Franca Giurleo I Nobili d'Aquino nel feudo di Castiglione Marittimo

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Francesca Giurleo

I Nobili d'Aquino nel feudo di Castiglione Marittimo


Copyrigth Edizioniarcheoares Immagine di copertina A.D 1303 Stemma di Adinolfo d'Aquino: torre poggiata sulle onde con due leoni rampanti in campo nero Editing Edizioniarcheoares ISBN 9788896889992


Al volume ha collaborato il sig. Mario Folino Gallo al quale vanno tutto il mio affetto e la mia stima.



Ringraziamenti Esprimo il mio ringraziamento: - Al Sig. Mario Folino Gallo, ricercatore e cultore della storia locale, che mi ha dato la possibilità di entrare nel suo archivio privato, permettendomi di consultare testi antichi, preziosi ed unici. Mediante il suo contributo ho potuto arricchire il mio scritto con notizie debitamente documentate, frutto di una ricerca puntuale e precisa, regolata da accuratezza ed attenzione. - Al Dott. Armido Cario, studioso e storico, il quale ha supportato questo lavoro con documenti che mi hanno permesso di approfondire momenti fondamentali per la conoscenza della storia trattata. - Alla Dott.ssa Carla Sgarrella ed all’Avv. Clotilde Giurleo, fotografe eccezionali che con i loro magnifici scatti hanno reso questa ricerca più preziosa e più ricca. - All’Ing. Giorgio Mattioli, maestro di fotografia, il quale con cura scrupolosa ha reso le immagini del testo più nitide ed eleganti. A loro va la mia profonda riconoscenza Francesca Giurleo

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Indice Introduzione

p. 9

Cap. 1 Personaggi illustri del casato

p. 15

Cap. 2 I baroni di Castiglione

p. 49

Cap. 3 I Principi di Castiglione

p. 122

Bibliografia

p. 215

Apparato fotografico

p. 223



Riva del lago è brezza di ricordi ero bambina. (L. Paris)

Introduzione Fra i borghi più affascinanti d’Italia Castiglione occupa senza dubbio un posto di primaria importanza, sia perché la natura ridente fa da cornice al luogo in cui sorge, sia ancora perché i ruderi del castello parlano della storia passata con un linguaggio che trasmette profonde emozioni. La frazione si erge su un poggio ameno in un paesaggio ondulato, che vede sullo sfondo le colline verdeggianti della Calabria; di fronte si stende il mare con la sua superficie tremolante di un azzurro intenso in cui l’occhio, spaziando fino all’orizzonte, produce nell’animo una sensazione di libertà che spinge a volare verso spazi infiniti. Sin da bambina guardavo da lontano questo gruppetto di case che esercitavano in me un richiamo magnetico ed avevano una grande capacità di seduzione; immaginavo che quello fosse il paese delle favole , dove fatine e folletti si dilettavano, rincorrendosi in un gioco senza fine. Da adulta ho voluto soddisfare questa antica curiosità ed in un bel giorno d’estate del 2006 mi sono incamminata lungo la strada alberata che porta su verso il borgo incantato. Una bella passeggiata su quell’asfalto fra i tornanti che conducono in cima! Respiravo l’aria fresca, soddisfatta, chi si accinge a scoprire chissà quale segreto e mi dilettavo a contare le auto che incrociavo, veramente poche per la verità, il che rendeva ancora più suggestiva la scalata. Vedevo le casine attorcigliate come un serpentone intorno al poggio, “un rosario di case” a dirla con Lorena Paris,1 e, giunta in 1 L. Paris in una sua breve poesia d escrive così San Martino al Cimino:

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prossimità del paesino, da una delle prime abitazioni una bimba di dieci o dodici anni, scorgendomi da lontano, si è avvicinata curiosa, mi ha chiesto il nome e si è offerta di farmi da guida. Le ho suggerito di chiedere il permesso ai genitori, mi ha risposto che era sola in casa, ma non mi dovevo preoccupare di nulla, la mamma non glielo avrebbe negato; infatti, ritornando in quel luogo nei giorni successivi, attratta dal panorama stupendo che si vedeva da quell’altura, ho avuto modo di conoscere quella signora alla quale la figlioletta aveva parlato di me. Per Concetta ero una novità nella monotonia quotidiana, mi aspettava per dialogare e con lei ho visitato per la prima volta il castello. Siamo entrate attraverso l’arco che segna l’ingresso, rimasto pressoché intatto nei secoli, e nella parte centrale, fra i ruderi la bimba mi ha fatto scoprire la piazzetta intorno alla quale si svolge la vita degli abitanti. La prima impressione è stata assai gradevole, mi trovavo su una terrazza sul mare, dove la brezza fresca accarezzava il nostro viso; Concetta mi parlava di sé e dei suoi sogni di bambina, io la ascoltavo e rispondevo, ma ero affascinata dal panorama che avevo davanti. Accarezzavo con lo sguardo in lontananza la distesa dell’acqua salata, solcata da piccoli natanti, che tremolava sotto il sole, mentre le costruzioni recenti degli abitati di Falerna e Gizzeria Marina, che si allungavano sul lido, si contrapponevano ai resti di quel castello in cui mi trovavo in un incontro fra presente e passato. Le nostre origini si radicano proprio in un passato lontano, indimenticabile ed insostituibile, che quanto più conosciuto, tanto più ci fa comprendere il presente con il carattere e le peculiarità del popolo che abita la regione.

Un rosario di case/ digrada dalle alture,/l’orologio bianco/ segna il tempo,/ fermo negli occhi/ dei vecchi seduti al sole.

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Castiglione mi parlava attraverso quelle mura possenti e mi indicava gli avvenimenti che si sono susseguiti in quel castello che vede le sue origini intorno all’anno mille, quando i Normanni lo edificarono, giunti in Calabria, per conquistare quella terra che aveva goduto di grande sviluppo, proprio per la presenza di città “industriali”, quali Temesa e Terina.2 E’ l’abate Orazio Lupis che ha parlato per primo del “Castrum” di Castiglione, riferendo un avvenimento storico accaduto nel 1091, quando alcuni calabresi, insorgendo contro i fratelli Roberto e Ruggero d’Altavilla, uccisero i 70 soldati che ne erano di guarnigione.3 “...occupiamoci a fare… alcun cenno del Villaggio oggi detto Castiglione. Fu quella un’antica e considerevole città. Infatti rileviamo dal P. Tromby (Tom. II. pag. 126), che nell’anno 1091, i Calabresi, offertasi l’occasion delle dissensioni, insorte tra’ due fratelli Signori Normanni, Roberto e Ruggiero (occasione, che pur bramavano,onde alienarsi dall’ubbidienza di cotestoro) occuparono, a tradimento, il Castello detto Leo Castrum (Castel Lione, e ora volgarmente Castiglione; ove esiste tuttavia in gran parte l’antica 2 Temesa, città della Magna Grecia, è citata da Omero nell’Odissea, quando Minerva in sembianze di Mente, re d ei Tafi e amico di Ulisse,dice a Telemaco di essere in viaggio p roprio verso Temesa: “Con n ave io giunsi e remiganti miei,/ fendendo le salate onde ver gente/ d’altro linguaggio, e a Témesa recando/ ferro brunito per temprato rame,/ ch’io ne trarrò” (vv.241-245). An ch e Strabone ha sottolineato come Temesa fosse ricca di miniere di rame, distinguendola dalla Tamaso di Cipro: “La città posta dopo Lao, appartenente ai Bretti, è Temesa (sebbene og gi la chiamino Tempsa) e fu fondata dagli Ausoni. Si dice che il poeta (Omero) si riferisse alla stessa Temesa, non a Tamaso di Cipro: infatti si chiama in entrambi i modi. Ed indica nelle vicinanze alcune miniere di rame, che ora sono abbandonate.” (Strabone, Geografia ,L. VI, 1, 5). Terina, an ch’essa città della Magna Grecia distrutta durante le guerre annibaliche, sembra aver avuto fra gli abitanti abili ceramisti, come da rinvenimenti risalenti al V sec. a.C. 3 Orazio Lupis (1736-1816) abate storico calabrese, fu Pubblico Professore di Storia, Cronologia e Geografia ,ne’ Regj Studj di Catanzaro, e Poeta. Nel 1795 scrisse un libro: “Magn a Grecia, elementi di storia universale”, ritenuto di grande valore storico, p erch é esempio di enciclopedismo del XVIII secolo. Parafrasando l’epigrafe scritta sulla tomba di Virgilio, disse di sé: “Me genuit Marton: Locri coluere: docentem Aetate e media, Catacium tenuit.” (Nacqui a Martone (RC), crebbi a Lo cri, dalla mezza età fui do cente a Catanzaro).

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Fortezza: il Barrio ha voluto chiamarlo a suo modo, Castionum); con aver fatti a pezzi i 70 Normanni, che dal Conquistatore eranvi lasciati a presidiarlo. Nelle conquiste, non prendendosi di mira, che le Città cospicue, e forti. Tal dunque esser doveva Castiglione a quel tempo.”4

Castel Lione in una foto d’epoca degli inizi degli anni ’60. Il castello era allora chiamato “Leo Castrum” e costituiva certamente uno dei principali punti di riferimento della zona, se l’Abate Lupis riferisce che i conquistatori avevano occupato “Città cospicue e forti”; era dunque abitato da una popolazione vigorosa che l’aveva circondato con opere difensive e ne coltivava le terre che ancora oggi vengono definite “terre chiuse” o “terre murate”. Non possiamo dimenticare che nel periodo a cavallo dell’anno 1000 la Calabria era terra di passaggio e di lotta fra vari popoli e varie civiltà, dove il Papato, che rappresentava il mondo occidentale latino, si contrapponeva all’Impero Bizantino ed 4 O. Lupis op cit. Tomo VI, Cap. VIII, Par. V, p ag.112.

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all’Islam arabo che vedevano nella regione una meta da raggiungere in pieno e su cui avrebbero voluto esercitare il proprio potere politico. Terra di nessuno dunque, dove giunsero i Normanni come soldati mercenari, che con i fratelli Roberto e Ruggero d’Altavilla costituirono il Ducato di Puglia e di Calabria e, mancando un solido potere centrale, iniziarono la costruzione di castelli ed abbazie, spesso contrapponendosi al papa stesso. Ma l’importanza al luogo fu data dalla famiglia d’Aquino, la stessa che in un ramo collaterale ha visto fra le figure di spicco quella di San Tommaso. Questi signori governarono la terra avendola ricevuta dal re di Napoli Carlo II d’Angiò, detto lo Zoppo, negli anni fra il 1303 ed il 1306 e, considerando il territorio di grande importanza strategica, vollero il loro castello sempre più imponente, modificandone nel tempo la struttura e rendendolo più accogliente e più consono alla loro famiglia. Ha scritto Padre Fiore da Cropani: “Fu Castiglione antico dominio della famiglia Palma un ramo della quale poi ne prese il cognome Castiglione con cui vi fiorì per lungo tempo. Ora essendo morto Guglielmo senza figlioli l’anno 1304, Roberto, allora duca di Calabria, ne fe’ dono ad Adinolfo d’Aquino con la franchezza di anni cinque. Continuarono gli Aquini in questa signoria per diece eredi (in realtà vedremo che sono 12 i baroni, come da Libro d’Oro della Nobiltà mediterranea) cioè Adinolfo, Tomaso, Tomaso II,Giacomo, Angiolo, Giacomo II,Luigi, Cesare, Giulio, Cesare II, e tutti con semplice titolo di signori”.5 Quando per motivi politici o militari passavano da qui, il castello era pronto ad accoglierli e proprio dalla costruzione imponente che domina il borgo, nasce la storia fatta di vicende, di usi, di abitudini e costumi del tempo. Di questo casato vorrei accingermi a parlare, entrando nelle mura domestiche, curiosando fra i personaggi, delineandone le caratteristiche e facendoli rivivere nelle loro qualità più vere e nel loro tempo storico.

5 P. Giovanni Fio re d a Cropani: “Della Calabria Illustrata”, Tomo III, pag. 143.

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All’ombra degli alti tetti e tra le angustie delle vecchie vie si ripara nella più vasta ombra delle memorie. (B. Croce) Cap. 1 I Personaggi illustri del Casato La Famiglia d’Aquino fu una delle più importanti fra quelle aristocratiche nazionali, che ha assunto posizione privilegiata fra la nobiltà del meridione, proprio perché entrata a far parte delle Serenissime Sette Grandi Case del Regno di Napoli. Appartenere a questa categoria eccezionale, equivaleva a trovarsi nella sfera degli alti dignitari e ad esercitare uno fra i sette grandi Uffici in collaborazione col Sovrano6. Le famiglie appartenenti a questo ordine nobiliare all’origine erano quelle d’Acquaviva, Celano, Evoli, Marzano, de Molisio, Ruffo, Sanseverino; con l’estinzione dei casati di Evoli, Marzano e de Molisio, furono scelti dal sovrano i signori del Balzo, Piccolomini e d’Aquino.7 Il casato d’Acquaviva proveniva dalla Baviera e si affermò in Italia nel periodo svevo; i Del Balzo giunsero a Napoli dalla Provenza ai tempi di Carlo I d’Angiò; la famiglia Celano, tipicamente meridionale, forse è legata al paese omonimo dell’aquilano; i 6 I 7 Grandi Uffici in ordine di importanza erano: 1) Gran Conestabile; 2) Gran Giustiziere; 3) Grande Ammiraglio; 4) Gran Camerlengo; 5) Gran Protonotaro; 6) Gran Can celliere; 7) Gran Siniscalco. 7 Sulla famiglia Marzano l’En ciclopedia Treccani riporta ch e Marino, signore di Rossano e marito di Eleonora, figlia di Alfonso d’Aragona detto il Magnanimo, primo re di Napoli dal 1442 al 1458, si macchiò del misfatto di aver o rdito una congiura p er u ccid ere il cogn ato e nuovo re Ferrante d’Aragona. Scop erto fu gettato in carcere p er 35 anni; da qui la decadenza del casato nobiliare. I De Molisio all’origine Des Moulins, si estinsero nel sec. XII. Sulla famiglia d’Evoli ci sono varie in certezze, G. Grande riporta la tesi di Scipione Ammirato secondo cui Ebulo fu il capostipite della famiglia da cui ebbero origine altri rami con cognomi diversi.

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Sanseverino sembra fossero discendenti dai duchi di Normandia; la dinastia Ruffo di Calabria trova origine nell’antica Repubblica Romana, come riporta Giovanni Fiore8; i Piccolomini invece prettamente italiani, furono di origine toscana ed un membro di essi, trasferitosi a Napoli nel corso del XV sec., dette origine al ramo meridionale. Ritornando ai d’Aquino di Castiglione, gli storici li ricordano come discendenti da una antica ed unica famiglia longobarda, forse imparentata con i principi di Capua, ma di parere diverso è Padre Giovanni Fiore da Cropani, il quale così scrisse: “Quantunque molti siano quali vogliono gl’Aquini d’origine longobarda, di che il duca (si riferisce allo storico e scrittore Ferrante Della Marra) ne reca testimonianze opportune, io però sottoscrivo a fra Giovanni Sciffido abbate di Chiaravalle, che poi seguirono altri, scrivendo ch’anzi fosse famiglia antica romana, Anicia, Pierleona, Frangipane,e la medesima dalla quale uscì l’augustissima Casa d’Austria. Convince questo vero la brieve cronaca de’ maestri dell’Ordine Domenicano... rapportata da Gabriele Barrio, che così favella del glorioso S. Tommaso d’Aquino - Horum praecedentium magistrorum... claruit etiam aliud luminare maius, etiam S. Thomas de Aquino, qui genere nobilissimus, utpote in linea paterna natus ex genere comitum Aquinorum, qui dicuntur comites de Loreto et de Belcastro, et antiquitus dicebatur de Frangipanis Romanis-…9 Indi passati in regno con la signoria di molti castelli e città, singolarmente di Aquino per allora molto popolata, lasciando il proprio cognome Frangipani, d’Aquino presero a chiamarsi, che fu, come lo nota il raccordato duca ne’ 1038” 10.

8 Padre Giovanni Fio re da Cropani (1622-1683), ch e appartenne ai frati Minori Cappu ccini, scrisse un’opera immensa: Della Calab ria Illustrata” per cui è considerato il più grande storico calabrese del 1600. 9 Trad.: “Al tempo dei maestri già d etti…brillò an ch e un’altra lu ce più grande, S. Tommaso d’Aquino, di famiglia nobilissima, giacch é discend ente in linea patern a dai conti d’Aquino, ch e son detti di Loreto e di Belcastro, e anticamente si diceva fossero d ei Frangipan e di Roma…” 10 P. Giovanni Fiore da Cropani: “Della Calabria Illustrata” Tomo III, pag. 143.

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Primo dell’intero casato fu Rodoaldo (V. All. B seg.), ricordato come Gastaldo11 della città d’Aquino, il quale verso l’860 fece costruire il suo castello vicino alla “vetusta Fregella”12 nei pressi di un ponte sul fiume Liri, per poter controllare meglio il passaggio sul fiume, poiché in quel tempo la zona era molestata dai saraceni che costituivano una minaccia per l’intero territorio. Desiderando però rendersi indipendente dal Ducato di Capua, intraprese una guerra locale, lenta e dannosa, che si intrecciò ad una lotta interna alla stessa Capua minandone la stabilità politica. Dopo alcuni vani tentativi di sottomettere il ribelle, i Capuani, risolti i loro problemi e rafforzato il potere centrale, iniziarono un feroce attacco, per cui Rodoaldo, sentitosi in pericolo, tentò di stringere alleanza con i Franchi. In questa occasione conobbe Magenolfo, un mercenario venuto al seguito dell’imperatore Ludovico II sceso in Italia per conquistare gli Stati Longobardi, il quale si era distinto tanto da sposare Ingena, nipote dell’imperatrice Angelberga, consorte di Ludovico. Verso l’881 Magenolfo intraprese la via del ritorno verso la Francia, per chiedere all’imperatore Carlo II il Calvo, successore di Ludovico, una terra dove poter abitare; fu allora che Rodoaldo gli inviò come ambasciatore un certo prete Orso, per convincerlo a tornare e ad aiutarlo nella lotta contro i nemici. Magenolfo accettò la richiesta e, tornato indietro, riuscì a carpire la fiducia del gastaldo tanto da annientarlo; infatti diventò padrone del castello, mise in prigione i suoi figli e costrinse lo stesso Rodoaldo a prendere l’abito benedettino nel monastero di Montecassino. Nel periodo seguente la nobile famiglia d’Aquino si divise in più rami, in ognuno dei quali si distinsero figure eccellenti, ricordate nella storia e nella letteratura.

11 Il Gastaldo era un funzionario regio che amministrava il Gastaldato, ossia una circoscrizione interna, in questo caso, il prin cip ato di Capua. 12 M. Nugnes: Sto ria d el Regno di Napoli, Libro V, Cap. 3°, XVI pag. 613.

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Peter di Eboli: Sibilla di Acerra, sec. XII Il primo nome che balza alle cronache della storia è quello della sfortunata Sibilla d’Aquino13, sorella di Riccardo14, primo conte di Acerra, andata in sposa a Tancredi, conte di Lecce e figlio naturale di Ruggero III di Puglia, il quale a sua volta era figlio di Ruggero II di Sicilia e di Emma di Lecce. Il matrimonio che legava i d’Aquino ai Normanni, portò Tancredi, come nipote di Costanza d’Altavilla e ultima regina normanna, a combattere per l’eredità del regno di Sicilia e ad essere incoronato imperatore a Palermo tra il 1169 ed il 1190. La guerra con Enrico VI di Svevia, marito di Costanza, fu inevitabile e l’anno 1194 si profilò pieno di sventure, infatti morì Ruggero, il primogenito di Sibilla e Tancredi, e poi Tancredi stesso che lasciò così il trono di Sicilia al secondogenito 13 Per i p ersonaggi ved ere All. B. 14 Riccardo fu giustiziato a Capua nel 1197.

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Guglielmo, ancora minorenne e dunque sotto la reggenza della madre. L’inesperienza della giovane imperatrice la portò alla rovina, infatti Enrico VI con le intenzioni più terribili venne in Sicilia, mentre Sibilla, per sfuggire all’ira dello svevo, riparò nel castello di Caltabellotta. A questo punto con fare spregiudicato e subdolo Enrico, usando l’inganno, spinse Sibilla a raggiungerlo a Palermo, promettendole le contee di Lecce e Taranto, lì invece costrinse la sovrana detronizzata ed i suoi bambini ad assistere alla solenne cerimonia della sua incoronazione celebrata nella notte di Natale del 1194 e, ottenuta così la cieca sottomissione, li gettò in prigione. Fu vana la rivolta dei baroni in difesa dei reali, il piccolo Guglielmo III, ultimo re normanno, fu accecato ed evirato, perché non nascessero discendenti, poi portato nella prigione di Hohenems (attuale Voralberg) in Austria, dove sembra sia morto quattro anni dopo. Sibilla d’Aquino invece fu rinchiusa con le sue figlie Costanza, Alberia o Albinia, Medania o Mandonia nel convento di Hohenberg nella Bassa Austria, poi, godendo dell’intercessione di Innocenzo III, fu trasferita insieme alle figlie in Francia, dove terminò i suoi giorni. Le principesse invece, dopo la morte di Enrico VI avvenuta nel 1197, furono liberate e contrassero buoni matrimoni, Costanza sposò Pietro Ziani, doge di Venezia;15 Albinia ebbe come primo marito Gualtiero III di Brienne, principe di Taranto, come secondo Giacomo, conte di Tricarico, ed ancora come terzo Tegrimo Guidi; l’ultima figlia Medania, secondo alcuni studiosi, andò sposa a Giovanni Sforza, duca di Sanseverino e Avezzano.

15 L. A Muratori: Rerum Italicarum Scriptores p ag. 413.

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Beato Angelico: S. Tommaso d’Aquino Come non menzionare Tommaso d’Aquino il Santo, figlio di Landolfo I dei signori di Roccasecca e di Teodora, appartenente secondo alcuni studiosi ai conti di Chieti, secondo altri ai Gallucci, conti di Teano? Settimo di dodici figli, a scuola era chiamato maliziosamente dai compagni “il bue muto” a causa del suo carattere timido ed assai riservato, infatti studiava molto, parlava poco e pregava assiduamente. Nel 1244 rinunciò ai feudi di Nusco e Montella, decidendo di entrare nell’Ordine Domenicano e provocando l’ira della madre che, rimasta vedova, vedeva nel figlio il degno continuatore del casato. Si dice che i familiari abbiano cercato in ogni modo di dissuaderlo dal prendere i voti e, poiché non vi riuscirono, accettando la proposta di Rinaldo, il fratello più autorevole, lo raggiunsero ad Acquapendente mentre era in viaggio verso Parigi, dove si recava per intraprendere gli studi superiori, “cum Petro de Vineis et suis famulis, germanum suum subtraxit impositoque in equo, violenta manu cum bona comitiva ipsum in Campaniam misit ad quoddam Castrum ipsorum

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vocatum Sancti Joannis”16 (con Pier delle Vigne ed i suoi servi rapì il fratello e postolo con forza su un cavallo aiutato da quella buona comitiva lo portò in Campania nel castello di famiglia detto di San Giovanni). Qui Rinaldo escogitò il modo per farlo desistere da ogni pensiero puramente spirituale ed introdusse nella sua camera una bellissima ragazza che Tommaso mise in fuga minacciandola con un tizzone infuocato, tanto da meritare dai contemporanei il titolo di “Doctor Angelicus”. Nel 1248, all’età di circa 23 anni fu ordinato sacerdote, divenendo Baccelliere Biblico17 dello Stato Generale Domenicano e poi Dottore in Teologia all’Università di Parigi e successivamente ad Anagni, Orvieto, Salerno, per arrivare nel 1259 alla Curia Papale. Dal 1264 fu ancora Maestro di Teologia a Parigi, dove rimase fino al 1272, anno in cui ritornò in Italia; qui il Provinciale Domenicano di Roma gli affidò, su richiesta di Carlo I d’Angiò, il compito di organizzare uno Studium generale di Teologia a Napoli, capitale del Regno. Tommaso insegnò quindi ancora per due anni circa mentre continuava a scrivere Trattati di teologia che gli valsero nel 1567 il titolo di “Dottore della Chiesa”. Aveva scritto circa 40 volumi, ma un avvenimento a dir poco particolare si verificò nel 1273, qualche tempo prima di morire, infatti il 6 dicembre, durante la celebrazione della Messa, fu colpito da qualcosa che in seguito non seppe o non volle dire, che lo trasformò totalmente e modificò il suo stile di vita. Da questo momento si rifiutò di scrivere o dettare qualsiasi cosa ed alle continue insistenze del suo confessore disse soltanto: 16 C. Calenda: Rinaldo d’Aquino in En ciclopedia Treccani. Federiciana (2005) 17 Era il primo grado accademico “Baccalaureus Biblicus” per raggiungere il quale si richiedevano 4 o 5 anni di studi regolari, 2 anni di frequenza alle lezioni ed una disputa finale detta “quaestio temptativa”, in cui il giovane doveva esporre una tesi e difenderla nel dibattito che seguiva. La carica di Baccelliere Biblico aveva la durata di 2 anni, durante i quali il neolaureato avrebbe tenuto lezioni sulla Sacra Scrittura. (Tommaso d’Aquino, Commento alla lettera ai Romani, vol. I, pag. 13)

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“Reginaldo, non posso, perché tutto quello che ho scritto è come paglia per me, in confronto a ciò che ora mi è stato rivelato”18. Per distrarsi gli fu consigliato di recarsi presso la sorella Teodora, contessa di San Severino; tutto fu inutile, dovette ritornare a Napoli, mentre le sue condizioni di salute, che avevano risentito della vicenda, diventavano sempre più deboli e delicate. Chiamato dal papa Gregorio X a partecipare al Concilio di Lione del 1° maggio 1274, dove si sarebbe dovuto discutere dell’unione fra la Chiesa di Roma e quella d’Oriente, intraprese il viaggio col fedele Reginaldo, ma, colto da malore, fu costretto a sostare nel castello di Maenza presso la nipote Francesca d’Aquino, figlia del fratello Filippo II d’Aquino e moglie di Annibaldo II da Ceccano. Poiché però il malessere non accennava a diminuire, dopo qualche giorno chiese di essere condotto nella vicina abbazia di Fossanova, a poca distanza da Priverno, presso i monaci Cistercensi, e qui si fermò per tutto il mese di febbraio curato amorevolmente, ma invano, perché morì il 7 marzo all’età di 49 anni. Il suo corpo fu sepolto in questo luogo e vi rimase per 75 anni, finché il 28 gennaio 1369 fu portato nella Chiesa dei Padri Domenicani di Tolosa, per disposizione del papa Urbano V, al quale era stato chiesto con insistenza.

