Illustration & Saul Steinberg

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MARGHERITA GIORDANA NABA GRAPHIC DESIGN & ART DIRECTION ESAME DI TYPOGRAPHY



L’ILLUSTRAZIONE & SAUL STEINBERG


L’illustrazione, intesa sia come integrazione grafica a testi letterari, sia come messaggio visivo divulgativo, da cui deriverà una vasta e differenziata produzione di manifesti pubblicitari, si afferma come vera e propria forma d’arte in concomitanza alla nascita dello stile Liberty, la versione italiana dell’Art Nouveau, che declinerà nella più sobria Art Decò dopo la tragedia della guerra del ‘15-’18. E’ noto come in Italia il Liberty resti sostanzialmente un’esperienza “di riporto” da altre nazioni europee di ben altro fermento intellettuale e sociale (Austria, Germania, Francia, Spagna), un movimento epidermico e scarsamente motivato, che tuttavia, forse proprio per questo, supererà nel campo delle cosiddette arti minori le altre nazioni europee, almeno dal punto di vista strettamente e limitatamente tecnico. Per la prima volta in Italia si intravede la possibilità che l’arte possa essere un’esperienza quotidiana grazie alla nobilitazione delle arti minori ed alla loro capillare diffusione nel contesto sociale. Anche se, nel periodo di fine ‘800, sul piano dell’innovazione linguistica degli stili e dei contenuti, gli illustratori e designer italiani preferiscono adottare passivamente lo stile “di moda” nella cultura europea piuttosto che


rielaborare in chiave personale elementi espressivi originali, innestati sulla tradizione italiana. Architettura e design d’interni, disegno e produzione di mobili, lavorazione dei metalli, del vetro e della ceramica, stampa di disegni su stoffa, illustrazione di libri, creazione di manifesti, sono molti i campi in cui l’estetica liberty finisce per definire un nuovo rapporto con l’oggetto d’uso comune, con il decoro degli ambienti domestici, con i complementi d’arredo a funzione ornamentale. Grazie all’avvento della produzione industriale, è stata resa alla portata di tutti tramite l’introduzione di una nuova percezione dell’arte, della sua funzione culturale e didattica nella formazione del gusto estetico delle masse. L’illustrazione dopo essersi svincolata dalla definizione di arte minore, diventò un moderno mezzo di comunicazione non solo culturale, ma ampiamente sociale. Questo ha contribuito a sciogliere il nodo del rapporto tra espressione artistica e serialità industriale anche nel campo delle arti visive. Da allora, dalle prime realizzazioni marcatamente influenzate dallo stile delle stampe giapponesi, l’illustrazione si è progressivamente affrancata dalla sua posizione accessoria,


confrontandosi alla pari con tutte le altre forme di arte visiva, specie dopo la nascita dei moderni sistemi di riproduzione tecnologica dell’immagine (fotografia e tipografia) che hanno messo in crisi il concetto dell’unicità dell’opera d’arte. Oggi, superato in parte lo scontro dialettico fra unicità e serialità, e concluso in qualche misura il dibattito aperto dalla Pop Art in modo provocatorio e dirompente negli anni ‘60 (la serialità è forse l’innovazione artistica più importante che Warhol abbia escogitato), è comunemente acquisito che la ripetitività di un’opera in un numero imprecisato di copie, sia un multiplo, una riproduzione tipografica o un’illustrazione, abbia il merito di permettere una divulgazione ed una fruizione dell’arte su scala macroscopica, in una società sempre più democraticamente allargata. Ciò ha contribuito alla formazione di una nuova sensibilità estetica che vada al di là delle diversità sociali e culturali, nel nome dell’universalità del linguaggio artistico. Questo è un momento di transizione molto importante e delicato per tutto il mondo della comunicazione visiva. Si sta preannunciando un mondo nuovo, una nuova era e questo mette in subbuglio tutti: i più esperti e affermati perché devono


