare questa Moschea come elemento di giunzione ideale tra due dei luoghi più sacri dell’Islam, si conferma la validità della disposizione perpendicolare delle navate, impianto che sarà poi sottoposto a modifiche più o meno rilevanti in relazione ad avanzamento delle tecniche, della consapevolezza strutturale spaziale e decorativa. A partire da questa acquisita spazialità, importante diviene il ruolo delle maestranze al servizio dei califfi, spesso di origine cristiana o indigena, come anche la volontà degli stessi
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committenti, nell’idea di conseguire risultati di sempre maggiore equilibrio tra pianta, alzato, luce e decorazione. La storia antica della Moschea si costituisce infatti anche di addizioni e sottrazioni, sotto forma di elementi che traducono le suddette consapevolezze, lasciando intravvedere una costante vicinanza alle culture architettoniche delle religioni diffuse nelle aree geografiche confinanti o sottomesse all’impero musulmano, con particolare riguardo verso la religione e l’architettura Cristiana. La comparsa infatti della nicchia del mihrab, un incavo semicircolare o poligonale nello spessore del muro della qibla, viene fatta risalire alla costruzione della Moschea di Medina (706-710) sul luogo della casa del profeta Maometto, attuata da costruttori Cristiani Copti. L’inclusione di nicchie con la funzione di contenere icone sacre
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è tipica delle chiese cristiane, un’usanza ereditata dall’antichità Classica, quando l’esibizione delle statue degli Eroi e degli Dei rappresentava un segno di devozione; fondamentale sottolineare l’antropomorfismo di queste icone sacre racchiuse nelle nicchie. Per una religione in cui l’idolatria è proibita, la presenza della nicchia potrebbe voler testimoniare la presenza invisibile del Profeta predicatore, la cui santità fu enfatizzata con l’addizione di una cupola al di sopra della campata del mihrab, collocato in una posizione non centrale rispetto all’impianto della moschea. La reiterazione di questo elemento, la sua sistematizzazione con lo spostamento al centro della parete della qibla e la sua sempre maggiore ornamentazione, hanno comportato ulteriori variazioni nell’impianto, come ad esempio l’introduzione della pianta a T nel periodo di dominazione
della dinastia Abbaside (VIII-XIII sec.), in cui la navata centrale in asse con il mihrab e la campata della qibla risultano ampliate e rialzate a formare una T. La questione della cupola, in quanto traduzione di un principio di centralità e simmetria, è d’uso limitato, di scarsa estensione, in copertura della navata o campata che include il mihrab, in genere al di sopra di esso, a volerne enfatizzare la sacralità. Si produce una tripartizione della sala della cupola, espressione delle esigenze strutturali di questo tipo di copertura, con la conseguente introduzione dell’elemento della “tromba”, una sezione conica che rende possibile la transizione tra la pianta quadrata e la cupola stessa. L’introduzione del muqarnas, elemento decorativo in muratura che riproduce un pattern alveolare, collocabile nell’Iran del IX sec., è consequenziale all’elemento della
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tromba e si sviluppa progressivamente in sostituzione di essa arrivando, in alcuni casi, ad annullare la tripartizione della sala, estendendosi dalla base fino all’apice della cupola e producendo una smaterializzazione chiaroscurale delle superfici. Questo elemento decorativo acquisirà una sempre maggiore enfasi nonchè variazioni in forma e dimensione. Anche il ruolo della facciata della moschea assume una sempre maggiore rilevanza, visibile già nella Moschea di Damasco, in cui la tripartizione della facciata, tipica dei palazzi Bizantini, risulta da un’ordinata composizione con un portale centrale che domina sulle due ali simmetricamente disposte rispetto ad esso e scandite da un doppio ordine di archi. Allo stesso modo lo spazio della corte, coinvolto nell’enfasi assiale sancita dall’enfatizzazione del mihrab, assume una spazialità sempre più autonoma con l’aggiunta di un
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portico rivolto verso l’interno e la costituzione di un fronte proprio della sala di preghiera, il cui fulcro risulta essere il portale, iwan. La solennizzazione di questo elemento è in parte eredità della tradizione Classica e di quella Cristiana, che pongono l’accento sulla composizione geometrica e decorativa della porta principale di accesso agli edifici sacri, ma che nella tradizione islamica si sviluppa in modo del tutto autonomo, tanto da raggiungere una rilevanza spaziale e decorativa, spesso di importanza primaria nell’impianto delle moschee. L’iwan assume una tale autonomia e solennità da essere riprodotto nei palazzi, nelle madrase, sulle mura della città, oltre che nelle moschee, ove assume quasi la valenza di un vestibolo, oltre che contribuire alla solennizzazione del complesso. L’introduzione di uno spazio per l’abluzione ha anch’essa radici “ataviche”, dalla disposizione di uno
spazio ove trovare ristoro nei climi torridi delle zone desertiche, i luoghi in cui sorgono le prime moschee. Da latrina pubblica a vasca per l’abluzione, nella moschea PanIslamica, il sadirvan, viene integrato nella corte in posizione centrale, contribuendo a rafforzare ulteriormente l’assialità dell’impianto. Il progressivo percorso di addizione/ adozione di elementi, orientato sì verso una traduzione di pratiche liturgiche, ma al contempo volto a costituire un’immagine strutturata della moschea con un’attitudine sempre più consapevole, ha fatto sì che anche un elemento quale quello della torre campanaria, diffusa nelle chiese della Siria, suggestionasse il popolo musulmano tanto da favorire l’introduzione del minareto. Si tratta di una costruzione snella e dallo sviluppo verticale accentuato, dalla sommità della quale il Muezzin
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richiama alla preghiera cinque volte al giorno i devoti di Allah. Anche nel minareto, oggettivazione architettonica di una pratica che avveniva già nelle prime moschee dalla sommità del tetto, ha subito una progressiva solennizzazione, dal più antico, quello della moschea di Fustat (673), nel quale manca ancora lo spiccato sviluppo verticale ma che è prototipo e immagine dell’ideale compositivo che caratterizzerà la sempre maggiore enfasi estetica di questo elemento.
Macroarea �
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Cupola della Roccia, Gerusalemme; VII sec.
Moschea al-Aqsa; Gerusalemme; VII sec.
Moschea del Profeta; Medina; VII sec.
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Grande Moschea di Damasco; VIII sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
Moschea di al-Qarawiyyin; Fès; IX-XVII iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
Grande Moschea di San’a; VII-XVII sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
Moschea di Ibn Tulun; Cairo; IX sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
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iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
Grande Moschea di Kufa; VII-XV sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
Moschea di Amr ibn al-As; Cairo; IX sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
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Grande Moschea di Sfax; IX-XVIII sec.
Grande Moschea di Samarra; IX sec.
Grande Moschea di Kairouan; IX-XIII sec.
Ic I Ic Ic Ic Ic Ic Ic Ic iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
Moschea al-Hakim; Cairo; X sec.
Moschea al-Azhar; Cairo; X sec.
Moschea al-Zayt큰na; Tunisi; XI-XV sec.
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Moschea della Kutubiyya; Marrakech; XII sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
Moschea di al-Aqmar; Cairo; XII sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
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Grande Moschea di Mahdia; X sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
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Moschea di al-Zahir Baybars; Cairo; XIII sec.
Grande Moschea di Tlemcen; XII-XIII sec.
Moschea di Hassan; Rabat; XII sec.
Ic Ic Ic Q Ic Ic C Ic Iv iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
Moschea del Sultano Hassan; Cairo; XIV sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
Moschea di Muhammad Ali; Cairo; XIX sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
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Moschea di al-Nasir Muhammad; Cairo; XIV sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
Moschea di al-Muayyad Sheikh; Cairo; XV sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
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Grande Moschea di Hama; XIII-XIV sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
Moschea Bu Inaniyya; Fès; XIV sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
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Grande Moschea di Cordova; VIII sec.
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Moschea del VenerdĂŹ; Delhi; XVII sec.
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Lo sviluppo della moschea in Iran si è distinto nell’intero mondo musulmano per aver portato al massimo splendore, ed esacerbato in alcuni casi, taluni dei suoi caratteri significativi. La tipologia iraniana opera uno sviluppo dei contenuti estetici decorativi e colorifici in modo tanto sovrabbondante da farsi carico della definizione di Moschea Paradisiaca, un appellativo che inquadra certamente l’intento dei costruttori e dei committenti che si adoperavano ad esprimere il loro potere e le loro acquisite capacità. L’atto di adornare progressivamente
tutte le superfici con rivestimenti in ceramica, dai disegni sempre più complessi, dai risplendenti colori del paradiso coranico, i colori blu, verde e giallo alludevano all’azzurro vivo delle acque, allo smeraldo del fogliame della sua rigogliosa vegetazione, all’oro dei suoi frutti e dei suoi vini; si allontana dall’austerità delle prime moschee, luogo di meditazione per il fedele, nel tentativo di evocare l’immagine effettiva del paradiso musulmano. Questi caratteri della Moschea iraniana la rendono in parte quasi ostile nei confronti degli ideali del primo Islam. La tradizione Iraniana risulta tuttavia la più omogenea, avendo peraltro introdotto molti elementi basilari del linguaggio architettonico musulmano, quali ad esempio l’arco a sesto acuto, la decorazione a muqarnas e lo sviluppo della transizione tra sala a pianta quadrata e copertura a cupola.
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L’autonomia dell’elemento della tromba si affermò infatti sempre più nella moschea iraniana, diventando essa stessa un elemento decorativo, una nicchia trilobata che smaterializza la transizione tra lo spigolo e la curva. Anche la stessa cupola acquistò una sua autonomia, con l’addizione dell’elemento del tamburo, in alcuni casi interrotto da aperture verso l’esterno che filtravano la luce nella sala, un primo passo verso l’introduzione del cleristorio. Gli stili dinastici più prominenti entro i quali possiamo intravvedere una distinzione nello sviluppo della moschea iraniana sono quello dei Selgiuchidi (1037-1300), degli Ilkhanidi (1256-1349), dei Timuridi (1369-1502), le dinastie postTimuridi e infine i Safavidi. L’impianto sviluppatosi in territori iraniani fu quello della moschea a quattro Iwan che andò a costituire lo standard nell’organizzazione spaziale della moschea congregazionale
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iraniana. Questo impianto ha subito uno sviluppo a partire dalla moschea ad un solo Iwan, quella di Ali Shah a Tabriz, modellata sull’esempio della sala del palazzo di Cosroe della città di Ctesifonte, presa dagli Arabi nel 637. Il grande arco centrale, una volta a botte parabolica, che si affacciava sulla corte orientale della sala fu certamente di grande esempio per la sua solennità, come anche il modello dell’Iwan e dell’organizzazione spaziale del palazzo del re sasanide Ardashir a Firuzabad, costruito nel 224 AC nell’antica Persia (Iran). Qui il solenne portale, alto 18 metri, conduce all’interno di una sala a tre cupole. Il modello della moschea ad un solo Iwan, priva di sala a cupola, era invece quello dell’antica moschea Abbaside di Damghan, rispondente ad una spazialità araba, priva di ornamento, ma con un’enfasi particolare sul portale centrale della sala di preghiera
che si affaccia sulla corte interna. Questi modelli trovano un’armoniosa sintesi nella tipologia a quattro Iwan, in cui le dimensioni e proporzioni dei portali sono realizzate in accordo con l’assialità liturgica, ormai acquisita dalle moschee dell’intero mondo arabo, e con l’introduzione dell’asse trasversale minore, che conferisce alla corte una sempre maggiore solennità. Per quanto riguarda la sala della cupola, essa assume una sempre maggiore rilevanza all’interno dello spazio ipostilo, tanto da costituire un’unità quasi autonoma nelle moschee iraniane; nell’epoca della dinastia Timuride la sala della cupola che contiene il mihrab, attraverso l’addizione di nicche rettangolari o poligonali, assume una planimetria cruciforme, erede della tradizione romana di addizione ed espansione dello spazio attraverso l’integrazione di nicchie semicircolari o abdisi. La sempre maggiore autonomia
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e solennizzazione della sala del mihrab procede al contempo con l’introduzione della volta stellata, un sistema alternativo a quello delle trombe per la transizione tra sala e cupola. Ne ritroviamo un valido prototipo nella moschea Selgiuchide di Isfahan (1130), in cui la copertura dello spazio di forma quadrata avviene attraverso archi paralleli ai lati della sala che si intrecciano a croce, racchiudendo un quadrato di dimensioni minori nella loro intersezione; archi diagonali attraverso gli angoli della sala trasformano il quadrato in un ottagono sul quale la cupola può poggiare. Un sistema dalle potenzialità così eccezionali che solo tre secoli più tardi, sotto il regno dei Timuridi, si riuscì a comprendere e sfruttare a pieno, apportando un assoluto alleggerimento delle masse della cupola, un obiettivo già perseguito
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in epoca Ilkhanide, quando la decorazione a muqarnas pervade senza limiti al di fuori del perimetro delle trombe, crivellando l’intera superficie della cupola. Anche l’evoluzione del minareto segue un suo percorso autonomo nei territori iraniani; l’attrazione nei confronti della verticalità obbliga il mantenimento della stessa pianta per l’intero sviluppo in altezza della torre, generalmente a pianta quadrata o circolare. Durante il periodo Ilkhanide ne fu enfatizzata la decorazione attraverso il rivestimento in ceramiche colorate, coronato poi, nel periodo Safavide, da un piano cilindrico coperto da una cupola affusolata.
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Moschea del Venerdì; Naiyn; X sec.
Moschea Tarikh; Balkh; IX sec.
Moschea Tarik Khana; Damghan; XIII sec.
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Moschea del Venerdì; Isfahan; XI-XVII sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
Moschea di Kabud (Moschea Blu); Tabriz; XV sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
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Grande Moschea di Zavareh; XII sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
Moschea di Bibi Khanum; Samarcanda; XIV sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
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Moschea dello Shah; Isfahan; XII-XVII sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
Moschea del Venerdì; Kerman; XIV sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
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La vicenda dell’architettura islamica in Anatolia ci consente di comprendere, meglio delle altre, la portata che la convergenza con altre culture e religioni, in particolare quella Cristiana, ha avuto per i prodotti dell’architettura del popolo musulmano. La conquista di Costantinopoli, avvenuta nel 1453, costituisce un momento fondamentale per l’interno mondo musulmano, dopo quasi due secoli di convivenza con Bisanzio, Mehmed II fa della città bizantina la nuova capitale dell’impero Ottomano, che si usa definire tale, quindi non più un emirato, a partire da questa
conquista. La città, centro politico culturale e spirituale dell’impero di Costantino, era stata per secoli ambita da molte potenze, inoltre la sua conquista per mano islamica è annunciata in ḥadît attribuiti a Maometto: «Conquisterete Costantinopoli, poi farete un’incursione contro Roma e Dio vi darà la vittoria, perché se ciò non fosse vero io sarei presso di Lui tra coloro che dicono menzogne» e ancora: «Certo conquisteranno Costantinopoli e il suo principe sarà un principe fortunato e l’esercito che la conquisterà un esercito eccellente». Possiamo perciò comprendere la misura della valenza simbolica religiosa ma anche architettonica di questa città, l’evocazione degli splendori della Gerusalemme celeste (Apocalisse, 21.10-27) attraverso l’associazione di grandi volumi enfatizzata dai colori e dalla luce è ipostatizzata dalla stessa Hagia Sophia di Costantinopoli.