18 Antonio Borrelli: Articolo in “Santi, Beati e Testimoni” Enciclopedia dei Santi.

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Marie Spartali Stillman: Fiammetta che canta Anche Madonna Fiammetta era una nobile d’Aquino, il suo nome, certamente un falso letterario, è l’unico con cui si può definire questa giovane la cui identità è fortemente discussa. Di lei s’innamorò nel suo periodo napoletano Giovanni Boccaccio, il quale dice di averla vista per la prima volta il 30 marzo 1336, sabato santo, nella Chiesa di S. Lorenzo Maggiore a Napoli che definì nel Filocolo “grazioso e bel tempio”. Da lì ebbe inizio la loro relazione che durò più di due anni, pur se la dama era maritata da diverso tempo. Fu lei che ispirò al poeta tutte le sue opere giovanili, dal Filocolo, al Ninfale d’Ameto, all’Elegia di Madonna Fiammetta, all’Amorosa Visione, in cui la giovane tracciando in prima persona per grandi linee la sua vita, dice di chiamarsi Maria o anche Mariella d’Aquino, nome che però non trova riscontro adeguato nella genealogia della famiglia, ed aggiunge ancora di essere nata da una nobildonna francese, di cui s’innamorò il re Roberto d’Angiò durante un banchetto a corte. Fu allevata come una figlia dal d’Aquino, marito della mamma, il quale alla morte della consorte, temendo per sé la stessa sorte,

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proprio perché la vita militare lo portava ad essere spesso in guerra, la consegnò ancor piccola ad alcune monache sue congiunte, affinché l’allevassero; poi all’età di circa 15 anni, fu data in sposa ad un nobiluomo assai ricco della sua terra. Boccaccio riesce assai bene a confondere il lettore ed a nascondere le indicazioni biografiche dell’innamorata, per tutelarne la privacy, diremmo oggi, ma dalle poche scarne notizie gli studiosi hanno da sempre cercato di individuare il vero nome della donna, partendo dalla sola certezza che il d’Aquino in questione aveva sposato una dama francese o quanto meno di discendenza francese. Fino al 1500 prevalse l’ipotesi di Scipione Ammirato19, il quale sosteneva che padre putativo di Fiammetta fosse Tommaso III d’Aquino, divenuto conte di Acerra dopo l’uccisione del padre Adinolfo IV, arso vivo nel novembre 1293 con l’accusa di sodomia.20 Il conte aveva sposato Sibilletta de Sabran, figlia di Ermengano, nobile di Ariano ed Apice, proveniente dalla contea francese d’Aube de Roquemartin, ma il matrimonio fu annullato o non fu mai celebrato, proprio a causa della disgrazia accaduta al conte Adinolfo IV. La tesi di Scipione Ammirato non fu considerata valida da Giuseppe De Blasiis, il quale ritenne che, al momento del banchetto, avvenuto dopo il 1310, in cui Roberto d’Angiò s’innamorò della futura madre di Fiammetta, la contessa Sibilletta non fosse proprio giovane, essendo sposata da circa 18 anni, inoltre la condizione di Tommaso, figlio di un uomo giustiziato, era per nulla fiorente, né tale da permettergli di vivere in un contesto regale. Boccaccio infatti dice che il d’Aquino, padre putativo della fanciulla, aveva “non piccolo luogo in corte” e lo poneva addirittura tra i “sommati”21 ossia tra coloro che erano molto vicini al re. 19 Storico ecclesiastico e letterato visse tra il 1531 ed il 1601. 20 Libro d’Oro della Nobiltà Mediterran ea: D’Aquino Linee Antich e, pag.5 e segg. 21 De Blasiis (1832-1914): Le Case dei Prin cipi Angioini nella piazza di

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Il conte Tommaso d’Acerra era stato invece molto sfortunato, infatti, espulso dalla sua terra, aveva perso tutti i beni, consegna ti al fisco per la condanna del padre, per cui lo stesso re, mosso da pietà, gli aveva concesso un assegno di 80 once all’anno per gli alimenti; a tutto ciò il De Blasiis aggiunge di non aver trovato nelle sue lunghe ricerche alcun figlio attribuito alla contessa Sibilletta. Avanzò allora un’altra ipotesi secondo la quale il padre putativo di Fiammetta poteva ben essere Adinolfo d’Aquino, valletto e scudiero di Roberto I d’Angiò, duca di Calabria.22 Per la sua fedeltà, Carlo, re di Napoli, nel 1306 lo nominò 1° barone di Castiglione, poi nel 1312 anche il re Roberto, succeduto al padre, lo considerò suo familiare, quindi nel 1313 ancora Giustiziere di Val di Crati e Terra Giordana, che comprendeva la terra di Belcastro, il Marchesato e la parte orientale del Catanzarese. Nel 1304 il barone Adinolfo sposò Stefania, figlia del Cavaliere Andrea di Montefalcione, già vedova di Andrea di Moliso, signore di Montefusco, certamente di origine francese, secondo il De Blasiis, perché un suo fratello si dichiarava vivente “iure francorum”23. Oltre a Tommaso che ereditò il feudo di Castiglione, divenendone secondo barone, la coppia aveva una figlia di nome Tommasa, andata sposa a Pietro, signore di Cancellara e Pietragalla in Basilicata, morta nel 1348.24 Dunque la baronessa Stefania di Montefalcione poteva essere stata davvero l’amante di Roberto d’Angiò e Tommasa era veramente la dama che segnò gli anni giovanili di Boccaccio? Gli studiosi ancora una volta non accettarono concordemente questa ipotesi, perché Adinolfo premorì alla moglie ed il fatto Castelnuovo. Archivio Storico per le Prov. Napoletane, XII, 1887. 22 Libro d’Oro della Nobiltà Mediterranea: D’Aquino Marchesi di Corato e Baroni di Castiglione, pag.12 e segg. 23 Il Diritto dei Fran chi stabiliva ch e i beni si trasmettessero in lin ea maschile. 24 Libro d’Oro della Nobiltà Mediterranea: D’Aquino Marchesi di Corato e Baroni di Castiglione, pag. 14.

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non rendeva reali le parole di Fiammetta riportate nel Filocolo e nell’Ameto, lì dove affermava di essere rimasta in custodia del padre ed affidata a suore a lui vicine. Alla fine del 1800 entrò nella disputa lo studioso Scandone 25, il quale capovolse addirittura tutte le tesi precedenti e, senza tenere in alcuna considerazione le parole che Boccaccio fa pronunciare a Fiammetta, dopo aver consultato i Registri Angioini, ha affermato che la madre della giovane Fiammetta era Margherita d’Aquino, figlia del suddetto Adinolfo IV, il conte di Acerra condannato a morte per avere peccato contro natura, e sorella di quel Tommaso III d’Aquino che l’Ammirato riteneva fosse il padre putativo della giovane.26 Margherita, damigella della regina Jolanda o Sancia d’Aragona, moglie di Roberto I d’Angiò duca di Calabria e poi re di Napoli, per volere del re stesso sposò in prime nozze il Cavaliere Ugolino Scotto, ma il matrimonio fu presto annullato, come quello del fratello Tommaso III, poco dopo la disgrazia del padre. Ebbe poi come secondo marito Guglielmo Pallotta, nobile di Messina, Governatore di Lecce ed Otranto, il quale però morì nel 1303; quindi per la terza volta si unì in matrimonio a Filippo Sangineto, che fu insignito della contea d’Altomonte per i suoi “alti meriti”, che lo studioso Scandone vede nella tolleranza del rapporto adulterino tra la moglie ed il re.27 La nobildonna è nominata per l’ultima volta il 2 agosto 1328, data presunta della morte, ma ancora una volta l’ipotesi non è appa rsa convincente, perché contraria a quanto sostenuto da Boccaccio, che vedeva in Fiammetta la figlia illegittima di un uomo della famiglia d’Aquino. Questa grande imprecisione ha spinto Guglielmo Volpi ad uno studio più accurato e dalle sue ricerche ha ricavato una tesi che ha a dir poco sconvolto l’opinione di tutti in quanto, oltre a mutare 25 Fran cesco Scandone (1868-1957) fu studioso e storico napoletano. Ha lasciato circa 41 Tavole Genealogiche d ella famiglia d’Aquino, analizzate in “Studi Boccacceschi”. 26 Libro d’Oro della Nobiltà Mediterran ea: D’Aquino Lin ee Antiche, pag. 6. 27 F. Scandone: Tavole Gen ealogiche.

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direzione di analisi, sembra aver formulato quella più esatta e più vera. Lo studioso, analizzando la lettera di Boccaccio a Fiammetta, scritto che costituiva la premessa all’operetta “il Filostrato”, si è accorto che ad un certo punto il poeta sostituiva il nome del la donna amata con la perifrasi: “di grazia pieno”, che voleva sottintendere il carattere significativo del nome “Giovanna”: “…s’udirono sempre poi chiamare il vostro nome di grazia pieno28, da qui ritenne che la donna non si chiamasse solo Maria, ma avesse pure o solo nome Giovanna. Nel Medioevo era cosa usuale per un uomo di lettere tornare alla etimologia aulica dei nomi, famosi sono i versi di Dante nella terzina in cui, parlando di San Domenico fa dire a San Bonaventura: Oh padre suo veramente Felice! Oh madre sua veramente Giovanna, se, interpretata, val come si dice! (Par.XII, 79-81) Ma, tornando alla nostra nobildonna d’Aquino, il Volpi, approfondendo altri interessi, non proseguì in questa intuizione che venne però ripresa dal Massera29, il quale, ritenendo il ragionamento corretto ed indagando sulle donne del nobile casato con nome “Giovanna”, si portò sul ramo di San Tommaso,fermandosi con convinzione sulla figlia di Tommaso II d’Aquino, 1° conte di Belcastro, figlio del conte Tommaso I di Roccasecca a sua volta figlio di Adinolfo I, fratello del noto San Tommaso Dottore della Chiesa.30 (Vedi All.A seguente) Succeduto nel 1304 all’omonimo padre, Tommaso II fu molto vicino al duca Roberto d’Angiò, per il quale combatté ancora giovane la guerra del Vespro in Calabria, sotto il comando dello 28 G. Volpi: Il Trecento, Milano 1898,pag. 264,nota 93. 29 A.F. Massera: Studi Bo ccacceschi 30 Libro d’Oro della Nobiltà Mediterran ea.

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zio paterno Adenolfo II, signore di Roccasecca, morto nel combattimento del 31 luglio 1292.31 Per i suoi meriti Tommaso nel 1310 ebbe il prestigioso incarico di far parte del corteo che andò incontro a Roberto di ritorno dalla Provenza dove l’anno precedente era stato incoronato re a Lione dal papa Clemente V. Da questo momento la sua presenza a corte fu sempre più continua, mentre gli venivano aumentati i titoli onorifici; nel 1318 infatti fu nominato Vicario Generale del Principato d’Acaia nel Peloponneso e nel 1320, divenuto ciambellano del re, abitò nella reggia con tutta la famiglia. Gli anni 1326-27 furono pieni di successi militari e politici, infatti prima accompagnò Carlo, il figlio del re, a Firenze; nel 1327 seguì Giovanni, fratello del re e principe d’Acaia, a Roma , combattendo contro le truppe di Ludovico il Bavaro; poi nel dicembre dello stesso anno fu inviato per reprimere il brigantaggio nella Calabria Ultra e Citra. In quest’ultima campagna militare dimostrò spiccate doti di comandante, riuscendo nell’impresa con successo, cosicché per il suo valore nel 1331 fu nominato Regio Consigliere del Re Roberto I d’Angiò, che gli confermò ufficialmente la contea di Belcastro. Nel 1332 ebbe infine la massima carica di Giustiziere della Calabria Citra che esercitò con pieni poteri fino alla morte avvenuta il 16 maggio 1339. Il conte ebbe tre mogli, di cui due erano di origine francese32: La prima fu Giovanna figlia di Ludovico de Mons, Ufficiale Maggiore del Regno sotto i re Carlo I e Carlo II d’Angiò, e di Giovanna dell’Aquila dei conti di Fondi. La seconda si chiamava Ilaria o Flavia, figlia di Americo de Sus, barone di Marioles, signore di Trivento, Consigliere Regio di Carlo I d’Angiò, vedova di ben 4 mariti.33 31 Libro d’oro d ella Nobiltà mediterranea. 32 La terza moglie era nativa di Calabria e si chiamava Costanza di Sangineto, figlia di Ruggero conte di Corigliano e di Caterina Pisanelli. 33 I precedenti mariti erano: Eustasio di Sab ran, Gentile di San Gio rgio,

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Dalla prima moglie Tommaso II ebbe i suoi quattro figli, due maschi e due femmine: 1) Adinolfo, forse assassinato nel 1337, prima della morte del padre, il quale aveva sposato Isabella d’Eppes. 2)Flora o Fiore, monaca nel convento di Santa Chiara a Napoli. 3) Cristoforo (+1342), Capitano Generale e Giustiziere del Principato Ultra nel 1339, ereditò i titoli paterni e nel 1337 sposò Filippa, forse, dicono alcuni studiosi, figlia di Jacopo della Leonessa. E’ sepolto nella Basilica di San Domenico Maggiore di Napoli (Vedi sezione immagini). 4) Giovanna o Maria (come riferisce Boccaccio) che il 17 marzo 1330, andò sposa a Ruggero Sanseverino, 1° conte di Mileto. Quest’ultima figlia, secondo il Massera, sembra avere tutti i requisiti per essere identificata nella Fiammetta di Boccaccio, che dice essere: a) di origine francese. Infatti la mamma Giovanna de Mons, definita nel Ninfale: “Una nobile giovane venuta da quelle parti (si riferisce alla Gallia di cui aveva precedentemente parlato) …per isposa si congiunse al padre mio”, potrebbe essere stata l’amante di Roberto perché era figlia di Ludovico De Montibus, venuto a Napoli dalla Francia al seguito di Carlo I d’Angiò. b) Di aver avuto un Santo in famiglia. San Tommaso era infatti fratello di Adenolfo, suo bisnonno paterno, e di Adelasia, sua bisnonna materna, ma ancora era fratello di Teodora, bisnonna del marito Ruggero Sanseverino;

Filippo Ianvilla di Sant’Angelo, Benedetto Caetani, Conte Palatino.

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All. A

c) di essere stata affidata dal padre “ancor piccioletta a vestali vergini a lui di sangue congiunte”. Infatti, morta nel 1322 la madre Giovanna de Mons, ancora bimba 34 fu affidata dal padre putativo alla sua figlia legittima Suor Flora, perché, dice Fiammetta, “disposto a seguire” la moglie , intendendo nella tomba per il timore continuo di poter morire in guerra, a cui la sua professione lo costringeva; d) di aver sposato “uno dei più nobili giovani….di fortune grazioso…e chiaro di sangue”35. Giovanna d’Aquino infatti ebbe come marito Ruggero Sanseverino, di nobile e potente famiglia meridionale. Ultimo elemento a favore di Giovanna sembra essere un sogno che Fiammetta racconta al marito in cui riferisce di alcune immagini di sangue che riguardavano un suo fratello. Probabilmente si tratta di Adinolfo che sembra essere morto per mano di un sicario. Giovanna d’Aquino, figlia naturale di Roberto d’Angiò e Giovanna de Mons, che a sua insaputa è rimasta nella storia letteraria fra le dame più ammirate e più misteriose, alla morte del fratello Cristoforo, assunse il 5 dicembre 1342 il tutorato del nipote Tommasello, divenendo signora di Belcastro. 34 Alcuni storici credono che Fiammetta sia nata dopo il 1313. 35 Sono le p arole di Fiammetta nel Ninfale d’Ameto.

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Mi raccontano storie le architetture d’eterno le strade antiche crocevia del tempo fotogrammi orlati di sole vado cercando forse per accecare di luce e di bellezza il non dimenticare. (L. Paris)

Cap. 2 I Baroni di Castiglione Capostipite dei Baroni di Castiglione e Tropea fu Andrea d’Aquino vissuto fra il 1157 ed il 1210, ricordato come signore di Grottaminarda, la terra dell’Irpinia che ebbe in sub feudo dai Gesualdo, avendo sposato l’erede Maria. I nobili Gesualdo, dal nome del loro territorio nell’avellinese, erano una delle famiglie napoletane molto in vista e vantavano illustri natali; infatti il capostipite Guglielmo, conte di Gesualdo, figlio naturale del duca di Puglia Ruggero Borsa 54, era morto molto giovane e senza figli, pertanto aveva lasciato il feudo allo zio Ruggero II d’Altavilla. Da questi discendeva Elia, che nel 1152 era signore di Gesualdo e, sposato con Diomeda, ebbe cinque figli55 di cui Maria era l’unica femmina per la quale, come in uso fra i nobili del tempo, la famiglia, cercando un buon partito, vide nei d’Aquino una stirpe degna del loro casato. La giovane, nata intorno al 1160, forse aveva ventidue anni quando sposò Andrea e dal loro matrimonio nacquero tre figli. 54 Ruggero Borsa (1060-1111) figlio di Roberto il Guiscardo e della prin cipessa longobarda Sich elgaita di Salerno, fu du ca di Puglia e Calabria dal 1085 alla morte. 55 I figli maschi di Elia e Diomeda erano: Guglielmo, Roberto, Ruggero, Goffredo.

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Landolfo II, di cui si hanno notizie fino al 1239 circa, era il primogenito, che ereditò il feudo di Grottaminarda, ma proprio per il diritto su alcuni beni fu in lite con il secondo fratello Adenolfo III di cui si hanno notizie fino al 1260; ultimo era Ruggero, che morì intorno al 1220. Adenolfo, perduta la causa ed escluso dai beni paterni, si affidò ad un buon matrimonio e, poiché costituiva un partito ambito da molte giovani aristocratiche del tempo, sposò Adelizia di Ipsytro, una nobildonna calabrese sulla cui famiglia non si ha alcuna notizia documentata, ma che certamente era fra le più importanti della Regione, perché portò in dote un piccolo feudo proprio in Calabria, dove Adinolfo si trasferì, permettendo così alla famiglia d’Aquino di giungere per la prima volta nel territorio. Siamo nei primi anni del XIII secolo e dal 1220 Federico II di Svevia era diventato imperatore, quando uno sbarco di pirati saraceni portò lo scompiglio sulle coste calabre, massacrando donne e bambini. La contea di Martirano era governata da Enrico Kalà, luogotenente imperiale venuto al seguito di Enrico VI di Hoenstaufen dopo la sanguinosa battaglia contro Tancredi, e fu proprio il figlio ventenne del conte, anche lui Enrico, che organizzò la difesa della costa dal castello di Castiglione, dove si era rinchiuso, uscendo di notte per sgominare le orde nemiche. All’impresa parteciparono i feudatari del luogo e certamente fra questi vi fu Tommaso de Albeto, figlio di Adenolfo ed Adelizia, che governava alcuni territori in Campania, ma pure ¼ del feudo di San Donato e di 1/3 di quello di Campora nel cosentino. Tommaso sposò Amengalda da Ceccano e nacque Adinolfo, omonimo del nonno e personaggio di spicco per le numerose imprese di cui fu protagonista, tanto da ottenere il territorio di Castiglione, di cui diventò primo Barone. In una iscrizione riportata sul prospetto anteriore del maniero dello stesso borgo di Castiglione così si poteva leggere fino alla metà del 1800:

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Athenulpho Thomae Aquinatis et Amengaldae De Ceccano filio Ex comitibus Aquini Cajetae Ducibus Post obita Praeclariora Caroli II et Roberti Regis Munia Capitaneo Generali Castrum Regia Munificentia concessum Anno Domini MCCCIII56 dove la data 1303 attesta l’anno in cui avvenne la donazione. Ad Adenolfo figlio di Tommaso d’Aquino ed Amengalda da Ceccano dei conti d’Aquino, duchi di Gaeta dopo la morte illustrissima di Carlo II e la successione del re Roberto capitano Generale il castello fu concesso per beneficio regio nell’anno 1303 Padre Giovanni Fiore da Cropani nella sua ricerca enciclopedica sulla Calabria sottolinea proprio come la famiglia fece della politica matrimoniale un punto di forza per aumentare il suo prestigio ed i suoi interessi “...E, per vie più stabilirvisi, cominciarono a contrarvi grandi parentele così che, per via o di maschi o di femine, tutte le più principali famiglie, siano originarie del Regno siano forastiere divenute cittadine di quello, tutte se le imparentarono. E fra queste: l’Aquila de’ conti di Fondi; la Ceccana de’ conti di Ceccano, di Segni e di Terracina; la Sangineta de’ conti di Corogliano e d’Altomonte; la Sanseverina de’ conti di Marsico, di Mileto, di Tricarico e di Matera; la Cancellara de’ signori di Cancellara; la De Monti de’ signori di Pozzuolo e viceré del Regno; la Gentile de’ signori di Crucoli; la Ruffa de’ signori di Bagnara; la Pignatel la de’ duchi di Monteleone…” 57 In una scrittura del 15 maggio, 3° inditione dell’anno 1306 il nome del barone Adinolfo viene ricordato per via di un beneficio che aveva precedentemente ottenuto da una sua parente. Il documento è conservato dagli eredi di Col’Anello Pacca ed in esso si legge che la zia paterna Oddolina d’Aquino, vedova di Oddone di Brayda, consegnò al nipote Adinolfo d’Aquino 56 Il “Il Pitagora”, Foglio periodico di Cose Patrie. 57 P. Giovanni Fio re d a Cropani: op. cit. pag. 143.

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signore di Castiglione e figliuolo ed erede universale di Amengalda da Ceccano, vedova di Tommaso de Albeto, 10 once d’oro che le aveva lasciato la stessa Amengalda. La baronessa Oddolina, figlia di Aimone, signore d’Aquino, era nipote di san Tommaso58 ed in molti documenti, accanto al suo nome, appare la dicitura “de Pontecurvo”, ad indicare la terra di origine, dove la nobildonna possedeva alcuni feudi ereditati dalla madre appartenente, secondo alcuni storici, alla famiglia di Montenero. Oddolina nel 1273 aveva sposato Oddone di Brayda, piemontese di Alba, signore del castello di Moliterno in Basilicata, avuto in dono dal re Carlo I il 24 febbraio 1269, come trascritto in Reg. IV, 66, come ricompensa dei servigi prestati sia nella battaglia di Tagliacozzo, contro Corradino di Hohensaufen, sia per aver partecipato ad altre operazioni militari. Alla morte di Oddone, avvenuta nei primi mesi del 1280, Oddolina rimase tutrice dei figli Ruggero e Margherita ancora in tenera età, ma presto fu costretta ad andar via dalla sua residenza di Moliterno; non ci è dato sapere il motivo, ma c’è da credere che, avendo contratto nuove nozze con il notaio Vinciguerra di Aversa, perse ogni diritto sul feudo. Nel suo ramo genealogico compare un terzo figlio di nome Oddone, di cui non viene riportata l’identità del padre, dunque non è possibile sapere se sia nato dal secondo marito; tuttavia appare evidente come, pur nel nuovo stato matrimoniale, la nobildonna non si a rrese, anzi dimostrò grande fermezza e sicura capacità di gestire il patrimonio che di diritto apparteneva ai figli e che il re Carlo II le aveva tolto. Dunque, recatasi al cospetto del nuovo sovrano, gli ricordò i servigi che il marito Oddone aveva prestato al padre Carlo I ed evidenziando i meriti che il defunto si era guadagnato in guerra richiedeva non solo il feudo di Moliterno, ma una ricompensa per i disagi ed i danni subiti, così riebbe il feudo perduto e nel 1286

58 Per la gen ealogia v. All.B p recedente.

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riuscì ad ingrandirlo ottenendo per i figli anche la terra di Sanseverino di Camerota.59 La storia non tramanda se le nozze fra Oddolina ed il Vinciguerra ebbero buon esito, ma nel documento del marzo del 1303 si legge che i figli Ruggero ed Oddone, citarono in giudizio proprio Vinciguerra di Aversa, notaro della Curia Regia, per la restituzione della dote della madre.60 Per quanto gli anni erano tristi, dal documento di Col’Anello Pacca appare chiaro come i rapporti fra la nobildonna ed i signori di Castiglione fossero impostati su valori di correttezza e cortesia, che confermano il suo carattere risoluto ed autorevole anche nel mantenere fede alle promesse date, come dimostra il beneficio concesso proprio al nipote. Fu dunque una donna decisa, come pure Amengalda da Ceccano, capostipite femminile della baronia di Castiglione, che proveniva anche lei da una nobile famiglia, essendo nipote del cardinale Tebaldo da Ceccano dei conti di Terracina. In una memoria che lo stesso Col’Anello Pacca dice di aver trovato nel libro dei morti di Fossanova si legge infatti: “Thomas De Aquino habuit in uxorem Dominam Amengaldam de Ceccano, neptem Domini Theobaldi de Ceccano Cardinalis ex fratre filia, hi erant affinitate coniuncti cum comitibus Terracinae, cum esset Abbas dictus Dominus Theobaldus Monasterij Fossanovae hospitavit fratrem Thomam de Aquino consanguineum memorati Thomasij, ut scriptum reperi in antiquo libro mortuali praedicti Monasterij Fossanovae Ordinis Cisterciensis”. 61 “Tomaso d’Aquino ebbe in moglie la Signora Amengalda da Ceccano, nipote del Cardinale Sig. Teobaldo da Ceccano, figlia del fratello. Erano questi parenti dei Conti di Terracina, essendo Abate del Monastero di Fossanova il detto Sig Teobaldo, ospitò il frate Tomaso d’Aquino parente del suddetto Tommaso, come ho trovato scritto in un antico libro dei morti del predetto Monastero di Fossanova dell’Ordine Cistercense.” 59 C. De Lellis: Discorsi delle Famiglie Nobili del Regno di Napoli, pag. 277. 60 F. Scandone: Notizie biografiche di Rimatori Siciliani, vol. VI. 61 F. Della Marra, C. Tutini, O. Beltrano: “Disco rsi delle famiglie estinte, forastiere, o non comprese ne’ Seggi di Napoli”, pag. 52.

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Dall’iscrizione sembra che a quel tempo i signori d’Aquino soggiornassero nel castello di Castiglione, la cui terra era florida sia per la fertilità dei campi, in cui si praticava l’agricoltura e la pastorizia, sia per la ricchezza del mare, dal quale proveniva una quantità ingente di tonni e di ogni genere di pesci. Tutto il territorio godeva dei benefici che la Natura offriva sin da epoca antica, quando la costa calabra, scelta dai coloni greci in fuga dalla loro patria, appariva come un’immensa megalopoli, abitata densamente da artigiani e lavoratori che fecero qui la loro fortuna. La storia e le guerre combattute modificarono nel tempo la struttura dei luoghi, ma la produttività e la fecondità del terreno furono sempre l’elemento principale su cui i signori d’Aquino basarono la loro ricchezza economica capace di aumentare potere e prestigio al casato. In una descrizione della Calabria del 1600 si legge: “In questa nobile e fertilissima regione nascono quasi tutte le cose, non solamente necessarie per il vivere de’ mortali,ma eziandio per le delizie e piaceri di essi”. 62 I colli e le valli erano verdeggianti e frutteti estesi e rigogliosi, irrigati da sorgenti ed acque cristalline, rendevano i luoghi ridenti ed allettanti per i loro frutti che il sole faceva succosi e saporiti. Si produceva inoltre grano, farro, orzo ed ogni altra sorta di biada; vigneti di uve eccellenti permettevano la distillazione di vini prelibati qualità; grandi uliveti davano olio in abbondanza; dalla canna da zucchero si ricavava il dolcificante raro e prezioso; l’erba che cresceva spontaneamente offriva pascolo alle greggi che fornivano in abbondanza latte destinato ad ottimo cacio ed ancora le piantagioni di cannamela completavano le risorse rendendo la regione fra le più pregevoli e rinomate di tutta la penisola. Il sottosuolo era ricco di metalli, abbondava di miniere d’oro, argento, ferro, non mancava il sale di miniera e d’acqua marina, marmo, alabastro, cristallo, marcasite63 e gesso di tre differenze. 62 S. Mazzella: “Descrittione del Regno di Napoli” pag. 133 -134 63 La marcasite o marcassite è un minerale lu cente usato nell’oreficeria.