adattarsi al progresso delle tecnologie e al cambiamento del pubblico, i più giovani perché entrano in un mondo che alle volte è tuttora ancorato a dinamiche e modi di pensare ottocenteschi. L’illustrazione veniva definita come “l’immagine che illustra o accompagna un testo”. Oggi è qualcosa di molto di più, il concetto ha superato il suo significato originale. L’illustratore è uno dei mestieri più ambiti eppure incompresi e fraintesi che esistano nel mondo della comunicazione, poiché in genere viene visto come un creativo-esecutivo che si muove sotto la direzione dell’art director o la regia di un graphic designer o a volte di un capo redattore o di un responsabile editoriale. Alle volte ha competenze da progettista e da graphic designer (allora lo si può considerare un Graphic Artist), molte volte è soprattutto un’artista che usa ogni tecnica e stile esistente per costruire le sue immagini. Insomma, si pensa spesso sia una figura che sta in basso rispetto al livello decisionale e progettuale di un lavoro, pur essendo un lavoro ambito per il fatto che è idealmente divertente e ha un effetto tangibile sul pubblico a cui viene messa in moto la fantasia.


L’illustratore, nella sua accezione più moderna, è un autore per immagini, cioè sceglie un mezzo (le immagini appunto) per esprimere sensazioni e pensieri, senza l’aiuto di parole, se non in modo funzionale o decorativo. Grazie all’illustrazione alcune suggestioni possono essere trasmesse al lettore, non perché scriva, ma perché esprime i propri concetti e le proprie idee con il mezzo espressivo che gli è più congeniale: costruire immagini. Noi ragioniamo per immagini: ad esempio, pensando alla felicità, non visualizziamo la parola ma un’immagine, i cui colori e forme agiscono a livello inconscio e parlano direttamente, senza filtri. Quello dell’immagine è un linguaggio universale, che non ha bisogno di traduzioni, poiché parla attraverso suggestioni che spesso sarebbe impossibile creare a parole. Il fatto di dire “viviamo in un mondo dell’immagine” non ha affatto un’accezione negativa, anzi, spesso le immagini sintetizzano o descrivono contenuti che altrimenti sarebbe impossibile fare con altri linguaggi. L’immagine non presuppone la conoscenza di un registro e per questo motivo è democratica, perché mette chiunque nelle condizioni di “leggere” un contenuto. Pensiamo a quante informazioni riceviamo attraverso le immagini che altrimenti faremmo fatica a recepire, senza dimenticare che impariamo a leggere proprio attraverso le immagini, associando delle figure alle lettere dell’alfabeto. L’illustrazione oggi non è più solo accompagnamento o riempitivo, ha una sua valenza specifica frutto della


consapevolezza di essere un linguaggio universale. Questo ha permesso una stimolante sfida intellettuale tra molti artisti contemporanei che si sono dedicati all’illustrazione di testi come Baj, Bonalumi, Munari, Guttuso, Chagall, Treccani, Depero, Messina, Steinberg. Sono riusciti a fornire la propria interpretazione dello scritto, in cui il segno si confronta con la parola evidenziando l’aspetto dell’arte come mezzo di divulgazione di contenuti non solo culturali, ma come strumento di comunicazione sociale, contribuendo in modo determinante al successo di un libro o di una pubblicazione. L’illustratore non è più soltanto un “figurinaio”, ovvero un artista che descrive un testo con un’immagine, ma è un autore egli stesso: costruisce immagini, è a tutti gli effetti un creatore di contenuti.