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La Basilica della Divina Sapienza, realizzata dagli architetti Antemio di Tralle e Isidoro di Mileto viene così minuziosamente descritta dallo storico bizantino Procopio di Cesarea nel suo trattato “Da Aedificiis” (IV sec);
La Chiesa, dunque, costituisce uno spettacolo di meravigliosa bellezza, sconvolgente per chi lo contempla, incredibile per chi ne sente solo parlare. Infatti essa si erge fin quasi a toccare il cielo e quasi ondeggiando svetta sugli altri edifici sovrastando l’intera Città; di essa rappresenta il gioiello, poiché le appartiene, ma ne è al tempo stesso abbellita, essendone una parte e, come suo culmine, si eleva così in alto, che dalla Chiesa si può contemplare la Città come da un osservatorio. La sua lunghezza e la sua larghezza sono armoniosamente concepite, sì che le sue gigantesche dimensioni non possono essere considerate eccessive. Si offre all’ammirazione in una bellezza indescrivibile. Maestà e armonia di proporzioni l’adornano e non ha nulla di troppo e nulla di troppo poco, poiché è
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più magnifica del consueto e più regolare di ciò che è smodato e straordinariamente inondata di luce e del riflesso dei raggi del sole dal marmo. Si potrebbe pensare che l’interno non sia illuminato dall’esterno, dal sole, ma che la luminosità scaturisca dall’interno stesso, tale è la ricchezza di luce che si riversa in questo santuario. La stessa facciata della chiesa (che sarebbe la parte che guarda il sole nascente, nella porzione dell’edificio in cui si compiono i misteri nell’adorazione di Dio) fu costruita nel modo seguente. Una struttura in muratura [oikodomia] è costruita su dalla terra, non fatta in linea diritta, ma che si curva gradualmente verso l’interno sui suoi fianchi e ritirandosi in mezzo, così da creare la forma di un mezzo cerchio, che quelli che sono specializzati in queste materie chiamano mezzo-cilindro [hemikylindron]; e così essa si eleva precipitosamente in altezza. La parte superiore di questa struttura finisce nella quarta parte di una sfera [sphaira], sopra questa si erge un’altra struttura sagomata crescente [menoeides], adatta alle parti contigue dell’edificio, meravigliosa nella sua grazia, ma, a motivo dell’apparente insicurezza della sua composizione,
del tutto terrificante. Infatti sembra in qualche modo fluttuare in aria su una base non ferma, ma essere bilanciata in alto a pericolo di quelli al suo interno. Anche attualmente essa è sostenuta con eccezionale forza e sicurezza. Sul lato opposto a questo si trovano le colonne fissate al pavimento; queste, nello stesso modo, non si ergono in linea retta, ma indietreggiano verso l’interno nel disegno del semicerchio [hemikyklon] come se si abbandonassero a vicenda in una danza corale, sopra di esse è collocata una struttura dalla forma crescente [menoeides]. Sul lato opposto all’oriente si alza un muro che contiene le entrate [eisodoi], sul lato opposto a questo sorgono in un semicerchio [hemikyklon] non solo le colonne stesse ma anche la struttura sopra di esse, tutte queste sono molto simili alle colonne e alla struttura che ho già descritto. Al centro della chiesa sorgono quattro sporgenze fatte dall’uomo [lophoi], che sono chiamate pilastri [pessoi], due sul lato nord e due sul lato sud, opposte e uguali l’una all’altra, avendo ciascuna coppia tra loro solo quattro colonne. Le sporgenze [lophoi] sono composte di enormi pietre
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unite insieme, accuratamente selezionate e abilmente alloggiate a ciascun’altra dai muratori, e sorgenti a grande altezza. Uno potrebbe supporre che fossero veri picchi di montagna. Da questi sorgono quattro archi [apsides] che si alzano sui quattro lati di un quadrato, e finiscono per giungere insieme a coppie e sono fatti saldamente l’un l’altro in cima a quei pilastri [lophoi], mentre le altre parti sorgono e si elevano a un’infinita altezza. E mentre due degli archi s’innalzano nell’aria vuota, quelli cioè sui lati nord e sud, gli altri due hanno sotto di essi alcuni elementi strutturali [oikodomia], incluso un numero di colonne piuttosto piccole. Sotto le chiavi degli archi si trova una struttura circolare [kykloteres oikodomia], di forma cilindrica [strongylon]; è attraverso questa che la luce del giorno sempre prima sorride. Infatti domina su tutta la terra, come credo, e la struttura è interrotta per brevi intervalli, essendo state lasciate intenzionalmente delle aperture, negli spazi dove la perforazione dell’arte lapidaria prende luogo, per essere canali per l’immissione di luce in misura
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adeguata. Poiché il punto dove gli archi sono collegati insieme è così costruito da formare una pianta a quattro angoli, l’opera lapidaria tra gli archi produce quattro triangoli [trigona]. Mentre ogni zona di supporto [krepis] di un triangolo, essendo stato contratto a un punto che arriva insieme a ogni coppia di archi, rende il punto più basso un angolo acuto, ancora come il triangolo si erge e la sua larghezza si estende per una superficie intermedia, finisce nel segmento di un cerchio [kykloteres] che esso supporta, e forma i rimanenti angoli a quel livello. Sopra questo cerchio s’innalza l’enorme cupola sferica [sphairoeides tholos] che rende la struttura eccezionalmente bella. Inoltre non sembra elevarsi su solida muratura, ma coprire lo spazio con la sua cupola dorata [sphaira] sospesa dal Paradiso. Tutti questi dettagli, messi insieme con l’incredibile opera a mezz’aria e andandosene con la corrente da ogni altra e restando solo sulle parti prossime a essa, producono un’unica e più straordinaria armonia nel lavoro, ma ogni dettaglio attrae l’occhio e attira irresistibilmente verso di sé. Così la visione costantemente si sposta
in modo repentino, infatti lo spettatore è assolutamente inabile a selezionare quale particolare dettaglio egli voglia ammirare più di tutti gli altri. Ma comunque, sebbene girino la loro attenzione da ogni parte e guardino con le fronti contratte verso ogni dettaglio, gli osservatori sono comunque inabili a capire l’esperta maestria, ma sempre partono da qui confusi dalla sconcertante vista. Tanto basti, quindi, su questo discorso.
Solo da una così intensa descrizione è possibile comprendere l’enfasi spaziale, caleidoscopica e quasi terrificante della Basilica dei bizantini, non comparabile con i risultati estetici e formali raggiunti dall’Islam fino ad allora per mezzo dell’uso della cupola. La cosiddetta Moschea Ecclesiastica acquisisce così l’organizzazione spaziale della basilica bizantina, nella sua sequenza di propilèi, vestìbolo, ingresso, navata maggiore sormontata al centro da una cupola e abside, ma soprattutto si propone di raggiungere e superare esteticamente la
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composizione di spazio, luce e colore dell’edificio cristiano, in particolare con l’operato dell’architetto, di nascita cristiano ortodosso, Mimar Sinan (1489-1588). Il formato liturgico viene espresso nella chiesa cristiana, secondo il teologo Eusebio di Cesarea, (263-339) nel percorso lungo il quale i Cristiani, dal portico di ingresso procedono verso l’altare, centro ottico, spaziale e liturgico dell’edificio. Tali sequenze spaziali, importate dalla Moschea ottomana, non rispondono effettivamente al rito islamico, che non è un rito processionale, tuttavia il dinamismo spaziale, la profondità tridimensionale di uno spazio governato da masse rese immateriali che sembrano espandersi e dissolversi nelle decorazioni calligrafiche che perdono tuttavia la profondità chiaroscurale tipica del muqarnas, a favore di una sempre maggiore elaborazione delle pattern
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geometriche e vegetali bidimensionali dai colori brillanti. La dilatazione dello spazio avviene altresì con l’introduzione delle semicupole, espedienti strutturali dai caratteri “ambientali”, e degli ordini di finestre arcuate che traforano le pareti rispondendo ad un ordinato disegno complessivo ed introducendo un’illuminazione scenografica, sconosciuta nelle prime moschee. Nel corso dello sviluppo dell’architettura islamica precedente all’impero Ottomano in Anatolia sono individuabili due ulteriori varianti: quella Selgiuchide (1090-1300) e quella degli Emirati Turchi (13001500). Nella fase Selgiuchide l’architettura Turca assume il tipo della Moschea iraniana a quattro Iwan, prendendola a modello per la costruzione delle Madrase e stressando, nell’impianto della moschea, la dimensione longitudinale, quindi analoga a quella della chiesa cristiana, con
l’introduzione delle cupole in copertura di intere navate e campate. Il tentativo di riuscire a creare uno spazio centrale, più esteso possibile, e privo di qualsiasi direzionalità emerge sempre più nella preferenza accordata alla tipologia della “Mosquée Kiosque” (André Godard), evidente nelle moschee quali la moschea di Alaeddin I a Bursa (1335) o la moschea di Haji Ozbek presso Iznik (1333). Questa preferenza accordata alla cupola in quanto elemento estetico, oltre che spaziale, non sussite nella Moschea Pan-Islamica, dove la cupola era concessa solo in quanto intensificazione di spazi periferici. Tuttavia le possibilità e le conoscenze strutturali ancora inadeguate per riuscire nella copertura di grandi spazi attraverso un unico ambiente cupolato portarono all’uso di espedienti quali l’addizione di un nartece, l’addizione in asse di un’altra cupola o la sostituzione della pianta a base quadrata con quella a base
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esagonale. Fu proprio quest’ultimo tema della sala esagonale, realizzata nella moschea Uch Serefeli a Edirne (1438-1447), a rendere possibile l’ampliamento definitivo dello spazio grazie ad una diminuzione del numero dei pilastri, e quindi la delimitazione di due aree, la sala della cupola, delimitata dalla sua cornice strutturale poligonale, ed una zona secondaria delimitata da un involucro di arcate. La suddetta moschea di Edirne, espressione compiuta dell’architettura degli Emirati, come la moschea di Manisa, aveva una corte, che è stata poi in alcuni casi abbandonata dai Turchi. La corte elaborata nella moschea turca era circondata non più da un sistema di nicchie aperte da archi nel muro, ma da una loggia con una copertura cupolata. Anche il minareto, utilizzato nella moschea imperiale ottomana per
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conferire sempre maggiore enfasi al percorso assiale verso il mihrab, con un corpo snello che svetta perdendo qualsiasi tipo di “contatto sonoro” con il suolo. Il minareto nelle moschee selgiuchidi dell’Anatolia abbandona la forma cilindrica iraniana, assumendo una pianta quadrata e un corpo poligonale con cornici marcapiano di muqarnas, il cui uso, in quanto decorazione dalle potenzialità spaziali, viene limitato in estensione ed importanza.
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Moschea di Hüdavendigar; Bursa; XIV sec.
Moschea di Divriği; XIII sec.
Moschea di al-Ad Din; Konya; XII sec.
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Moschea Beyazıt Paşa; Amasya; XV sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
Moschea Yeşil; Bursa; XV sec.
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Moschea Isa Bey; Manisa; XIV sec.
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Moschea di Aya Sofya; Istanbul; XV sec iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
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Grande Moschea di Bursa; XIV sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
Moschea di Üç Şerefeli; Edirne; XV sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
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Moschea di Süleymaniye; Istanbul; XVI sec.
Moschea di Sehzade Mehmet; Istanbul; XVI sec.
Moschea di Gazi Atik Ali Pasha; Istanbul; XV sec.
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Moschea Selimiye; Edirne; XVI sec.
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Moschea di Sultan Ahmet (Moschea Blu); Istanbul; XVII sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
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Moschea Muradiye; Manisa; XVI sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
Moschea di Piri Mehmet Paşa; Istanbul; XVI sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
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Moschea di Sokollu Mehmet Paşa; Istanbul; XVI sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
Moschea di Rüstem Paşa; Istanbul; XVI iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
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La tradizione musulmana in India è altrettanto antica quanto quella degli altri paesi musulmani, questo è accertato dal fatto che nella città di Bandhore, nel Pakistan, sono stati ritrovati alcuni resti archeologici appartenenti ad una moschea, con un impianto simile, anche se di dimensioni leggermente ridotte, all’antica moschea di Kufa. I suddetti resti, risalenti al 727, poco più di dieci anni dopo la conquista da parte dei musulmani della città di Bandhore, fanno pensare che la moschea sia stata costruita solo una quarantina di anni più tardi rispetto a quella di Kufa.
Tuttavia non sono presenti altri resti di importanza tale, antecedenti al XII sec., quando l’Islam perviene alla conquista dell’India con la dinastia dei Ghuridi, una tribù turca proveniente dall’Afghanistan. In India la tradizione architettonica locale era molto lontana dall’esperienza islamica, così come la religione Induista. La civiltà Indiana aveva infatti già formato i suoi templi, oggettivazione architettonica di una religione gerarchica e ieratica, che afferma la trascendenza della casa (Mandir, il tempio indiano, in sanscrito “casa”) del dio che vi dimora. L’edificazione del tempio induista era affidata ai sacerdoti, gli “iniziati”, unici possessori delle competenze specifiche e conoscitori del mandala (sistema grafico-geometrico utilizzato per l’edificazione di un tempio). La trascendenza della struttura sacra rispetto al suolo profano ne imponeva l’innalzamento al di sopra di un
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podio, il tempio induista è infatti un edificio che esclude progressivamente i profani, fino a giungere al garbha grah (“camera”, “grembo”), una stanza racchiusa al centro dello “shikara” (“montagna rituale”), entro cui è conservata la “murti”, l’immagine o rappresentazione fisica del dio cui l’edificio è consacrato. La presenza di questo nucleo sacro risale all’origine del tempio induista, una sala quadrata priva di finestre, con un solo accesso, e con la sola funzione di contenere l’idolo. La progressiva addizione di sale ipostile, probabilmente sempre in riferimento alla struttura ipostila del tempio achemenide, portici e padiglioni autonomi, ha portato al compimento di un’armoniosa struttura composta da terrazzamenti e di un verticalismo di forma piramidale. Ma è soprattutto l’aspetto “sacrale” del tempio che risulta avere un impatto importante sulla
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consapevolezza del popolo islamico, le cui prime moschee rispondevano, se si pensa ad esempio alla casa di Maometto, ad un principio utilitaristico. Così la forma egalitaria ed anti-ieratica della moschea congregazionale Pan-Islamica, a contatto con il tempio Induista perde quest’ambivalenza di spazio sacro e profano formalizzandosi nella Moschea Templare . I primi esempi di Moschea, risalenti all’incontro tra il tempio Indù e la Moschea araba ipostila, risultano interessanti per la creazione di una “facciata” della qibla che comprende il mihrab, esaltazione dell’importanza del “muro sacro” interno, in corrispondenza con la propensione verso l’esaltazione del nucleo interno del tempio induista. A partire dall’XI secolo fu il tipo della moschea Iraniana ad entrare a contatto con la tradizione templare. Il carattere congregazionale ed
egalitario della moschea, antigerarchica e priva di icone entra in collisione con la volontà di personificazione della divinità del tempio Indù, strutturato per rispondere ad un culto individuale ma guidato dai sacerdoti. La moschea indiana condivide con il tempio indù alcuni caratteri, attraverso l’osservazione dei quali è possibile comprendere l’induizzazione della moschea, che ha a che fare più con un adattamento e assimilazione dei risultati estetici che con un’effettiva corrispondenza dottrinale; l’assimilazione e rielaborazione di certe forme non può fare a meno di conferire all’architettura il relativo significato simbolico. Un primo elemento è quello del podio, la moschea in quanto luogo di preghiera egalitario e “terreno” non prevedeva alcun tipo di distacco dal suolo della città, il tempio indù fornisce così il suo carattere
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trascendentale alla moschea attraverso l’inserimento di un podio, esaltato in particolar modo nelle moschee del sultanato di Delhi e dell’impero Moghul. Anche la componente del verticalismo, molto accentuato nello stile Dravida del tempio Indù, ed oggettivata solo nell’elemento del minareto, per quanto riguarda la moschea, rientra nei caratteri acquisiti dalla moschea indoislamica, la cui altezza viene enfatizzata in particolar modo attraverso l’addizione di un certo numero di cupole, in genere tre. Il numero “tre” risponde alla triade che rappresenta la divinità indù: Brahma, Visnu e Siva. L’addizione delle tre cupole è espressione della tripartizione della moschea, come avviene nella triplicazione del santuario. Questa caratteristica è visibile a partire dal XII sec. ad esempio nella moschea Quwwat ulIslam presso Delhi, ma più diffusa
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nelle moschee del periodo Moghul. Nella moschea indoislamica la sala di preghiera viene interpretata come il nucleo sacro del tempio, operando quindi una distinzione e magnificazione della stessa, esacerbando le dimensioni del relativo Iwan e diminuendo al contempo quelle del portico che circonda la corte e degli ulteriori portali che interrompono il portico e sopraelevando la sala suddetta su un proprio plinto, accentuandone la “trascendenza”. Anche l’illuminazione si combina con gli altri elementi per conferire una gerarchizzazione dello spazio; nell’architettura templare indiana è sovvertita la concezione tradizionale dell’illuminazione ecclesiastica, oscurando, piuttosto che illuminando, l’ambiente sacro. Questa teatrale diminuzione dell’illuminazione è operata in alcune moschee indoislamiche, concentrata nell’area del mihrab, com’è visibile
nel Gol Gumbaz presso Bijapur, e più spesso nelle moschee che utilizzano un sistema trabeato, dove l’intera navata del mihrab è più buia rispetto all’ingresso e alle aree secondarie, ponendo il mihrab in una condizione di penombra che ne esalta la sacralità. L’orientamento, caratteristica fondamentale nell’architettura delle moschee, trova in India una condizione favorevole, dal momento che i templi avevano la necessità di esporre il fronte principale verso est e al contempo le moschee avevano la necessità di esporre la qibla, il muro della preghiera, quindi quello opposto la fronte di ingresso, verso ovest (direzione della Mecca rispetto alla penisola indiana). Questa combinazione geografica ha consentito un tacito accordo nella costruzione dei relativi luoghi sacri. Era piuttosto la dimensione umana, relativa alla ritualità islamica, a scontrarsi con quella indiana, dal momento che la progressività
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longitudinale degli ambienti del tempio indù erano espressione del percorso, quindi un moto, verso il nucleo sacro del tempio, che si scontrava con la staticità espressa da una direzionalità trasversale, tipica dello spazio “oblungo” della moschea. Tuttavia lo sviluppo longitudinale dello spazio, a meno di casi singolari, non concerne la tipologia di moschea indoislamica. Altra questione era quella dell’iconografia, vietata dall’Islam e sovrabbontante nel culto induista, che genera problemi di incomprensione a proposito dell’introduzione di molteplici mihrab a ridosso della qibla delle moschee indoislamiche, probabilmente ereditata dalla tradizione induista della disposizione degli idoli all’interno delle molteplici nicchie presenti nei templi. L’uso di costruire cupole sostenute da mensole, realizzate per la prima volta nella moschea di Quwwat alIslam, presso Delhi (1197) permise
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la costruzione di sale a cupola sempre più ampie, che l’antico sistema trabeato indiano non avrebbe altrimenti consentito. L’adattamento della regola del mandala agli spazi ampliati della moschea congregazionale ha dato modo agli architetti indiani di svilupparne il potenziale. Altri elementi dell’architettura indiana entrati nel mondo islamico sono le strutture a torre o le colonne dedicate alla Vittoria dei sovrani, che hanno un riflesso nei minareti decorati delle moschee indiane, come nel notevole esempio del Qutb al Minar presso Delhi, minareto della moschea che reca un’iscrizione in Sanscrito, riportando la vittoria del Sultano Alauddin. L’interesse nella facciata del santuario e della tomba/mausoleo, altro edificio introdotto nell’architettura islamica dalla tradizione buddhista dello stupa, risulta essere caratteristico dell’architettura indiana.