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Vi nasceva ancora canapa, lino di due modi: uno detto “maschio”, l’altro “femmina”, si ricavava tanta abbondanza di seta, quanta non se ne produceva in tutta Italia e poi ancora “ci casca la manna dal cielo, cosa certamente rara”64. Oggi non riusciamo a capire cosa sia la “manna” il cui nome ha una reminiscenza biblica, quasi miracolosa, ma è certo che in molti testi antichi si parla di questa “rugiada divina”, capace di nutrire e soprattutto di curare gli uomini. Già Galeno, il famoso medico vissuto fra il 129 ed il 216 a. C., scriveva: “Fassi in su le fronde de gli alberi un liquore, il quale veramente non si può dire, che sia il succo, né il frutto, né parte alcuna di quelli: ma ben si può dire, essere una specie di rugiada…Io mi ricordo bene, che qualche volta nel tempo della state s’è trovato in sugli alberi, e sopra l’erbe assaissimo mele, del che giubilando, e facendo feste i villani cantavano. Giove ne piove il mele…”65 Poi Plinio il Vecchio continuò la descrizione quasi come un miracolo della natura: “Casca questo mele dall’aria e massimamente dal nascere di alcune stelle, e suole specialmente intervenire questo nel tempo della Canicola…si ritrovano le fronde degli alberi carichi di rugiadoso mel e …Sia adunque questo, o sudor del cielo, o saliva di alcune stelle, o umore, che si purghi nell’aria…” 66 E Giovanni Pontano nel 1490 circa continuava riferendosi proprio alla Calabria: “Quin etiam Calabris in saltibus ac per opacum labitur ingenti Crathis qua cerulus alveo quaque etiam Syriis silvae convallibus horrent, felices silvae, quarum de fronde liquescunt divini roris latices, quos sedula passim turba legit, gratum auxilium languentibus aegris, illic aestate in media, sub sole furenti, dum regnat calor et terrae finduntur hiantes, tum tener ille vapor sensim sullatus ab aestu versatusque die multoque incoctus ab igni concava per loca et arescentibus undique silvis, ingratum ut sensit frigus sub nocte madenti cum nullae spirant aurae et silet humidus aer, contrahitur paulatim et lento humore coactus in guttas abit et 64 S. Mazzella op. cit. 65 Galeno: “De facu ltatibus alimentorum” III,38. Trad. di Pier Andrea Mattioli (XIV sec.) 66 Plinio (23-79 a.C.): “Historia Naturalis”, XI, cap. 30. Trad. di Pier Andrea Mattioli (XIV sec.)

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foliis sitientibus haerens lentescit, rursumque diurno a sole recoctus induit et speciem cerae mellisque saporem.”67 “Anche sui monti della Calabria e per i luoghi ombrosi dove scorre il ceruleo Crati dal grande alveo e dove le selve diventano irte nelle convalli Sirie, felici selve, dalle cui fronde stillano gocce di rugiada divina, che la schiera operosa di gente raccoglie, gradito aiuto agli ammalati languenti, lì nel mezzo dell’estate, sotto il sole furente mentre regna la calura e le terre secche si spaccano, allora quel tenero vapore sostenuto insensibilmente dal calore trattenuto durante il giorno e condensato dal gran fuoco nei luoghi concavi mentre tutt’intorno le selve sono aride, appena avverte il freddo sgradevole nella notte umida quando non soffia alcun venticello e l’umido cielo è silenzioso, si contrae a poco a poco e rappreso in molle rugiada si condensa in gocce e diventa viscoso appiccicandosi alle foglie assetate, e di nuo vo cotto per la seconda volta dal sole del giorno assume la forma della cera ed il sapore del miele.” Un sistema di elementi vari caratterizzava dunque la Calabria, dove molti fiumi correvano verso il mare e gradevoli acque sorgive permettevano bagni caldi, tiepidi e freddi, per curare molte malattie, mentre, lungo i lidi, deliziosi giardini di cedri, aranci e limoni, ricreavano la vista al passeggero. I colli tutt’intorno erano ricoperti di boschi di altissimi abeti, elci, platani, querce, lecci, dove nasceva spontaneo il bianco e profumato fungo “agarico”, che “…riluce di notte. Quivi nasce la Pietra Frigia, la quale ogni mese genera delicati e salubri fungi e la Pietra Aetites, detta da noi Pietra Aquilina”.68 Non parliamo poi degli animali che vivevano nella regione! Cinghiali, detti porci selvaggi, cervi, caprioli, volpi, istrici, faine, marmotte, ghiri, camosci, rupicapre69, abbondavano nei boschi con somma gioia dei cacciatori; ma vi erano anche lupi, orsi e “lupi cervieri”, caratteristici per la vista acuta e per il dorso maculato di vari colori. 67 G. Pontano: “Meteoro rum Liber – De p ruina et rore et manna” vv.228-245. 68 S. Mazzella: op. cit. Un tempo si diceva fosse la pietra ch e favoriva il parto e si usava come amuleto 69 Camosci alpini.

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Vi erano ancora altri animali oggi estinti, quali “ibici” della famiglia delle gru, e “orige”, animali del genere dei cervi simili per grandezza al toro selvatico. Il mare poi era abbondantissimo di pesci, ma anche di coralli bianchi e rossi, mentre vicino ai lidi era possibile vedere la splendente Pietra Paragone, nella quale si distingueva ad occhio nudo l’oro, l’argento ed ogni altro metallo. Il feudo di Castiglione era situato dunque in una terra rigogliosa che il sole arricchiva con la sua luce e col suo tepore, ma la ricchezza non finiva qui, infatti in basso nella marina vi era l’Ufficio di Dogana che esercitava il controllo sulle merci che passavano le frontiere dello Stato, dove gli agenti procedevano alla riscossione del dazio, che forniva alla famiglia d’Aquino una ulteriore risorsa economica di ampio respiro. Sotto il castello infatti passava la litoranea che metteva in comunicazione la Calabria Citra con quella Ultra,70 una via assai trafficata che permetteva un commercio florido rivolto ai grossi centri del Regno. Il barone Adinolfo fu signore incontrastato di questa terra, dove vivevano con lui due sorelle che maritò degnamente, come in uso nell’alta aristocrazia. La prima di nome Chiara negli anni intorno al 1278 andò sposa a Gualtiero de Sangro, Barone di Bugnara, trasferitasi dunque in Abruzzo, iniziò lì la sua nuova vita di nobile feudataria nel palazzo edificato dal conte Simone I de Sangro, che aveva creato un edificio grandioso ed imponente, adatto alle sue esigenze difensive, così da essere definito Rocca dello Scorpione. Se però il nome sembra indicare un luogo impervio, la costruzione, pur nella sua struttura grandiosa e massiccia, all’interno era divisa in comode stanze ampie e ben illuminate, come ancor oggi si può osservare, che permettevano una vita comoda, dove Clara si dedicava alle quotidiane preoccupazioni 70 Si intendeva p er Calabria Citra, la parte di regione detta anticamente Magna Grecia, unita alla p rovin cia di Cosenza, di cui Castiglione faceva parte. La Calab ria Ultra si riferiva invece alla zona di Catanzaro e d el mare Ionio.

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nobiliari, mentre il marito impegnava le sue energie nella politica del tempo, fatta di battaglie ed imprese coraggiose. Molto in vista fra i feudatari, Gualtiero de Sangro sosteneva la causa Angioina, così partecipò nel 1299 al Parlamento dei Feudatari tenuto ad Avellino, quando si dovette prendere una decisione assai impegnativa per il Regno di Napoli. Erano gli anni in cui si combatteva la guerra voluta da Federico III d’Aragona, che avendo accettato il titolo di re dal Parlamento della Sicilia, era passato in Calabria e poi nel napoletano contro il fratello Giacomo II d’Aragona il quale offriva il suo aiuto al Re Carlo d’Angiò per conquistare l’isola ribelle. I due sovrani addestravano gli eserciti in una guerra fratricida e, mentre Giovanni da Procida e Ruggero di Lauria, fedelissimi di Carlo d’Angiò, furono costretti ad abbandonare la Sicilia, Ruggero, per ordine di Giacomo stesso, fu nominato ammiraglio della flotta contro i Siciliani, governati da Federico III d’Aragona. Nell’ottobre 1299 Catania passò in mano angioina e Messina restò fedele al re Federico che nella guerra riuscì a far prigioniero Filippo di Taranto, figlio di Carlo II d’Angiò e fratello del re Roberto. La situazione era grave ed i Feudatari nel Parlamento di Avellino furono chiamati a prestare il loro giuramento di fedeltà a Carlo II d’Angiò, mentre il papa Bonifacio VIII, sentendosi anche lui minacciato, chiese aiuto a Filippo il Bello, re di Francia, il quale inviò un esercito sotto il comando del fratello Carlo di Valois. Giunto in Basilicata, Carlo fu accolto con grandi onori dai feudatari locali, che unirono le loro schiere a quelle francesi e così anche Gualtiero de Sangro con la sua cavalleria si avviò verso il sud del Regno per la conquista della Sicilia. Il 1302 fu un anno segnato da grosse perdite umane, gli Angioini, pur avendo riportato alcune vittorie, videro l’esercito decimato dalla malaria e fra i militari certamente morì anche il conte Gualtiero, poiché da questa data i documenti non riportano più sue notizie. La baronessa Chiara d’Aquino sopravvisse al marito per circa sette anni, fino al 1309, mentre il figlio Simone II, erede del feudo

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di Bugnara e Maresciallo di Sicilia, continuando le imprese iniziate dal padre, ampliò i suoi territori sostenendo aspre contese con i feudatari circostanti, così che nel 1331 usurpò il territorio di Altamura. La seconda sorella di Adinolfo di Castiglione era Milice o Militia, andata sposa a Gualtieri Caracciolo, detto Pisquizio, signore di Pisciotta ed uomo di fiducia del re Carlo II d’Angiò. Si racconta che il re, afflitto da un fastidioso male, non esitò ad affidare proprio a Gualtiero l’incarico di andare in Sicilia per consultare Giovanni da Procida, medico di Federico II che stimava fortemente, pur essendo suo acerrimo nemico e sostenitore della causa aragonese 71. L’avversità fra Giovanni da Procida e Carlo II lo Zoppo aveva origini personali, che si aggiungevano certamente alle divergenze politiche. Giovanni era fiero sostenitore della causa Aragonese e secondo la leggenda fu proprio lui a fomentare la guerra del Vespro nel 1282, quando il 31 marzo, lunedì dopo Pasqua fece giungere appositamente da Napoli la figlia Imelda, perché provocasse l’incidente con il soldato francese Drouet sul sagrato della Chiesa di Santo Spirito a Palermo. Secondo lo storico Summonte invece l’inimicizia aveva origini più personali, infatti un barone di re Carlo aveva osato oltraggiare una figlia del medico Giovanni. “La raxiuni chi misser Gioanni di Procida si misi a trattari et ordinari quista ribellioni contra lu re Carlo, si fu chi un gran baruni di lu re Carlu si forza ad una figlia di misser Gioanni, et illu sindi lamentau a lu re Carlu: di chi lu re Carlu di quista falla non indi happi plena iustitia, come a misser Gioanni si convenia; e misser Gioanni si proposi in cori comu potissi distrudiri lu re Carlu e vingiarisi di la iniuria la quale avia riciputa, di chi l’ordinau quistu trattatu comu tutti aviti intisu…”72 “La ragione per cui messer Giovanni da Procida ordinò questa ribellione contro il re Carlo fu che un gran barone dello stesso re oltraggiò una figlia di 71 S. Gatti: Museo di Letteratura e Filosofia, pag. 74. 72 N. Buscemi: La vita di Giovanni da Pro cida. IX Aggiunta dei Do cumenti Inediti, I.

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messer Giovanni, per cui lui, andato a lamentarsi col re non ebbe pi ena giustizia come si conveniva; da qui messer Giovanni si propose come potesse distruggere il re Carlo e vendicarsi dell’ingiuria subita da parte di chi aveva ordinato, come tutti avete udito…” dove dal documento sembra quasi che ci sia stata la protezione del re verso colui che aveva compiuto un atto così villano. Carla Falconi nella sua “Vita romanzata di Giovanni da Procida” pubblicata nel 1936, sostiene che il nome della giovane fosse Giovanna, la quale nel 1295, per sanare l’onta subita, prese il velo divenendo badessa del Monastero delle Clarisse di San Lorenzo de Monte di Salerno. La contesa fra il re ed il medico salernitano era dunque assai aspra e Gualtieri Caracciolo era un fedele amico alleato del sovrano ai cui occhi godeva di grande prestigio se, pur al corrente del rischio a cui andava incontro, decise di partire perché il suo re venisse curato da un luminare del tempo. Non sappiamo di preciso di quali mali il re Carlo soffrisse, ma Francesco Piedimonte, medico personale di re Carlo II e contemporaneo di Giovanni da Procida si sofferma sulla terapia che Giovanni da Procida adottava per curare il mal di stomaco, trascritta nell’opera “Complementum in Opera Mesue” del 154173: “Aquam frigidam et irrora de super acetum album purum quantum tolerare poterit bono modo, et da bibere stomacho jeiuno quantum est cupa…” “Versa dell’aceto puro e chiaro in dell’acqua fresca quanto ne può tollerare, e dà da bere una tazza a stomaco vuoto…” parole che sembrano riferirsi alla cura adottata per il suo re. Milice d’Aquino e Gualtieri Caracciolo ebbero due figlie Trudella e Caterina che andarono spose rispettivamente a Giovanni Vulcano e Francesco Caracciolo, entrambi patrizi napoletani. Come la sorella Chiara, anche Milice fu signora assai riverita nella sua terra campana, dove, sopravvivendo al marito, governò fino al 1323, anno della sua morte. I matrimoni contratti dalle nobildonne d’Aquino con famiglie fra le più rinomate del meridione d’Italia, sono testimonianza del 73 Mesue è il nome di Yuhanna ibn Masawaih, medico arabo-siro del 9° sec., noto nella prima metà del 1500.

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prestigio di cui godeva il barone Adinolfo di Castiglione, sicuramente tra i favoriti di corte sin dal 1296, quando il re Carlo II d’Angiò, detto lo Zoppo, lo volle nominare suo Valletto74 e Familiare e comandò che gli venissero pagate due once al mese per tutto il periodo in cui avrebbe prestato il servizio militare sotto il comando del cugino Tommaso, 3° conte di Marsico, figlio di Ruggiero Sanseverino e della seconda moglie Teodora d’Aquino, sorella di San Tommaso. All. C

Certamente attraverso il conte di Marsico giungevano ad Adinolfo i favori del sovrano, infatti se avere un papa nella famiglia costituiva un enorme pregio, annoverare un Santo fra i consanguinei, significava poi godere di una stima assoluta. La fama del santo era sostenuta da tutti i membri del casato e da tutta la nobiltà napoletana, fiera di vedere agli onori degli altari un personaggio così di spicco. Teodora poi contribuiva alla diffusione del culto del fratello ed il figlio Tommaso di Marsico, ricordava i precetti e gli insegnamenti dello zio santo, il quale più volte aveva soggiornato nel suo castello, ospite gradito. Il conte non solo era molto devoto a San Tommaso, ma anche assai fedele al re, per cui come segno di questa sua dedizione alla Chiesa ed allo Stato, nel 1306 dette avvio a Padula alla costruzione della Certosa di San Lorenzo, sul sito di un esistente 74 Da Valletto si ascendeva verso il grado di Cavaliere.

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cenobio, secondo la regola che predica la contemplazione ed il lavoro. Il re gli affidò dunque incarichi assai autorevoli, come quello ricevuto nel 1284, quando fu inviato col titolo di capita no di guerra a difendere il litorale tirrenico e, proprio in quell’occasione portò con sé il cugino Adinolfo di Castiglione, con il quale cominciò a condividere i meriti agli occhi del sovrano. Nel 1301 infatti anche Adinoldo fu nominato Maestro Generale dei Balestrieri di Roberto d’Angiò, che allora era duca di Calabria e, poiché cominciò a segnalarsi per il grande valore e la fedeltà alla corona, il duca gli donò 40 once d’oro per ciascun anno di servigio sopra la terra di Brahallà, nella valle del Crati (detta poi Altomonte) e la Contea di Castiglione. Questa infatti, dopo la morte senza eredi di Guglielmo di Castiglione, era tornata in potere della Regia Corte che volle lasciare immutato nei secoli seguenti il nome dei primi baroni normanni. Così ricorda lo storico De Lellis lì dove, parlando della famiglia Di Palma, dice che alcuni di loro: “formarono una discendenza a parte de’ Signori di Castiglione, estinta in Guglielmo in Castiglione, che visse nell’anno 1306 e morendo senza eredi in grado di successione, restò devoluta la terra di Castiglione al re Carlo secondo, da cui fu donata per servitij militari ad Adinolfo d’Aquino, Generale dei Balestrieri nell’anno medesimo 1306”.75 Il decreto di donazione è del 12 marzo 130676 e la data non si contrappone a quella impressa sull’epigrafe del maniero di Castiglione dove, come già detto, si lesse per lungo tempo in avvenire la data del 1303, infatti il documento vuol certamente evidenziare una concessione regia effettuata precedentemente già da qualche anno. Il castello era dunque un luogo strategico per la sua posizione dominante sul territorio circostante e sul mare, da lì infatti, come ancora oggi, lo sguardo spazia sull’intera distesa di acqua salata, controllando il golfo lametino fino all’orizzonte. Da questo momento il centro abitato cominciò ad ingrandirsi con nuovi nuclei familiari e l’antico castello normanno fu ristrutturato, 75 C. De Lellis: Discorsi delle famiglie nobili del Regno di Napoli, III p.83. 76 F. Campanile: “Dell’Arme overo Insegn e dei Nobili”, pag. 226

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i baroni d’Aquino con una politica di valorizzazione del territorio permisero che il luogo acquistasse sempre maggiore importanza e fosse ritenuto baluardo di sicura difesa contro eventuali attacchi nemici. Considerando questo nuovo feudo come punto di riferimento per tutta la regione, Adinolfo rese solida la fortezza, la guarnì di nuovi armamenti, volle come stemma significativo una torre poggiata sulle onde con due leoni rampanti in campo nero e con la scritta “Castiglione Marittimo”, ad evidenziare la piazzaforte, sicuro baluardo sul mare e sui lidi circostanti.77 Nel 1305 il barone Adinolfo istituì nel castello un presidio militare, ponendo a capo Giacobello di Roccasecca e Giovanni Pavanisio di Bologna, due fra i suoi fedeli e nello stesso anno il re “etiam laudabilibus meritis dicti Adenulfi” aumentò la provvigione che raggiunse la somma di 60 once, con l’ordine che venisse subito consegnata, anche se aveva stabilito per i feudi la generale sospensione del pagamento di ogni altro compenso simile, poi ancora concesse a Castiglione l’esenzione dalle imposte per i cinque anni successivi.78 Nel 1304 il barone aveva sposato Stefania, figlia del Cavaliere Andrea di Montefalcione, già vedova di Andrea de Molisio, signore di Montefuscolo e Cupuli, imparentandosi così con un’altra fra le famiglie più prestigiose del sud. Stefania aveva un figlio di nome Guglielmo, che Adinolfo allevò come suo; ma nel 1320 il giovane venne in lite con la madre per alcuni possedimenti in Montefuscolo e nel documento la dama: “Stephania de Montefalzone” viene citata come “uxor Domini Adenulphi de Aquino Regni Balistrariorum Magistri”, ossia “moglie del signor Adinolfo d’Aquino capitano dei Balestrieri del Regno”. I favori reali per Adinolfo aumentavano ogni anno di più e nel 1310 Roberto d’Angiò, divenuto re, lo nominò Viceré della Provincia di Calabria, con incarico della castellania perpetua di 77 Foglio Periodico “Il Pitagora” p ag. 45 (il gio rnale mi è stato gentilmente fornito dallo studioso Sig. Mario Folino Gallo). La foto in cop ertina mi è stata donata cortesemente dallo storico Sig. Armido Cario. 78 Della Marra-Tutini-Beltrano, op. cit. p ag. 53.

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Amantea. Nel 1312 fu Consigliere di Stato e fece parte del Consiglio Reale, così con questo incarico venne mandato nella città di Ferrara, posta sotto la protezione del re Roberto, a far giustizia ad Azzo e Bertoldo d’Este, figli del marchese Francesco. Tornato da Ferrara nel 1314 ebbe ancora l’incarico prestigioso, come Procuratore del Re, di recarsi insieme a Guglielmo di Dinissiaco, detto Bolardo, Maresciallo del Regno, in Sicilia durante la lotta fra Angioini ed Aragonesi, e prendere il giuramento di tregua da parte del re Federico d’Aragona e dei suoi Vassalli. Nel 1318 fu di nuovo Viceré di Calabria e nel 1326 poi in previsione della venuta di Ludovico il Bavaro, ebbe il compito di organizzare gli eserciti e quello di rinforzare tutte le fortezze del Regno di Napoli, con l’incarico di impartire i suoi ordini non solo agli ufficiali, ma anche ai viceré delle province. Il maniero di Castiglione dunque assunse un’importanza rilevante nel contesto territoriale, guarnito con un numero ingente di militari che proteggevano tutto il luogo, rendendolo un’oasi di sicurezza contro ogni attacco nemico. Tra gli altri incarichi di rilievo Adinolfo ebbe anche quello di Capitano generale di tutto lo Stato di Rieti, che prima di lui aveva avuto Carlo, duca di Calabria, figlio primogenito dello stesso re Roberto, il quale ordinò gli si dessero gli stessi emolumenti economici che erano stati concessi al figlio. I suoi servigi lo portarono in alto nella stima e nella fiducia del re, così ebbe anche il governo della città di Reggio, come in un documento del 6 settembre 1333 in cui si legge che Berardo di Bannella, giudice della città di Reggio, e Nicolò di Yeria, notaio, furono chiamati “…coram Egregio, Magnifico Viro Domino Adenulfo de Aquino Milite Consiliario Familiari Abalistrariorum Regni Magistro Capitanei Civitatis Regij aliarum terrarum a capite Bruzzarum usque Balmneariam”. “…di fronte all’Egregio e Magnifico Signore Adinolfo d’Aquino Milite Consigliere Familiare degli Alabardieri del regno, Capitano delle città di Reggio e delle altre terre da capo Bruzzano fino a Bagnara”. Qui viene citato col titolo di familiare del re e definito “Egregio” e “Magnifico”, appellativi attribuiti a persone di altissima dignità,

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nello stesso documento si specifica anche che la sua autorità si estendeva sulla città di Reggio e su tutto il territorio da capo Bruzzano fino a Bagnara. I suoi compiti delicati e di estrema fiducia non gli permettevano di restare molto tempo nello stesso luogo, così, dovendo ritornare a Rieti, ottenne dal re di lasciare queste terre al figlio Tomaso. Adinolfo rimase a Rieti per sei anni, continuando a servire la casa reale con impegno e devozione fino al 1335, quando dai documenti sembra essere già morto: “Adenulfo de Aquino Generali Capitaneo”. I baroni Adinolfo e Stefania ebbero due figli che avevano lo stesso nome: Tomaso e Tomasa, ad indicare il grande rispetto che nutrivano per il loro illustre congiunto. Tomaso ereditò il feudo paterno, e Tomasa, come richiedeva la legge del maggiorascato e come volevano le usanze aristocratiche, destinata ad un marito nobile e facoltoso, andò sposa a Pietro de Glaix, signore di Cancellara e Pietragalla in Basilicata. Il barone forse di origine francese, apparteneva ad una famiglia venuta in Italia al seguito del re Carlo II d’Angiò; lui stesso era tesoriere e familiare di Roberto, duca di Calabria, ed aveva ricevuto dal re il feudo lucano con decreto del 18 novembre 1305.79 Tomasa si trasferì dunque in Basilicata e fu signora del nuovo territorio, dove fu costruito un imponente castello, come dimostra un pezzo di muro, ancora visibile sulle alture del bosco Casalis Asprum, oggi Casalaspro, cosicché tutto il luogo viene identificato col nome “il Castello”. La dimora all’epoca era certamente signorile, fornita di cerchia muraria e fossato secondo le strutture fortificate tipiche del Medioevo che appaiono ancora ben visibili in altri castelli della Basilicata. Qui Tomasa trascorreva i suoi giorni di “domina”, signora rispettata dai sudditi e presa dalle cure domestiche, qui nacque la figlia di nome Cecca, la quale non ereditò mai il feudo del padre, infatti nel 1309 il re Carlo II, con decreto del 20 aprile, assegnava l’intero territorio al figlio quindicenne Giovanni 79 Teo d a Pietragalla: Pietragalla, ricerche storiche, pag. 84.

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d’Angiò, penultimo dei suoi 14 figli, al quale necessitava un territorio su cui esercitare la propria giurisdizione. Giovanni era destinato ad una carriera degna di un principe e ben presto dimostrò forte astuzia quando, sposò nel 1318 Matilde di Hainaut, principessa di Acaia o Morea, dopo averla rapita e portata con forza a Napoli. Gli intrighi erano usuali in quell’epoca, come la storia riporta, ed ogni mezzo, anche illecito, veniva usato per raggiungere i propri fini; la donna poi era “l’oggetto” destinato ad esaudire ogni bisogno dell’uomo e quando essa, come in questo caso, era stabilito che ereditasse beni di rilevanza politica, diventava più facilmente bersaglio e mira che ledevano la propria volontà. L’inganno però non ebbe buon esito, perché Matilde si rifiutò di cedere i suoi diritti sul Principato di Acaia, non solo, ma tre anni dopo riuscì a far annullare il matrimonio. L’ira di Giovanni non ebbe limiti e, avendo Matilde sposato segretamente il nobiluomo Ugo de la Palice (da cui peraltro presto divorziò), la fece rinchiudere a Napoli nel castel dell’Ovo, con l’accusa di non avere rispettato la volontà della madre Isabella di Villehardouin, principessa d’Acaia, la quale, per mantenere il titolo si era impegnata in un patto con la famiglia d’Angiò, secondo il quale le figlie, titolari del feudo, avrebbero potuto contrarre matrimonio solo col consenso del re di Napoli. In questi intrighi politici rimase intrappolata Tomasa d’Aquino che, ormai vedova, non riuscì a difendere i diritti della figlia la quale venne così diseredata. La donna morì il 10 novembre 1348. Tomaso, 2° barone di Castiglione. Tomaso era ancora giovinetto quando il re, affidandogli le terre di Calabria ed il forte di Castiglione, lo pose al comando di 150 soldati sui quali aveva potere assoluto, anche di punirne gli eccessi fino alla pena di sangue, come appare nel documento originale datato 5 giugno 1320. Qui peraltro viene definito anche lui “Ciambellano” e “Familiare”,80 a testimoniare la carica onorifica 80 F. Della Marra, C. Tutini, O. Beltrano, op. cit. pag. 55.