“Io sono tra i pochi che continuano a disegnare dopo la fine dell’infanzia, persistendo a perfezionare i tratti infantili, senza le tradizionali interruzioni accademiche”. Per un illustratore è difficile venire ricordato in quanto disegnatore di linee, quindi minimale, minimo, senza sotterfugi o addirittura colori. È difficile perché si semplifica talmente la rappresentazione da rasentare l’astrazione, ma chi ci riesce raggiunge un equilibrio meraviglioso con l’essenza delle cose e la chiarezza del linguaggio. Negli ultimi decenni l’immaginario visivo ha continuato ad arricchirsi e accumularsi, preferendo immagini fastose, piene, rispetto ad immagini essenziali, minimali, scarne, visivamente monosillabiche, quasi simboliche. Si è preferito il rumore al silenzio, la presenza all’essenza. La paura del vuoto e della calma ci ha portato a riempire ogni angolo del nostro spazio visivo e mentale, con il risultato che spesso tutto questo accumulo di immagini non ci trasmette niente, nessuna emozione, se non un’ansia e un desiderio di ulteriore accumulo. Diventiamo dipendenti della ricerca, sperando che la prossima immagine sarà sempre più bella e significativa. Eppure basta alle volte molto meno per comunicare con un’immagine: questo è quello che ci ha insegnato Saul Steinberg, uno dei più grandi artisti del Novecento. Nato in Romania negli anni Dieci, si trasferisce poco più che ventenne a Milano per completare gli studi e inizia a pubblicare le prime vignette satiriche. Prova a scappare dall’Italia nel 1940,


ma a causa delle leggi razziali viene arrestato e incarcerato a San Vittore. Scapperà solo un anno dopo, sbarcando negli Stati Uniti dove rapidamente troverà il successo. Lavorerà subito per il New York Times per il quale lavorerà 60 anni, realizzando 642 illustrazioni e 85 copertine, di cui alcune memorabili. È un artista che crede nel dominio del segno, dell’auto consapevolezza della linea. Crede soprattutto che il disegno, senza troppi orpelli, sia perfetto per rappresentare un pensiero. Così dalla sua penna scaturiranno centinaia di giochi e paradossi visivi, che via via saranno ripresi e rielaborati dagli artisti successivi: la sua opera diviene una delle più grandi raccolte di raffigurazione del pensiero in disegno che si possa immaginare. Affermava che il suo era un ragionare su carta e quando disegnava analizzava la società e gli istinti degli uomini. Erroneamente veniva considerato un cartoonist, in Italia un vignettista umoristico: nè illustratore né artista. “La gente, quando vede un disegno sul New Yorker penserà automaticamente che fa ridere perché è un cartoon. Se lo vedono in un museo, penseranno che è artistico e se lo troveranno in un biscotto della Fortuna penseranno che è una predizione. Il disegno è pensiero: trasforma qualcosa di intangibile che si è formato nella nostra mente in un insieme di segni che diventano visibili su di un foglio. Il disegno, nella sua forma più pura di “segno”, cioè ridotto ad una linea che da sola riesce a descrivere mondi, attraverso forme e trame, è una delle espressioni umane più semplici e potenti.


Uno dei linguaggi più intelligenti che l’essere umano abbia imparato a sviluppare.” Eppure si avvicinano a lui molti grandi intellettuali dell’epoca: da Italo Calvino a Roland Barthes, Eugene Ionesco ed altri che hanno contribuito a consacrare l’arte di Steinberg come rappresentazione universale della condizione umana. Si capiva che il suo pensiero sul disegno era in qualche modo condiviso dalla ricerca artistica di Sol Lewitt, dalle sculture di Calder, dall’essenzialità di Bruno Munari. Il suo stile essenziale fu un punto di partenza per vignettisti e illustratori, che fanno del segno uno strumento corrosivo per denunciare la stupidità e i paradossi del mondo occidentale. Viene considerato una grande influenza per il grande cartoonist argentino Quino, che nelle sue illustrazioni satiriche prosegue la tradizione di Steinberg, caricandola di un barocchismo tipicamente sudamericano. Si rifanno a lui in anni più recenti Guido Scarabottolo attraverso i suoi scarni paesaggi metafisici ed il geniale Serge Bloch che gioca con il segno, le foto e il bianco e il nero. Le rappresentazioni di Steinberg sono assolutamente archetipiche, anche se lui amava parlare di maschere: quando rappresentava una donna non era interessato a ritrarne la carne, le fattezze, l’eventuale bellezza, ma era interessato alla sua maschera, alle sue dinamiche sociali, alla storia che poteva raccontare. Spesso è ritratto con un sacchetto di carta in testa: questa era la sua idea di maschera. Qualcosa che potesse camuffare, che permettesse un nascondiglio.