L’interesse nei confronti della facciata resa bidimensionale, ed apprezzabile solo dall’osservatore posto di fronte all’edificio, viene esaltato dall’ornamento, dalla magnificazione delle dimensioni dell’unico portale e dall’uso ornamentale dei materiali, in particolare l’adozione dell’arenaria rossa e del marmo bianco, genesi di un bicromatismo portato alla sua perfezione nell’architettura indiana del periodo Moghul. Il ritratto della moschea indoislamica deve tuttavia gran parte della sua eleganza e sontuosità all’innesto in essa (formale e decorativo) dei principali motivi ornamentali propri dell’architettura indiana, quali il fiore di loto, il fiore d’amolo e il vaso. Proprio l’uso simbolico del fiore di loto, simbolo di femminilità, è alla base di uno dei più significativi edifici islamici del periodo Moghul, il Taj Mahal, un fiore che galleggia e si riflette sullo specchio d’acqua che lo precede, simboleggiando l’amore del
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Sultano per sua moglie. Il ricordo della donna, non potendo essa essere ritratta dall’arte islamica, trova l’espressione della sua eleganza e della sua leggerezza attraverso l’architettura, dove il confine tra tempio induista e mausoleo indoislamico, tenta di essere oltrepassato.
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Moschea di Khirki; Delhi; XIV sec.
Moschea di Begumpur; Delhi; XIV sec.
Moschea di Qutb; Delhi; XII sec.
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Moschea del Venerdì; Ahmedabad; XV sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
Grande Moschea di Mandu; XV sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
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Moschea del Venerdì; Champaner; XV sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
Moschea Atala; Jaunpur; XV sec.
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Moschea del Venerdì; Gulbarga; XIV sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
Moschea dello Shah; Ahmedabad; XV sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
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Moschea del Venerdì; Fatehpur Sikri; XVI sec.
Moschea di Bai Harir; Ahmedabad; XVI sec.
Moschea di Shat Gambuj; Bageraht; XV sec.
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Moschea Imperiale Badshahi; Lahore; XVII sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
Moschea del Venerdì; Thatta; XVII sec.
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Moschea del Venerdì; Delhi; XVII sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
Moschea di Wazir Khan; Lahore; XVII sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
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Moschea Chhota Sona; Rajshahi; XVI sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
Moschea della Perla; Agra; XVII sec.
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Il processo di penetrazione della religione e della cultura musulmana all’interno dell’Africa subsahariana è avvenuto gradualmente e più lentamente che nelle altre aree precedentemente trattate. Questi territori ai margini dell’Impero venivano attraversati dalle vie carovaniere del Sahara e dai mercanti che avevano modo di sostare presso i villaggi e diffondere la fede monoteista estranea ai popoli indigeni di queste terre. Occorre scindere tuttavia la trattazione per i territori dell’Ovest e quelli dell’Est, per disuguaglianze presenti già in epoca preislamica
e che sono state accentuate dall’approdo di questa dominazione. Nell’area occidentale, che comprende gli stati di Mali, Mauritania, Senegal, Nigeria, Cameron, Burkina Faso, Guinea e Ghana, la situazione sociale risultava divisa tra la potenza delle dinastie semi-indipendenti dei Berberi, grazie alle quali l’Islam si diffuse, e agli imperi (confederazioni) di Ghana, Mali e Gao. L’architettura islamica riflette complessità e diversità etniche e geografiche di questa realtà, certamente con forti influenze provenienti dalle aree del Nord Africa, quali Marocco, Egitto e Tunisia, facendo emergere tradizioni e stili architettonici propri delle tribù indigene che trovavano applicazione soprattutto in ambito domestico. Le tecniche utilizzate dai costruttori erano strettamente connesse ai materiali da costruzione, il carattere rudimentale dell’architettura di questi territori caratterizzerà fortemente
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l’aspetto formale e decorativo degli edifici anche dopo l’avvenuta penetrazione dell’Islam. Pietra, adobe e legno, utilizzati in modo combinato con variazioni a seconda delle aree geografiche, hanno consentito l’edificazione di Masjid, il cui significato, nelle varie lingue africane, comune alla radice araba del termine, è “luogo di prostrazione”. Dai primi rudimentali recinti privi di copertura, iniziano a sorgere le prime moschee più o meno strutturate, più o meno rispettose del modello arabo; è possibile individuarne due tipi in relazione all’area di diffusione, quello della moschea Sudanese e quello della moschea di paglia. Il primo, diffuso nell’area che va dal Senegal ai confini della Nigeria, comprendendo Ghana e Costa d’Avorio, quindi la regione della Savana, dove c’è abbastanza acqua per fare mattoni e adobe, ma non abbastanza pioggia per dissolvere le strutture realizzate con questi
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materiali. Queste moschee in argilla sono caratterizzate dai pali in legno conficcati nelle facciate, utilizzati come armatura oltre che, di conseguenza, a scopo decorativo. I minareti, interamente puntellati da questi elementi, svettano come torri massicce dalle forme organiche, spesso unica struttura che consente la distinzione tra moschee ed abitazioni, nonostante la chiamata alla preghiera avvenga correntemente dalla copertura. L’uso di contrafforti sormontati da pinnacoli dà all’edificio le sembianze di una fortezza, probabile riferimento all’architettura dei Tata Somba, forti costruiti per proteggere la popolazione dagli animali selvaggi, poi adattati all’uso domestico. Il tetto piano sorretto da pilastri è bucherellato da aperture per permettere l’ingresso della luce; gli interni con i pavimenti cosparsi di sabbia e privi di decorazioni,
accolgono i fedeli che pregano rivolti verso il mihrab, solitamente enfatizzato con l’uso di una torretta accorpata alla sala di preghiera. É nella moschea di Djenné o in quella di Agades che ritroviamo le espressioni più maestose di questi edifici. Nell’area montuosa del Futa Jalon, in Gambia, legno e paglia si sostituiscono all’adobe, così le moschee si realizzano come capanne rotonde dalla struttura in legno, con un tetto che aggetta, ricoprendo l’intera struttura di paglia e mascherandone i muri perimetrali. Al di sotto della copertura c’è un recinto rettangolare di muri in adobe con un mihrab incavato nella parete ad est, l’effettiva moschea. Le aree raggiunte dal dominio islamico dell’Africa orientale si attestano tutte lungo la fascia costiera, indice del vigore dei commerci nell’Oceano Indiano tra penisola araba, india ed estremo oriente.
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I primi insediamenti islamici lungo la costa sono databili entro l’VIII secolo ma la popolazione resta per la gran parte indigena. L’area di insediamento include le coste della Somalia, del Kenya, della Tanzania (incluso lo Zanzibar) e del Mozambico; la cultura più diffusa era quella Swahili, un complesso di linguaggi tradizioni e tratti somatici emersi dal contatto delle popolazioni indigene con quelle arabe e persiane, oltre che quelle dell’estremo oriente, attraverso i suddetti scambi commerciali. Questi primi insediamenti non rispecchiano la tradizionale forma della città islamica che si organizza attorno al suq; non esistono infatti esempi di mercati, caravanserragli o edifici di accoglienza per i pellegrini. Dallo studio dell’evoluzione della moschea di Shanga, in Kenya, possiamo delineare dei tratti tipici dell’architettura religiosa islamica. La prima versione di questo edificio
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appartiene al IX sec. e consiste in un recinto rettangolare in legno privo di tetto e di mihrab, semplicemente orientato posizionalmente, con la qibla rivolta a nord (verso la Mecca) e l’ingresso sul lato opposto. Di successive addizioni e rifacimenti si conservano ad oggi le rovine dell’ultima moschea, costruita con rocce di origine calcarea, materiale proveniente dalla barriera corallina. La struttura si è evoluta con l’addizione di una copertura in legno, poi in pietra, sorretta da quattro pilastri massicci; la sala di preghiera presenta un’anticamera e due ulteriori accessi ed est e ad ovest, mentre non è presente un mihrab, che era probabilmente realizzato da una struttura mobile in legno. L’assenza di una corte esterna, la pianta rettangolare a sviluppo longitudinale, l’uso di vestiboli e la collocazione di più accessi alla sala di preghiera ipostila caratterizzarono le moschee edificate successivamente,
come la moschea Kizimkazi, nello Zanzibar, la moschea di Manda, la moschea di Mogadishu del XIII sec. alla quale è affiancato un minareto, struttura che non appare altrove nell’Africa orientale, almeno fino al XIX sec. È nella moschea di Kilwa, realizzata in due periodi differenti, che compaiono le cupole in copertura della sala ipostila oltre che il mihrab strutturato come una nicchia a ridosso del muro settentrionale. L’evoluzione dei materiali e le influenze coloniali hanno comportato un processo di emancipazione dalla tradizione tribale, perlopiù nell’Africa orientale o comunque all’interno dei centri maggiori. Permane comunque la testimonianza della rudimentalizzazione dell’architettura delle moschee, esempio forse più purificato della devozione nei confronti del Monoteismo; laddove, pur essendo offuscata l’identificazione
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degli elementi simbolici, persiste infatti la centralità e l’importanza dell’istituzione moschea tanto da riuscire a costituire un tipo servendosi degli unici mezzi a disposizione, “terra”, sole ed acqua.
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Grande Moschea di Kilwa; XII-XIII sec.
Grande Moschea di Chinguetti; XIII-XV sec.
Grande Moschea di Djennè; XIV-XX sec.