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conferitagli, che lo rendeva pari ai dignitari di corte che curavano le udienze solenni e sovrintendevano ai cerimoniali. Certamente lo ponevano in buona luce di fronte al sovrano i meriti del padre Adinolfo, al seguito del quale dette inizio nel 1330 alla sua carriera militare col grado di luogotenente nelle terre di Montereale e Civita Ducale. Il servizio fu la valutazione del suo valore, infatti si distinse nei servigi con tanta devozione che, quando Adinoldo diventò Cavaliere e dovette adempiere a doveri superiori di natura diversa, il re permise proprio a Tommaso di reggere le sorti di Reggio Calabria, una città strategica, punto di collegamento fra il continente e la Sicilia, dove erano in corso parecchie turbolenze. Nel 1335 Tommaso, alla morte di Adinolfo, si trovò ad ereditare i feudi paterni e la Castellania di Amantea e di Castiglione, ricevendo parole di elogio da parte del Re ”Nos spectantes, quod tu paterna vestigia, eidem q. patri tuo in virtutibus, fide, devotione succedere debeas”, che nel ricordare le virtù paterne, poneva la sua piena fiducia nel figlio. “Vedendo noi che tu segui le orme paterne, (riteniamo) debba succedere a tuo padre medesimo in virtù di valore, fede e devozione”. Con tali favori dunque dette inizio alla sua vita di feudatario, richiedendo ai sudditi gli obblighi dovuti e nello stesso tempo i consuntivi periodici sui castelli in suo possesso, per determinare l’ammontare delle rendite annue, che dovevano essere ben alte e necessarie a soddisfare le esigenze personali e quelle della sua famiglia, come pagare le tasse alla corona e sostenere un esercito adeguato ad intraprendere eventuali campagne militari volute dallo stesso sovrano. Per motivi economici dunque lo ritroviamo in lite con la madre Stefania, alla quale col suo nuovo titolo aveva levato i benefici di Castiglione; la baronessa però non si lasciò intimorire e lo citò in giudizio di fronte al re per ottenere la “terzarìa”, ossia il diritto ad un terzo del ricavato. Non sappiamo se dovette concedere alla madre quanto le spettava, ma ci è nota la sua carriera militare e politica in continua ascesa, cosa che denota il forte ascendente sul sovrano che gli permise di contrarre un vantaggioso matrimonio con Caterina,

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figlia di Ludovico de Mons o delli Monti, signore di Pozzolo e Viceré di Napoli, e di Giovanna dell’Aquila dei Conti di Fondi. Degno successore del padre, il barone Tommaso dimostrò coraggio in situazioni pericolose e difficili, così partecipò alla guerra dinastica che devastò il Regno di Napoli nel 1347 e che portò gravi problemi che si prolungarono per un lungo tempo. In questo periodo infatti regnava nel sud della nostra penisola Giovanna, orfana di Carlo duca di Calabria, succeduta al nonno Roberto il Saggio; la regina aveva sposato Andrea d’Ungheria, duca di Calabria e fratello di Luigi I, re d’Ungheria, discendente dal ramo di Carlo Martello, fratello del nonno Roberto.

La regina Giovanna I di Napoli

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All. D

Andrea e Giovanna erano entrambi Angioini partenopei che si erano da sempre contesi il Regno di Napoli, dunque con questo matrimonio fra consanguinei il re Roberto aveva creduto di porre fine alla lotta fra i due rami della stessa casa.

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In realtà i due giovani apparvero presto molto diversi nel carattere, la sposa, salita al trono appena sedicenne, era assai raffinata e vivace secondo l’educazione ricevuta nella splendida corte di Napoli; lo sposo invece, anche lui di appena 19 anni, presto mostrò la sua indole di giovane rozzo ed incolto, per cui Giovanna, forte dell’appoggio di molti dei suoi sudditi, non volle concedergli il titolo di re, contravvenendo alla volontà testamentaria del nonno Roberto. Una misteriosa congiura, avvenuta nel castello di Aversa, pose fine ad ogni pretesa ereditaria, infatti si racconta che il principe, dopo una battuta di caccia, fu strangolato con una corda e gettato dalle finestre della propria stanza, mentre la regina Giovanna si allontanava ignorando le urla di aiuto del marito; così fu raccontato a Luigi, re d’Ungheria, il quale il 3 novembre 1347 scese in Italia per spodestare la cognata. Tutti i baroni fedeli accorsero allora al richiamo della sovrana e Tommaso d’Aquino fu tra costoro, dopo aver radunato il suo esercito arruolato fra gli abitanti del feudo di Castiglione. La battaglia che si combatté nei pressi di Melito di Napoli fu violenta ed in una accanita difesa del suolo partenopeo il barone Tommaso nel 1349 fu fatto prigioniero da Konrad Wolf, capitano del re d’Ungheria, insieme ad altri 25 fra conti e baroni e portato nel castello di Arienzo, nei pressi di Caserta, dove rimase chiuso per un anno. La liberazione dei prigionieri avvenne dopo il pagamento di un riscatto di 200 mila fiorini che lasciò Napoli nella totale miseria, 81 ma, pur nel disagio economico e sociale Tommaso ottenne ancora cariche di prestigio, certamente per il coraggio dimostrato, ma soprattutto per l’ascendente che la famiglia d’Aquino aveva a corte. Così fu nominato Vicario, poi Viceré quindi Capitano Generale di tutte le Terre d’Otranto e riconfermato Familiare al posto di Raimondo Cantelmo, suo predecessore, raggiungendo nel 1357 la

81 G. A. Summonte: Dell’Historia della città e regno di Napoli, pag. 435.

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massima carica, ossia quella di Cameriere e Consigliere della Regina Giovanna. Godendo di queste innumerevoli concessioni morì fra la fine del 1358 ed i primi del 1359. Iacopo d’Aquino, 3° barone di Castiglione Erede di Tomaso fu Iacopo, forse unico figlio, al quale il 13 agosto 1359 la regina Giovanna I confermò la Terra di Castiglione, di Marsicovetere e Briatico. Il 10 giugno 1368 il barone sposò Elisabetta Gentile, che gli portò in dote la terra di Crucoli, (di cui la giovane secondogenita di Rinaldo e Giubitosa era già signora), e di Massinara, che poi divenne appannaggio di quel ramo d’Aquino che si stabilì a Tropea. Alla morte del padre infatti Elisabetta e le sorelle Nita, la primogenita, Stefana e Rainalda, erano state affidate allo zio paterno Senatore, che aveva intrapreso la carriera militare, e fu proprio lo zio che favorì il matrimonio col d’Aquino, offrendo così ad Elisabetta un avvenire sicuro ed una vita prestigiosa. Scrive Ammirato: “Hebbe Jacopo per moglie Elisabetta Gentile, da cui ricevette in dote la terra di Crucoli. Emmi stato detto essere i Gentile di nobile famiglia…”82 Anche i Gentile infatti avevano fama di grandi signori, come dai vari aneddoti riportati, che vogliono celebrarne la magnanimità. Si legge infatti in alcune carte conservate nell’Archivio Vecchio che Bernardino Gentile, padre di Matteo e Tomaso, Conti di Lesina, nell’anno 1207 regalò al Monastero di Montevergine una grande quantità di anguille fra le più grosse e più belle, volendo evidenziare il dono come frutto del profondo rispetto non solo per un luogo assai venerato, quanto anche per la comunità religiosa che faceva della preghiera l’obiettivo della propria vita e desiderando mostrare la devozione della sua famiglia nei confronti della Vergine che i monaci veneravano nella loro Basilica, avendo rinunciato ad ogni velleità terrena.

82 S. Ammirato: Delle famiglie nobili napoletane, Parte I.

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Da Iacopo ed Elisabetta nacquero Angelo e Rinaldo, che succedettero entrambi nel governo di Castiglione, poi ci fu Cristoforo, capostipite dei signori di Cosenza, e Giovanni che ebbe in appannaggio una parte di Crucoli, ricevendone solo una rendita annua. Da questa scarna notizia sembra che la figura di Giovanni sia avvolta da alcune ombre che il tempo rende ancora più fitte, fu l’unico infatti al quale non fu concessa alcuna terra e di cui si sa solo che ebbe un figlio naturale, Galeazzo. Nel 1388 Jacopo morì ed Elisabetta continuò a governare con generosità, come da documenti datati 15 giugno 1400, in cui vengono segnalate alcune esenzioni di servitù sui beni feudali che la baronessa volle concedere ai suoi vassalli. Non è stato tramandato per quanto tempo la nobildonna rimase alla guida del suo feudo, ma dopo il 1406 non rimangono più documenti che attestino la sua presenza in vita. Angelo, 4° barone di Castiglione Dopo il 1388 Angelo, il primogenito di Jacopo, ebbe in eredità le terre di Castiglione e Marsicovetere, Crucoli e Massinara per parte materna, quindi, avendo sposato la baronessa di Morano Calabro, aggiunse il nuovo feudo in virtù dei servigi concessi al sovrano, come dai Registri di re Ladislao del 1404 - 1405. Non è dato conoscere il nome della nobildonna moranese che tutti i documenti citano col segno “N”, è tuttavia ipotizzabile appartenesse alla famiglia Fasanella che deteneva il potere di Morano, Cirella e Grisolia sin dal 1200. Non sappiamo neanche se fu l’ultima della famiglia a reggere il governo del feudo di Morano, infatti la coppia baronale non ebbe figli ed ai Fasanella-d’Aquino subentrò Antonio Fuscaldo finché, nella seconda metà del XV secolo, dopo l’arrivo degli Aragonesi, il territorio passò ai Sanseverino. Angelo probabilmente visse con la sposa nel castello di origine normanna, posto a guardia della valle in cui scorre il fiume Coscile, l’antico Sybaris; la sua vita fu breve e , non segnata da avvenimenti di rilievo, terminò prima del 1415.

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Nulla si sa di certo, se non che le terre di Castiglione furono direttamente amministrate da un certo Antonio Fabro, vassallo del barone stesso, che visse probabilmente nella stessa Castiglione, dove, è stato tramandato, aveva ricevuto in dono dal suo signore un edificio assai imponente. Non ci è dato nemmeno sapere quali fossero i rapporti fra Angelo d’Aquino ed il Fabro, c’è comunque da credere che, come in uso nel tempo, il signore ricevesse servigi assai delicati. La morte assai precoce del giovane barone spinge a credere che la sua fine sia avvenuta in battaglia o a causa di cagionevole salute, in entrambi i casi comunque la figura di Antonio Fabro si rendeva necessaria per curare nella terra gli interessi economici della famiglia, per amministrare la giustizia, per comporre eventuali alterchi sociali. Angelo premorì alla madre che vide le terre di Castiglione passare al secondo figlio Rinaldo, il quale ricevette il feudo con assenso regio datato 20 aprile 1406. Rinaldo, 5° barone di Castiglione. Il nuovo barone ereditò un territorio che incominciava ad ingrandirsi e che gli rendeva ogni anno una somma ingente, oltre al notevole prestigio che faceva di lui uno dei più importanti feudatari del meridione. Castiglione era una terra dotata di una gestione politica autonoma, pur legata alla giurisdizione del Regno di Napoli; dal punto di vista economico poi era fertile e produceva beni di prima qualità che venivano esportati, raggiungendo anche la capitale. La sua attività principale era costituita dall’agricoltura, ma la posizione geografica sul mare e le gabelle che provenivano dalla dogana rendevano il feudo una fonte di ricchezza che il barone Rinaldo seppe sfruttare per i propri interessi. Sul Regno di Napoli era salito nel 1386 il re Ladislao d’Angiò di Durazzo, succeduto al padre Carlo III, morto assassinato in Ungheria, in un periodo in cui lo stesso regno di Napoli viveva forti contrasti dinastici.

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Carlo III infatti, designato per la successione al trono dalla regina Giovanna, era venuto in lotta con lei e l’aveva relegata nel castello della lontana Muro Lucana quando la regina aveva mutato opinione dinastica, designando al suo posto Luigi I d’Angiò, fratello di Carlo V, re di Francia. Qui Giovanna viveva i suoi giorni da reclusa, ma la sua figura carismatica non cessava di avere ascendente politico fra i suoi seguaci, così Carlo 3° per affermare l’indiscutibilità della sua ascesa al trono, aveva disposto che venisse uccisa, sperando di portare a termine le guerre contro lo stesso Luigi I, che reclamava i suoi diritti di sovrano. Ladislao, alla morte del padre era ancora un bimbo di appena 9 anni, dunque la reggenza fu presa dalla madre Margherita di Durazzo, che si trovò a fronteggiare Napoli precipitata nel caos portato da Luigi II d’Angiò, figlio di Luigi I, pretendente al trono; la diplomazia della regina nonostante la situazione politica difficile, ebbe pieno successo, permettendo qualche anno dopo, nel 1399, al figlio di occupare Napoli. Il giovane sovrano dunque, deciso a far valere i suoi diritti e vendicare la morte del padre, spostò la guerra in Ungheria, dove nel 1403 riuscì ad ottenere la corona reale, titolo che non gli venne però mai riconosciuto per un vizio di forma, diremmo noi oggi, infatti, preso dalla lotta contro i partigiani di Sigismondo di Lussemburgo, l’arcivescovo di Esztergom non gli pose sul capo il simbolo emblema di S. Stefano, come richiedeva la tradizione del popolo magiaro, ma una semplice corona di ferro. Considerato dunque traditore, non venne riconosciuto sovrano legittimo, in quanto sembrò al suo popolo di aver rinnegato un patrimonio di usi e valori culturali tipici della gente di appartenenza.

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Ladislao d’Angiò re di Napoli Ritornato dunque a Napoli, fu sempre più deciso a rafforzare il suo potere e nel tentativo di ingrandire il suo regno nei primi anni del 1400 continuò le lotte contro i baroni locali, contro il papa e gli altri stati della penisola. In questa sua politica dispendiosa, il re però non possedeva mezzi finanziari adeguati, così chiese aiuto al barone Rinaldo di Castiglione che il 27 marzo 1400 era stato nominato capitano di Foggia con lo stipendio di 48 once d'oro; questi gli prestò la somma di 400 once, una cifra notevole la cui restituzione avvenne sulla tassa di una sovvenzione generale del 5 luglio dello stesso anno. L’avvenimento permise al barone di acquistare ancora stima e considerazione tale da permettergli di essere nominato ciambellano regio e di avere sulle sue terre la giurisdizione sui crimini commessi; contemporaneamente gli fu concesso di ampliare il feudo di Castiglione e nel 1410 comprò dallo stesso re per 1800 ducati la città di Briatico, modificando nel 1415 lo stemma di famiglia.

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Nel 1° e nel 4° bandato d’oro e di rosso. Nel 2° e nel 3° spaccato d’argento e di rosso Al leone dell’uno e nell’altro. Alias: bandato d’oro e di rosso. Del barone Rinaldo si ricorda la grande generosità nei confronti dei fratelli Giovanni e Cristoforo I con i quali volle dividere le terre ereditate, pur se a lui spettava la successione per intero, secondo la concessione dei feudi regolati dalla legge “Jure francorum” in base alla quale i territori erano indivisibili e trasmessi al primogenito. La sua onestà lo portava ad ottenere sempre maggiori successi alla corte reale, quando giunse pressoché improvvisa ed inaspettata la morte di Ladislao che, si disse, fosse avvenuta per avvelenamento commissionato da Firenze, dove il governo vedeva in lui una minaccia politica. Si era nella metà di luglio del 1414 ed il re si trovava all’assedio di Todi, quando fu preso da una forte febbre che lo costrinse a scendere verso Roma e da lì partire alla volta di Napoli su una nave, dove arrivò il 2 agosto. Quattro giorni dopo morì ed ufficialmente si diffuse la voce che il decesso fosse avvenuto per infezione all’apparato genitale portata da un ascesso prostatico; non vi erano figli legittimi e la

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successione passò alla sorella maggiore Giovanna II, che ereditò il regno di Napoli. Il barone Rinaldo, che nel 1415 fu investito da Giovanna II del titolo di barone di Castiglione e signore di Marsicovetere, Briatico e Crucoli, ebbe in moglie Agnese Pepoli, figlia di Obizzone e pronipote di Taddeo Pepoli, grande signore di Bologna, noto per un fatto di cronaca di cui si parlò a lungo e tale da porre in risalto l'autorevolezza della famiglia; infatti, avendo Taddeo ottenuto nel 1320 la laurea in giurisprudenza a pieni voti, il senato della città decretò che si facesse pubblicamente festa per le strade con denaro pubblico. Il potere della famiglia Pepoli era dunque pressoché illimitato e derivava dal mestiere di “cambiavalute” che da tempo i suoi membri praticavano spesso con operazioni discutibili, ma che avevano accresciuto enormemente il patrimonio economico. Il prestigio di Taddeo fu trasmesso anche ai suoi discendenti, così il figlio Jacopo, padre di Obizzone, nominato tra gli Anziani nella Magistratura cittadina, spesso usava la sua carica per piegare i notabili ai propri interessi. A questo si aggiungeva la politica dei matrimoni che i Pepoli consideravano uno strumento della loro espansione ed in questo ambito il matrimonio di Agnese con Rinaldo d’Aquino rientrò in quella delibera con cui si compiva una scelta ben ponderata. Dalle nozze fra Rinaldo d’Aquino ed Agnese Pepoli nacquero 9 figli: Iacopo, Cristoforo II, capostipite della linea di Tropea, Alfonso, Giovanni, Elisabetta, che sposò Filippo Sanseverino conte di Matera, signore dell’antica Bollita (oggi Nova Siri), Nocera e Roseto; il matrimonio fu celebrato con grande sfarzo il 16 febbraio 141483, la sposa portava in dote 200 once d’oro, una somma ragguardevole che segnava il prestigio della famiglia che andava ad imparentarsi con un’altra senza dubbio importante. Altre figlie erano ancora Pacifica, che fu badessa in un monastero di Catanzaro,quindi Giovanna, Lucrezia e Palma, morta quest’ultima dopo il 1446. 83 V. Libro d’Oro d ella Nobiltà Mediterranea: Sanseverino – Lin ea dei Prin cipi di Bisignano e Duchi di S. Marco.

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Il barone Rinaldo ebbe pure una decima figlia naturale di cui non si conosce il nome della madre; la giovane che si chiamava Covella, morta forse nel 1447, ebbe un’educazione degna di una d’Aquino e venne data in moglie a Nicola Pomandino da Crotone; infatti in quel tempo era cosa naturale che i signori avessero nuove esperienze al di là del matrimonio e d’altro canto appartenere seppur in modo illegittimo a famiglie onorabili costituiva anche per la donna un vissuto rispettabile. Iacopo, 6° barone di Castiglione, detto Iacopello Alla morte di Rinaldo nel 1433, diventò nuovo signore del feudo Jacopo, detto affettuosamente Jacopello, figlio primogenito del barone, il cui governo si trovò in quel contesto storico-politico contrassegnato dalle lotte fra gli Angioini e gli Aragonesi, che resero il Regno di Napoli, una terra già in crisi, ancor più fortemente immiserita. Il barone aveva sposato Isabella, sorella del cognato Filippo Sanseverino, che gli aveva portato in dote 2400 ducati, come da Capitoli Notarili stipulati in Padova il 19 ottobre 1430, matrimonio che suggellava più strettamente un legame con una famiglia ritenuta assai autorevole, quale i Sanseverino considerati tra i signori più illuminati e più ammirati del Regno, che governavano con giustizia, favorendo l’espansione delle arti e della cultura. Nei loro feudi erano diffuse infatti le palestre per la ginnastica e per l’esercizio delle armi, cosa nuova ed insolita, ma soprattutto erano molto apprezzate le Scuole Neretine che permettevano una raffinata formazione della mente e dello spirito sotto la guida di eccellenti maestri di grammatica, teologia e filosofia aristotelica. Anche i d’Aquino erano signori di tutto rispetto per il notevole favore di cui godevano a corte, infatti il 13 luglio 1434 il barone Jacopo ricevette l’investitura delle terre paterne da Luigi III d’Angiò, duca di Calabria, che era stato designato erede nel Regno dalla regina Giovanna II; tuttavia la morte del duca, avvenuta nello stesso anno a Cosenza per malaria, e poi quella della regina

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nel 1435, spinsero il d’Aquino a prendere in considerazione l’evolversi degli eventi. Nel 1434 in seguito alla morte dello zio paterno Giovanni, signore di Crucoli, che non aveva eredi diretti, Jacopo ottenne il governo di questa terra riuscendo ad ingrandire ulteriormente il feudo di Castiglione, mentre il Regno di Napoli continuava ad essere teatro di battaglia. I rivali erano Alfonso d’Aragona, designato nel 1420 erede dalla regina Giovanna II di Napoli ma poi da lei stessa destituito per aver l’aragonese ordinato l’arresto del suo amante Sergianni Caracciolo, e Renato d’Angiò, fratello di Luigi, duca di Calabria, nuovo eletto dalla stessa regina e dunque designato suo successore in punto di morte. La guerra si protrasse per molti anni ed i successi si alternavano rendendo instabile il destino dei baroni stessi, finché la vittoria definitiva arrise ad Alfonso quando nel 1436 occupò Capua. Gli ci vollero ancora sei anni e molti tentativi falliti prima di raggiungere Napoli, finché nel 1442 riuscì ad assediare la città e mettere in fuga Renato d’Angiò.

Alfonso il Magnanimo

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Il 26 febbraio 1443 il re Alfonso I volle solennizzare il suo ingresso in Napoli attraverso un arco di trionfo ed il 3 marzo successivo nel Monastero di S. Liguoro, convocò il Parlamento dei Baroni del Regno, perché proclamassero solennemente il figlio Ferrante, duca di Calabria, suo erede legittimo. Jacopo d’Aquino partecipò all’evento con diritto al voto e, secondo la volontà del nuovo sovrano, accettò la venuta del nuovo duca nelle terre calabre. Nel 1445, probabilmente per bisogno di denaro, necessario a far fronte alle guerre in corso, Jacopo vendette Briatico a Covella Ruffo, duchessa di Sessa e Montalto, nel 1446 fu la volta di Crucoli che diede a Bottacorso Caposacco, nobile fiorentino, e poi Marsico Vetere che vendette ai Caracciolo, ricavando la somma di 2000 ducati, rimanendo indiscusso Signore di Castiglione, come si può leggere in un documento del 2 giugno 1453, riportato nelle Fonti Aragonesi.84 La Calabria viveva in questo periodo momenti di forte disagio, la lotta fra Angioini ed Aragonesi vedeva coinvolti tutti gli abitanti dei casali e Castiglione nell’ambito delle rivolte si schierò con gli Angioini, ingaggiando nel 1459 una cruenta battaglia contro gli Aragonesi. Mario Folino Gallo nelle sue ricerche riporta quanto riferisce Antonio Summonte nella sua “Historia delle città e del Regno di Napoli”: “Castiglione di Calabria presa, saccheggiata e bruciata…Ai nostri tempi buona e abbondantissima terra, posseduta dall’illustrissima famiglia d’Aquino col titolo di Principe”. Il Folino Gallo si sofferma poi sulla denominazione di un luogo nel territorio falernese detto “Passu e Cola” (Passo di Cola) che riporta a quelle tristi giornate vissute con grande impegno politico dal nobile cosentino Niccolò Tosti, detto Cola Tosto, e , riferendo ancora le parole dello storico A. Summonte: “A mezza costa tra il centro storico di Castiglione e l’abitato collinare, c’è un posto che gli antichi hanno sempre chiamato Passo di Cola. Il passaggio si trova lungo una strada di campagna, poco frequentata, che si dirama dai ruderi della villa romana di 84 M. Pellicano Castagna: Storia dei feudi e dei titoli nobiliari della Calab ria; Fonti Aragonesi, II, p. 203.

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Pian delle Vigne e raggiunge il territorio di Nocera. Oggi quella strada è quasi abbandonata” dice come da qui riuscì a fuggire il nobile Cola dopo che, postosi a capo dei partigiani della fazione angioina ed aver sconfitto nei pressi del fiume Savuto i soldati aragonesi guidati da Alfonso d’Avalos, si era rinchiuso con 700 uomini proprio nel maniero di Castiglione. A quel tempo era re di Napoli Alfonso d’Aragona contro il cui fiscalismo, che impoveriva sempre più le classi disagiate, si erano schierati i sostenitori di Giovanni d’Angiò, pretendente al trono di Napoli. Così, quando nel 1459 Ferrante d’Aragona scese in Calabria per prendere il controllo della regione, il 6 settembre assalì il borgo di Castiglione, conquistandolo con la forza, e punì assai severamente gli abitanti che si erano ribellati alla Corona. Cola, braccato dai soldati nemici, riuscì a calarsi dalle mura del castello insieme a 24 compagni e si poté salvare solo perché si addentrò nella boscaglia attraverso quel passo stretto e poco conosciuto.85 Le abitazioni di Castiglione vennero tutte distrutte e gli abitanti uccisi e torturati ferocemente; i pochi superstiti impauriti fuggirono e si rifugiarono sulle vicine montagne del Mancuso e del Reventino, al riparo fra i boschi e nelle selve pressoché irraggiungibili. Il barone d’Aquino giurò obbedienza al sovrano ed il 10 ottobre 1459 ebbe dal re Ferrante I d’Aragona la riconferma di quel feudo che riteneva di grande importanza non solo perché reso nobile dai suoi primi avi, quanto anche per i profitti e le rendite, che annualmente la terra gli dava. Il suo governo su quelle terre era totale, come risulta da Relazione inserita nel Cedolario in cui è riposto il Quinternione (Atto notarile); deteneva infatti il Banco justitiae e la cognizione delle cause civili, criminali e miste.86 Di Jacopo si ricorda la passione per la caccia che i boschi di Castiglione gli permettevano di praticare in tutta completezza, da 85 Il Sig. Mario Folino Gallo mi ha confermato la vicenda n el giugno del 2013, quando lo ho in contrato n ella marin a di Falerna ed h a aggiunto di aver trovato la notizia in un antico testo risalente agli inizi del 1500. 86 Cedolario 75,f. 14t. Quinternione 24, f. 96.

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quella agli animali selvatici ai volatili di vario tipo, molti dei quali, migratori, passavano nei suoi cieli in alcuni periodi dell’anno, dopo aver attraversato le immense distese marine. In questo feudo il barone ospitava personaggi di tutto spicco, che si dilettavano a scorrazzare e godere dell’armonia della natura, come potrebbe dimostrare uno scritto giunto fino a noi, in cui si evidenzia un’amicizia cordiale fra il barone di Castiglione ed Enrico d’Aragona, fratello del re Alfonso II e Viceré di Calabria dal 1465. Nella lettera Enrico, anche lui amante della caccia, chiedeva al barone Iacopo due falconi “belli et de bono airo et de li giovani di quinto anno”,87 per praticare uno degli sport preferiti dai signori, che costituiva non solo un ottimo allenamento per la guerra, quanto anche procurava carne prelibata per i banchetti allestiti nei castelli. L’allevamento dei falconi era poi cosa non semplice, necessitando di grande competenza e di molto denaro, ed il fatto che Jacopo d’Aquino possedesse animali di tale portata fa pensare come il feudo di Castiglione fosse non solo ricco, ma avesse anche nel castello abili falconieri considerati all’epoca un privilegio per la classe guerriera che li possedeva.