Diceva che le donne in America indossavano continuamente maschere, ad esempio quando si truccavano, perché quello era un loro modo di difendersi dalla società. Ci sono alcune caratteristiche ben riconoscibili nella sua arte. La prima è il dominio della linea: pulita, nera, fatta a pennino più che a pennello, sulla quale affermava che essa vuole costantemente ricordare che è fatta d’inchiostro. La seconda è l’uso dello stile del disegno per esprimere diversi caratteri umani. La terza è l’uso del tratteggio in bianco e nero, anche questo funzionale a ciò che deve rappresentare. La quarta è l’uso particolare dei balloon, dei segni d’interpunzione e di tutte le decorazioni tipiche della calligrafia. Sono anche questi oggetti e simboli funzionali all’illustrazione che non vengono mai trattati come semplici contenitori o decorazioni, ma raccontano anche loro qualcosa. La quinta è quella del divertimento intelligente, del paradosso come strumento di comprensione: Steinberg gioca con le fotografie, con il concetto di identità creando fantasiosi passaporti con gli stili. La parola è salvezza, libertà, ed è senza dubbio al ruolo essenziale della parola che va ricondotta la vocazione di Steinberg. “Io sono uno scrittore. Disegno perché l’essenza di un buono scritto è la precisione, e il disegno è un modo preciso di esprimersi.”


La caricatura, in effetti, non possiede una natura squisitamente visiva, al contrario essa rappresenta la forma più visiva che possa assumere il pensiero, il linguaggio. Ciò che differenzia un disegno non è tanto il talento, quanto la sua funzione: il primo si guarda, il secondo si legge. L’accusa di “letterarietà” non spaventa affatto Steinberg. “Tutto, in arte, ha un’origine letteraria, fatta eccezione per l’Espressionismo Astratto, che nasceva dall’attività del corpo e non dal pensiero. E anche lì, a ben pensarci, l’Action Painting metteva in opera l’intelligenza del corpo, e tutto ciò che deriva da una qualunque forma di intelligenza rientra in parte nella letteratura. L’intelligenza del corpo è la metafisica del fisico.” Tutto parla, del resto. “Tutto è messaggio: i profumi, gli oggetti che tocchi, perfino l’odore del museo. In Europa i musei hanno un odore di prefettura, di scuola elementare. In America hanno l’odore delle banche.” Se il più delle volte non cogliamo quei messaggi è perché la loro ricchezza è soffocata da una povertà assordante, come una conversazione in un tavolino all’aperto è soffocata dal rumore del traffico. Si passa gran parte della vita a interpretare messaggi chiari, preconfezionati (la posta, i giornali, i segnali rossi e quelli verdi ecc.) perché gli altri, per essere decifrati, richiedono uno sforzo che si preferisce evitare. Ma è proprio questo sforzo che arricchisce la vita, che la riempie


di gioia, che la rende inesauribile. Incitare gli uomini a decifrare i messaggi più profondi. Già, ma come? La pigrizia, l’indolenza, la routine non li spingono a vedere solo ciò che è un linguaggio familiare? Per farli uscire dai binari bisognerà dunque agire d’astuzia: deviare in silenzio, azionando il comando a loro insaputa. “Ci vogliono delle trappole seducenti.” I disegni di Steinberg sono come una miriade di semafori perennemente accesi sul verde: vai avanti tranquillo, e sul più bello ti investono. “Lo humour è una trappola portentosa. Io, al New Yorker, sono come un coccodrillo travestito da coniglio. L’aria innocente è fondamentale. Senza, non si ride. Il riso è un’ottima premessa. Aiuta a disarmare, spalanca le porte dell’istinto. È come il singhiozzo, come il peto, lo sbadiglio o il sesso incontrollabile.” Il riso è un linguaggio puramente fisico, serve a spalancare le porte. Ti aspettavi degli invitati in frac e invece vedi entrare dei gorilla, dei funghi. È lo stesso linguaggio, ma a disposizione di un altro contenuto. La caricatura, per la maggior parte degli umoristi, risponde alla sua origine etimologica: serve a “caricare”. In Steinberg, invece, “scarica” il linguaggio dalle sue costrizioni, e alleggerita, vola fuori dalla finestra poiché ormai appartiene alle cose. Basta stravolgere i normali circuiti fra segno e significato. L’uomo che con i suoi disegni punta a offuscare la comunicazione