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Moschea Sankore; Timbuktu; XIV-XV sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
Moschea del Venerdì; Bobo-Dioulasso; XIX sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
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Grande Moschea di Agadez; XVI-XIX sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
Moschea del Venerdì; Zaria; XIX sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
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Moschea del Venerdì; Larabanga; XVII-XIX sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
Grande Moschea di Futa Djallon; XIX sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
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Come afferma lo studioso iraniano Hossein Nasr, l’Islam rappresenta una sorta di ponte fra le due civiltà, l’orientale e l’occidentale, quasi una sorta di laboratorio spirituale per l’elaborazione di sintesi mistiche nonostante l’apparente rigidità dottrinale. Attraverso le vie della Seta si diffuse verso oriente in tutta l’Asia centrale, meridionale, fino all’Indonesia sostituendosi storicamente al Buddhismo, spesso nella forma del misticismo Sufi, con il quale condivide alcuni atteggiamenti, quali ad esempio che Dio è dentro di noi, e la nostra pratica lo risveglia (...) che il
pregare e credere in Dio sia un modo di risvegliarlo. L’approdo in territori cinesi è avvenuto dall’entroterra oltre che dai maggiori porti commerciali, a partire dal VII sec. I primi insiediamenti islamici, si collocano infatti sulla costa; Canton, Chuan Chou, Hang Chou e Yang Chou videro la crescita progressiva dell’influenza musulmana durante le dinastie Yuan e Ming oltre che la costruzione delle prime moschee del Celeste Impero. È dalla prima moschea Huai-Shang presso Canton (Guangzhou), costruita nel periodo della dinastia Tang (618-907), poi ricostruita nel 1206, che si possono rilevare le forti influenze dello stile cinese nell’architettura islamica; la presenza di un minareto, elemento che non ritroviamo in altre moschee cinesi, fa pensare che esso fosse utilizzato come faro. Nella moschea sono compresi sei edifici, dai tetti a pagoda, pienamente
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in stile Tang. Ulteriore esempio, conservato fino ad oggi appartiene al XI secolo, si tratta della moschea Shengyou presso Chuan Chou (oggi Quanzhou), ultima delle sette moschee presenti in questa città; essa si attesta lungo le mura e si affaccia con un sobrio iwan sulla strada principale, posto sull’asse perpendicolare rispetto a quello della qibla. Lo stile decorativo appartiene all’Asia centrale, con l’uso di un pattern bidimensionale nella volta del portale che rimanda ai muqarnas iraniani, anche se il materiale, la pietra grigioverde conosciuta come granito nero, non viene comunemente utilizzata negli edifici di quest’area. L’introduzione dell’asse del portale impedisce la gerarchia di corti tipica degli edifici di tradizione cinese. La piccola sala di preghiera, situata a nord est del complesso, conserva un’assialità, rispetto al mihrab, nella quale rientrano una corte con
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padiglione per l’abluzione. La crescita delle comunità musulmane nell’entroterra cinese non avvenne in modo deltutto pacifico; si, tuttavia, riscontra durante la dinastia Yuan (1270-1368) un’avvenuta “cinesizzazione” delle tradizioni e dell’architettura musulmana delle aree Yunnan, Ningxia e Gansu. L’influenza dello stile tradizionale cinese è evidente nella moschea di Ch’ang-an (oggi Xi’an), fondata dall’ammiraglio musulmano Cheng Ho presso la fine della via della Seta nel XIV sec. La moschea è inclusa all’interno di una muraglia di 48 m x 246 m, parte di un complesso che si estende per 12.000 metri quadrati nel cuore della città. Il complesso è organizzato secondo la tradizionale gerarchia dei templi buddhisti, diviso in quattro corti, con numerosi padiglioni in legno composti da più piani, caratterizzati dai tipici tetti a falde
spioventi con gli spigoli curvati che contraddistinguono anche il minareto. Il padiglione più grande è quello della sala di preghiera, riconoscibile dalle decorazioni sulle pareti esterne; il mihrab è incluso in una stanza, un abside quadrangolare in legno, che aggetta rispetto alla sala di preghiera. É nella regione di Xinjian, nella Cina settentrionale, che si concentra il maggior numero di musulmani, e la loro architettura, che combina influenze cinesi e sovietiche oltre che islamiche, è oggettivata nella moschea di Emin, presso Turfan e risalente al XVIII secolo, espressione tardiva dell’architettura islamica in Cina. La sala di preghiera, ipostila, ha una struttura in legno, trabeata, mentre il corpo esterno è in mattoni; l’imponente minareto di forma cilindrica e il grande iwan decorato da nicchie sembrano quasi voler alludere ad uno stile antico e sobrio, quello delle prime moschee arabe, privo di
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ornamento, che si esprime attraverso la sola enfasi dimensionale di alcuni elementi. Gli stili architettonici occidentali ed orientali si scontrano ancor più nella ad Ürümqi, una città cosmopolita per via della sua posizione lunga la via della Seta. Qui, ritroviamo un esempio di reciproca influenza tra stile Moghul e stile arabo nella moschea Beytallah, esaltata dalla disposizione di quattro minareti e dalle cupole a bulbo tipiche dell’India; altra moschea ancor più inusuale nella stessa città è la moschea Tartar, un edificio in legno di piccole dimensioni, con un minareto sormontato da una guglia, sempre in legno. È evidente come in un territorio così vasto possono coesistere un’altrettanto grande quantità di varianti; spazi di preghiera islamici racchiusi all’interno di padiglioni a pagoda cinesi che ne mascherano i caratteri islamici simbolici, ma non
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ne inibiscono il potenziale di autoaffermazione. Una situazione simile la si ritrova anche nella penisola indonesiana, raggiunta dai musulmani in tempi diversi, dal XIII al XV secolo. Pochi sono tuttavia gli esempi rimasti intatti delle prime moschee in Indonesia, che venivano costruite in legno, in continuità con la tradizione Buddhista e Indu, quindi sostituite nel corso dei secoli da edifici in pietra più conformi ad uno stile islamizzato. Archetipo delle moschee indonesiane è la moschea di Demak, nella provincia di Java, la più antica conservata, che risale al 1506; si tratta di una struttura che si sviluppa su tre livelli con tetti a spioventi, sempre sul modello di sovrapposizione dei piani proprio della pagoda. Nella regione di Java, la cultura architettonica rispecchia la situazione morfologica del territorio, un arcipelago montuoso circondato
dall’oceano, condizione riprodotta simbolicamente con la costruzione di edifici su promontori artificiali circondati da fossati. Nelle prime moschee costruite in questa regione l’impianto risulta costante, un recinto quadrato circondato da un fossato con un portale monumentale, che include una piattaforma centrale su cui sorge la moschea. Il surambi, un piccolo edificio utilizzato per le attività sociali, per lo studio e per la chiamata alla preghiera, viene costruito in prossimità della moschea; il santuario è di solito un edificio in legno a più piani, la cui ripetizione ne accresce l’importanza. In alcune moschee, i diversi piani vengono utilizzati per le diverse attività, oltre che ospitare la sala di preghiera. Oltre alle moschee congregazionali esistono anche moschee minori, le cosiddette langgar, della dimensione
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di una moschea di quartiere, piccole strutture in legno affini all’architettura domestica Javanese. Alcune delle prime moschee furono costruire con riferimenti, o persino inglobando parti, di edifici preislamici, questo dimostra anche ai confini dell’impero la voracità della cultura architettonica islamica.
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Grande Moschea di Xi’an; VII sec.
Moschea di Qingjing; Quanzhou; XIV sec.
Grande Moschea di Hangzhou; XV sec.
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Moschea Al-Aqsha; Kudus; XVI sec.
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Moschea dello stretto di Malacca; XX sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
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Moschea di Telok Manok; XVII sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
Nuova Moschea di Giacarta; XX sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
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Moschea di Amin; Turpan; XVIII sec.
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Grande Moschea di Java; Semarang; XXI sec. iwan corte abluzione minareto cupola mihrab
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sr an-nahdah
‘asr an-nahdah: risorgimento culturale e civile dell’arabismo. All’inizio del XX secolo rappresenta l’epoca della modernità, dell’ideologia della modernizzazione di derivazione europea, in tutti i campi della vita civile. Per le èlite intellettuali e politiche, tale epoca si caratterizza come quella della battaglia per la rinascita ( ma ‘arakat an-nahdah )
Il processo di europeizzazione, tafarrung, cominciò a prendere piede in ambito arabo-islamico-ottomano nell’ottocento; a partire dalla repubblica turca si materializzò infatti una reinterpretazione delle tradizioni in rapporto con la modernità nascente. In turchia si affermò un riordinamento amministrativo capace di emancipare la laicità dello stato attraverso la fondazione ad esempio di scuole laiche, governative o non, e di un moderno ministero dell’ Istituzione pubblica; il passato venne dunque interpretato come un tempo lontano, inaccessibile al quale neanche l’architetto poteva rifarsi. Tale atteggiamento condizionò successivamente tutto il mondo arabo e piu in generale la coscienza islamica che, quasi improvvisamente, si trovò in stretto rapporto con la cultura occidentale; in Iran, per esempio, lo scià Reza costituì un vero proprio stato laico, capace di costrure piazze
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nelle città. Per quanto l’europeizzazione abbia stravolto l’intero stato islamico, nella sua struttura e nei suoi valori, la moschea riuscì a mantenere sempre un’ampio consenso sociale, adeguandosi al contempo alle nuove strutture statali; nascono quindi associazioni di benificenza sotto la giurisdizione di un moderno ministero degli awqaf, interlocutore privilegiato della comunità dei credenti. Da una committenza privata si passò dunque alla costruzioni di moschee statali che espressero, attraverso un linguaggio simbolico di attribuzione, sovranità, nazionalità e modernità. Lo stato, attraverso l’appropriazione di un edificio sociale, trovò l’occasione di sviluppare un’identità di fronte ad una maggioranza o ad uno stato vicino; esempi di tale atteggiamento sono le Repubbliche islamiche del Pakistan e della Malesia. Anche in Indonesia, la moschea
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riveste un ruolo simbolico e centrale; nello stato postcoloniale si distinguono quelle governative da quelle statali, edifici finanziati e visualizzati da un comitato, con particolare attenzione all’esplicitazione di un’identità moderna ed islamica, sviluppando così un sentimento di riconoscimento in forme e elementi chiaramente identificabili e universalmente islamici. Come si è visto nell’esempio malese, mentre le moschee statali traducono sentimenti e necessità rappresentative nazionali, le autorità locali testimoniano l’interesse del governo per la collettività; attraverso il trasferimento delle competenze ad un autorità centralizzata, si affermarono i concetti di piano di sviluppo fisico e piano regolatore per gli insediamenti urbani e rurali, a tal punto che la moschea vennne catalogata come edificio religioso e paragonata ad un qualsiasi edificio pubblico.
A supporto di tale atteggiamento si prenda in esempio la città di Gidda, in India dove sono state costruite moschee, in una pluralità di stili, lungo la strada costiera a intervalli di 3 km di distanza, con l’intento di tracciare il margine della città. Nelle comunità rurali, come nell’esperienza africana, le moschee erano frutto della socità, nascevano e venivano costruite nella collettività. E’ da questa esperienza dunque che si comprende il fallimento di tale centralizzazione; l’utilizzo dell moschea come simbolo d’identificazione stimolò la costruzione di moschee al di fuori della stretta necessità sociale. Allo stesso modo, in uno stato non islamico, si identificano due particolari tendenze; da un lato i committenti privati, promotori di missioni diplomatiche mirate ad affermare l’identità musulmana, influenzano notevolmente il risultato architettonico attraverso le
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aspirazioni del gruppo che finanzia il progetto. In senso contrario, invece, quando è la stessa comunità che vive all’estero a richiedere tali finanziamenti, l’esterno della moschea riesce ad integrarsi perfettamente con il contesto e, allo stesso tempo, ad enfatizzare i connotati islamici solo al suo interno. Si riporta a tal proposito, in esempio, la moschea progettata per la sede dell’Islamic Society of North America a Plainfield, in Indiana, progettata da Gulzar Hider. Un’ultima tipologia di committenza, sviluppatasi in ambito contemporaneo, sovvertendo il ruolo della moschea da bacino sociale a puro simbolismo, viene rappresentata da quelle istituzioni che, una volta scorporate dalle kulliyāt, accolgono nuovamente, come nell’aeroporto Internazionale di Riyad-Re Khalid in Arabia Saudita, l’immagine della moschea atta a comunicare la centralità dell’islam nell’istituzione.
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Dal punto di vista architettonico quindi, le mosche contemporanee possono essere classificate in 4 diverse categorie di stili: l’autoctono, in stretta relazione con il linguaggio architettonico tradizionale, lo storicistico, coerente con riferimenti storici riproposti in stile eclettico, lo stile classico contemporaneo, connotatosi attraverso la ricerca e la reinterpretazione dei modelli islamici, e infine, il moderno, in cui predomina la ricerca dell’originalità e dell’attualità. Con questo scenario si è cercato qundi di dare un’immagine complessiva della condizione contemporanea della moschea quasi per far riflettere sulla tuttora attuale centralità che lo stesso edificio incarna all’interno della coscienza islamica. Sentimenti nostalgici religiosi, tradizionalismi e spirito nazionalista si mischiano dunque con elementi simbolico-rappresentativi di
una società alla ricerca di quel senso di appartenenza allo stato islamico, anche all’interno di contesti stranieri e nelle istituzioni pubbliche.
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Moschea di Roma, Italia; Paolo Portoghesi,1994.
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Moschea di New Gourna, Egitto; Hassan Fathy,1948.
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Grande moschea Sheikh Zayed di Abu Dhabi, Emirati Arabi, 2007.
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Moschea Nazionale di Kuala Lumpur, Malesia; Howard Ashley, Hisham Albakri and Baharuddin Kassim,1965.
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Moschea Faysal di Islamabad, Pakistan; Vedat Dalokay, 1986.
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Centro Islamico del Nord America a Plainfield, Indiana; Gulzar Haidar,1979.
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Ruwais Mosque di Gedda, Arabia Saudita; Abdelwahed El-Wakil,1989.
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EAA: Moschea Sancaklar di Istambul, Turchia; Emre Arolat Architects, 2014.
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Centro Islamico di Bordeaux, Francia; Aires Mateus Associati, (render di progetto).
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lementi concettuali
La storia dell’architettura islamica è, secondo lo studioso Titus Burckhardt, una continua evocazione del fenomeno di diversity in unity, or of unity in diversity, tanto da risultare estremamente difficile la connotazione di uno stile prettamente islamico. Mentre la chiesa occidentale fa continuo affidamento allo sviluppo di un modello e ad una resistenza tipologica ben decifrabile, i connotati della cultura islamica rendono possibile assimilazioni di linguaggi formali validati esclusivamente dalla realtà socio-culturale di riferimento. Secondo lo studioso,
non esistono dei modelli formali di riferimento per tutta la popolazione islamica ma piuttosto dei prototipi che trovano la propria validità solo grazie al consenso di quella specifica comunità; è per tale motivo, dunque, che è possibile tracciare una mappatura storica dello sviluppo della moschea attraverso l’individuazione di aree geografiche. Tale capacità integrativa non implica allo stesso tempo una frammentazione ed una parcellizzazione, ma piuttosto esalta il forte senso di appartenenza che lega tutto il mondo islamico. Da una prima lettura si potrebbe pensare quindi che elementi come ad esempio il minareto o il minbar possano in un certo senso rappresentare tale peculiarità, ma la loro continua riproduzione fa piuttosto riferimento ad un corretto soddisfacimento della propria mansione (come lo spazio per l’abluzione purificatoria volto al miglioramento dell’igiene personale)
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o, a volte, alla potenzialità simbolica dello stesso (come l’eccezione del minareto come landmark urbano). La staticità e i punti fermi della storia dell’architettura islamica sono invece da ricercare nei concetti fondativi della stessa; si faccia quindi riferimento nel particolare, alla necessità di una direzionalità, ad uno stretto rapporto fra moschea e società, al divieto di raffigurazione della divinità veri e propri topoi della cultura islamica. Dall’apprendimento del singolo dunque si passerà ora alla decifrazione di questi elementi concettuali.
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Harām: la radice semitica hrm da cui deriva il sostantivo H. ha il senso di “mettere in disparte”. Questa messa in disparte può essere sia l’interdetto, sia il sacro. Non tutti gli interdetti sono sacri. Sono harām nel senso di interdizione tutti i luoghi sacralizzati dalla presenza divina o da atti religiosi: la ka’ba della Mecca, le città della Mecca e di Medina, la Roccia di Gerusalemme, la tomba di Abramo a Hebron. Solo i musulmani purificati dalla fede e dalle abluzioni possono recarvisi. Durante la preghiera la moschea è interdetta a chiunque non sia musulmano (...).