87 Pompeo Litta: Famiglie celebri d’Italia.

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Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica: Falconiere che addestra il falcone Enrico, figlio illegittimo di Ferrante d’Aragona e della sorrentina Diana Guardati, governava il feudo di Gerace, confinante con quello del d’Aquino, sin dal 21 maggio 1473 quando era stato nominato marchese di quella terra che si era liberata dal dominio dei Caracciolo divenendo città demaniale. Giovane esuberante e pieno di vitalità, condivideva con Jacopo il piacere della compagnia gioviale ed allegra, tanto da terminare i suoi giorni vittima dei suoi eccessi goderecci. Amava le lunghe cavalcate nei boschi e sui monti, i banchetti succulenti e sfarzosi che lo portarono a morire in circostanze poco chiare proprio per aver mangiato funghi avvelenati che contemporaneamente provocarono la morte del maggiordomo e di alcuni uomini del suo seguito. La vicenda, avvenne il 22 novembre 1478 nel castello di Terranova di Sibari di proprietà di Marino Correale, dove il Viceré

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si era recato con il fratello Cesare, marchese di Sant’Agata per riscuotere i tributi per conto del re di Napoli. Fu accolto dal castellano con tutti gli onori, anche se il motivo della sua presenza non suscitava in realtà il massimo gradimento, per cui si pensò ad un atto di estrema vigliaccheria. Quel giorno, ricordano le cronache, la Calabria cadde in un profondo dolore, ogni cittadino abbandonò le cure quotidiane ed accorse al castello maledetto per consolare il fratello, riuscito a sopravvivere, e per rendersi conto dell’accaduto che non lasciava spiegazioni legittime. Come Iacopo d’Aquino anche il marchese Enrico d’Aragona oltre a dimostrare grande vitalità era un signore tenuto in grande considerazione, come si evince da un “Lamento” in versi composto per la sua morte immatura dal cosentino Joanne Maurello, in cui l’autore mette in evidenza il profondo cordoglio per il lutto che colpì l’intera Calabria. Nei versi sembra di ripercorrere quelle usanze e quelle consuetudini che rivestono un carattere certamente importante sotto il profilo sociale, in quanto testimonianza di tradizioni remote che riguardano le manifestazioni di dolore in occasioni di vicende funeste. “Piangi, Calabria e combògliate tutta d’un panno negro, pir signo de doglia, ca sì rimasta diserta e distrutta, d’onni piaziri ti priva e dispoglia, ca mentri campi e ssirai mali viva, mai n’ura n’avirai de bona voglia. Como la turturella ch’è cattiva, che poi che perdi la conpagna bona, ad arbori caduto sempre arriva, a llacrimari ti spingi e sperona, l’amuri che portaste a donni Arricu dela felizi casa de Ragona. Co’ l’occhi molli suspirando ‘splichu La morte de sì illustro e gran signuri,

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fonte d’onni virtù. Replico e dicu: piangi, Calabria,e mostra li duluri, continuamente, e non mancari mai, pinsando a chi te fo covernaturi; ch’è morto a Terranova, comu sai, alli meglio anni de la iuventute, iovini e bello con animo assai La morte ad uno ad uno ne coonvita, quando m’adogno, et a nullo plazi, l’alma s’atrista e lla lingua è smarrita, pinzando a tte, marchisi de Ghirazi, de casa de Ragona, alta e sublimu, ch’intra unu tavutu morto iazi!” .88 Il giovane nei versi è configurato bello e di animo nobile, la cui morte improvvisa gettò nel dolore e nello sconforto l’intera terra, lasciando anche la famiglia nella disperazione, mentre le sue lodi furono celebrate per più giorni fra il pianto delle donne vestite di nero, sedute sul nudo suolo con i capelli scarmigliati, e degli uomini che con la barba incolta, in segno di grave lutto, facevano loro eco, chiusi in stanze prive di luce. Imitando i famosi versi dell’antico testo “Compianto per la morte di Ser Blacatz” di Sordello da Goito, in cui il trovatore nel 1237 tesseva l'elogio funebre per il suo signore provenzale, Maurello, che probabilmente era al servizio di don Enrico d’Aragona, cantò nel suo dialetto, fra i lamenti, la profonda tristezza della Calabria e le virtù del suo signore in un epicedio89 di ben 296 versi, che permettono di conoscere anche la vita familiare del giovane. Nelle rime infatti si cita la vedova Polissena, incinta del figlio Carlo e con quattro bambini da allevare, Caterina, Ippolita, Luigi, che aveva quattro anni d’età, e Giovanna di appena un anno: 88 A. Piromalli- C. Chiodo: Antologia della Letteratura Calabrese. 89 Epicedio: Componimento poetico della letteratura latin a scritto per la morte di qualcuno. Il termine fu usato per la prima volta da Stazio.

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“…madama Pulisena che è remasa sula e viduvella, gravida per più dolo e grossa prena chi sta de iorno in iorno per figliare, sacia de doglia e de infinita pena”90 Il Maurello che si trovava a Nicastro al momento della composizione del poemetto fu dunque testimone del profondo cordoglio di tutti, nobili e contadini, di cui volle diventare voce universale: “Quanto più vago innante, più aio pena, -ca tremo, como foglia de pagura; E’l sango m’è siccato in ogne vena; -c’aio a portari sta novella scuraIn campo allo duca”.91 Iacopo era già morto da tre anni circa, quando accadde questo evento luttuoso, ma il figlio Luigi, suo erede, e nuovo barone di Castiglione, ha certamente partecipato a quel dolore di portata storica nella terra calabra, dolore fortemente sentito non solo per i trascorsi paterni quanto anche per i ricordi della sua infanzia serena, quando educato a nobili svaghi, si dilettava a seguire la gaudente compagnia. Da Iacopo d’Aquino ed Isabella nacquero forse 5 figli, ma solo due vengono ricordati: Luigi I, cavaliere dell’Ordine dell’Ermellino, e Polissena, nata verso il 1446, che unitasi in matrimonio con Gian Luigi Capece Bozzuto, di nobile famiglia napoletana e signore di Cugnano, gli portò in dote 100 once d’oro, quale a quei tempi si dava ai nobili senza baronaggio.92 Altri figli erano ancora Violante, Francesca, Agnese, di cui non si hanno notizie.

90 P. Crupi: Conversazioni di Letteratura Calabrese. 91 A. Piromalli: La Letteratura Calab rese vol 1 pag. 67. 92 S. Ammirato: “Delle Famiglie Nobili Napoletan e” pag. 158.

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Luigi I, 7° barone di Castiglione Luigi, investito del feudo di Castiglione dal Re Ferdinando I di Napoli, detto Ferrante, il 15 febbraio 1476, fu uno dei Cavalieri dell’Ordine dell’Ermellino, una carica creata dallo stesso Re nel 1465, dopo la vittoria riportata su Giovanni d’Angiò, figlio primogenito di Renato d’Angiò e pretendente al trono di Napoli.93 Il titolo, che era ascritto nel motto: “Malo mori quam foedari” (Meglio morire che essere disonorato) certamente fu conferito al barone d’Aquino per la fedeltà che aveva dimostrato nella lunga lotta contro la famiglia d’Angiò, che aveva ottenuto l’alleanza di alcuni signori dell’Abruzzo, della Puglia e della stessa Calabria. Riuscito vincitore sul rivale, il re Ferrante concesse titoli con mano prodiga, mentre eliminava quei nobili che gli erano stati ostili, con una crudeltà tale da essere poi definito da Pietro Giannone: “di poca fede, di animo fiero e crudele”.94 Appartenere all’Ordine dell’Ermellino dunque costituiva per Luigi I d’Aquino un motivo di merito di cui andare fiero, la sua famiglia era alleata del re aragonese da quel lontano 1459, quando, nel culmine della lotta contro Giovanni d’Angiò riferendosi ai nobili ribelli passati nell’esercito nemico, Ferrante scriveva al fedele Inigo d’Avalos suo comandante in Calabria: “…perché intendiamo che li baroni ce hanno tenuto mano, seriti advisato de desfreczare (dissimulare) lo joco et mostrare credere, che loro non ce habeano culpa, cuande siano innocenti, per non li disdignare tucti ad hun tracto et impellireli ad fare alcuno grande errore, ma quando vidissero potire alcuno de loro intro la mano et lo suo stato, ne piaceria ne faczate grande castigo.” 93 Giovanni d’Angiò, duca di Lo rena, era figlio di Ren ato e Isab ella di Lorena. Quando Renato d’Angiò, alla morte del fratello Luigi III, venne dichiarato dalla regin a Giovanna II di Napoli suo su ccessore, Giovanni fu nominato duca di Calab ria ed erede del Regno di Napoli, ma sopraggiunti nel 1442 gli Aragonesi, dovette far rito rno in Fran cia. Alla morte di Alfonso d’Aragona, aiutato dallo zio Carlo VII, re di Fran cia, intraprese una guerra contro Ferdinando I di Napoli (Ferrante), ma, sconfitto n el 1459 alla fo ce del fiume Volturno ed abbandonato dai baroni alleati, ritornò in Provenza. 94 P. Giannone “Istoria civile d el Regno di Napoli, Tomo III, Libro XXVII, cap. V .

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(…facendo riferimento ai baroni che lo (Giovanni d’Angiò) hanno aiutato, siete avvisato di dissimulare il gioco e far finta di credere che non hanno alcuna colpa, simulando di ritenerli innocenti per non far nascere alcun sospetto ed impedire che facciano qualche grande errore, ma quando si hanno in potere tra le mani, mi piacerebbe che vengano solennemente castigati.) Certo il d’Avalos era amico del barone di Castiglione, legato a lui da rapporti di parentela avendo sposato nel 1452 Antonella d’Aquino95 erede del marchesato di Pescara, che con lui condivideva la politica di fedeltà alla causa aragonese. All.E

Don Inigo era un nobile condottiero spagnolo e, giunto in Italia al seguito di Alfonso d’Aragona, divenuto cortigiano illustre e fedele del re ebbe da questi garantito un riguardo particolare, rispetto agli altri baroni del Regno, che lo poneva sempre più vicino alla casa reale. Il 31 agosto 1473 il barone Luigi d’Aquino sposò Alvina, figlia di Nicolò Antonio Ruffo del ramo di Bagnara, marchese di Bruzzano Vecchio, e di Elisabetta Ruffo, del conte Enrico di Condojanni. 95 Per la dinastia di Antonella d’Aquino v. All. E seg.

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La giovane, nata nel 1441, era l’unica femmina terzogenita di una famiglia di 5 figli96 assai fedele ai sovrani d’Aragona, il fratello Guglielmo, che aveva ereditato Bagnara e Bruzzano Vecchio, morirà poi in difesa del re Ferdinando II, detto Ferrandino, nella battaglia di Seminara del 21 giugno 1495, quando nell’ultimo tentativo di salvare il Regno di Napoli dalle mani dei Francesi di Carlo VIII, Ferrandino, sceso in Sicilia, dove sperava in aiuti dalla Spagna, subì una tremenda sconfitta, rischiando la sua stessa vita. Si racconta infatti che il re si scontrò impavido ed incurante del pericolo con il maresciallo francese d’Aubigny il quale, dopo avergli ammazzato il cavallo, tentò un atto di forza contro di lui e ci sarebbe riuscito se Giovanni di Capua, fratello del conte d’Altavilla, non gli avesse dato il suo cavallo, sacrificandosi alla morte. 97 Val qui la pena soffermarsi sul sovrano di Napoli che Croce, riportando una nota del cronista e politico francese Filippo de Commynes, definì: “…gentil personnage… portant le harnois et bien aimé”…98 (un personaggio gentile che portava le armi ed era molto amato…) e continua poi descrivendolo come un giovane bello, aitante nella persona, con occhi vivaci, testa alta, petto largo, asciutto, muscoloso, sciolto nell’armeggiare, nel volteggio, nella corsa, nel salto; educato alle arti ed alla poesia da maestri quali Altilio e Parrasio, si dilettava a comporre versi, ed ancora così audace, da far dire ad un diarista: “ut moris sui erat, che non si rallegrava nella fortuna né si turbava nella tristezza, ylari fronte omnibus referebat gratias”.99 Una figura dunque carismatica questo re per il quale anche il marchese Gugliemo Ruffo nella stessa battaglia non esitò a sacrificare la vita in sua difesa.

96 Fratelli di Alvina erano: Esaù (1438-1510) signore di Bagnara e Bruzzano, Guglielmo (1440-1462), Enrico nato nel 1442, Carlo ch e diventò signore di Girifalco, avendone sposato l’erede Alfonsina Longobu cca. 97 B. Cro ce: “Re Ferrandino” in Storie e leggende n apoletane, pag. 161. 98 B. Cro ce op. cit. pag. 160 99 B. Cro ce: op. cit. pag. 161.

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Come i d’Aquino, anche i baroni di Bagnara erano da sempre sostenitori della causa aragonese, così alla morte del padre nel 1467, la giovane Alvina “in capillis” (in età da marito) fu data dai fratelli a Luigi di Castiglione e dal matrimonio nacquero tre figli: Beatrice, Bernardino e Luigi, che, postumo, ebbe il nome del padre.

Castello di Bruzzano Vecchio (RC) Luigi I d’Aquino morì infatti nelle guerre dei baroni nel 1482, dopo appena cinque anni di governo, anche lui mentre lottava per servire il re Ferdinando I, meglio conosciuto come Ferrante di Napoli, il quale cercava di affermarsi in un contesto politico che lo vedeva protagonista non accetto fra molti dei baroni del Regno. Figlio illegittimo del re Alfonso il Magnanimo, Ferrante era salito sul trono nel 1458 all’età di 34 anni, alla morte del padre, la madre sembra fosse una certa Gueraldona Carlino, una donna napoletana che nel 1423 aveva seguito il re Alfonso in Aragona, dove si era recato in aiuto dei fratelli Giovanni ed Enrico che avevano perso il potere. La donna si era fermata poi in Spagna, sposando un tale Gaspar Reverdit, mentre Ferrante era ritornato a Napoli chiamato dal padre che combatteva per la conquista del Regno. 90


Il principe non godeva di grande prestigio nella Penisola, già il papa Callisto III Borgia, alla morte del re Alfonso, con Bolla del 12 luglio 1458 aveva dichiarato vacante il trono di Napoli, perché negava al giovane la paternità regale e lo dichiarava figlio di un servitore moro; ma la morte del papa, avvenuta di lì a poco, favorì il principe che, riconosciuto dal nuovo pontefice Pio II sovrano legittimo del Regno, fu incoronato nella cattedrale di Barletta il 4 febbraio 1459. I guai però non cessarono, perché anche gli angioini rivendicando il diritto su Napoli, avevano da qualche tempo iniziato una serie di lotte che si erano prolungate dissanguando tutto il territorio, immiserendolo sempre più. Così quando nel 1480 le truppe ottomane sbarcarono ad Otranto, massacrando la maggior parte della popolazione, Ferrante per fermarli fu costretto ad allestire un esercito che pose sotto il comando del figlio Alfonso, duca di Calabria, il quale radunò a sé i baroni fedeli tra cui Luigi I di Castiglione che partecipò all’impresa con il suo corpo di cavalleria. L’intervento del barone d’Aquino a fianco del duca aveva anche lo scopo preciso di difendere il territorio di Castiglione che si ergeva di fronte al mare sulla strada di collegamento fra le due Calabrie ed appariva assai malsicuro per la facilità che offriva all’invasione turca. Nella guerra contro gli Ottomani si aggiunse il disagio di molti baroni, sostenitori degli Angioini i quali, esasperati dalle imposte che dovevano versare alla Corona, non condividevano la politica del sovrano che limitava i loro usuali soprusi; temevano infatti per i propri privilegi, che consideravano diritto ereditario, e manifestavano il loro malcontento, pretendendo di avere nelle loro terre una autorità pari a quella del re o addirittura superiore. In questo modo minavano la reputazione e la credibilità del re considerandolo illegittimo e preparando quella congiura che poi divampò negli anni 1485-86. La politica di Ferrante, in virtù di un interesse antifrancese, da sempre si era rivolta a rafforzare il suo Regno con una avveduta capacità tendente a favorire il commercio con gli altri stati della

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penisola e gli anni intorno al 1470 furono dedicati al programma di riparazione delle vie del suo Regno, nell’interesse di coloro che viaggiavano per trasportare i manufatti. Fu così che migliorò la praticabilità della strada che attraversava Castiglione, centro di passaggio obbligato a coloro che si recavano verso il nord; il traffico che ne conseguì portò immensi benefici al piccolo feudo calabro, che vide un commercio attivo e tale da richiamare un gran numero di mercanti alle fiere per le quali Ferdinando concesse varie franchigie. In seguito a questi provvedimenti legislativi le piantagioni di canna da zucchero, che invadevano le terre della Calabria, aumentarono il profitto economico al feudo ed inoltre la produzione della seta e del velluto, promossa dalla comunità ebraica di Catanzaro, determinò la cultura del commercio attraverso i manufatti che venivano esportati. Nella Penisola però non mancavano i nemici che vedevano nel potere di Ferdinando una minaccia ai loro stati e proprio con lo sbarco dei Turchi ad Otranto, Venezia colse l’opportunità di eliminare l’Aragonese che aveva guardato sempre con timore sin dal momento in cui questi aveva raggiunto le coste dell’Adriatico. Con l’aiuto del papa nel 1482 i Veneziani si riversarono su Ferrara, dove gli Estensi erano alleati di Ferrante, mentre all’interno dello stesso Regno di Napoli alcuni signori locali si compromisero con Venezia nel tentativo di abbattere la Corona Aragonese. le lotte interne si mescolarono dunque a quelle nell’intera penisola e Alfonso, duca di Calabria, nel tentativo di portare guerra ai veneziani, si trovò a combattere contro il papa Sisto IV, il quale non permetteva alle sue truppe il passaggio attraverso i territori pontifici. Dunque alla testa di un esercito il duca di Calabria contravvenne agli ordini del pontefice, alleandosi con i Colonna ed i Savelli, ma il papa, ricevuto l’aiuto di Roberto Malatesta, signore di Rimini e Cesena, nella battaglia di Campomorto, presso Aprilia, dopo sei ore di combattimento, il 21 agosto 1482 sconfisse Alfonso, che

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riuscì a fuggire su una galea, mentre Luigi I di Castiglione perse la vita. La morte del barone gettò Castiglione nel lutto, l’erede era ancora un bimbo e la moglie Alvina era incinta, così, come risarcimento per l’infausto evento, il re consegnò un’ ingente somma di denaro, al primogenito Bernardino, quindi nel settembre dello stesso anno lo nominò erede dei feudi paterni.

Ferdinando d’Aragona Re di Sicilia Alvina, rimasta vedova ancora giovane, allevò i figli come conveniva ai nobili del tempo e cercò per la figlia Beatrice un buon matrimonio, dandola in sposa a Gerardino o Berardino Castrocucco, barone di Albidona, un feudo del cosentino. La sposa portava in dote 70 ducati annui sulle entrate della terra di Castiglione e le nozze sancirono l’alleanza con un’antica famiglia di origine francese, anch’essa nobile ed assai ricca, venuta a Napoli al seguito dei re normanni. Era stato Venceslao di Albidona, nonno di Geraldino, ad affermarsi come signore incontrastato del luogo e ad ottenere il feudo dal re Alfonso, che volle premiarlo per il valore nelle armi,

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quindi il figlio Ferdinando, riconoscendone i pregi, lo nominò Consigliere di Stato. Il feudo poi si rafforzò con Rinaldo, figlio di Venceslao che, sposando Verdella Tordella, venne in possesso di una immensa dote, così Geraldino, il loro unico figlio, fu annoverato fra la più alta nobiltà del Regno, tanto da ottenere la totale fiducia della Corona Reale. Tre sovrani infatti gli riconobbero il feudo, il primo fu il re Ferdinando I, il secondo il re Carlo VIII “in quel tempo che egli fu assoluto signore del Regno”100 il terzo fu il Gran Capitano Gonzalo Fernandez de Cordova, viceré di Napoli fra il 1504 ed il 1506, a nome dello stesso re Ferdinando II il Cattolico che aggiunse alla terra di Albidona anche quella di Montegiordano. Il barone Geraldino quando sposò la giovane Beatrice d’Aquino di Castiglione era vedovo di Alfonsina di Toraldo, figlia di Gaspare di Badolato, da cui aveva avuto un solo figlio Rinaldo, erede di Albidona; certamente non era nel fiore degli anni, ma l’età non costituiva un ostacolo, in un’epoca in cui l’interesse principale era quello di ingrandire i propri territori e dare lustro ai casati con una progenie discendente da antica nobiltà di sangue. Dal matrimonio nacquero Troiano, Ferrante, Annibale, Giovan Tommaso, Giovanni Monaco e Vittoria, unica femmina; una famiglia numerosa di cui, fra i figli maschi, solo Troiano sposò Porzia della nobile famiglia Sanseverino, probabilmente per quella legge del maggiorascato che impediva alle famiglie aristocratiche di frazionare il feudo e poterlo dunque trasmettere agli eredi sempre integro. Troiano, unico erede, il 30 agosto 1552 rilevò il diritto di ricevere i 70 ducati su Castiglione, a seguito della morte della madre Beatrice d’Aquino, deceduta il 29 agosto 1551, diritto che mantenne fino alla sua morte avvenuta il 20 dicembre 1560.101 Anche Vittoria sposò Marco Antonio Sanseverino, barone di Càlvera e fratello di Porzia, investito dal principe di Bisignano con 100 F. Campanile: L’armi overo insegne de’ nobili, pag. 233. 101 M. Pellegrino Castagna op. cit. pag. 59. Spoglio Significatorie I, f. 204 d al Registro Significatorie 10 (p erduto) f. 4.

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Privilegio datato “Cassano 7 giugno 1526”102 e con il matrimonio i Castrocucco rafforzarono con la nobile famiglia napoletana un legame che li poneva fra i primi del Regno di Napoli. Bernardino, 8° barone di Castiglione. Alla morte di Luigi, Bernardino il primogenito aveva solo 2 anni d’età, essendo nato nel 1480, così, come in usanza nella grande nobiltà, gli fu assegnato un tutore, che lo educasse e ne difendesse gli interessi, perché le donne non avevano alcun potere giuridico neanche sui propri figli. Certamente nella scelta della persona di fiducia ebbe un ruolo prioritario la figura della baronessa Alvina, la quale, vedendo nei suoi familiari gli unici capaci di proteggere lei ed i suoi bambini ancora minorenni, c’è da credere abbia perorato la causa presso il sovrano, chiedendo che il bimbo fosse posto sotto la protezione del barone Enrico Ruffo di Calabria suo fratello. Enrico, più piccolo di Alvina di appena un anno e molto legato affettivamente alla sorella, riuscì ad ottenere facilmente il beneplacito della Corona, in virtù dell’ efficace trascorso politico dell’intera famiglia, dimostrato nella lotta fra Angioini ed Aragonesi. I Ruffo, come già detto, erano in Calabria una delle famiglie più in vista che però avevano manifestato, durante il conflitto tra la dinastia francese e quella spagnola, differenti interessi politici, avviando lotte interne nello stesso casato. Bagnara infatti nel 1419 apparteneva a Carlo Ruffo, conte di Sinopoli, che aveva ottenuto la città da Giovanna II, ultima regina angioina, e così, nella rivolta dei baroni filo-angioini, si era legato al conte di Crotone, suo cognato, contro gli aragonesi. Alla morte della sovrana, nel 1460 Guglielmo Ruffo, signore del Vecchio Bruzzano e fratello di Alvina, combatté contro lo zio Carlo, lo fece arrestare e si impadronì di Bagnara, così il 24 102 Lib ro d’Oro della Nobiltà Mediterran ea: Lin ee dei Baroni di Càlvera e Duchi di San Donato. Dal matrimonio nacquero 12 figli: Ercole, Taddeo, Ettore, Vittoria, Laura, Ippolita, Beatrice, Marzio, Giacomo, Ercole (morto bambino) Ascanio, Vin cenza.

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ottobre 1464 insieme ai suoi fratelli Esaù, Carlo ed Enrico ottenne da Ferdinando I d’Aragona il privilegio su Bagnara stessa. Era facile dunque che il privilegio in seguito si estendesse per Enrico anche a Castiglione, il giovane Ruffo era un fedele alleato degli aragonesi ed il re Ferrante, alla morte del barone Luigi, non esitò ad affidargli la cura dell’erede Bernardino che investì del titolo di vassallo il 10 settembre 1482, salvo poi confermargli il potere il 16 settembre successivo, quando, per mezzo dello zio, gli comunicò la morte del padre, offrendosi di rilevare la terra di Castiglione.103 Con documento del 21 luglio 1494 poi gli riconfermò la donazione di Castiglione, mentre offriva garanzie ai Ruffo il cui strapotere raggiunse il culmine nelle terre da loro governate, dove avevano diritti di ogni genere sui loro sudditi, da “lo jus primae noctis” per le giovinette che prendevano marito, a quello di vita e di morte su tutti gli abitanti. E’ facile credere che anche nel territorio di Castiglione questi soprusi fossero legge comune e lo storico Ernesto Pontieri sembra confermarlo quando dà un quadro della situazione interna ai feudi: “gli espatriati (nel sec. XV erano notevoli le migrazioni interne) si vedevano tassati sia nel luogo di origine che in quello in cui avevano preso domicilio. Per rimuovere siffatti inconvenienti la corte aveva stabilito che il focatico e la tassa del sale si dovessero pagare nel paese in cui si era censiti; sennonché prescrizioni inequivocabili come queste non avevano alcun valore non solo per il conte di Sinopoli (Ruffo della terra di Bagnara) e per i baroni esosi come lui, ma anche per parecchi funzionari.” 104 La vita del giovane, dice la tradizione, fu segnata dall’intervento miracoloso di San Francesco di Paola, che operò in lui la guarigione da una grave malattia di cui soffriva che lo avrebbe portato in breve alla morte. Il barone inviò un suo servitore da Francesco che, appena lo vide, disse: “So perché sei qui venuto, vattene pure allegramente, l’infermo è sano” 103 Petizione Rilevi, 6, f. 89. 104 A. Luppino: Sinopoli nel tempo

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ed infatti nel momento stesso in cui il frate pronunciò le parole, Bernadino si trovò guarito completamente.105 Non sappiamo nulla di preciso sulla vita di questo signore, che comunque non governò mai direttamente i territori ereditati, perché morì celibe all’età di 18 anni nel 1494, senza lasciare figli e trasmettendo il feudo al fratello Luigi. Luigi II, 9° barone di Castiglione Il barone, secondogenito maschio della famiglia d’Aquino, era nato qualche mese dopo la morte del padre nel 1482 dunque era appena dodicenne nel momento in cui fu costretto a sobbarcarsi la responsabilità di governo del feudo. Il giovane fu ufficialmente investito della carica di vassallo dal re Federico di Napoli il 22 maggio 1499 appena ebbe raggiunta l’età di 17 anni, potere che gli fu confermato per ben due volte, il 13 settembre 1506 da Ferdinando II d’Aragona, detto il Cattolico, quindi ancora dall’Imperatore Carlo V il 20 agosto 1515, in virtù delle sue capacità di impegno, di prestazione e valore militare verso la Corona. Il 10 maggio 1495 sposò Francesca Pignatelli, figlia di Cesare, signore di Toritto e feudatario di Bovalino, e di Antonella Palagano, dei signori di San Vito, un matrimonio ancora una volta prestigioso, perché la famiglia Pignatelli era una delle più potenti nel regno di Napoli. Possedeva ben 180 feudi, tra marchesati, contee, ducati e principati, e Cesare si era affermato bene nella capitale dapprima come Consigliere del re Ferdinando I di Napoli, poi Luogotenente del Gran Camerlengo ed infine Gran Favorito del Re Federico. Luigi ebbe una prole assai numerosa, la moglie gli diede ben 6 figli maschi: Rinaldo, Giovanni Cesare, Ferrante(da cui ebbe origine il breve ramo dei Principi di Santo Mango), Gaspare, Antonio (da cui proseguirono gli ultimi Principi di Castiglione), Ettorre ed una femmina Eleonora, andata sposa ad Antonio delle Trezze, signore di Rocca Falluca. 105 M. Folino Gallo: “Monografia di Fal erna e Castiglione”, pag. 83.