dice: “Sono diventato moralista senza volerlo”. Per Steinberg tutto è linguaggio. Il linguaggio degli uomini, il linguaggio delle cose, così diversi fra loro, sul piano della scrittura sono letteralmente identici. E questo “letteralmente” va inteso alla lettera: l’identità del linguaggio umano e delle cose sorge sul piano dell’alfabeto. Nuove combinazioni fanno deviare le lettere dalla loro origine trasformandole in involucri di suoni puramente umani, in veicoli di significati astratti. Le lettere, a quel punto, non segnalano più il mondo, significano solo ciò che la tirannia dell’uomo vuole che significhino. Va tutto bene, leggiamo nella lettera scritta da un amico; eppure un pò di dimestichezza con quella grafia basterà a rivelarci l’angoscia che si maschera dietro quei proclami ottimistici. Steinberg dice: “Per me osservare un’opera d’arte è un po’ un esercizio di grafologia”. La sua arte è sempre stata rivolta al modo in cui l’artista la produce e non si è mai preoccupato di raccontare ciò che vedeva, ma ciò che si poteva vedere ribaltando i canoni visivi. Le sue linee erano puro pensiero. Per chi disprezza ogni forma di dispotismo, ciò che più conta è sottrarre l’alfabeto al suo padrone, “scaricarlo” o affrancarlo dalle catene semantiche che lo imprigionano per restituirlo alla sua natura profonda. A quel punto, tutto parla lo stesso linguaggio poiché l’uomo e il mondo sono analoghi e continui, mentre la scrittura è esattamente


ciò che dice: più che un insieme di segni, una miriade di firme (è notae la passione di Steinberg per queste ultime), più che un oggetto di conoscenza, un oggetto di riconoscimento. Il mondo è uno, a patto di riuscire a decifrare le corrispondenze che ne tessono l’unità, e per farlo occorre un’attenzione rigorosa, maniacale. Una disposizione d’animo tipica del tardo Medioevo e del Rinascimento, per i quali l’universo era un grande corpo tatuato di messaggi il cui ermetismo costituiva di per sé l’indice della loro presenza e della loro importanza. Del suo modo di rapportarsi all’arte diceva “Sono una mano che disegna e basta”. Il suo modo schietto di tradurre in immagini il pensiero scavalcava le correnti artistiche e si infilava nella quotidianità attraverso il suo tratto distintivo e il suo modo di stilizzare la figura umana, i quali diventeranno d’uso comune. In Italia, ad esempio, il suo stile verrà usato da molti vignettisti, finendo addirittura su La Settimana Enigmistica tra le barzellette che si rifanno alla vignetta con testo del New Yorker. Bruno Bozzetto usa la medesima stilizzazione della figura umana (seppure con risultati diversi, specie per la caratterizzazione del volto) quando realizza il geniale Signor Rossi, emblema dell’italiano medio. È stato anche un notevole scrittore di notevoli ed interessanti libri, come per esempio i due carteggi con l’amico milanese Aldo Buzzi pubblicati da Adelphi.


Senza dubbio Steinberg è stato uno degli artisti più influenti del Novecento. Qui un estratto da un’intervista che gli fece Sergio Zavoli: “Il disegno come esperienza e occupazione letteraria mi libera dal bisogno di parlare e di scrivere. Lo scrivere è un mestiere talmente orribile, talmente difficile… Anche la pittura e la scultura sono altrettanto difficili e complicate e per me sarebbero una perdita di tempo. C’è nella pittura e nella scultura un compiacimento, un narcisismo, un modo di perdere tempo attraverso un piacere che evita la vera essenza delle cose, l’idea pura; mentre il disegno è la più rigorosa, la meno narcisistica delle espressioni.” (Saul Steinberg, intervista di Sergio Zavoli, 1967)
















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