La dimensione spaziale della moschea islamica ha le sue radici nel diverso concetto di fruizione dello spazio rispetto ai popoli occidentali. Per la cultura occidentale la delimitazione dello spazio, rispetto ad una direzionalità preferenziale, si sviluppa parallelamente ad essa, mentre la delimitazione in senso perpendicolare a tale direzione, tende ad annullarsi, ad esempio attraverso l’abside concava. Diversamente, la percezione dello spazio per i popoli islamici si relaziona inevitabilmente anzitutto con un ambiente geografico differente; lo spazio desertico in cui le prime tribù, le carovane e gli eserciti dovevano ricreare il loro habitat, o semplicemente attraversarlo, li poneva in relazione con dimensioni indefinite. Per tale ragione la costruzione di un muro rappresenta un atto di delimitazione dello spazio, oltre che esprimere una direzionalità;
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in opposizione quindi alla visione occidentale, la direzione preferenziale viene definita da una delimitazione perpendicolare rispetto ad essa. Di conseguenza la disposizione dei fedeli sarà coerente con tale fruizione, organizzandosi per file parallele ad essa, secondo l’interpretazione di Giovanni Denti questo modo di disporsi può anche essere messo in relazione con l’abitudine degli arabi di procedere nel deserto per file estese in larghezza: l’ampio spazio a disposizione non obbliga ad incolonnarsi, com’è abitudine degli occidentali; la cavalleria degli eserciti arabi caricava con questa disposizione particolarmente efficace negli spazi aperti. Al momento della preghiera, i fedeli musulmani, concentrano la loro attenzione verso un punto invisibile ma terreno, la Mecca, identificato dalla qibla; i fedeli cristiani ritrovano nelle loro chiese un riferimento focale nell’altare, quindi un elemento
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tangibile, ma tendono a proiettarlo verso un punto ideale, ultraterreno. L’aspetto parzialmente secolare, ostinatamente congregazionale, dei primi spazi sacri per la religione islamica ha portato all’accettazione di un modello precostituito di organizzazione spaziale, quello dell’apadana achemenide. Tale struttura trabeata di dimensioni magnifiche, come nell’esempio della sala delle cento colonne presso Persepoli, è per il popolo persiano metafora di uno spazio naturale, il bosco sacro, e tenta di riprodurne l’atmosfera attraverso organizzazione spaziale e composizione formale. Questa tipologia di spazio assembleare verrà riprodotta dai popoli islamici, in proporzioni più modeste, con una primitiva enfasi delle dimensioni degli elementi strutturali che hanno poi sempre più assunto maggiore snellezza e sviluppo in altezza. Possiamo tuttavia ritrovare in questi
primi esempio, più che nei successivi, l’intimità dello spazio caratterizzata da quella che viene definita un’estetica dell frammentazione, in riferimento appunto alla reiterazione, secondo una cadenza ritmica, dell’elemento strutturale (pilastro) che porta a compimento la frammentazione dello spazio orizzontale ed inoltre una moltiplicazione dei livelli della copertura, frammentando lo spazio anche nel suo sviluppo verticale. Una sempre maggiore estensione dello spazio corrisponde con una sempre maggiore frammentazione, per motivi prettamente strutturali. La combinazione dell’elemento strutturale verticale, il pilastro, e del relativo arco o architrave, produce degli schermi ideali, invisibili ma che regolano la percezione, suddividendo lo spazio in singole unità “statiche” di matrice quadrata, compiute in se stesse. La reiterazione di queste unità offusca la linea visiva assiale, interferendo con
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la continuità dello spazio, eclissando qualsiasi punto di riferimento, producendo una polarità indefinita ed infinita di uno spazio che risulta in continua espansione in senso orizzontale. Questo tipo di spazialità assume una rilevanza significativa per i fedeli musulmani, probabilmente legittimata dalla capacità di produrre un senso di intimità e vicinanza, per il suo ridotto sviluppo in altezza e per la sua atmosfera chiaroscurale, che ben presto risulterà sempre più una costrizione. La monotonia di questo spazio parcellizzato impone ben presto la necessità di operare variazioni, quali la diversa spaziatura delle colonne, l’aumento in altezza di queste, oppure la moltiplicazione dei piani colonnati (tipica del tempio induista), l’introduzione della decorazione delle superfici, l’addizione di piani verticali come quello del cleristorio, o di elementi di dilatazione delle singole unità spaziali, le cupole.
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Anche nel trattamento delle superfici si riscontra una volontà di dilatazione spaziale, smaterializzando le stesse progressivamente; ciò avviene in modo rilevante nella moschea PanIslamica, attraverso la decorazione a muqarnas, di origine iraniana, e la volta ad archi intrecciati, di origine andalusa; entrambi dispositivi di alleggerimento delle masse che incombono schiacciando lo spazio. A questo tipo di organizzazione spaziale si oppone, alternativamente, l’estetica dell’integrazione, dello spazio non più frammentato dagli elementi strutturali, unitario quindi continuo. L’assimilazione di questo tipo di spazialità avviene certamente mutuando l’uso della cupola attuato dalle chiese dell’impero bizantino, soggiogato dalla potenza ottomana. Nessun dispositivo spaziale migliore della cupola dà la possibilità di generare uno spazio tanto grande ed unificato.
La rimozione degli elementi strutturali libera lo spazio dalla tirannia della massa, gli fa acquistare continuità panoramica e profondità tridimensionale. Masse e volumi sono plasmati entro cornici ed organizzati prospetticamente lungo un asse non più offuscato ma che converge in un punto all’infinito, che svanisce. Lo spazio così unificato, secondo una planimetria prima ottagonale, poi esagonale, che tende a diminuire sempre più l’incombenza degli elementi strutturali, tende verso una continua espansione. L’addizione successiva di semicupole è manifestazione di questa volontà di dilatazione continua dello spazio, in cui la funzione della decorazione, in un tale sviluppo delle superfici e composizione dei volumi, risulta essere quella di legare assieme le masse. In una spazialità connotata in tal modo la sensazione dell’inclusività
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sostituisce quella dell’intimità, il sentimento dei fedeli nell’essere compresi entro uno spazio che è anzitutto teatro di luce e colore. É anche attraverso la luce, infatti, che l’unità dello spazio, “waḥdat alwujūd” riesce ad essere espressa. La luce è, secondo l’interpretazione di Titus Burkhardt, ciò che l’”essere eterno” è per raffronto col mortale; essa è indivisibile e la sua natura non viene alterata dalla rifrazione o dalla transazione tra luce e buio, così come il nulla non esiste se non in opposizione all’”essere eterno”, così anche l’oscurità è visibile solo per contrasto con la luce, nella misura in cui la essa fa apparire l’ombra. “Non hai visto come distende l’ombra, il tuo Signore? E se avesse voluto l’avrebbe fatta immobile. Invece facemmo del sole il suo riferimento; e poi la prendiamo [per ricondurla] a Noi con facilità”. Corano (25:45-46) “Allah è la luce dei cieli e della terra.” Corano (24:35)
Harām
La luce è perciò simbolo della Divina Unità e per questo le superfici interne dello spazio di preghiera vengono ricoperte di mosaici, trasformandole in vibrazioni luminose; limitati in genere alla parte inferiore riescono nell’intento di dissipare la gravosità delle masse. Per lo stesso motivo viene introdotta la decorazione a muqarnas, che “alveolizza” le superfici intrappolando la luce e disperdendola in tenui gradazioni. Allo stesso tempo il colore rivela la ricchezza e le potenzialità della luce; è attraverso un’armoniosa combinazione di colori che ne comprendiamo la reale energia. Il lampadario stesso, fonte di luce, essenziale nelle prime moschee, assume una rilevanza spaziale, riportando lo spazio ad una dimensione orizzontale, quindi umana, attraverso un tappeto di luce sospeso sopra all’osservatore, altra superficie immateriale ed inconsistente
ancora più priva di gravità. L’architettura islamica riesce, attraverso questi mezzi, nella trasformazione dei corpi solidi in pura luce e nella scomposizione di essa in cristalli. Esiste un carattere, un sentimento, una percezione, attraverso cui accomunare queste diverse suggestioni spaziali. Se si può parlare di una resistenza spaziale, o meglio di una resistenza della percezione spaziale, la si può individuare nella tensione verso uno spazio in continua espansione, uno spazio che riesca a contenere l’intera comunità dei fedeli. Immagine, in un certo senso, che risulta dall’organizzazione della preghiera nel luogo sacro per eccellenza, la Ka’ba, attorno alla quale la popolazione dei devoti si raduna in una distesa senza limiti spaziali, senza gerarchie di alcun genere. Se si pensa che in origine l’Harām stesso era uno spazio aperto e le
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colline sacre, Safa e Marwa, entro le quali avviene la rituale camminata (sa’y), erano incluse all’interno di uno spazio urbano tra le abitazioni e i mercati; quello che prima era un ambiente è stato poi trasformato in un edificio, l’attuale Masjid al-Harām, cristallizzandone però, come avviene delle prime moschee, i caratteri “espansivi” e congregazionali.
Harト[
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Hagia Sophia, vista dell’interno.
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Grande Moschea di Cordoba, vista dell’interno.
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Alhambra, sala de los abencerrajes
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Moschea dello Shah, Isfahan.
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Harām
Z
ulla
Zulla; termine arabo che designa un’area ombreggiata. Si usava riferirlo alla copertura di una moschea o di un santuario.
Nei minareti, come nelle altre parti delle moschee, si leggono le trasformazioni e gli adattamenti che la cultura islamica ha attraversato in rapporto ai diversi contesti, e la sua capacità di mantenere inalterati alcuni principi fondamentali aprendosi ad ogni contributo. In rapporto a tale interpretazione di Giovanni Denti, lo sviluppo della cultura architettonica islamica nasce dalla continua relazione fra i diversi contesti sociali con cui è entrata in contatto. In un primo momento l’esterno della moschea rappresentava fedelmente una necessità spaziale interna; la necessità di capienza e al contempo le prerogative spaziali riportate nel paragrafo precedente, vincolavano l’edificio ad una composizione dell’esterno ordinata dall’interno. Tale atteggiamento coinvolgerà tutto il primo periodo della storia dell’architettura islamica a
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prescindere dall’area di riferimento. Possiamo individuare nello specifico quattro principali elementi architettonici rilevanti nella composizione dello spazio esterno della moschea: il corpo principale, il minareto, la cupola e l’arco (nei portici e negli Iwan). Ognuno di questi ha subito variazioni dal punto di vista formale e decorativo che risultano interessanti al fine di comprendere, prima nei singoli e poi nell’insieme ricomposto, come l’ambiente geografico, culturale e religioso abbia avuto un ruolo determinante. Al contempo, allo stesso modo del raggio luminoso che attraversa un prisma ottico, la resistenza di certi principi ne ha consentito al contempo la rifrazione. Seguono alcuni casi significativi riguardanti la moschea Pan-Islamica. Nella moschea araba si rileva tardivamente un interesse nei confronti della composizione
Zulla
dell’esterno, che si accresce a contatto con le tradizioni di altre culture presenti nel medio oriente, volta sempre più a ribadire una supremazia. Esempio più antico della composizione della facciata nella moschea araba è quello della grande moschea di Mahdia, in Tunisia, (X sec.), la facciata risulta da una scansione di cinque parti: un portale centrale decorato da nicchie, due ali “cieche” simmetriche e di altezza minore rispetto al portale che si concludono con due torrioni massicci. Nella tipologia araba non si riscontra tuttavia uno sviluppo compiuto dei fronti esterni e degli elementi che lo connotano; in corrispondenza del portale si ergeva solitamente il minareto, una costruzione massiccia che impedì lo sviluppo sontuoso dell’Iwan, che invece si verificò nella moschea iraniana. L’aspetto rilevante, in Iran, nel
discorso generale sull’architettura islamica, è che la composizione del portale, e quindi della facciata “istituzionale” della moschea, fu precedentemente sviluppata nei caravanserragli, quali ad esempio il Ribat-i Malik (1068-1080) ed il Ribat-i Sharaf (1114-1115), per poi essere applicata due secoli più tardi, compositivamente strutturata, alla moschea. Questo ed altri usi degli elementi e del linguaggio architettonico associato alla moschea per edifici secolari, quali Madrase o Palazzi, sono indici dell’appropriazione di un linguaggio, dell’attribuzione di un preciso significato ai segni e alle decorazioni, oltre che dell’onnicomprensività della volontà estetizzante. Nelle prime moschee non vi è ancora dichiaratamente l’intento di distaccare il corpo del santuario attraverso l’enfatizzazione della facciata, come avverrà in modelli
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successivi; tuttavia in alcune moschee arabe la facciata ad archi del santuario presenta un’altezza maggiore ed una certa enfasi nel portale, rispetto alle dimensioni delle arcate del portico, ponendo l’accento su di esso con l’addizione di una cupola; ne è un esempio la Grande Moschea di Qayrawan (863-875). Altro esempio è quello della Moschea di Damasco (709-715), che riprende la tripartizione della facciata dei palazzi bizantini, con una differenziazione più marcata tra portale centrale e ali laterali. Ulteriore esempio è quello della disposizione dei minareti ai due lati dell’Iwan della sala di preghiera, che ritroviamo in particolar modo nella moschea iraniana; un modello rilevante in questo caso è quello della moschea di Isfahan (VIII-XVII sec.) nella quale i colori dei mosaici e le decorazioni a muqarnas arrivano ad “infestare” le superfici esterne affacciate sulla corte.
Harām
Interessante è inoltre l’osservazione dello sviluppo dei minareti nelle diverse aree geografiche, dal punto di vista formale e decorativo; l’uso di motivi geometrici e vegetali tipico dell’Iran e dell’Egitto si incrocia con la decorazione in motivi architettonici, presenti nei minareti dell’intero mondo islamico. L’evoluzione della pianta e dell’elevato dei primi minareti risponde all’acquisizione delle forme delle torri campanarie delle chiese presenti nei territori in cui si sviluppa l’Islam. Per chiarire la questione prendiamo ad esempio i minareti del Maghreb, che si contraddistinguono per l’uso di motivi architettonici a scopo decorativo e l’adozione della pianta quadrata, come nell’esempio della torre Giralda, a Siviglia (1184-1198) prodotto eccellente dell’architettura almohade, affine alle forme dei campanili delle chiese della Siria e modello per i campanili del successivo
stile mudéjar, in Andalusia. La resistenza della Giralda, attualmente torre campanaria della cattedrale di Siviglia, dimostra la capacità di mimesi e di appropriazione di linguaggi architettonici dell’architettura islamica. É possibile generalizzare un atteggiamento della cultura islamica nei confronti di un contesto; a dimostrazione di ciò si capisca come gli esempi riportati abbiano risultati completamente differenti dalle moschee del centro Africa, dove la cultura rurale e i materiali utilizzati nell’edilizia erano sostanzialmente diversi. In questo scenario non si sente però la necessità ancora di modificare usanze e tradizioni architettoniche locali per enfatizzare l’istituzione sociale della moschea, ma piuttosto se ne alterano i connotati. Tale linguaggio architettonico costringe ad una forte reinterpretazione della
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moschea, ma allo stesso tempo non la limita nel suo sviluppo; la Grande Moschea di Djennè ne è la massima rappresentazione. Il confronto con l’arte concettuale indu e quella rappresentativocelebrativa bizantina sviluppa invece, all’interno della coscienza islamica, la consapevolezza delle potenzialità celebrativo-simboliche degli elementi e quindi della composizione architettonica. Il contatto con l’architettura bizantina corrisponde con il raggiungimento di una precisa composizione dei volumi nella moschea ottomana. Il modello della basilica di Santa Sofia, con il suo accorpamento piramidale delle masse, viene riproposto, attraverso una triplice scansione orizzontale delle facciate, il livello del portico, il livello delle cupole in copertura dello stesso ed infine il terzo livello, quello della cupola principale, con le relative semicupole. L’armoniosa simmetria viene esaltata
Zulla
dalla disposizione delle coppie di minareti, torri alte e snelle dal tetto conico, in corrispondenza degli angoli dell’impianto. La corte, non più in continuità con la sala di preghiera, ma “distaccatasi” formalmente per le rilevanti dimensioni del santuario, viene tradotta formalmente da una scansione ritmica di vuoti che alleggerisce l’incombenza volumetrica dell’edificio, sormontato da cupole e che si dilata in corrispondenza del portale d’ingresso, coronato da una cupola di dimensioni maggiori. La facciata della corte dall’esterno costituisce un recinto murario introverso, fratturato solo da piccole fenditure e nicchie. Il complesso si mostra quasi soggiogato dall’infinita moltiplicazione di cupole che costituiscono un landmark tanto quanto gli svettanti minareti. Esempi di questi capolavori di
composizione architettonica sono la moschea Selimiye presso Edirne (1569-1575) o la Sokollu Mehmet Pasha ad Istanbul (1571-1579). Al contempo la formazione dell’immagine della moschea indoislamica è il prodotto delle progressive acquisizioni, già illustrate nell’analisi storica, dell’idioma templare induista. I minareti assumono il linguaggio decorativo indù, abbandonando il muqarnas, coronati dal tradizionale padiglione indiano, il “chattri”. Il tema ricorrente nella moschea indoislamica è quello della totale separazione, magnificazione e differenziazione formale del santuario che contiene la sala di preghiera, e quindi il suo innalzamento al di sopra di un podio scavato da sontuose scalinate. Il distacco con il corpo porticato che ne costituisce il recinto è qui estremizzato; il peso si sposta definitivamente sul corpo della
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moschea. Dal momento che l’identità del santuario risiedeva, per gli architetti indiani, nella composizione del suo fronte principale è attraverso l’esagerazione delle dimensioni dell’Iwan principale, la triplicazione delle cupole “a bulbo”, l’inquadramento della facciata di ingresso dell’edificio per mezzo di svettanti minareti, che si compie la solennizzazione della moschea, che raggiunge il culmine del suo potenziale formale e decorativo nel periodo Moghul, con l’introduzione del marmo e della pietra rossa. Al costituirsi quindi di un corollario di forme e linguaggi architettonici di riferimento, segue consequenzialmente un’interiorizzazione di tale ‘catalogo’ all’interno della coscienza e della società islamica. Si procederà gradualmente e puntualmente all’esacerbazione degli elementi della moschea.