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Di Rinaldo, erede di Luigi II, le cronache non hanno tramandato nulla, certamente non lasciò figli e morì presumibilmente intorno al 1526. Gaspare invece fu un ottimo militare al fianco di Ugo di Moncada il cavaliere di Rodi, appartenente alla più antica nobiltà catalana che, dopo una militanza con Carlo VIII in Italia e con Cesare Borgia in Romagna, si arruolò nelle truppe di Consalvo di Cordova e proprio in Calabria espletò il suo incarico militare. Da questo momento il Moncada diventò amico dei d’Aquino di Castiglione e dal 30 marzo 1517, segnalatosi nella lotta contro i Mori, diventò Commendatario della prestigiosa Abbazia di Sant’Eufemia, che nella piana faceva sentire tutta la sua importanza politica e sociale, infatti, voluta da Roberto il Guiscardo, ora con gli Ospedalieri di San Giovanni costituiva uno dei baluardi di difesa della costa calabra106. Gaspare probabilmente operò col Priore dell’Abbazia, il quale era assai apprezzato per le sue capacità intellettuali che gli permisero una carriera veloce; infatti nell’aprile dello stesso anno 1517 fu nominato Consigliere Regio del Regno di Napoli con una rendita annua di 400 ducati provenienti proprio dai feudi dell’Abbazia, poi dieci anni dopo, nel 1527, fu Luogotenente Generale del Regno di Napoli. L’ascesa politica del Moncada offriva vantaggi ed onori al barone Gaspare di Castiglione, che lo seguiva fedelmente in ogni sua campagna; infatti proprio nel 1527 il barone di Castiglione portò le sue truppe a combattere per difendere Napoli assediata dall’esercito francese giunto per conquistarla. Il valore di Gaspare d’Aquino si mostrò nell’aprile del 1528, quando Napoli era circondata dall’esercito nemico, che aveva schierato nel golfo otto galee al comando del genovese Filippino

106 Per l’Abbazia di S. Eufemia si vedano i numeri Dicembre 2011, Marzo 2012, Settembre 2012 d ella Rivista “Calabria Letteraria”, in cui sono pubblicati n. 4 capitoli del saggio storico: “ L’Abbazia Ben edettina di Sant’Eufemia Vetere” di F. Giurleo.

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Doria, per impedire l’accesso alla città di quattro grosse navi cariche di frumento. Il popolo napoletano in preda alla fame rumoreggiava e la situazione era grave, così nella Chiesa di San Lorenzo fu riunito il Consiglio di guerra per trovare una soluzione urgente. Si racconta che Ugo di Moncada propose di forzare il blocco marittimo e, all’obiezione di alcuni nobili napoletani che vedevano nell’impresa un suicidio di massa, il Moncada abbia risposto con la minaccia di far oltraggiare dai suoi soldati spagnoli tutte le donne nubili e sposate se non avessero obbedito. La guerra per mare sembrò dunque l’unica soluzione possibile e fu dato il comando dell’impresa al Marchese del Vasto, mentre il Moncada, per dimostrare la convinzione della sua proposta e tutto il coraggio di cui era capace, volle imbarcarsi con i soldati semplici, portando con sé molti baroni tra cui il fedele Gaspare di Castiglione. Le galee imperiali partirono da Posillipo il primo di giugno 1528 e si diressero alla volta di Capri, qui i soldati allo spuntar del giorno videro uscire da una spelonca un certo Consalvo Barretto, un ex soldato spagnolo, divenuto assai noto per aver lasciato la milizia ed essersi ritirato sul lido a condurre vita solitaria, alla ricerca di una perfezione spirituale. Costui a gran voce li incitò alla battaglia, avrebbero certamente ottenuto la vittoria, diceva, perché una visione, avuta durante la notte, gli aveva confermato il loro successo sui vascelli nemici e la liberazione del Regno di Napoli dall’oppressione straniera. Tutti ascoltarono il presagio favorevole e si rincuorarono dirigendo le galee verso il golfo di Salerno, ma nei pressi di Capo d’Orso ci fu invece la loro terribile disfatta. I soldati che erano sulle navi furono tutti uccisi o fatti prigionieri dal Doria, il marchese del Vasto fu catturato ed il barone Gaspare di Castiglione morì miseramente con il suo luogotenente Ugo di Moncada, il cui corpo fu gettato in mare.107

107 P. Giannone: Istoria civile d el Regno di Napoli, Tomo 3°, p ag. 22.

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Non si conoscono i dettagli sulla fine del barone Gaspare, ma certamente gli toccò la stessa sorte di finire in pasto ai pesci, dimostrando così la sua fedeltà ed il suo valore per la causa del Regno. Ferrante, il terzo figlio di Luigi di Castiglione, di cui l’ultimo documento con suo nome porta data 11 marzo 1548, ebbe alcuni diritti sull’eredità del fratello maggiore Rinaldo, ai quali aggiunse 600 ducati avuti in dono dalla madre, con i quali comprò alcuni beni nei pressi di Maddaloni, che gli fornivano una rendita di 200 ducati l’anno. Nel 1531 sposò Isabella Sanseverino, nipote di Geronimo Sanseverino, Presidente del Sacro Consiglio regio, da cui nacquero 4 figli: Annibale il primogenito; Orazio che, divenuto Cavaliere Gerosolimitano, morì nel 1565 nell’assedio di Malta operato dall’Impero Ottomano per eliminare l’Ordine Ospedaliero di San Giovanni; Ettore e Laura, di cui non è stato tramandato nulla. Annibale, del ramo cadetto dei d’Aquino, ha avuto anche lui la sua importanza nella linea di successione dei baroni di Castiglione, essendo il capostipite dei Principi di San Mango; infatti dalla moglie Ippolita Sanseverino generò Don Tommaso, nato nel 1587, che fu il 1° principe di San Mango e sposò nel 1603 Felice d’Aquino, sorella di Don Carlo, 1° principe di Castiglione.108 I componenti la famiglia d’Aquino da questo momento in poi cominciarono ad imparentarsi tra loro, onde evitare che il grande feudo in Calabria andasse smembrato, dando così avvio alla loro lenta decadenza. Antonio era il quinto figlio di Luigi d’Aquino e Francesca Pignatelli e possedeva un' entrata annua di 145 ducati sulla terra di Castiglione a titolo di “vita militia”, per poter mantenere l’onere degli armamenti necessari alla sua vita di cavaliere della Corona. Sposò Barbara delle Trezze, figlia di Giovan Francesco, signore di Castelmonardo, che portò in dote 300 ducati annui sulle entrate di Monteleone, e da lei generò cinque figli: Alessandro, Orazio, fra’ Tiberio cavaliere Gerosolimitano, Giovanni Andrea e Cesare. 108 Vedi sch ema dinastico All.H al cap. terzo di questo scritto.

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Fra questi solo Alessandro contrasse matrimonio sposando Beatrice Recco ed a lui rimase l’eredità paterna dei 145 ducati annui sulle entrate di Castiglione,109 come erede a seguito della morte dei genitori. Antonio fu Familiare del re Ferrante al quale rese moltissimi servigi, alcuni anche assai delicati, come l’incarico di andare in Spagna come suo fedele Ambasciatore insieme a Galcerando Riquesens, Conte di Trivento e Avellino, Generale dell’Armata Reale e personaggio molto stimato dallo stesso re, a trattare il matrimonio tra Federico, il rampollo reale, e l’Infanta di Castiglia.110 Le nozze non vennero però mai celebrate a causa di equivoci politici nati fra Ferrante stesso ed i sovrani Ferdinando ed Isabella d’Aragona, i quali si adirarono fortemente col loro parente napoletano, considerandolo un traditore che non aveva osservato i patti stipulati nell’agosto del 1486 al termine di una difficile lotta contro la Curia papale, la Repubblica di Venezia e la Francia.111 109 Dalle nozze nacque Landolfo (+1656), ch e fu padre di Luigi (+1697), secondo marito di Giovanna d’Aquino , 4° prin cip essa di Castiglione, All. L seguente. 110 F. Della Marra, C. Tutini, O. Beltrano, op. cit. pag. 61. Non è stato riportato il nome della prin cip essa e non è dato poterlo congetturare, sappiamo infatti che i Re Cattolici ebbero 4 figlie: Isabella (1470-1498), Giovanna (14791555), Maria (1482-1517), Caterina (1485-1536). 111 La guerra era stata provo cata nel 1485 dal re Ferdinando, il quale aveva appoggiato le pretese del figlio Alfonso, duca di Calab ria, ch e richiedeva al pontefice l’annessione al Regno di Napoli di Pontecorvo, Terracina e Benevento. Al rifiuto del pap a Inno cenzo VIII, il re Ferrante sospese il pagamento annuo del censo dovuto alla Curia ed introdusse una tassa che andava a colpire i b eni ecclesiastici. La guerra ch e conseguì coinvolse da una parte il re di Napoli, appoggiato dai sovrani di Spagna Ferdinando il Cattolico ed Isabella, suoi congiunti; dall’altro il pap a che si alleò con la Rep. Di Venezia e la Fran cia e nella lotta si intrecciò an ch e la rivolta di alcuni baroni napo letani, ch e volevano lib erarsi del dominio aragonese. Nel timore di una estensione della rivolta stessa nella Sicilia, i sovrani di Spagn a iniziarono una lunga trattativa che po rtò alla pace n ell’agosto del 1496, con i seguenti accordi: 1) Napoli avrebbe pagato il censo al papa; 2) Il re di Napoli avrebbe dovuto perdonare i baroni ribelli. Ferrante si rifiutò di stare ai patti ed ordinò di porre agli arresti i nobili rivoltosi che furono pro cessati e condannati a morte.

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Non si conoscono i dati e le cause della morte di Antonio, che comunque avvenne intorno al 1563. Ettorre, l’ultimogenito, raccolse e riordinò l’archivio di famiglia di cui, dice Scipione Ammirato: “…non avendo dalla sua famiglia generato figliuoli, per complire al mancamento della sterilità, l’ha senza alcun fallo apportato gloria, e riputazione, non avendo à niuna fatica né à spesa perdonato, perché tante memorie de’ suoi maggiori mezzo che seppellite per colpa degli scrittori, alla memoria, e luce degli uomini si riducessero”. 112 Probabilmente Scipione Ammirato nel riportare la nota sul barone, ha voluto sottolineare il fatto che Ettore non dette continuità al casato, perché dalla moglie Claudia, figlia di Ferrante Venato ebbe un unico figlio maschio, Annibale, che si ritirò a vita monastica nell’Ordine domenicano e, col nome di fra’ Luigi, visse e morì in odore di santità. Accanto a lui vi poi erano tre femmine: Giovanna, Geronima e Maria, che comunque avevano un ruolo secondario nella dinastia, secondo i principi sociali del tempo. Forse il carattere di Ettorre mite e riservato o il suo rammarico nel non aver potuto dare dei discendenti alla sua stirpe lo portarono a vivere quasi isolato ed immerso negli gli studi fra i suoi libri, nel ricordo della gloria degli antenati, conservando nel tempo gli onori del suo casato. Ebbe una rendita di 150 ducati sulle terre di Crucoli e Castiglione, come tutore di Giulio d’Aquino, suo nipote e poi 11° barone di Castiglione, ed a nome proprio di Cesare II, il futuro 12° barone di Castiglione, comprò nel 1561 la contea di Martirano. Lontano quindi da ogni impresa militare e quasi dimenticato nobiluomo di campagna, morì nel 1526 all’età di soli 44 anni. Delle figlie, Giovanna fu maritata nel 1585 a Giulio Cesare Spinelli, fratello della duchessa di Seminara, Geronima in seconde nozze prese Giovan Battista Venato, patrizio napoletano, di Maria si conosce solo la data di morte avvenuta poco dopo il 1593.113 Ma ritornando al barone Luigi d’Aquino, i suoi anni di governo furono caratterizzati dalle opere di Francesco di Paola, il quale sin dal 1435 si meritò la fama di 112 S. Ammirato, op. cit. p ag.158. 113 Libro d’Oro della Nobiltà Mediterran ea

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santità, quando, ritiratosi a vita eremitica nelle campagne di Paola, fondò l’Ordine dei Minimi. Le doti eccezionali del frate si diffusero presto, cosicché quando morì il 2 aprile del 1507, la richiesta di canonizzazione, levatasi unanime dalla Calabria, fu appoggiata dal barone di Castiglione, il quale inviò al papa Leone X la seguente lettera: Santissimo Padre. Meravigliosi e terribili spettacoli l’immortale Iddio hà operato per mezzo de’ suoi Servi, i quali perché sono stati innumerabili, meglio è tacerli, che narrargli à pieno. Ecco che ne i nostri secoli Paola Terra di Calabria, non solo è illustre per oracoli, e vaticinii, ma per stupendi e diversi miracoli, i quali ci hanno costretto Santissimo Padre con ogni opera supplicare la Clemenza e Santità sua, che si degni il Beato Francesco di Paola nel catalogo de’ santi designare, come à quello che di tanto dono è meritevole, i cui mirabili fatti non si possono esplicare. Quest’huomo fù di gran bontà, di somma astinenza, di santa, e perfettissima vita: di modo che nessuno dubita immediatamente la sua anima al Cielo esser salita per li diversi di lui gesti, miracoli e prodigii. E per questo ciascuno a lui divotamente ricorrendo, la grazia ottenere non dubita. E’ chiaro i naviganti da tempestosa procella assaliti per esso sicuri al porto essere giunti; gli stroppiati, e altri oppressi da infiniti morbi nella pristina sanità restituiti; e donne in parto sudanti invocando il suo nome subito soccorse. Per la qual cosa non resto di pregare, e supplicare la Santità Vostra, che si degni connumerarlo nel catalogo de’ Santi; per quel che di continuo s’intende, e io intanto bacio i suoi sacrati piedi. Alli 23 di novembre 1516. Della Santità Vostra obedientissimo figlio Luigi d’Aquino Baron di Castiglione.114 Fu dunque anche con la testimonianza di Luigi d’Aquino che tre anni dopo frate Francesco fu proclamato dallo stesso papa Leone X Patrono del Regno delle due Sicilie e Compatrono della città di Napoli, mentre nel territorio di Castiglione si dette l’avvio alla costruzione del Convento di San Francesco con relativa Chiesa, quella stessa citata nel suo scritto da Don Napoleone Arcuri, parroco del primo ‘900: “Le Chiese di Castiglione erano: La Chiesa di 114 Isidoro Toscano di Paola: Della vita, virtù, miracoli e instituto di S. Fran cesco di Paola fondatore dell’Ordine De’ Minimi, Libro V, pag. 425.

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Sant’Antonio Abate, la Chiesa dell’Annunziata ed il Santuario di Santa Maria della Scala, distrutte col terremoto del 1905……..Del Convento degli Agostiniani, del Convento della Pietà, del Convento di San Francesco di Paola delle Chiese di Sant’Anna e di Santa Caterina e del Suffragio, distrutte dal terremoto del 1738, non resta che il nome e i ruderi.” 115 Giovanni Cesare, 10° barone di Castiglione. Il 1526 fu un anno triste per i baroni di Castiglione, infatti due lutti gettarono la famiglia nel dolore. Il 27 giugno morì Luigi, poi nell’agosto successivo anche Rinaldo, il primogenito, passò a miglior vita e Cesare, secondo figlio, ereditò il feudo rilevando il territorio paterno con tutte le pertinenze e giurisdizioni, 116 così il 22 dicembre 1531 poté ufficialmente rilevare Castiglione che a quell’epoca era un piccolo borgo di 192 fuochi, abitato da contadini che lavoravano le sue terre e vivevano alle sue dipendenze. La conferma gli fu data da Carlo V con privilegio del 6 febbraio 1532, dopo aver corso il rischio di essere accusato di tradimento per il comportamento tenuto ai tempi dell’assedio di Lautrec. Giovanni Cesare d’Aquino ereditava agli occhi del re una reputazione negativa che si inseriva in quel contesto di lotte esistenti in Calabria, dove i vari baroni per motivi personali, si schieravano con il pretendente di turno angioino o aragonese. In questa confusione politica va rilevato il fatto che la famiglia degli Aquino di Castiglione si era imparentata almeno in due matrimoni con i signori delle Trezze, notoriamente ribelli; infatti Eleonora, sorella del barone Giovanni Cesare, aveva sposato Antonio II delle Trezze, signore di Rocca Fallucca, ed Antonio, il fratello dello stesso barone, aveva in moglie Barbara delle Trezze, figlia di Giovan Francesco, signore di Castelmonardo. I Baroni delle Trezze erano vassalli dei Marchesi Centelles di Crotone in lotta con gli Aragonesi per motivi personali sin dal 115 Lo scritto del sacerdote Don Arcu ri mi è stato gentilmente fornito dallo studioso Armido Cario. 116 M. Pellicano Castagn a dice di aver letto la notizia in “Registro Significatorie 3”, oggi perduto, f. 80.

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1439, quando Antonio Centelles aveva preso in moglie in modo alquanto avventuroso Enrichetta Ruffo, figlia di Nicolò e Margherita di Poitiers. La nobildonna, dicono le cronache, era molto bella, ricchissima, ma soprattutto padrona di vastissimi territori comprendenti il marchesato di Crotone, le contee di Catanzaro e Belcastro, moltissime baronie e ancora immense signorie. Era dunque un partito appetibile che il re Alfonso d’Aragona aveva destinato a don Inigo D’Avalos, feudatario di Castiglia che aveva perduto i suoi territori nel momento in cui lo aveva sostenuto nelle campagne militari. Il matrimonio era per il re un modo per risarcire la fedeltà del d’Avalos ed affidò proprio ad Antonio Centelles, suo camerlengo e viceré della Calabria sin dal 1437, l’incarico di portare avanti il progetto. Il Centelles, attratto dalla bellezza della giovane contessa o forse dall’immensa ricchezza, prese per sé Enrichetta, sperando poi nel perdono del re, ma le minacce sopraggiunte lo portarono ad una lotta aperta al termine della quale nel 1445 fu costretto ad arrendersi al re Alfonso in modo assai plateale ed indecoroso, infatti, nel momento in cui Crotone venne assalita dall’esercito regio, si presentò con la moglie ed i figli al suo cospetto e si gettò inerme ai suoi piedi. Morto Alfonso d’Aragona nel 1458, il Centelles si legò al partito che contrapponendosi a Ferrante, il figlio illegittimo designato dal re stesso a succedergli, sosteneva Giovanni, figlio di Renato d’Angiò, così in Calabria iniziò la sua attività di ribelle, guadagnando molti baroni alla causa angioina, tra cui Antonio I delle Trezze, fedele alleato e signore di Castelmonardo, del cui territorio il Centelles era il padrone effettivo. Poiché la Calabria era diventata teatro di rappresaglie e disordini sanguinosi, Ferrante decise di venire di persona nella regione, giunse in Sila ai primi di settembre del 1459 riconducendo con la forza i baroni ribelli all’obbedienza. Non sappiamo di preciso quale fu in quest’occasione il ruolo di Jacopello d’Aquino, in quel tempo sesto barone di Castiglione, ma di certo la storia riporta che il re Ferrante, come già

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precedentemente detto, confermò al d’Aquino la terra ed il castello del feudo con il ruolo di adempiere alla giustizia nelle cause civili e criminali. Fra i baroni puniti ci fu però Antonio I delle Trezze, che dovette sottomettersi al re Ferrante e tributargli gli onori del momento, allestendo nei vari centri del baronato feste dispendiose. Anche il Centelles per la seconda volta ripeté la richiesta del perdono a Ferrante, come 14 anni prima aveva fatto col re Alfonso, ed anche questa volta sembrò che tutto si risolvesse a suo favore, perché venne accolto benevolmente e perdonato, ma il giorno successivo fu imprigionato e portato prima nel castello di Martirano, poi in quello di Cosenza, quindi a Castelnuovo di Napoli, mentre Castelmonardo fu sottratto ad Antonio delle Trezze. Nel 1460 Antonio Centelles riuscì ad evadere dal carcere e l’anno successivo approdò di nuovo sulle coste della Calabria e, nel tentativo di recuperare i suoi feudi, si schierò prima con gli angioini, poi nel 1463 passò dalla parte degli aragonesi, consolidando attraverso il matrimonio della figlia Polissena con Enrico d’Aragona, figlio naturale del re Ferrante, un rapporto di fedeltà con la corona che ormai si era affermata vittoriosa117. Antonio delle Trezze riuscì a riprendere Castelmonardo ed alla sua morte nel 1505 il feudo passò al figlio Giovan Francesco, di cui è stata tramandata la mitezza d’animo e la bonarietà; questi, come già detto, si legò ai d’Aquino di Castiglione attraverso il matrimonio della figlia Barbara con Antonio, fratello del barone Cesare. Nel 1510 Giovan Francesco lasciò il feudo ad Antonio II delle Trezze, il quale contrariamente al padre, nel 1528, durante la spartizione del meridione fra Angioini ed Aragonesi, si schierò con il francese Lautrec, venuto l’anno precedente in Calabria per opporsi alle forze di Carlo V, agevolando Simone Tebaldi118 quando questi, avendo conquistato Crotone e volendo occupare Catanzaro “prima di dare l’assalto alla città…pensa d’insignorirsi, onde aver tutt’attorno un arco di sicurezza, delle 117 Preced entemente si è parlato d el rappo rto fra i Signori di Castiglione ed Enrico d’Aragona. 118 Simone Tebaldi, soprannominato dai calabresi “il Romano”, era condottiero di ventura e conte di Cap accio, alleato del Lautrec.

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città di Squillace, Taverna, Nicastro, Castelmonardo, e delle terre d’Arena, Feroleto, Montesoro, Monterosso e Polia, che aprono le porte”.119 Il barone Giovanni Cesare d’Aquino nel processo che era seguito, aveva testimoniato in favore di Antonio II delle Trezze, tentando “con uno strumento falso…di far apparire coatto il giuramento spontaneamente prestato ai francesi nel 1528 dal cognato Antonio delle Trecce, per cui la Corte gli aveva confiscato la Baronia di Castelminardo e Montesoro”.120 Probabilmente era stato spinto dai legami di amicizia e di parentela o forse perché realmente avrebbe voluto anche lui ottenere maggiore indipendenza politica, ma così facendo si conquistò anche lui la fama di ribelle, soprattutto perché il suo atto fu smascherato da un certo Carlo Greco di Crucoli, che denunciò l’accaduto. Il Greco venne immediatamente incarcerato da un Commissario dell’Udienza di Calabria e consegnato, come suo vassallo, a Cesare d’Aquino che certamente avrebbe provveduto a punirlo severamente se la notizia non fosse rimbalzata al Governo Centrale che nel luglio 1538 ordinò ai fratelli Cesare ed Ettore d’Aquino, quest’ultimo aveva su Crucoli una rendita di 150 ducati, di consegnare subito Carlo Greco al Governatore di Calabria, con tutti i relativi atti e processi, e nello stesso tempo ordinava al Governatore di proteggere il prigioniero, testimone accusatore, e di inviarlo subito a Napoli alla Gran Corte della Vicaria, il tribunale supremo di tutte le Corti del Regno di Napoli per le cause criminali e civili, dove la Regia Camera della Sommaria era competente per le cause finanziarie e fiscali: patrimonio reale, erario pubblico, liti tra feudatari e tra i baroni ed i loro sudditi. La dubbia reputazione del barone Cesare in un certo senso è convalidata da alcuni atti di governo, come quello che lo spinse a tentare in ogni modo di riprendere il feudo di Belcastro, inviandovi i due fedelissimi Procuratori e Dottori Giovanni Antonio Serra di Nicastro e Cola Giovanni, barone di Tropea. 119 R. Chimirri: “Monterosso Calabro” pag. 26. 120 Giuseppe Galasso: “E conomia e So cietà nella Calabria del Cinquecento”, pag. 78, nota 85.

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Il recupero del feudo però non si poté effettuare a seguito di un contenzioso con i possessori che ancora una volta lo resero impotente di fronte alla giustizia del sovrano, a cui fu di nuovo costretto a fare atto di sottomissione. Nella vita privata sposò Aurelia, figlia di Francesco Torres, che gli portò in dote la signoria di Crucoli, un castello di origine normanna, caposaldo strategico della Calabria Citra, il cui capoluogo era Cosenza. Già nel 1368, come già detto, la baronia di Crucoli era stata la dote di Elisabetta Gentile al momento del suo matrimonio con Jacopo d’Aquino, 3° barone di Castiglione, ed era rimasta fra i possedimenti della famiglia fino al 1446, quando Francesco Torres la ebbe in dono dal re Ferdinando d’Aragona per i servigi che gli aveva reso. Con il nuovo matrimonio la terra ritornava ai d’Aquino, portata in dote da Aurelia, giovane sposa di Cesare, ed in un documento molto antico, in cui sono denunciati i corpi feudali della famiglia si legge tra l’altro: “...in dicto castello (di Crucoli) la dicta baronessa (Aurelia) ne tene lo castellano salariato cum dudici ducati lo anno, mangiare et vivere (bere) et vestire”.121

Castello di Crucoli

121 A.S.N.(Archivio di Stato di Napoli): Lib er Originalis Relevio rum utriusque Calab riae, anni 1530-1543, fascio 347/20 in “Dominatori e Dominati nella storia di Cru coli” di Pericle Maone.