Harām
Il rapporto con realtà compositivoarchitettoniche sensibilizza fortemente la cultura islamica alla ricerca di una propria composizione; quel potenziale simbolico, dapprima interpretato nei singoli elementi, viene esteso poi a tutto il complesso architettonico. Gli esempi riportati possono esprimere da un certo punto di vista l’estensione delle prerogative spaziali interne ad una composizione architettonica dell’esterno; l’enfasi delle decorazioni negli elementi, lo sviluppo di una decorazione su alcune superfici esterne della moschea, la quasi eccessiva riproduzione di cupole e forse la mimesi dell’architettura all’interno di un contesto come quello africano, possono costituire esempi e riproduzioni quasi incosce di quell’estetica della frammentazione ed integrazione quasi come se le prerogative dello spazio interno riuscissero ad appropriarsi anche
della composizione architettonica.
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Zulla
La pianta procede dal dentro al fuori: l’esterno è il risultato di un interno. Gli elementi architettonici sono la luce, l’ombra, i muri e lo spazio.(..) Un edificio è come una bolla di sapone. Questa bolla è perfetta e armoniosa se il soffio è ben distribuito, ben regolato dall’interno.(..) Non ci sono altri elementi architettonici d’interno: la luce e i muri che la riflettono in largo spazio e il suolo che è un muro orizzontale. Fare dei muri illuminati significa comporre elementi architettonici d’interno. (..) Di conseguenza a Bursa, Hagia Sophia, così come nella moschea di Solimano ad Istanbul, l’esterno è il risultato dell’interno. Le Corbusier, Verso un’architettura.
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Harām
K
ulliyāt
Kulliyāt: termine arabo per esprimere un complesso architettonico composto da madrasah (scuola coranica), māristān (ospedale), khānaqāh (alloggio per i dervisci, monastero per mistici), bayt-al-māl (camera del tesoro), bazar, università, cucine, forni per il pane, (ecc.), che perimetra lo spazio adiacente della moschea.
Ancora una volta, abbiamo fatto riferimento ad un termine islamico poichè, più che rappresentare un vocabolo, esprime un particolare atteggiamento proprio della cultura islamica, tale da non essere esaustivamente traducibile. Kulliyāt rappresenta quell’insieme di edifici complementari della moschea che trovano senso di esistere in quanto l’ideologia religiosa supporta, in ogni aspetto, l’organizzazione sociale nel mondo musulmano. Come la città islamica si è formata in quanto contenitore della nuova società, così la moschea si è strutturata come l’edificio plirifunzionale che accoglie e rappresenta le attività fondamentali della società. (Florindo Fusaro) Non risulta un caso quindi che azioni liturgiche dettate dal Corano abbiano talmente soddisfatto le necessità sociali tanto da acquistare un ben preciso ruolo all’interno del complesso moschea.
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L’abluzione ad esempio, che affonda le proprie origini nelle condizioni climatiche della penisola araba dove la scarsezza d’acqua rendeva difficile l’igiene personale, viene allo stesso tempo validata dal Corano in quanto la preghiera può essere recitata solo in stato di purezza fisica e spirituale; spesso dall’obbligo religioso si manifestava successivamente il pretesto per la costruzione di servizi per la società come, in questo caso, i bagni pubblici. Elevando il processo ad istituzioni sociali è possibile ritrovare nell’evoluzione storica numerosi esempi di Kulliyāt, a partire dalla casa di Muhammad. L’alloggio di Maometto, infatti, oltre ad essere considerato uno dei primi luoghi di preghiera dell’Islam, assumendone anche la forma, una sala ipostila oblunga e poco profonda dotata di una qibla, risulta essere anche uno dei primi luoghi di assemblea sociale e discussioni
Kulliyāt
politiche. Nel 628, poichè le folle di seguaci che venivano ad ascoltare la parola di Maometto nella sua casa a Medina si accrescevano sempre di più, si decise di creare un pulpito rialzato su alcuni gradini, il minbar. Così fu anche dopo la morte del profeta; la salita al minbar nella moschea per dirigere la preghiera del venerdì divenne prerogativa dei califfi e dei loro governatori locali, l’atto era tanto religioso quanto politico. Così come nell’agorà greca o nel foro romano, il cortile della moschea era luogo di assemblea pubblica, serviva come tribunale, aula per discussioni e luogo in cui il califfo e il suo governatore erano acclamati e accettati dalla comunità. Il palazzo del governatore, Dār alImāra, veniva costruito, nelle prime moschee, a ridosso del muro della qibla, per consentire allo stesso di avere accesso alla sala di preghiera senza dover passare tra i fedeli.
Esempi significativi sono il Dār alImāra della Moschea di Basra (635), che comprendeva un dīwān (sala delle udienze) e una prigione, e quello della moschea di Kufa, che custodiva inoltre il Bayt al-Mal (il tesoro pubblico). L’area che “preserva”, quasi come il temenos dei santuari preislamici, l’edificio e la corte della moschea dal contesto urbano, è la cosiddetta “ziyada”, che deriva dal termine arabo che vuol dire “addizione” o “ingrandimento”. A ridosso del muro che delimita quest’area sviluppandosi attorno ai tre lati che racchiudono la qibla, si stabilivano numerose botteghe ed era a volte prevista la collocazione di una latrina pubblica, o semplicemente di uno spazio per l’abluzione, successivamente portato all’interno della corte della moschea. Interessanti sono gli esempi ben conservati della ziyada della grande moschea di Samarra, che estende
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la sua area di pertinenza ad una superficie di 17 ettari, e quella della moschea di Ibn Tulun, al Cairo, dove il muro esterno crivellato da nicchie ed aperture si prestava bene ad ospitare il bazar. Possiamo comprendere perciò come l’entità sociale della moschea si sia andata consolidando in parte spontaneamente all’interno delle città islamiche, immagine della potenza sociale di questa nuova fede unificante. La condizione dell’Islam agli inizi della sua diffusione implicava la necessità di difendere le frontiere dei territori conquistati, secondo K.A.C. Creswell questo avveniva attraverso i ribāt, dei fortini che alloggiavano soldati volontari che durante i periodi di pace si dedicavano alle pratiche religiose e allo studio. Queste strutture si sviluppano attorno ad un cortile circondato da un chiostro e comprendono al loro interno una moschea, come ad
Harām
esempio nel Ribat di Susa, un recinto fortificato di circa 34,5 m. che include anche un’alta torre cilindrica, utilizzata come torre di comunicazione coi Ribat vicini, ma soprattutto come minareto per la moschea. Con il normalizzarsi della condizione dell’Ifrīqiya, quel luogo cessò di essere un posto di frontiera ed i Ribat, con le relative strutture, conservarono solamente la loro funzione religiosa. In questo senso si sviluppa la storia di molte Madrase posteriori, nate come tali ma venute meno con l’accrescersi dell’importanza della moschea che ospitavano al loro interno; rari sono infatti i casi di madrase prive di una sala di preghiera orientata e di un minareto. L’istituzione della Madrasa nasce nel XIV sec. con l’intento di controbilanciare l’attaccamento popolare, tendenzialmente eretico, al sufismo, che incoraggiava il culto dei “santi” locali.
Nelle Madrase si insegnavano gli elementi della dottrina sunnita e si preparavano i burocrati per l’amministrazione statale. Molti di questi edifici riuscirono ad accorpare, al pari delle moschee, diverse funzioni, costituendo anch’esse dei poli sociali in continuo accrescimento. Un esempio è quello della madrasa BūʿInāniyya di Fez, in Marocco (1350-1355), destinata alla preghiera del venerdì, oltre che all’alloggio e all’istruzione degli studenti; sulla facciata settentrionale c’erano botteghe e una grande latrina pubblica di fronte al portale, che si aggiungeva a quella più piccola, dentro la madrasa. Il progressivo costituirsi di una rete di relazioni sociali attorno alle istituzioni di moschee e madrase le affranca al contempo da questioni di rappresentanza politica, tanto che si riscontra al contempo la costruzione di numerosi palazzi del potere, vere
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e proprie fortezze che ospitavano le residenze, le sale di ricevimento, le tombe e le sale di preghiera riservate ai governatori. Alcune di queste assumono le dimensioni di cittadelle, come nella Qal’a di Benī Hammād (XII sec.) o nel centro amministrativo residenziale di Madīnat al-Zahrā (936), spesso fulcri in accrescimento da cui si svilupparono città vere e proprie. Altri invece, come il Palazzo Aljiafería di Saragozza o l’Alhambra di Granada, testimonianza del potere e delle capacità del dominio islamico, erano grandi contenitori di servizi riservati al califfo e ai suoi ospiti. Interessanti sono anche i casi in cui la funzione religiosa e quella sepolcrale sono accostate all’interno di piccoli oratori, i mašhad; la compresenza di mausolei, o türbe (nella penisola anatolica), e moschee assumerà caratteri sempre più monumentali, portati alla massima solennità dalla tradizione indoislamica.
Kulliyāt
Più modesti, ma comunque significativi, sono i casi in cui califfi e sultani committenti della moschea, esprimono il volere di essere sepolti nella stessa. Interessante esempio è quella della moschea di al-Sālih Tālā’iʿ(XII sec.), nata come reliquiario essa sviluppa il tipo della muʿallaqa, la moschea “sospesa”, con botteghe a volta su tre lati, un tipo che verrà poi elaborato anche nella moschea di Rüstem Paşa ad Istanbul sopraelevata rispetto alla città, che offre sotto di essa lo spazio per botteghe e magazzini. Anche nella madrasa troviamo questo tipo di annessioni; un esempio è quello della madrasa egiziana del sultano Sālih (1241-1244), in cui lo stesso sultano era sepolto, la cui intera facciata articolata da nicchie era occupata dal Sūq al-Nahhāsīn . La tipologia di madrasa egiziana sviluppa questo potenziale sociale in numerosi edifici, di cui riportiamo alcuni esempi notevoli.
Quello della tomba e madrasa del sultano Qalā’ūn (1283-1285) che contiene anche la struttura di un māristān; la tomba e madrasa del sultano Hasan (1356-1359), giudicata il più notevole monumento dell’architettura islamica in Egitto, con madrase distinte e separate per i quattro riti musulmani ed infine la madrasa del sultano Qā’it Bēy (14721474). Quest’ultimo edificio, degno di un discorso a parte, è privo della solennità della madrasa di Hasan, ma è interessante per il tentativo di insediarsi in un quartiere urbano già denso, sfruttandone l’asimmetria, senza rinunciare ad includere numerose funzioni, quali alloggi per gli studenti, una fontana pubblica, una scuola elementare ed una tomba. É quindi evidente come la genesi di questi complessi di rilevanza sociale fosse solitamente un atto di volere del califfo o del sultano nell’ottica dell’adempimento di un dovere verso la comunità e verso
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la fede musulmana, ma altresì dell’autorivendicazione di un potere secolare. Il caso della Grande Moschea di Isfahan nega in un certo senso questa affermazione, giacchè il complesso risulta da ampliamenti successivi di autori diversi, senza un preciso disegno; l’addizione infatti di una sala a cupola a Nord, prima separata dall’edificio poi inglobata, resta ancora di interpretazione incerta, utilizzata forse come sala di preghiera femminile o come biblioteca. L’introduzione della struttura del caravanserraglio, anche definito Ribat, in Persia perde qualsiasi connotazione religiosa. Questi edifici, utilizzati dai Selgiuchidi per incoraggiare il commercio proteggendo le carovane, erano distaccati da altre strutture, ma prevedevano spesso al loro interno, come nell’esempio del Ribāt-i Šaraf (1078-89), degli appartamenti e una sala a cupola, probabilmente utilizzata
Harām
come sala di ricevimento. Allo stesso tempo l’importanza delle Madrase selgiuchidi andava accrescendosi sempre più nell’ottica di annichilire l’influenza sciita, diffondere la dottrina sunnita e preparare i funzionari dello stato. La rilevanza sociale di queste strutture si accresce di pari passo con la loro diffusione nel territorio. Attraverso le conquiste l’Islam riesce infatti nell’obiettivo di creare una fitta rete di divulgatori della dottrina a contatto diretto con le società conquistate, è quindi anche attraverso l’insegnamento della dottrina che l’Islam riesce ad ottenere consenso, fornendo oltretutto i servizi fondamentali alla società; una situazione analoga a quella delle abazie medievali. Nella penisola anatolica dopo un periodo di disordini e la fondazione degli emirati, nel XIII sec. la situazione risulterà favorevole per il sultanato selgiuchide di Rūm, furono
istituite numerose fondazioni di carità: waqf. Una tra queste fu la fondazione di Ḫwānd a Kayseri, una delle più antiche kulliye turche, che comprendeva una moschea del venerdì, una madrasa e un bagno. Anche la madrasa assume una rilevanza differente nella penisola anatolica; questi edifici non erano infatti sempre usati come scuole ma anche come ospedali, ambulatori manicomi e osservatori; uno dei primi esempi è la madrasa dell’ospedale di Keikāvus I, a Sivas, in cui fu costruita poi anche la sua tomba. I hān erano fondazioni di carità, presi a modello per i caravanserragli reali e quelli degli emiri, queste strutture davano la possibilità a tutti i viaggiatori di soggiornare gratuitamente per alcuni giorni e di usufruire di alcuni servizi. Si trattava di un chiostro generalmente a due piani che si sviluppava attorno ad un cortile e
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contieneva stanze con camini e bagni; era prevista anche la presenza di una sala di preghiera. Una ulteriore struttura di interesse che si sviluppò in Anatolia fu quella del complesso funerario; nel caso del complesso di Abdu s-Samad presso Natanz si costruì in prossimità di esso, nel 1316/17, un hānqāh, un ostello per dervisci; lo sviluppo di simili gruppi di strutture attorno alla tomba di un maestro religioso locale era tuttavia già iniziata precedentemente nel mondo islamico. Fu tuttavia l’impero ottomano a costituire alcune delle kulliye più maestose dell’impero musulmano. Con l’accrescersi dell’impero e quindi dell’influenza della burocrazia imperiale (Ulama, Šaih al-Islam) il potere dei dervisci andò diminuendo e così anche le strutture a loro dedicate, i tabhane, andarono perdendo la loro funzione originaria. La questione delle kulliye durante
Kulliyāt
l’impero ottomano, risentì certamente dello sviluppo architettonico e dell’occidentalizzazione di alcune usanze. Gli edifici quali la Kulliye di Bāyāzīd Yïldïrïm a Bursa, che contiene nel suo recinto di forma irregolare una madrasa, un mausoleo, i bagni ed un piccolo palazzo, con il profilo dei camini delle stanze degli studenti che movimentano il profilo del tetto, si svilupperanno sempre più in dimensioni, quantità di servizi e qualità architettonica. É d’obbligo perciò parlare di due delle Kulliye imperiali più rilevanti: la prima, quella della Fātih Cami ad Istanbul, in cui la rigida disposizione simmetrica e la sobrietà degli edifici vogliono essere espressione della potenza del nuovo impero ottomano; qui, attraverso l’ordine e la logica sono disposte nella corte, madrase a molte cupole, alloggi per i dervisci e altre fondazioni di carità, questo complesso svolgeva inoltre la
funzione di università. Seconda, ma non in importanza, è la Kulliye di Solimano, nella stessa Istanbul, realizzata dall’architetto Sinān, in cui la magnifica sala di preghiera è situata tra il sahn ed un recinto funerario. Quì l’unità centrale è separata dalle madrase e da altre fondazioni di carità mediante un muro con finestre, analogo in parte alla ziyāda delle prime moschee arabe. Alcuni di questi complessi vedevano sorgere in prossimità, o in contiguità ad essi, un bazar coperto, come nella moschea Selīmiye di Edirne. Il potere politico risulta definitivamente affrancato da tali complessi; ne è una dimostrazione il Top Kapu Sarāy, il solenne palazzo imperiale da cui il Sultano e il Gran Vizir amministravano la giustizia. Un caso singolare è quello delle moschee indiane, probabilmente traduzione dell’ideale esclusivista dei templi induisti. L’Islam non riesce infatti ad esportare
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in India l’ideale congregazionale e sociale della moschea; essa viene anzi esaltata nella sua maestosità e individualità, associata al più ad altrettanto maestosi mausolei. Contemporaneamente alla crescita dei fedeli musulmani, aumenta il bacino di utenza al quale questi complessi devono rispondere; questa necessità comporterà una distinzione nei servizi sociali tale da imporre un distaccamento dal pur sempre valido fulcro sociale della moschea; questo organismo rappresentava pertanto nel XIX secolo, dopo la caduta dell’Impero Ottomano, una tale minaccia per i colonizzatori occidentali al punto da favorire la decadenza della moschea in quanto polo di vita sociale e politica attraverso l’operato di architetti europei. A prescindere da politiche di colonialismo, che pur fanno intendere la reale forza sociale concentrata all’interno dell’edificio, il complesso
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architettonico della moschea è a sua volta esploso sotto la spinta delle trasformazioni politiche. A poco a poco, i rami si sono staccati dal tronco: la giustizia, la scuola pubblica, le opere di carità si sono liberate dalla tutela religiosa, e perfino dalla tutela politica, e la moschea è stata ricondotta al suo ruolo di tempio della fede. La fine della moschea in quanto cerniera di una rete di servizi per la società non coincide però con la perdità di quel ruolo sociale fondativo della stessa. A dimostrazione di ciò riportiamo un esempio valido a testimoniare l’atteggiamento, in senso inverso, di integrazione della moschea all’interno degli edifici pubblici; nel cià citato aeroporto Internazionale di Riyad-Re Khalid in Arabia Saudita la moschea sembra aver riacquistato la funzione di raccordo spaziale, coerentemente con una secolarizzazione del concetto Kulliyāt.
Il luogo di preghiera dunque acquista un’importanza simbolica nel comunicare la centralità dell’Islam nell’istituzione; si prenda in riferimento il già citato esempio di Gidda, in India. Approfondiremo dunque, il rapporto moschea-città nel prossimo paragrafo.
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Moschea del Venerdì Masǧid-i Sāh e bazar presso il Maidān di Isfahan,Iran.
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(da destra) Moschea di al Hakim; Moschea di Al-Aqmar; mausoleo e madrasa del Sultano Qala’un; madrasa e moschea del sultano Ashraf Barsbay; Università di Al-Azhar presso la strada Sharia al-Muʿizz; il Cairo
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Kulliye di Bayezid; Bursa, Turchia
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Kulliye di Solimano; Istanbul, Turchia
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ibla
qibla: ‹ḳìbla› s. f., arabo. – Termine, indicante propriam. il tratto d’orizzonte che sta di fronte a un osservatore, passato a designare, nel linguaggio religioso musulmano, la direzione verso cui è obbligo rivolgere il viso durante la preghiera rituale (direzione che nelle moschee viene indicata mediante una nicchia detta miḥrāb); e siccome per molti paesi musulmani la direzione della Mecca è circa a sud o sud-est, in varî dialetti arabi (Egitto, Africa settentr.) il vocabolo qibla è passato a indicare anche il sud in generale; e così l’agg. qiblī (in Libia, secondo la pronuncia locale, ghibli) ha preso il senso di meridionale e poi di vento proveniente dal sud.
142 E gli stolti diranno:”Chi li ha sviati dall’orientamento che avevano prima?”. Di’: “Ad Allah appartiene l’Oriente e l’Occidente, Egli guida chi vuole sulla Retta Via “. 143 E così facemmo di voi una comunità equilibrata, affinché siate testimoni di fronte ai popoli e il Messaggero sia testimone di fronte a voi. Non ti abbiamo prescritto l’orientamento se non al fine di distinguere coloro che seguono il Messaggero da coloro che si sarebbero girati sui tacchi. Fu una dura prova, eccetto che per coloro che sono guidati da Allah. Allah non lascerà che la vostra fede si perda. Allah è dolce e misericordioso con gli uomini. Corano, sura II; vv.142,143
Nella lettura e nella comprensione del testo sacro islamico si ritrovano informazioni e dettami a cui il fedele deve sottostare; tali regole di conseguenza caratterizzano e condizionano la coscienza del singolo fedele e quindi la società stessa.
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L’Islam rappresenta, in tal modo, una religione, una cultura e una società definita sotto la guida di un unico insegnamento che mira alla formazione individuale e ambisce ad un senso di appartenenza del singolo alla collettivivtà; nel momento in cui il fedele accetta la sottomissione nei confronti della divinità, elevandosi quindi a sacertote di se stesso, diventa parte integrante di essa. Tale sentimento, a differenza della cultura occidentale, individua un simbolo tangibile e terreno capace di essere riferimento costante ed indispensabile all’interno della vita del musulmano; in tal senso la Mecca rappresenta una singolarità appartenente all’universale. Ogni fedele, a sua volta, in quanto singolo e molteplice, celebra il rito attraverso l’orientamento nei confronti di quel simbolo sacro che risulta validato non tanto ora dalla sua reale esistenza, ma piuttosto nell’ideale che incarna; di
Qibla
conseguenza la direzione diventa unico elemento rappresentativo, valido ovunque il singolo si trovi e perciò anquista le peculiarità dell’universale. Si sviluppa così una cultura che si basa sul riconocimento personale anzichè, in opposizione a quella occidentale, su una rappresentanza. Questo è uno dei motivi per cui la religione islamica si è mantenuta valida ed intatta fino ai giorni d’oggi senza che una sovranità abbia ribadito nel tempo tale fede ed è interessante notare come, di conseguenza, sia sempre stata la risposta ad una necessità strettamente sociale. Per comprendere tale attitudine si prenda in esempio lo sviluppo storico e sociale dello spazio sacro islamico che, attraverso la stretta relazione con l’individualità del fedele stesso, ha sempre rappresentato uno stumento d’interiorizzazione della religione. Come già appurato, una qualsiasi spazialità, attraverso la legittimazione
dalla coscienza individuale, può appartenere all’ambito del sacro a tal punto che ogni luogo può avere tali caratteristiche; la preghiera per il musulmano, si concretizza sempre nella propria individualità in stretto rapporto con il divino. Si potrebbe dunque supporre che la moschea, in quanto spazio religioso, non sia strettamente necessario allo svolgimento del rito ma, se si considera come luogo congregazionale, come rappresentazione spaziale del sacro da parte di diverse individualità, non risulterebbe così scontato. La Sala di preghiera viene quindi convalidata esclusivamente dal dovere di rappresentarsi nella collettività che, nel medesimo istante, si orienta nei confronti della qibla. Di conseguenza è possibile interpretare la Mecca come la fonte da cui lo spazio sacro si manifesta, come centro simmetrico di un caleidoscopio in cui le moschee
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rappresentano i ricettori delle varietà cromatiche del sacro. Tale suggestione porta ad individuare un perimetro entro il quale la fitta rete di catalizzatori si distribuiscono; si deduce perciò l’individuazione di uno stato islamico. Lo Stato è la realtà dell’idea etica; lo spirito etico, in quanto volontà manifesta, evidente a se stessa, sostanziale, che si pensa e si conosce, e compie ciò che sa e in quanto lo sa. Nell’éthos, esso [lo Stato] ha la sua esistenza immediata, e nell’autocoscienza del singolo, nella conoscenza e attività del medesimo, ha la sua esistenza mediata, cosí come questa [l’autocoscienza] mediante il principio, ha nello Stato, in quanto sua essenza, fine e prodotto della sua attività, la sua libertà sostanziale. [...] Lo Stato, in quanto è la realtà della volontà sostanziale, che esso ha nell’autocoscienza particolare, elevata alla sua universalità, è il razionale in
Harām
sé e per sé. Questa unità sostanziale è fine a se stessa, è un assoluto, immoto, nel quale la libertà giunge al suo diritto supremo, cosí come questo scopo finale ha il piú alto diritto di fronte ai singoli, il cui dovere supremo è di essere componenti dello Stato. G.W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto,
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L’Islam nel mondo
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ār al Islām
Di tutti i cambiamenti di lingua che deve affrontare il viaggiatore in terre lontane, nessuno uguaglia quello che lo attende nella città di Ipazia, perché non riguarda le parole ma le cose. Entrai a Ipazia un mattino, un giardino di magnolie si specchiava su lagune azzurre, io andavo tra le siepi sicuro di scoprire cose belle e giovani dame fare il bagno: ma in fondo all’acqua i granchi mordevano gli occhi delle suicide con la pietra legata al collo e i capelli verdi di alghe. Mi sentii defraudato e volli chiedere giustizia al sultano. Salii le scale di porfido del palazzo dalle cupole più alte, attraversai sei cortili di maiolica
con zampilli. La sala nel mezzo era sbarrata da inferriate: i forzati con nere catene al piede issavano rocce di basalto da una cava che s’apre sottoterra. Non mi restava che interrogare i filosofi. Entrai nella grande biblioteca, mi persi tra scaffali che crollavano sotto le rilegature in pergamena, seguii l’ordine alfabetico di alfabeti scomparsi, su e giù per corridoi, scalette e ponti. Nel più remoto gabinetto dei papiri, in una nuvola di fumo, mi apparvero gli occhi inebetiti d’un adolescente sdraiato su una stuoia, che non staccava le labbra da una pipa di oppio.
Dov’è il sapiente? – il fumatore indicò fuori dalla finestra. Era un giardino con giochi infantili: i birilli, l’altalena, la trottola. Il filosofo sedeva sul prato. Disse: – I segni formano una lingua, ma non quella che credi di conoscere- . Capii che dovevo liberarmi dalle immagini che fin qui m’avevano annunciato le cose che cercavo: solo allora sarei riuscito a intendere il linguaggio di Ipazia.
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Ora basta che senta nitrire i cavalli e schioccare le fruste e già mi prende una trepidazione amorosa: a Ipazia devi entrare nelle scuderie e nei maneggi per vedere le belle donne che montano in sella con le cosce nude e i gambali sui polpacci, e appena s’avvicina un giovane straniero lo rovesciano su mucchi di fieno o di segatura e lo premono con i saldi capezzoli. E quando il mio animo non chiede altro alimento e stimolo che la musica, so che va cercata nei cimiteri: i suonatori si nascondono nelle tombe ; da una fossa all’altra si rispondono trilli di flauti, accordi d’arpe. Certo anche a Ipazia verrà il giorno in cui il solo mio desiderio sarà partire. So che non dovrò scendere al porto ma salire sul pinnacolo più alto della rocca ed aspettare che una nave passi lassù. Ma passerà mai? Non c’è linguaggio senza inganno. Italo Calvino, Le città invisibili, 1972
Il Dār al-Islām designa letteralmente la casa dell’Islam, il territorio facente parte dello Stato giuridico islamico
Dār al Islam
quindi dimora dei credenti. Tale concetto esclusivista, che si contrappone, secondo la legge islamica, al Dār al-Harb (“territorio della guerra”), ovvero quello abitato dai non musulmani, non rispecchia tuttavia alcuni, se non può dirsi la totalità, degli atteggiamenti che la dominazione islamica ha attuato nei confronti dei territori conquistati. La storia urbana dello stato islamico, da una lettura globale dei fatti succedutisi dopo la prima Ègira compiuta da Maometto nel 622 in fuga da Mecca verso Medina, si realizza attraverso un susseguirsi di appropriazioni, territoriali e culturali. Anche la stessa Medina, una cittàoasi il cui nome prima dell’arrivo del profeta era Yathrib, venne sconvolta nei suoi equilibri interni dopo l’Ègira, assumendo anche il nome di “città del Profeta”, ed essendo stata proclamata da Maometto capitale del nuovo Stato, centro politico ed
economico. La struttura sociale tribale che caratterizza le città di Mecca e Medina può dare in parte un’idea dell’atteggiamento che poi i conquistatori islamici svilupparono nei confronti dei territori posti sotto la loro dominazione. Henri Lammens parlava della Mecca come di una “repubblica mercantile”, divenuta un importante centro di scambi grazie alla presenza del santuario pre Islamico presso il quale avvenivano pellegrinaggi. Nel VI sec. la città stava vivendo un periodo di sviluppo del commercio tale da elevarla a centro finanziario in cui le oligarchie mercantili andavano componendo una classe sempre più forte, dedita all’accumulazione di beni materiali e, come per la maggior parte dei popoli nomadi arabi, pagana e fedele al principio di onore personale. Il messaggio del Corano, che parlava dell’esistenza di un dio supremo e
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creatore, Allah, tra le divinità fino ad allora conosciute, si sorprese particolarmente seducente tra alcuni membri di questa società, il cui rapporto con i commerci ed il denaro aveva comportato un impoverimento morale sociale e spirituale. Fu questa la prima conquista dell’Islam; l’appropriazione di un contesto sociale, poi territoriale, prima ristretto, poi in continua crescita, condizionato dalle parole di ammonimento che l’unico dio riservava verso la loro negligenza nei confronti dei doveri del singolo uomo. Dallo studio di queste ed altre vicende, emerge tuttavia un ulteriore piano di lettura, attraverso il quale è possibile definire l’atteggiamento urbano dell’Islam, oltre al più esplicito dell’appropriazione, quello dell’innesto. L’innestarsi in una realtà altra è infatti ben diverso dalla mera appropriazione; secondo Oleg Grabar
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“(...) Islamic culture in general and Islamic art in particular can be imagined as a sort of graft on other living entities, and the degree to which and ways in which the graft took, depended in some part on the body to which something was added.” Non esiste un’evoluzione unitaria delle civiltà islamiche così come non esiste una specifica forma di città islamica, in quanto essa è in primo luogo eco delle condizioni climatiche, ecologiche e topografiche locali oltre che del corpo di tradizioni, dello stato dell’arte e delle condizioni sociali delle suddette “living entities”. Il “corpo” sul quale questa civiltà si innesta tra il VII e l’VIII secolo, viene identificato dallo stesso Grabar come un’unica entità territoriale, che comprende Siria, Palestina, attuale Iraq e Giazira, la “Mezzaluna Fertile”. Il rapporto tra le civiltà pre Islamiche e i “conquistatori” avviene in un certo senso instaurando una relazione di reciproco scambio in cui
il dominatore eredita un impianto urbano infrastrutturale, in alcuni casi produttivo e precostituito. A sua volta il popolo nomade viene compreso in questa entità morale, lo stato islamico, che lo considera in senso egalitario. Nei territori dell’Iraq, ad esempio, i musulmani trovarono un sistema agricolo molto efficiente oltre che una serie di complessi, eredità di passate civiltà, come la città di Ctesifonte. Il sistema urbanizzato della Siria fu regolato da alcune città di maggiore importanza quali Damasco, Aleppo ed Antiochia, la quale vide il periodo della dominazione romana come epoca di maggiore fioritura dal punto di vista architettonico ed urbanistico. Altra questione era quella delle grandi aree desertiche ai limiti delle zone civilizzate, luoghi di peregrinazione delle tribù nomadi, intermediari tra i centri urbani maggiori e le oasi desertiche da cui si diffuse la nuova fede. L’area della Giazira, nella valle
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tra il Tigri e l’Eufrate, rappresentava già una frontiera aldilà della quale stava l’impero bizantino. Ognuna di queste aree, riunite per la prima volta dopo l’Ellenismo in un’unica entità amministrativa e culturale, entrò a far parte della “civiltà urbanizzata” islamica in modo differente. La sovrapposizione di un fitto sistema urbano alla realtà agricola dell’Iraq si realizzò in contrapposizione alla nascita di strutture isolate nei territori agricoli o desertici della Siria, che prevedevano degli appartamenti, una moschea, una latrina pubblica e una serie di altri servizi alla comunità. L’area della Giazira fu invece completamente trasformata, mantenendo il suo carattere di frontiera. Se ne comprese il significato commerciale e strategico, in quanto principale corridoio tra l’Iraq e la Siria e venne trasformata in un’area fortemente urbanizzata ed organizzata dal punto di vista
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agricolo. La diversità territoriale etnica e culturale dei territori dell’Iran comportò altresì un diverso tipo di “colonizzazione” avvenuta più lentamente attraverso la dislocazione di “ribat”, insediamenti militari, lungo le frontiere in progressiva espansione. L’Iran fu l’unica area in cui l’Islam riuscì a costruire solide radici, per la mancanza di civiltà antecedenti; contrariamente ciò non avvenne in altre aree anche ad esempio per la presenza Cristiana. Lo sviluppo di questi insediamenti ha assunto pattern differenti, aristocratici e di dimensioni minori in Siria, massivi ed urbani in Iraq, militari in nord Africa e nell’Asia centrale, ma il medesimo punto di partenza è quello dell’utilizzo che l’impero musulmano fa dell’ordine materiale estetico ed emozionale dei territori conquistati. Ogni regione ebbe modo di