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Non sappiamo di preciso in che anno avvenne il matrimonio, ma il Cedolario del feudo del 1531 registra il barone come: “Caesar De Aquino et eius Uxor”. All’epoca Castiglione contava 192 fuochi, come da Catasto in cui il borgo viene citato con gli altri comuni del circondario122; Crucoli si aggiunse ai territori posseduti e rimase alla famiglia d’Aquino fino a quando verso la metà del 1600 Giacomo d’Aquino la vendette a Giacomo della famiglia Amalfitano. I baroni di Castiglione ebbero almeno 10 figli, 7 maschi e 3 femmine; i maschi erano: Giulio, Girolamo, Luigi, uomo d’arme, Carlo, Fabrizio, Scipione, Pompeo; le femmine furono: Albina, che andò sposa a Ferdinando di Bernardo, Patrizio Napoletano; Lucrezia, sposa nel 1553 a Fabio di Luigi Galeota, Patrizio Napoletano; Isabella che nel 1539 prese come marito Stefano Galluccio, Signore di Scapoli e Patrizio Napoletano. In un documento del 1537 si legge uno spaccato di vita della nobile famiglia, attraverso quei provvedimenti che il barone Cesare operava nel suo feudo; infatti richiedeva ai sudditi di denunciare i loro beni per provvedere ad adeguata tassazione e nello stesso tempo pensava anche alla salvezza della propria anima ed a quella dei suoi familiari, timoroso di una suprema giustizia divina. Vengono dunque citati i nobili e gli ecclesiastici che hanno fatto la storia del feudo e che l’oblio del tempo tenta di cancellare, dove i nomi e la loro provenienza stanno ad indicare l’importanza dei luoghi e dei personaggi ammessi alla nobile corte. “Così, regnando Carlo V, presenti i seguenti notabili: Nicola Francesco Susanna, regio judice ad contractum, ed il sig. Francesco Tegano, pubblico notaro per tutto il Regno di Sicilia al di qua del Faro, entrambi da Cirò, unitamente ad alcuni membri del Clero di Crucoli e Castiglione: Don Salvuccio Nasca, Arciprete, Amministratore, Rettore e Cappellano della Chiesa dell’Ospedale di Santa Maria Vergine “de manu puglia”; Don Angelo Durante, Rettore e Cappellano della Chiesa di San Pietro, San Sebastiano e San Cataldo; Don Giovanni Calì, Rettore e Cappellano di 122 A. Orlando: “Storia di Falerna dalle Origini ai gio rni nostri”, pag. 39.

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San Nicola, Sant’Onofrio e San Giacomo; Don Bernardino Nasca, Rettore e Cappellano di Sant’Antonio; Fra Giovanni de Adamo da Castiglione, Priore della S.S. Annunziata, dell’Ordine degli Eremiti dell’Osservanza di Sant’Agostino, si provvide alla rogazione di un pubblico strumento in cui i sacerdoti suddetti erano obbligati a preghiere continue e a celebrazioni di messe perpetue in suffragio della sua anima, di quella della moglie donna Aurelia e dei loro defunti.” Il barone confermò inoltre ad essi la concessione perpetua di alcune terre rese libere, franche ed immuni da ogni giogo o servitù e dal pagamento del censo annuo, spettante alla corte baronale.123 La baronessa Aurelia premorì al marito il 3 maggio 1543 ed il barone Cesare le sopravvisse solo per un anno fino al 1544, lasciando il primogenito Giulio sotto la tutela dello zio paterno Ettore. Giulio, 11° barone di Castiglione. Giulio, già barone di Crucoli per successione materna, il 25 settembre 1545 poté rilevare con lo zio Ettore la terra di Castiglione, e con la guida dello stesso zio, uomo attento a che gli abitanti del feudo censissero adeguatamente i loro beni: orti, case, bestiame e diritti vari sulle terre, decise di convocare il Parlamento cittadino per verificare quanto stabilito. Il primo maggio del 1561 fu convocato il Parlamento di Crucoli e la nota dello storico Pericle Maone riporta che a nome del “pupillo” era presente il “balio” Ettore d’Aquino, termini entrambi che inducono a credere che il barone Giulio fosse minorenne. 124 L’Università125 di Castiglione a quel tempo si era ingrandita e, se nel 1545 contava 217 fuochi, ora nel 1561 aveva raggiunto il numero di ben 228 fuochi; si trattava di contadini che lavoravano assiduamente, obbligati “all’incolato”, ossia a restare legati al feudo, 123 Le notizie sono ripo rtate da Pericle Maone in op. cit. 124 V. Pericle Maone: “Dominatori e Dominati nella storia di Cru coli”. 125 L’Universitas civium si formò ai prin cipi del XIV sec. e rappresentava l’unione dei cittadini in un centro abitato, con i lo ro diritti e doveri.

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privi di qualsivoglia diritto e con l’obbligo di permettere ai padroni di soddisfare ogni esigenza. L’amministrazione civica era strutturata secondo regole ben precise: gli abitanti si riunivano una volta all’anno per eleggere il “Reggimento” della loro Università, cioè un sindaco e due membri, che comunque dovevano essere confermati dal barone, che viveva nel suo castello con la sua famiglia e numerosi servitori. Il Reggimento nominava quindi il cancelliere, che curava la redazione dei documenti ufficiali, ed il Banditore, che, in una società in cui l’analfabetismo era dominante, radunando il popolo con la sua tromba, aveva il ruolo indispensabile di diffondere con i “banni pubblici” le disposizioni delle autorità. Importante era anche la figura dell’Arciprete, nominato dal Vescovo, che costituiva l’autorità religiosa della comunità a cui il popolo doveva obbedienza e rispetto. Accadeva spesso che queste figure ecclesiastiche si alleassero ai signori locali, ma altrettanto spesso accadeva che vescovi ed università entrassero in lite con i feudatari, desiderosi di ricchezze sempre maggiori e che vedevano nella “terra” il bene principale. Il territorio feudale infatti era così diviso: Demanio Universitario, appartenente all’Universitas di cittadini, dunque bene comune. Demanio Feudale, appartenente al signore che lo amministrava e che richiedeva ai sudditi gli oneri dovuti. Terreni Burgensatici, appartenenti privatamente al signore. I beni feudali e quelli burgensatici potevano essere chiusi, se ad uso proprio del proprietario, aperti, se concessi ad estranei per alcuni usi, ad es. per pascolo o per legnatico. Terreni Patrimoniali, appartenenti alla Chiesa ed ai Conventi. Terreni Allodiali, appartenenti a cittadini privati. La terra costituiva dunque la fonte principale di ricchezza ed era coltivata dai contadini i cui oneri erano vari e spesso gratuiti per i baroni, i quali erano comunque sempre pronti ad innalzare Chiese e richiedere centinaia di messe per sé e per i propri cari.

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In una società così strutturata, Giulio contribuì notevolmente all’ascesa della sua famiglia, infatti ebbe il titolo di “conte di Martirano”quando nel 1549 sposò la contessa Eleonora, erede di Giovan Andrea de Gennaro conte di Martirano e di Cornelia Marullo, la sposa era considerata fra le più ricche ereditiere del tempo, avendo ricevuto le terre appartenute alla nipote donna Giulia, contessa di Martirano, sposa di don Carlo Siscar, signore di Aiello, morta senza figli. All.F

“A Cesare primo de suoi fratelli (di Ettore) tornò di nuovo la signoria di Crucolo per la persona d’Aurelia Torres sua moglie che n’era padrona; dal qual matrimonio nacquero molti figliuoli; ma il primo fra gli altri detto Giulio con maggior fortuna del padre per via di donna ancor egli cioè di D. Eleonora di Gennaro sua moglie contessa di Martirano hà messo in casa quella bella & nobile signoria; onde par che di nuovo la famiglia illustrissima Aquina torni a ripigliare il suo antico splendore, & grandezza”. 126 Il feudo dunque si estendeva sempre più per via di una politica matrimoniale che permettendo l’unione anche fra consanguinei, lasciava non solo indiscussi ed intatti i beni tramandati da padre in 126 S. Ammirato: Della Famiglie nobili napoletan e vol. I, pag. 159.

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figlio, ma rendeva più solido il prestigio sociale all’interno del contesto politico. Dai conti Giulio ed Eleonora nacquero tre figli, la prima, Cornelia, sposò Marcantonio Lucifero o Lo Cifaro, barone di Belvedere Malapezza, un territorio sul versante ionico, che i nobili crotonesi avevano acquistato nel 1533. Il matrimonio segnò un punto fermo nella famiglia d’Aquino, i Lo Cifaro infatti si segnalavano per la fedeltà ai sovrani aragonesi, che avevano ingrandito e rafforzato la loro Casa mediante onori, favori, prerogative quali solo si concedevano ai familiari domestici del re. Il potere li aveva poi resi nel tempo arroganti, tanto che nella metà del 1500 dettero la scalata anche al potere ecclesiastico, le cui cariche spesso furono ottenute con la violenza e la corruzione, come il caso di Pietro Lucifero, parroco della Chiesa di San Pietro, scomunicato per essersi appropriato dell’Ufficio di cantore della stessa chiesa dietro compenso in denaro. Un potente casato dunque, che godeva di grossi privilegi, come il permesso di portare con sé due servi armati in propria difesa o la facoltà di non essere arrestati se non per ordine del Gran Siniscalco del Regno o ancora di essere esentati dal pagamento delle tasse.127 Nella politica dei matrimoni anche loro, come ormai in uso nell’alta nobiltà, allargavano sempre più i propri interessi imparentandosi con le famiglie più facoltose ed antiche. Fu così che Marcantonio, figlio di Mario e Porzia Piterà, sposò Cornelia d’Aquino ed approfittando delle difficoltà finanziarie di Scipione Spinelli, principe di Cariati, acquistò nel 1570 Monte Spinello e Rocca di Neto, ma a sua volta indebitatosi, fu costretto a vendere quest’ultima terra a Giraldino di Amelia, il quale la passò a Giulio Caposacco. Anche qui la storia interrompe le sue notizie certe, infatti è noto solo quanto avvenne in seguito cioè che Marcantonio Lucifero, 127 A. Pesavento: Il Palazzo dei Lu cifero, march esi di Apriglianello, art. in La Provin cia di Kr n. 14-15/1999.

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senza aver effettuato alcun patto di ricompra, cedette il feudo al cognato Cesare d’Aquino di Castiglione. Marcantonio morì nel dicembre 1585, lasciando i tre figli Horatio, Mario e Giovan Battista in tenera età e sotto la tutela della mamma Cornelia; ma la sfortuna per la famiglia era in agguato, in quanto Mario e Giovan Battista morirono giovani ed Horatio fu costretto a vendere il feudo che aveva ereditato. Cesare II d’Aquino, il secondogenito e primo maschio di Giulio di Castiglione , ereditò il feudo paterno e terzo fu Fabio, di cui non si conosce il nome della moglie, ma si ricordano i due figli maschi: Scipione che, entrato nell’Ordine dei Padri Cappuccini col nome di fra’ Tommaso, si dedicò ad opere di carità, lasciando di sé fama di uomo buono piuttosto che di letterato, e Giovanni Battista, il quale, come i suoi avi, servì con devozione il re arruolandosi nell’esercito imperiale e morendo in guerra nel Palatinato. Cesare II, 12° barone di Castiglione. Alla morte di Giulio avvenuta nel 1559 Cesare divenne barone di Castiglione senza che risulti pagata alcuna tassa di acquisto, come invece avevano fatto i suoi predecessori. Il feudo versava in condizioni assai precarie, i luoghi erano malsani e gli abitanti esposti ad enormi rischi di malattie contagiose, una situazione critica dovuta in gran parte al malgoverno dei precedenti signori che avevano sottoposto a vessazioni di ogni genere gli abitanti, quasi tutti braccianti agricoli che vivevano alla giornata in condizioni di miseria. In questa situazione la posizione del clero era ambigua: “...Chierici corrotti, duellanti, protettori di banditi, o banditi essi stessi, si incontravano ovunque nella Calabria spagnola… Si aggiungeva l’ambigua inquietante figura di chierici “selvaggi”, per lo più di provenienza aristocratica: depauperatori delle sostanze comunali – in quanto esenti da imposte e gabelle -, violenti ed insofferenti di controllo, perturbatori dell’ordine pubblico, godevano di una posizione di privilegio che consentiva non solo di sfuggire ad

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alcuni vincoli ecclesiastici (il celibato per esempio), ma a nche di esercitare impunemente i propri traffici…”128 A tutto ciò si aggiungevano le incursioni saracene e corsare che rendevano ancora più instabile e precaria la vita quotidiana; il Regno di Napoli con gli alleati della Lega Santa si preparava a fronteggiare l’Impero Ottomano e la guerra ormai prossima certamente coinvolse il barone d’Aquino che dovette fornire il suo piccolo contingente di uomini ed armi. Il popolo viveva nella paura e nell’incertezza totale, molti calabresi pur di sfuggire alla miseria ed all’oppressione passarono col nemico e più di cinquemila combatterono nella battaglia di Lepanto del 7 ottobre 1571, dove a comandare 90 galee turche vi era il calabrese Giovanni Dionigi Galeni, più noto come Ulugh Alì, che, divenuto governatore di Algeri, Tripoli e Tunisi, aveva sposato la figlia di un altro calabrese, noto come Ja’far Pascià.

Ulugh Alì

128 A. Placanica: “Storia della Calab ria: d all’antichità ai nostri giorni” p ag. 224.

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Circa seicento calabresi persero la vita nella terribile battaglia e fra questi sicuramente alcuni provenienti da Castiglione che contava a quel tempo pochi fuochi, molte famiglie infatti avevano preferito allontanarsi dal castello per rifugiarsi nella soprastante zona montana. Le coste si rivelavano insicure e creavano forte disagio alla stessa Corona di Spagna, fu così che durante il vicereame di don Pedro de Toledo (1532-1553) si cominciò a costruire una catena difensiva di torri sui promontori a ridosso del mare. I fortilizi, posti a distanza regolare l’uno dall’altro, erano fra loro ben visibili e presieduti ognuno giorno e notte da un “torriero” e da due “cavallari”; questi stavano sempre in contatto fra loro segnalandosi i pericoli, di giorno mediante pennacchi di fumo che si elevavano fino al cielo e di notte con fuochi che risplendevano nell’oscurità. I “cavallari” inoltre si erano divisa l’intera costa, sorvegliandola da destra e da sinistra ed incontrandosi nelle loro perlustrazioni in posti convenuti. Nella zona di Castiglione fu costruita a strapiombo sulla sottostante strada costiera, Torre Loppa o Torre della Rupe, detta oggi Torre Lupo, che entrò in funzione nel 1576 ed ebbe come “torriero” Manuel Denis e come “cavallari” Paolo e Gian Domenico Vecchio; il mare al di là della strada appariva dal piccolo forte, mimetizzato nella selva, in tutta la sua vastità, ben soggiogato dall’occhio vigile delle sentinelle. I tempi dunque erano duri, l’arroganza e la presunzione della nobiltà non rendeva facile la vita della povera gente, così probabilmente, a causa di una lite insorta fra il barone stesso e l’Università comunale, quest’ultima nel 1574 prese la decisione di demanializzarsi e chiedere la “bagliva”, ossia il diritto alle Autorità pubbliche di riscuotere le tasse sul territorio e, poiché il barone, come spesso accadeva, si propose di acquistare la terra, Castiglione “supplica di essere preferita al barone in la compra de la portulania”.129 129 G. Galasso: “E conomia e So cietà nella Calabria del Cinquecento”, pag. 309.

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Cesare nel 1579 successe alla madre nella contea di Martirano e nel 1582, in una lettera a Filippo II, parlando delle terre che aveva ereditato diceva come fossero: “grandissime parti et quasi tutti delli corpi suoi feudali indebitamente alienati et distratti per li suoi predecessori, et segnalatamente il contado di Martirano, il quale si ritrova quasi tutto in potere di persone ecclesiastiche et altri laici vassalli, et trovali esso supplicante occupati in diversi tempi di ribellione, tanto in tempo di Lotrecco quanto in tempo di altre ribellione prima, et per essere successo il detto contado al quondam Gioan Andrea di Gennaro, avo materno di esso supplicante, il quale fu declarato per persona inhabile al governo et li fu dato curatore per decreto del sacro Consiglio di Napoli, et poi successero alle quondam donna Julia et donna Leonora di Gennaro sua madre, et come donne et persone inhabile non curarono la reintegra di detti feudi così indebitamente occupati e t alienati”.130 La situazione era dunque desolante ed il castello di Castiglione malandato, così proprio il 24 aprile del 1584 il barone provvide al restauro, affidando i lavori ad un certo Martino Ortale, come da atto redatto dal notaio Sallustio Falascina di Nocera Terinese.131 Quindi comprò dal cognato Marcantonio Lucifero la baronia di Rocca di Neto, che, dopo vari passaggi prima a Giraldino d’Amelia e da costui a Giulio Caposacco, non si sa bene in che modo, era ritornata, come precedentemente detto, a Marcantonio senza che vi fosse stato alcun documento di acquisto. Cesare d’Aquino sposò Cornelia Spinelli, figlia del marchese Salvatore Spinelli di Fuscaldo e di Feliciana Carafa dei conti di Santa Severina; la giovane, penultima di 11 figli, discendeva da una nobiltà recente, infatti il padre Salvatore, patrizio napoletano, era stato insignito del titolo nobiliare per aver represso nel 1561 la rivolta dei valdesi, organizzando fra maggio e giugno una carneficina in cui circa 2000 innocenti vennero trucidati in soli quattro giorni fra Guardia Piemontese, Vaccarizzo, Fiumefreddo. 130 AS Secretarìas Provin ciales. Nàpoles, lib.504, cc.78 v. -79.r. in G. Galasso: “Economia e So cietà nella Calab ria d el Cin quecento” pagg.292-293. 131 La notizia viene riportat a dal Sig. Mario Folino Gallo, il quale dice di aver trovato l’Atto durante le sue ricerche presso l’Archivio di Stato di Lamezia Terme.

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Era stato proprio Gian Pietro Carafa, papa Paolo IV, parente di Cornelia, a favorire il massacro; noto infatti per la sua intransigenza sia nei confronti delle idee protestanti che verso le correnti riformiste all’interno della Chiesa, aveva ampliato i poteri dei Tribunali dell’Inquisizione e favorito l’Indice dei Libri Proibiti. Il pontefice successivo Pio IV, al secolo Giovanni Angelo Medici di Marignano, intese poi appoggiare in modo inequivocabile le idee controriformistiche, così fu sotto il suo pontificato che si verificò il macabro eccidio, per il quale vennero assoldate bande di irregolari pagate 20 ducati per ogni eretico vivo e 10 per ognuno morto. 132 Cornelia, cresciuta in quell’ambiente spietato, entrata nel nuovo feudo di Castiglione, ben presto dimostrò fredde capacità imprenditoriali che aumentarono le ricchezze della famiglia, si legò infatti al giro di quei mercanti di seta che, attraverso sfruttamento ed usura, inviavano la merce a Napoli per migliaia di libbre, ottenendo così guadagni immensi. La Calabria era una terra fra le più ricche produttrici ed esportatrici di seta, ma nello stesso tempo la più povera ed oppressa dai potenti baroni locali che, in virtù della loro a utorità, controllavano il commercio della fibra sui luoghi di produzione e compravano anticipatamente, cioè al momento della coltivazione, l’erba a prezzi molto bassi, addirittura inferiori a quelli che si sarebbero fissati al tempo del raccolto. Accadeva infatti che i piccoli produttori di campagna, in molti casi affittuari, durante l’anno spesso avessero bisogno del necessario per sopravvivere ed erano pertanto costretti a richiedere prestiti ed anticipi agli intermediari dei baroni che, approfittando della situazione di indigenza e di necessità in cui questi versavano, a nome dei padroni praticavano queste contrattazioni illecite ed usurarie. La baronessa, citata col nome di “Cornelia Spinola”, viene annoverata nell’anno 1584133 fra i nobili “particolari” 134 del Regno, 132 A. Ro cca: “Sacro Bosco – Il giardino ermetico di Bomarzo” pag. 34. 133 R. Ragosta: “Napoli, città della seta –produzione e mercato in età moderna”, pag. 64.

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Nel luglio 1637 morì il vescovo Domenico Ravenna, dopo appena due anni di mandato apostolico, e Pietro De Ardito, un poeta del luogo, per celebrarne la morte, compose un epigramma dove, facendo riferimento allo stemma della Chiesa locale su cui era fissata una torre, così come nel sigillo baronale della stessa Nicastro, riportò questa triste premonizione: “Sinora, o Nicastro, ti difendevano due fortezze Con vigore, forza e arte; sicché tu sprezzavi gli assalti nemici; ma ora che n’è crollata una, come potrai reggere a tutti gli urti?”164 versi che appaiono ancora oggi dettati da un profondo stato di malessere determinato dalla percezione non razionalizzata di un pericolo. L’anno successivo, a partire dal mese di febbraio, cominciarono a verificarsi in natura alcuni segnali insoliti e bizzarri, che incuriosirono la popolazione che non riusciva a trovare spiegazioni: “...si divulgavano vari uccelli, più che secondo la verità, conformi al timor, che li suggeriva. Questi mutando la forma à quali tutti gli avvenimenti, hor l’ingrandiva fuor di misura, hor l’adombrava col pretesto della pi età, hor li confondeva con le menzogne, e non lasciava comparir alla luce fatto alcuno, senza ravvilupparlo fra caligini d’ignoranza e d’errori”. 165 Finché il sabato antecedente la domenica delle Palme una immane catastrofe sismica sconvolse la pianura di Sant’Eufemia, distruggendo il feudo dei Principi d’Aquino. Così si legge in un documento del 1638 che ricorda il terribile terremoto: “La città di Nicastro sfatta e ruinata dalli primi terremoti del mese di marzo, aprile et magio, primi passati 1638, con le sue entrate così feudali con le burgensatiche166 le quali hoggi per causa di detti terremoti non 164 F. Mazza: “Lamezia Terme, Storia, Cultura, E conomia” pag. 115. 165 A. Di Somma: op. cit. pag. 1, 2 166 Il burgensatico era il bene con cesso dal sovrano al feudatario, sul quale il feudatario stesso non pagava alcun a tassa.

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rende più di docati duimila cento vinti sei, incluse però con dette entrate mille et vinticinque pecore che stanno affittate a ragione di docati quindici lo centinaro et tricento et dicessette capre affittate totalmente a docati duodici lo centinaro che unite con li sudetti animali fanno la somma di docati 2126.” 167 Il documento continua evidenziando come il castello che costituiva il punto di riferimento della popolazione, era ben protetto e difeso da numerosi pezzi di artiglieria: “Tiene il castello di essa città similmente sfatto et ruinato dalle terremoti, dentro il quale ci sono diece pezzi di artiglierie ruinati et fracassati. Item tene con (…) la iurisdictione di essa città…” e, costruito secondo l’architettura normanna costituiva un’ imponente abitazione a cui si accedeva mediante una scala in pietra, come appare dai resti venuti alla luce durante gli scavi degli anni ’70. Dal poggio che sovrasta Nicastro, dominava con la sua mole imponente: “elevato sopra le casupole ammucchiate alla falda del promontorio” a simbolo di potere e sicurezza e verrebbe da dire ricordando Manzoni: “pareva un feroce che ritto nelle tenebre, in mezzo a una compagnia d’addormentati, vegliasse, meditando un delitto…”168 ma, come per ogni cosa umana, tutto si dissolse in un attimo, dimostrandone la caducità e la fragilità, perché la Natura “...dura nutrice, ov’ei men teme,/con lieve moto in un momento annulla/ in parte, e può con moti/ poco men lievi ancor subitamente/annichilare in tutto.”169 Don Cesare morì il 27 marzo sepolto fra le macerie del suo castello nell’orrendo terremoto che ebbe come epicentro proprio Nicastro, la quale fu tutta sconvolta sin dalle fondamenta. Il sisma fu terribile, le descrizioni tramandate sono quadri di una crudezza indicibile; Nicastro alle ore 20 di quel fatidico giorno “fu orribilmente trabalzata per ogni verso da tremuoto così forte e prolungato, con scosse, che caddero tutti gli edifizi, sia pubblici che privati” 170 tanto che di essa rimase il “cadavere”171 di una città divelta dalle fondamenta. 167 R. Donato – G.Russo: Spigolature Feroletan e pag. 148. 168 Manzoni: Promessi Sposi, cap. 8. 169 G. Leopardi: La Ginestra. 170 R. Donato-G. Russo: Spigolature Feroletan e, cap. IV, pag.148. 171 Agatio Di Somma: Historico Racconto de i terremoti della Calabria dall’anno 1638 fin’anno 41.

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La parte bassa la si vide sbalzare in alto per cadere su se stessa e seppellire tutti gli abitanti, il Castello si sgretolò da tutte le parti restando un cumulo di sassi che sotterrò uomini e cose; solo le prigioni sotterranee rimasero illese, cosicché i più rei, chiusi nelle parti più basse del castello a causa dei reati peggiori, riuscirono ad aver salva la vita. Così si legge in una cronaca dell’epoca: “...Or passando dalla Calabria Citra all’Ultra, mi si fa incontro la miserabile strage della città di Nicastro e del Castello di S. Biase di fuochi 1154. Era questa fertilissima Città riedificata dopo l’universale rovine di Calabria, in luogo alto e pendente fra monte e piano; ma furono ad un tratto spianati i monti, sollevate in aria le pianure, per provar maggiore la caduta. Era abbellita di sacri Templi, di superbi Palagi e ornata di tutte l’arti meccaniche , oltre alle liberali che ne fu sempre ricca. Era assai ragguardevole per la sua architettura di prospettiva e di fabbriche ben fondate e ben compartite. Il Palazzo del Principe di Castiglione, signore della Città e di molti stati dell’illustrissima famiglia d’Aquino, fatta celebre per l’universo non solo perché ella fosse per sangue, per grandezza, per titoli chiara e famosa, e illustre, ma anche per le glorie, la santità, dell’angelico dottor Tommaso lume di Santa Chiesa. Sotto le rovine delle macerie, rimase il Principe con quasi tutta la sua corte fuor che la Principessa moglie, figliuola del Principe di Santo Mango, signore del medesimo sangue. Questa Signora si ritrovò con una sua figliuola nella chiesa di San Francesco con circa 500 persone alle 40 ore poste, come si è detto, per l’occasione del Giubileo. Cadde il convento e la chiesa fu miseranda sepoltura di tutta quella devota gente, la maggior parte donne. In quella crudele strage restò sepolta la Principessa e la figlia, ma per grazia speciale cadde in una sepoltura che le fu tetto e riparo, per salvare la vita non solo dell’innocente fanciulla e sua, ma del concetto parto, mentre era gravida di alcuni mesi; quantunque gravemente ferita, si conservò fra le rovine e in poche ore fu sottratta alla morte e portata alla luce, per piangere invece la morte del Principe sposo. Lagrimevole spettacolo perché era costui di natura affabile, giustissimo Principe e assai inclinato alle arti della pietà e della clemenza. La maggior parte di strage fu nelle chiese, per l’occasione che si è detta………Il fortissimo Castello, posto sulla cima di un altissimo monte

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sopra a rocche vive, ma dure pietre, opera famosa dei Francesi, restò dalle fondamenta abbattuto con la morte di molte persone carcerate e dei custodi stessi. Un carcerato di mala vita scampò a quel pericolo e il Principe di Santo Mango lo graziò; ma ripresa egli di nuovo a commettere reati, il Principe, fatto da clemente santamente crudele, lo condannò a morte in un ramo d’albero, condegno castigo di sì barbara ingratitudine. Con le città rimasero distrutti due casali: Gizzeria e Zangarona di nazione Albanese.”172

Testo di Lucio D’Orsi: I Terremoti delle due Calabrie, pagg.216,217 Don Cesare dunque era solo in casa e rimase intrappolato nel suo meraviglioso castello; alle prime scosse sembra abbia tentato la fuga senza riuscire a mettersi in salvo, perché il pavimento della camera in cui si trovava, sprofondò e si trovò in basso insieme allo stesso maggiordomo, sommersi entrambi da una massa ingente di legname e pietre. Non fu possibile dar subito aiuto, la paura e la confusione non lasciava capacità di riflettere ed organizzarsi, solo in seguito, terminate le scosse, i servitori si dettero a cercare i corpi e 172 Lu cio D’Orsi: “I terremoti delle due Calab rie”. Nicastro e Sambiase pag. 216-217.