sviluppare perciò un assetto urbano in risposta ai bisogni fisici che si presentavano; osserviamo come le città islamiche di fondazione, generalmente accresciutesi a partire da un primo insediamento di dimensioni minori, oppure le città islamizzate presentino situazioni talmente differenti ed al contempo non dissimili da quelle degli insediamenti pre-islamici, da trovare difficoltà nel discernere una forma effettiva dell’impianto urbano islamico. Si rileva tuttavia un tratto fondamentale attorno al quale ruota lo sviluppo della città islamica, quello dell’architettura del commercio (caravanserragli, mercati, infrastrutture, alloggi per i pellegrini); la città di Baghdad fu una delle prime a sviluppare la forma urbana del Suq, o “strada dei mercanti”, come cuore pulsante dell’economia, aspetto dinamico della città. Con la crescita delle città
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il cuore urbano del Suq viene incluso entro mura, ma una gran parte delle botteghe si aprono lungo le strade principali, sotto portici o pergolati. Questi complessi di strutture dedicate al commercio nascevano usualmente “all’ombra” di una Moschea, come accadde nella città di Costantinopoli; fu attraverso l’innesto di queste strutture nell’impianto urbano precostituito, quasi come nel collage combinatorio della Roma Interrotta di Stirling, che la più grande città dell’impero Bizantino si trasformò nel centro politico dell’impero islamico degli Ottomani. Oggetto dei desideri dei musulmani, “Voi conquisterete Kustantiniyya. Salute al principe e al popolo che riporteranno questo successo!” (Ali, Kunh al-akhbar, V, 252; Solakzade, 194; Ewliya, I, 32 ss., 73; Ali Sati, Hadikat al-djewami, I, 2 ss.) la città di Costantinopoli, dopo la conquista da parte del sultano Maometto II, prese il nome di
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Islām-bol, letteralmente “dove l’Islam abbonda”. Le misure attuate dal Sultano, dopo aver ordinato la cessazione delle battaglie per evitare la distruzione della città, volte ad impedirne lo spopolamento, rivelano un interesse che va aldilà della mera conquista nello spirito “tribale” del termine. Il principio fondamentale osservato nello sviluppo della Istanbul Ottomana, fu quello di conferirle i caratteri di città islamizzata, dove ogni musulmano poteva vivere secondo le prescrizioni del Corano, perciò nell’antica, ma ancora valida per l’Islam, tradizione medio orientale dell’accrescimento di una città attorno ad un luogo di preghiera, primo fra tutti la Basilica di Santa Sofia, la “Grande Moschea”. Le prime istituzioni sociali ed economiche a promuovere lo sviluppo della città e il benessere dei suoi cittadini sono relazionate all’istituzione dei waqfs di Aya
Sofya, fondi caritatevoli destinati alla costruzione di distretti e di quartieri, che si dispersero poi a macchia d’olio nella città sempre in riferimento ad una jami o ad un masjid, quest’ultima delle dimensioni di una moschea di quartiere. Quanto al rapporto con i non Musulmani, nell’ideale Ottomano e religioso della tolleranza, esso si mantenne di reciproco scambio, capace di mantenere lo status di città cosmopolita quale era Costantinopoli. La creazione di una fitta rete commerciale di bedestān (mercati) e khān (caravanserragli) non potè che venire di conseguenza, di pari passo con l’istituzione dei waqf permettendo alla città di assumere una posizione privilegiata. Questi mercati divennero centrali nello sviluppo economico della città di Istanbul, che viene interpretato da R. Mayer in “Byzantion, Konstantinupolis, Istanbul”, nel rispetto della tradizione delle antiche
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città orientali, come un accrescimento progressivo di quartieri attorno alla fondazione di un nucleo centrale religioso e commerciale. La rete di strade, con l’eccezione della maggiore strada del commercio, nacque nella casualità dell’accostamento di un quartiere ad un altro, per volontà dei Pasha e dei sultani susseguitisi, a cui le numerose moschee di Istanbul furono dedicate. Un insieme di vicoli tortuosi e culde-sac che nascono, come suggerisce (.....), non a causa delle “case di legno” che bruciano, ma da una situazione preesistente, lasciandoci ancora una volta osservare il carattere di “innesto” che ha assunto la dominazione islamica nei confronti di questa città. “Nelle città prive di una pianificazione urbana, risultato di un accrescimento spontaneo” afferma T. Burkhardt nel suo libro Art of Islam, “l’unità del tutto è garantita dalla perfetta omogeneità della forme delle
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sue componenti, e questo dà alla città l’aspetto di un agglomerato di cristalli dalle forme regolari, in varie dimensioni e combinazioni”. Questa omogeneità non è altro che, sempre secondo l’interpretazione di T.B. l’oggettivazione della Sunnah, di un codice comportamentale che ogni musulmano è tenuto a seguire, in tal modo che la sua città venga da sè immagine dello stesso corpo di regole. Da come lavarsi, come sedersi a terra, come mangiare tutti insieme attorno ad un tavolo, come comportarsi nei rapporti familiari e nei rapporti con lo straniero, la Sunnah, più o meno indirettamente, plasma i costumi, le case e di conseguenza l’intera città. È così che l’urbanistica delle città islamiche riesce al contempo a soddisfare necessità materiali e doveri spirituali, diversamente dall’urbanistica occidentale moderna che ha lasciato che le necessità materiali, fisiche e spirituali
dell’uomo si dissociassero, orfana di una guida tanto forte da tenere assieme questi dominii. Uno dei principi fondamentali della Sunnah, da cui deriva la “pianificazione” delle città islamiche, è quello della separazione tra commercio e vita domestica. Le aree urbane del commercio si dispiegano lungo le vie principali e, al contempo, le abitazioni sono dislocate in aree distanti da quelle dei mercati, lontano dal traffico, introverse nella loro forma urbana. Le case delle città islamiche, organizzate attorno ad una corte interna che garantisce le necessarie quantità di luce e aria, sono introverse, metafora della donna velata, che domina la casa in quanto haram, luogo che non può essere violato. La donna è infatti in un certo senso parte della vita privata dell’uomo islamico e, se la casa è priva di finestre sulla strada, costruita attorno ad una
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corte interna, non è certamente solo in risposta ai climi torridi, bensì ad un’attitudine simbolica, regolata dallo stesso codice comportamentale, la Sunnah. Questa accentuata caratterizzazione simbolica eleva la stessa corte interna, spesso caratterizzata dalla presenza di fontane, ad immagine del paradiso coranico. Estendendo la singola unità all’intero quartiere osserviamo la ricorrenza di quartieri organici denotati dalla presenza di una Moschea, di una scuola Coranica, ed una latrina pubblica, amministrati dalla comunità stessa che si organizza entro “consigli” di quartiere, guidati da un’etica che gli ha permesso di mantenere, pur nell’assenza di un clero “guida”, il rispetto dei vincoli religiosi e l’identità pure a contatto con i popoli non musulmani. È anche nel rispetto di tale etica che le gerarchie si mantennero valide; le corporazioni degli artigiani, difensori
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di specifici interessi della città, non aspirarono mai a detenere il potere aristocratico degli “Ulama”, dottori delle scienze coraniche ed intermediari tra la comunità di credenti e il sovrano. È così che la società islamica trova il suo riflesso nella città ed al contempo ogni città si eleva ad immagine della Città per eccellenza, il Dar al-Islam, la Città dell’Islam.
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cittĂ di Ghadames, Libia foto di George Steinmetz
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città di Sana’a, Yemen
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cittĂ di Tetuan, Marocco
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citta di Istanbul, quartiere BeyoÄ&#x;lu
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Grand Bazaar, distretto di Fatih, Istanbul
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cisterne della conceria; Fès, Marocco
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strada del distretto Babal Yemen; Sana’a, Yemen
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citta di M’Hamid, Marocco
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cittĂ di Chefchaouen, Marocco
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Medina (cittĂ vecchia) di Rabat, Marocco
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strada della cittĂ di Meknes; Marocco
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�
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C
onclusioni
Per imparare a capire l’architettura occorre, innanzi tutto, comprendere quale sia la sua specificità, vale a dire in che cosa si differenzi rispetto a tutte le altre arti. Si capirà allora che a suo fondamento non stanno né gli effetti plastici, che caratterizzano la scultura, né ritmi e armonie, che sono propri della musica, né valori pittorici e chiaroscurali o astratti che sono tipici della pittura. L’unico attributo costante dell’architettura è, invece, la caratteristica di determinare uno spazio nel quale l’uomo vive e opera. Cioè un interno senza il quale facciate, decorazioni, colori dei muri non dicono nulla. Bruno Zevi; Saper vedere l’architettura.
La moschea ha rappresentato, nella storia dell’Islam, quell’elemento catalizzatore e unificatorio di un senso di appartenenza, tale da poter essere assimilabile da culture, ideali, popolazioni e contesti completamente diversi tra loro e potenzialmente contrastanti; attraverso una credenza, un sentimento collettivo, solidificato da un senso religioso, si è convalidata come luogo di rifugio sacro dall’esperienza del numinoso, sentimento creaturale, d’impotenza dell’uomo di fronte al tutto. Alla base di tale prerogativa esiste una passione, un credo che è riuscito inevitabilmente ad introiettarsi all’interno della coscienza umana attraverso i mezzi dello spirituale, diventando cosi svincolato da un contesto storico, sociale, temporale. Qualsiasi musulmano nella storia ha potuto, e tuttora può, rappresentarsi all’interno di uno spazio sacro ‘personale’, in risposta ai propri timori che, coerentemente a quel
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senso di appartenenza, vengono estesi ad una collettività; di conseguenza lo spazio di preghiera, così irrisolto e smaterializzato, svincolato da un’iconografia rappresentativa, può farsi da portavoce di quella flessibilità interpretativa ed individuale. Allo stesso tempo quindi tale spazialità, astratta dal contesto religioso, avrebbe la potenzialità di essere intesa come uno spazio di meditazione, sacro, in risposta a qualsiasi potenziale timore umano; nell’esperienza del sacro non vi è distinsione fra culture ma piuttosto d’individualità che vi si rappresentano in risposta all’affascinante paura innata nella coscenza umana. Secondo Marc Augé, Il criterio del ‘riconoscimento’ è qui determinante: tutti noi abbiamo bisogno di luoghi dove ci riconosciamo, e dove gli altri ci riconoscono come noi li riconosciamo. Così, si può osservare come ciò che è un luogo per alcuni sia un non-luogo per altri, durevolmente oppure no;
Conclusioni
di conseguenza Il luogo, nel senso più completo del termine, è uno spazio dove la relazione è chiara, dove l’interconoscenza è massima, dove ciascuno ha il suo posto e conosce quello degli altri. È dunque anche uno spazio investito di un tempo (il campanile e l’orologio del villaggio hanno valore di riferimento e di simbolo) e di un linguaggio: si è ‘da me’ là dove gli altri ci capiscono e dove noi li capiamo ‘al volo’. Tutto ciò che ci allontana dalla relazione sociale ci allontana parimenti dal luogo. Si capiscano quindi le motivazioni che hanno portato l’uomo contemporaneo, in rapporto a tale necessità di rappresentazione, a non far più affidamento ad un elemento tangibile come quello spaziale, appropriandosi quindi di un non luogo,in una completa messa in scena del mondo. Quella surmoderna è una societa che si appropria di un mondo virtuale quasi nella creazione, paventata, di un
non me, nel cui rapporto l’architettura si riduce ad una scena, un puro spettacolo di se stessa. Quest’ultima inevitabilmente, coerentemente alla citazione di Bruno Zevi riportata, non può tradurre uno spazio sacro perchè in riferimento ad una società incapace di comprenderne quella specificità. Dall’analisi svolta però si evince come, attraverso l’emancipazione di un idiale comune, lo spazio architettonico riesca ad essere allo stesso tempo rappresentazione e rappresentante; come l’individuo riesce a riconoscersi in quella spazialità, poichè manifestazione della propria coscienza, in senso inverso lo spazio riesce a comunicare un’essenza di sacralità universale, nel quale ogni singolo può identificarsi. L’architetto quindi, in quanto parte attiva della società, dovrà necessariamente interrogarsi sull’individuazione del proprio spazio sacro, in risposta ai propri timori, in modo da costruire un luogo, e
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di opporsi ad un non luogo; la sua non sarà nient’altro che un’esegesi della propria coscienza, attraverso un linguaggio potenzialmente universale. Il Complesso residenziale Monte Amiata nel quartiere Gallaratese, di Aldo Rossi e Carlo Aymonino, costruito intorno alla fine degli anni ‘60, testimonia la capacità dell’architettura di rappresentare un ideale condiviso; lo spirito politico viene posto alla base di una progettazione avanguardistica capace di accostare una notevole massa volumetrica degli edifici ad una piazza di libero sfogo sociale. I notevoli risultati di quegli anni però, devono però essere confrontati con il disuso della quotidianità odierna; ad oggi, qualora si andasse a visitare il complesso, se ne percepirebbe il processo di decadimento di quegli spazi, declinati a spazi serventi. Di conseguenza un’arena diventa un cratere nel momento in cui non viene
Harām
vissuta e la massa volumetrica ha il sopravvento. L’attivismo sociale degli anni settanta ben esprimeva il concetto di un ideale comune capace di esigere, a volte, un luogo in cui riconoscersi ma, al contempo, con la difatta di quello stesso “committente” ne ha decretato sua stessa la fine. Per tale motivo non si attribuisca la validità di uno spazio sacro indipendetemente dal contesto sociale e temporale di riferimento; se l’Islam paradossalmente decadesse, decreterebbe al contempo il fallimento delle moschee. Ritornando quindi alla società surmoderna, la convalida del nonluogo e, in un secondo momento, del non-me sancirebbe la fine di una collettività e quindi di un’architettura. Per evitare ciò, dalla lezione appresa dalla cultura islamica, è necessario un confronto delle diverse interpretazioni e non un riferimento, in modo da dare la possibilità
all’architettura di riappropriarsi della percezione umana. L’obbiettivo è quindi quello di stipulare dei fundamentals della coscienza umana in opposizione ad una progettazione che si è fatta immagine del desiderio dell’uomo tralasciando i suoi timori. Il ruolo dell’arte è di alienare e dislocare l’uomo del suo ambiente in maniera tale che venga forzato a vedere nuovamente cosa quell’ambiente è. Peter Eisenman
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