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ritrovarono dopo qualche giorno, scavando fra le macerie, il cadavere irriconoscibile del padrone squarciato dai massi. Antonio Bulifon così scrisse: “Il 27 marzo dell’anno 1638 il sabato delle Palme per lo spatio di 150 miglia fu un ferissimo tremuoto che scotendo l’una e l’altra Calabria ruinò 183 tra terre e città, con la morte di circa duemila persone…Tra i luoghi più danneggiati si numera…Nicastro, in cui oltre una buona parte del popolo rimase estinto il principe di Castiglione, Util Signor d’esso, la cui moglie con una sua figliuola furono cavate mal vive di sotto le macerie. Santa Eufemia, il cui tempio innalzato dai re Normanni d’antica e meravigliosa struttura fu dalla terra inghiottito, avendovi formato, nel luogo ove era, un lago.” Ed ancora Marcello Bonito disse: “Nicastro non potè più conoscersi ove era stato situato, e dei suoi cittadini fu fatta gran strage, buona parte dei quali si ritrovava nella Chiesa de’ Francescani all’espositione del Sacramento, e furono tremila i morti...Il fiume Lamato contiguo a Nicastro fu visto scorrer sanguigno. Si dice che il Principe di Castiglione Signor di Nicastro insieme con gli altri restasse fra quelle rovine sepolto…”173 Il 16 febbraio 1628 il principe aveva sposato la cugina sedicenne Donna Laura d’Aquino, figlia di Don Tommaso, Principe di San Mango nel Cilento, e di Felicia d’Aquino, la quale nel 1658 era subentrata al fratello Luigi nei feudi di Savuto, Savutello e Turboli. La vita scorreva tranquilla nell’agiatezza e nella quotidianità, la famiglia era cresciuta, pur nel dolore di avere, fra i 4 figli venuti al mondo, solo una vivente, Cornelia, nata proprio a Nicastro il 18 novembre 1629; gli altri infatti, Carlo, nato il 18 maggio 1634, era morto bambino, e Maria Ippolita, nata il 12 aprile 1636, era morta anche lei subito dopo. La principessa Laura d’Aquino, all’epoca del terremoto del 1638, era una giovane di 26 anni di nuovo incinta e, nel momento della forte scossa non si trovava nel palazzo, ma con la piccola Cornelia di soli 8 anni si era fatta portare su una lettiga nella Chiesa di San Francesco dei Padri Riformati ad assistere alle orazioni delle ore del sabato delle Palme. 173 A. Raffaele: Art. cit.

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Il Tempio era gremito di gente, molti erano nobili, in tutto vi erano circa 500 o più persone d’ogni età: soprattutto donne e bambini, ma anche uomini che pregavano e partecipavano alla celebrazione religiosa di quel giorno prefestivo nell’anno del Giubileo indetto dal papa Urbano VIII. La principessa era con il suo popolo in quella folla immensa accorsa per il rito che apriva le cerimonie liturgiche della settimana santa; dappertutto nella Chiesa echeggiava una musica divina che accompagnava i loro canti, quando improvvisamente l’ edificio iniziò a sussultare e le pareti sgretolandosi cominciarono a crollare e seminare il panico fra i presenti. Le voci ed i canti si mutarono in urli ed il fuggi fuggi generale trasformò in trappola il luogo sacro, la calca tratteneva i presenti che si spingevano l’uno con l’altro ed impedivano la via d’uscita, molti infatti cadevano e non potendo rialzarsi venivano calpestati dalla folla, perdendo miseramente la vita. Nel mezzo della Chiesa vi era un braciere acceso, posto lì per volere della principessa, perché intiepidisse l’aria fredda che circolava tutt’intorno; la folla nella corsa lo rovesciò e la brace ardente, spargendosi di qua e di là, diede fuoco ai banchi, alle seggiole, ai confessionali che ornavano l’edificio sacro. I sopravvissuti, riusciti a fuggire in strada, impotenti e disperati udivano gli urli di coloro che, rimasti intrappolati, piangevano cercando aiuto, mentre le fiamme si propagavano impietose. La principessa anche lei era rimasta in Chiesa senza poter mettersi in salvo, caduta in una sepoltura insieme alla figlia, nel tentativo di fuggire, ed urlava anche lei cercando di attirare l’attenzione di qualcuno che potesse soccorrerla. In un racconto si legge: “…Il principe padrone della città restò sepolto morto nelle rovine del suo palazzo, ed in quelle rovine rimase seppellita la Principessa gravida di molti mesi, ma dissotterrata fu ritrovata viva insieme con una sua figliuola, il che fu attribuito a miracolo” ed il d’Amato specifica meglio: “si salvò sotto i mucchi della catedral caduta , con non più intesa fortuna, D. Laura d’Aquino Principessa di quella città…” ed ancora Carlo Torello scrive: “Tra i luoghi più danneggiati Nicastro, ove

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gran parte del popolo vi restò infranto e il Principe di Castiglione, e la moglie con una sua figlia fu prodigiosamente trovata viva sotto una caverna”. 174 La nobildonna insieme con la piccola fu estratta viva per miracolo, come disse qualcuno, accusando solo un forte dolore al braccio sinistro per una brutta e grave ferita, riportata nel cadere in quella fossa, e una leggera contusione al fianco; anche il nascituro era salvo e, pur nel dolore per la perdita del marito , portò avanti la gravidanza, mettendo al mondo qualche mese più tardi una bambina. Anche il padre di Laura, don Tommaso I, principe di san Mango, sfuggì alla morte, infatti all’alba di quel giorno che si rivelò nefasto si era allontanato dal suo feudo per andare incontro al terzogenito don Luigi, che ritornava dalle Fiandre. Era venuto in Calabria proprio nel 1628, seguendo la figlia sposa novella, aveva dimostrato ottime capacità di governo ed intenti comuni con il genero don Cesare e solo per caso si trovò lontano da quell’inferno, salvandosi unitamente al figlio Luigi che gli succedette nel suo feudo alla morte avvenuta il 20 giugno 1646. Nicastro all’epoca era una cittadina fra le più grandi e più belle del territorio, contava circa 1156 fuochi, cioè 5780 abitanti; di questi morirono 1190, di cui 538 maschi, 647 donne e 15 frati. Il terremoto si sentì anche nei paesi limitrofi; a Feroleto diverse case caddero per le continue scosse e nei casali di Gizzeria e Zangarona molte persone si salvarono, alcune perché nei campi, altre perché le misere casupole, costruite con materiale povero, non furono di peso sui poveri corpi di chi si trovava dentro, quasi che il terremoto avesse voluto salvare l’innocenza della gente umile. Castiglione al tempo era in condizioni di estrema povertà ed il terremoto aggravò la situazione già precaria degli abitanti. Il borgo a cui solo la natura riservava un aspetto piacevole, proprio perché baciato dal sole e lambito da un mare azzurro, apparve d’un tratto malinconico.

174 A. Raffaele: Art. cit.

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Il piccolo gioiello che la famiglia d’Aquino vantava fra le sue proprietà e “la facea dilettevole ...(vista)... ai riguardanti”175, come riferisce Agatio di Somma, improvvisamente si ridusse ad un’immensa rovina ed in un istante si consumò nel castello quello che appena avrebbe potuto fare un lunghissimo corso di secoli. “Sovra quelle montagne,…dice ancora lo storico... che ordinate si stendon sulla marina alla volta dell’occidente, prima di tutti mi si para d’avanti agli occhi Castiglione che pure atterrato in tutto, dove rimasto in pendenti ruine, fa miserabil vista”. Una cronaca dell’epoca così riporta: “Castiglione della Marina è anch’egli caduto tutto, sentendosi salvati solo li Padri Agostiniani Scalzi, con alcuni pochi habitanti che si trovavano in campagna”176 ed in un inventario fatto dai d’Aquino in quel periodo, si legge che il castello, pur dopo il sisma, ebbe una rendita di 3000 ducati l’anno, cifra ancora notevole, se si considera che Feroleto riusciva a darne solo 546 e Martirano, una cittadina certamente grande, appena 350. Il maniero inoltre risultava ben guarnito, si trovarono infatti in esso “dodici maschi e diece archibugi”177 e nei sotterranei 10 botti di polvere da sparo, cioè sei grandi e quattro piccole “vacui”. All’interno vennero trovati due pezzi di artiglieria, mentre sul piazzale davanti alla Chiesa di sant’Antonio vi era il pezzo grande. Di tutto ciò non rimase più nulla ed Ettore Capecelatro 178 scrisse nella sua relazione: “Questa terra è tutta disfatta e particolarmente aperto il castello. Desiderano che la Torre di Guardia si trasferisca per guardare anche la marina”, infatti si temeva che le continue le incursioni saracene ora potessero aumentare nel disastro generale, cosa che accadde il 20 giugno successivo, qualche settimana dopo il 175 Agatio di Somma op. cit. pag. 50 176 M. Folino Gallo: Monografia di Falerna e Castiglione Marittimo. 177 R. Donato-G. Russo: op. cit. pag. 149. Gli archibugi erano armi da fuo co portatili. 178 Ettore Capecelatro era un funzionario di Ramiro Nugnez de Guzmàn, duca di Medina e Viceré spagnolo di Napoli, il quale dopo il terremoto del 27 marzo 1630 fu inviato in Calabria p er rilevare i danni e trovare le giuste soluzioni. La sua relazione è riportata da Lutio d’Orsi nella sua op era: “I Terremoti delle due Calavrie”.

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terribile evento sismico, quando nuove orde sbarcarono sulle coste raggiungendo la città di Nicastro e saccheggiandola. La popolazione in preda alla disperazione cominciò a cercare nuovi ripari, ma il Capecelatro come primo atto legislativo, minacciando gravi sanzioni, stabilì: “nessuno ardisse partir dalle loro terre e che quei ch’eran partiti ritornassero a stanziarvi, assicurandogli di presta e buona provisione del Sig. Viceré…di gran servizio a Sua Maestà che non si spogliassero affatto paesi tanto fertili”. 179 Sulla marina di Castiglione vi era l’alloggio ordinario dei militari, che erano di sorveglianza alla Dogana,180 e sul torrione dell’edificio vi era un altro pezzo di artiglieria, mentre nelle camere furono rinvenuti sei letti “che alloggiavano li passeggieri” con un materasso vecchio per letto e lenzuola senza coperte “linzola senza sproveri181. I morti in tutto il territorio furono circa 3500, molti si salvarono perché contadini che, come già detto, sparsi nei poderi, erano impegnati a lavorare la terra; le abitazioni distrutte invece, secondo la stima del Capecelatro, furono oltre 10.000 ed ancora più di 3.000 quelle rese inabitabili. Nei giorni seguenti, la terra continuò a tremare, anche se le scosse non procuravano più gravi danni, ma solo paura e sgomento, mentre da ogni parte tutto era ridotto ad un cumulo di macerie sulle quali si cominciarono a riversare terribili tempeste. Sulle montagne si videro condensarsi nuvoloni neri e si alzò un vento fortissimo che, raggirandosi per l’aria, di notte, nel silenzio tombale procurava paure terribili perché trascinava dai boschi grossi rami per i campi e fra le rovine di quelle che erano state le abitazioni. La Cattedrale di Nicastro, fatta erigere dalla principessa normanna Eremburga nel 1114 e consacrata da papa Callisto II 179 L. d’Orsi op. cit. pag. 60. 180 Lo studioso del luogo Mario Folino Gallo sostien e ch e la Dogana si trovava presso l’attuale Villa Ventura. 181 R. Donato-G. Russo: op. cit. pag. 149.

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nel 1121 fu rasa al suolo e con essa crollarono il convento delle Clarisse, quello dei Domenicani e la Chiesa dei Cappuccini. Lo stesso vescovo di Nicastro, Marcantonio Mandosio, fu talmente impaurito che decise di partire per Napoli, ma, giunto nei pressi di Martirano, fu rimproverato dal prelato del luogo ed invitato a tornare indietro, per dare conforto alla popolazione sopravvissuta e rimasta priva anche del necessario. Luca Cellesi, il vescovo di Martirano, ferito nel crollo del palazzo vescovile si rifugiò a Pedivigliano e spinse la sua gente a fuggire sui monti, ritenendola lì più sicura, poi nella relazione ad limina dell’anno successivo denunciò la tragica riduzione della popolazione della sua terra passata da 12.000 a 6500 abitanti. A Nicastro il sindaco Prospero Nobili ed il Governatore fecero il possibile per aiutare i superstiti e per prima cosa dettero degna sepoltura ai morti rimasti sotto le macerie. La principessa Laura d’Aquino, ormai sola ed in preda alla paura si allontanò con la piccola Cornelia da quel luogo di dolore e si rifugiò a Nicotera, dove il 24 giugno dette alla luce Giovanna Battista, come da atto notarile dello stesso anno, i cui alla data del 12 luglio si legge: “D. Laura de Aquino principessa di Castiglione expone a V.E. come essendo nelli terremoti de Calabria morto la bona memoria del principe suo marito ci restò superstite D. Cornelia de Aquino loro comune unica figlia ed essa supplichevole gravida dei sei mesi e sperando che il ventre dovesse uscire figlio mascolo e soprisedi de far dichiarare herede detta D. Cornelia , et fare il necessario spedire il baliato in persona di essa supplichevole servata la forma del testamento del detto quondam suo marito, et essendo piaciuto a Nostro Signore che a dì 24 del passato mese di giugno abbi partorito figlia femmina.” Nel documento, riportato dallo storico A. Raffaele si evince che la principessa dichiarò di voler far eseguire le ultime volontà del marito don Cesare, il quale nel suo testamento le aveva esposte in questi termini: “Io D. Cesare d’Aquino Principe di Castiglione e Conte de Martorano sano per grazia de Dio di corpo di mente et intelletto volendo dei miei beni disponere cassando ogni altro testamento, codicilli, disposizioni et donationi…fatte l’anni passati causa mortis tanti in beneficio de la signora D. Laura d’Aquino Principessa di Castiglione mia moglie, quanto in

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beneficio del Signor D. Giovanni e Francesco d’Aquino miei fratelli et del Signor D. Thomaso d’Aquino Principe di Santo Mango mio zio et socero, et di suoi Signori figli miei cognati et fratelli,...fo’ lo presente mio in scritto, chiuso et sigillato testamento…Raccomando l’anima mia a l’onnipotente Iddio et alla Gloriosa Vergine Maria Sua Madre…et quando passerò da quegli a meglior vita , voglio che il mio corpo, morendo in Napoli sia sepolto nel Ecclesia de la casa professa de Padri Gesuiti di questa città de Napoli…ne la cappella dove sta sepolto lo cadavero de la bona memoria del Signor Carlo d’Aquino principe di Castiglione mio padre…io Don Cesare d’Aquino principe di Castiglione testatore instituisco et con la mia propria bocca nomino, et fo’ mio herede universale et particolare il mio prossimo et immediato successore che si ritroverà superstite a tempo de mia morte sopra tutti miei beni…per detto mio herede quale mio prossimo et immediato successore da me instituito herede universale…che sia figlio mascolo , voglio che in tal caso de miei beni et ragioni se diano a D. Cornelia d’Aquino mia figlia nata da me predetto testatore et dalla Signora D. Laura d’Aquino Principessa di Castiglione mia direttissima et amatissima moglie ducati trenta mila incluso in essi presenti trentamila il maritaggio de questi otto mila a detta D. Cornelia…et morendo il mio herede in pupillari etate nel quandocumque senza figli l’uno socceda al altro e morendo tutti, il che Dio non lo permetti, in detto caso ne li miei beni et raggioni tutte socceda lo più prossimo che al hor se ritroverà de casa d’Aquino de li Signori de Castiglione preferendo il mascolo a le femine , et li primogeniti et descendenti…et caso che predetto Principe testatore moresse senza figli mascoli, lascio a detta D. Cornelia o quella figlia femina che se ritroverà…voglio per eliggersi per detta mia figlia per marito uno de la casa mia d’Aquino descendenti da li Signori di Castiglione et lo più prossimo o quello che a lei parerà lasso a detta mia figlia nel caso predetto altri ducati ventimila de più de li detti docati trentamila perché così è mia volontà…Itam lasso a la detta Signora Principessa de Castiglione Donna Laura de Aquino mia direttissima et amatissima moglie le sue doti... et più docati seimila per amorevolezza et guardando detta Signora Principessa il letto viduale la lasso balia, tutrice et pro tempore curatrice dei miei figli con che non possa fare nessun contratto di compra vendita, affitto o transazione, ne affrancatione senza la consulta parere, et consenso in scriptis del Sig. Dott. Thomaso d’Aquino, et anco lasso a detta Signora Principessa di Castiglione guardando però il letto viduale

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…per l’ alimenti suoi et di detti nostri figli ducati tremila l’anno insino che detti nostri figli saranno di anni 12 et dopo che saranno di anni 12 insino agli anni 18 siano annui docati cinquemila…Item voglio che subito che seguita mia morte se debbino celebrare mille messe de requie per l’anima mia in altari privilegiati di quelle chiese che pareranno alli Signori executori di questo mio testamento…et quando succedesse la morte di me testatore in Napoli in tal caso voglio che la celebrazione di dette mille messe se debbia fare cioè 500 di esse in altari privilegiati di quelle chiese de le mi e terre che a detti Signori executori pareranno et l’altre 500 in altre chiese di questa città che pareranno a detti Signori executori…Item lasso al Signor Dott. Thomaso d’Aquino mio zio per annum docati 2000 per una volta tantum…Item voglio che ne la chiesa dove si asporterà il mio corpo si debba celebrare una messa perpetua il giorno per l’anima mia, per la celebrattione de la quale lasso l’elemosina necessaria et morendo in Napoli detta messa se debba celebrare nel ecclesia dove il mio corpo sarà sepolto loco depositi insino a tanto che detto mio corpo sarà portato in Calabria come sopra.”182 Dal testamento si evince l’attesa di don Cesare di un figlio maschio venturo e la necessità che la figlia sposasse un principe della stessa Casa di Castiglione per evitare che i beni andassero dispersi. Il suo legame alla terra di Calabria traspare chiaramente dalle righe, dove esprime la volontà di lasciare 1000 ducati ciascuno alle terre di Nicastro, Martirano, Castiglione, Conflenti, Motta S. Lucia e Feroleto, concludendo lo scritto con il desiderio di essere sepolto a Napoli e ricevere in suffragio per la sua anima la celebrazione di 500 Messe sugli altari principali delle Chiese più importanti di quella città, oltre che altre 500 in quelle di Nicastro. Forte è pure il legame verso lo zio e suocero don Tommaso, per il quale nutriva una profonda stima, tanto da volerlo partecipe, dopo la sua morte, dei problemi economici e sociali del feudo. La vedova donna Laura eseguì le volontà del marito e con Prospero di Trapani, sindaco del tempo, e un certo Pagliaro, governatore della città, si impegnò alla ricostruzione di Nicastro; vendette così il palazzo ormai rovinato e sito in località Cultura e 182 A. Raffaele: SASLT (Sezione Archivio di Stato di Lamezia Terme), Notaio Mazza Pietro, anno 1606.

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provvide a farne costruire uno nuovo sempre nella stessa zona, poi ricostruì la Chiesa di San Domenico che fu completata nel 1650. Lasciò ancora che il padre Don Tommaso iniziasse la valorizzazione dell’intero territorio mediante il lavoro di recupero e di ricostruzione negli altri paesi del feudo, vendendogli nel 1639 la terra di Savuto tramite il Dr. Baldacchino; poi rimasta curatrice dei beni a nome delle figlie, fece redigere un inventario di quanto era rimasto nel castello dopo il terribile terremoto, ordinando di salvare dalle macerie quanto fosse possibile. L’11 aprile 1639 il papa Urbano VIII nominò nuovo vescovo della città Giovan Tomaso Perrone, discendente da una nobile famiglia di Rossano, il padre infatti era Giovan Battista Perrone, Conte Palatino del Sacro Romano Impero, la madre era la baronessa Laura Toscano, la cui famiglia godeva degli onori del “Sedile” dei nobili patrizi di Cosenza.183 Il prelato rimase colpito dalla disperazione, dai lutti e dalla miseria che regnava nella città e con animo generoso, ebbe come primo pensiero cercare del denaro per aiutare la sua popolazione. Chiese aiuto allora alla sua famiglia che vendette alcuni terreni di proprietà, ricavando la somma di 18.000 ducati, una cifra enorme, con la quale il vescovo contribuì alla ricostruzione della città, ma soprattutto allestì mense per i poveri per il consumo gratuito dei pasti. Poi volendo ricostruire la Cattedrale ed il Palazzo episcopale, cercò un nuovo sito, che individuò in un luogo adiacente a quello che oggi è il corso Numistrano, ed acquistò il suolo dai principi d’Aquino. Questa forma di solidarietà nel risolvere i problemi della città permise alle due forze, feudale ed ecclesiastica, di avvicinarsi e superare le vecchie contraddizioni, così la prima pietra del nuovo edificio religioso venne posta il 3 giugno 1640, giorno della SS Trinità, e nel 1642 si conclusero i lavori strutturali di quella che 183 Il Sedile d ei nobili patrizi era un Collegio di nobili, riconosciuto d al sovrano, ch e costituivano il patriziato più antico.

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ancora oggi è la terza Cattedrale, dopo la prima bizantina e la seconda normanna.184 Nel Foglio mensile “Senza Titolo” del settembre 1992, edito dall’Oratorio della Cattedrale e ricavato da un documento privato della famiglia La Scala, si legge un testo del 1640, riportato dal Decano Verardi, il quale descrive il clima di festa esistente a Nicastro in quel giorno particolare: “…Il 3 giugno 1640 si pose la prima pietra alla pianta del nostro Vescovato di Nicastro da Monsignor nobile Giovan Tomaso Perrone, Vescovo di questa città, nel giorno della SS Trinità, con solenne processione di tutti i religiosi e le confraternite e con l’assistenza di tutto il Capitolo. Padre Agazio, cappuccino di Nicastro ,con un sermone declamato in latino, ed il sig. Decano con un discorso pieno di eloquenza in lode di Mons. nobile Giovan Tomaso Perrone, che con grande impegno e denaro proprio, incominciò la costruzione di quella Cattedrale. Vidi i principi d’Aquino, che donarono a Mons. Perrone un cavallo baio, e tutta la nobiltà e i cittadini che inneggiavano al Vescovo. C’erano 10 guerrieri con trombe a archibugi, che sparavano in segno di giubilo. Vidi il Vescovo di Martirano Mons. Cellesio. Poi è sopraggiunto un gran temporale e tutti sono fuggiti, cercando riparo sotto gli alberi della piazza di sotto della Coltura. La figlia del principe, principessa Paolina, nel fuggire si è rotta una gamba, mentre cercava rifugio nel vicino palazzo Colelli, sulla strada di sotto, da poco riparato dal terremoto……”185 Il 22 agosto 1646 la principessa Laura d’Aquino ottenne il permesso di allestire un oratorio privato nella sua abitazione, si trattava della massima onorificenza il pontefice potesse concedere a personaggi di spicco, derivante da quell’antico privilegio definito “dell’altare portatile”. Un codicillo annota l’evento: “Pro N.M. Laura d’Aquino, vidua Principissa terrae Castiglione (marittimo), Tropien Dioc. Indultum oratorii privati in sua domo dictae terrae, suae iurisdictionis temporalis. Dat Rome apud S. Mariam Maiorem, sub annulo pisc., die 22 184 Don Maurizio Perrone b arone di Sellia: “ Note Storich e della mia famiglia”. Archivio Privato. 185 Don Maurizio Perrone b arone di Sellia: op. cit.

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Augusti 1646. An.2=Spirituali consolationi, ibidem –f.359 al f.467 la supplica.” 186 (A favore della N.M. Laura d’Aquino, principessa vedova della terra di Castiglione (marittimo), della Diocesi di Tropea. Viene accordato il permesso di un oratorio privato nella sua casa di detta terra, della sua giurisdizione temporale. La concessione viene conferita a Roma nella Basilica di S. Maria Maggiore, con sigillo pontificio del 22 agosto 1646. An. 2=per consolazione spirituale, nello stesso registro f.359 al f.467 è riportata la supplica.) Il 1647 fu segnato a Napoli dalla rivolta di Masaniello che ebbe ripercussioni, seppur lievi, nelle terre dei d’Aquino, così anche a Nicastro ci fu una ribellione popolare avviata da un artigiano di nome Domenico Toscano, il quale di ritorno da Napoli riferì gli eventi accaduti, istigando gli animi contro il funzionario spagnolo del governo napoletano Carlo Alopez, residente proprio nella città di Nicastro. Per qualche giorno ci fu il timore di una insurrezione violenta, infatti l’Alopez fuggì a Tropea, mentre il vescovo Perrone, dopo un tentativo di sedare gli animi in tumulto, si rinchiuse con gli altri ecclesiastici nel palazzo vescovile e la stessa cosa fecero i notabili della città che, impauriti dagli echi di quanto accadeva nella capitale del Regno, rimasero fermi per qualche tempo nelle loro abitazioni. Non ci furono tuttavia atti di particolare impeto contro i nobili locali, la rivolta di Nicastro fu solo apparente e si esaurì nel breve giro di qualche giorno, dal momento che il popolo riteneva solo gli spagnoli causa della miseria e del degrado dell’intera città. Donna Laura ottenne dal re che l’antico titolo di Principe di Santo Mango, già concesso a suo padre il 4 settembre 1623, venisse legato alla terra di Medina Nova in Calabria Citra, da poco edificata nei feudi del marito, che si doveva chiamare Santo Mango, ed ottenne il privilegio in data 16 febbraio 1675. La Principessa sopravvisse al marito per molti anni, infatti morì il 17 agosto 1679 all’età di 67 anni, come da postilla di un documento di Archivio, relativo all’anno suddetto e riportato 186 Padre Fran cesco Russo: Regesti Vaticani. Cod.35002 d el 22/08/1646.

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dallo studioso Antonio Raffaele: “In questo mese d’agosto morì la Signora principessa di Castiglione vecchia”.

San Teodoro: Primo nucleo abitativo della città di Nicastro ora Lamezia Terme (CZ). Foto e Rielaborazione di Rosario De Vito. Cornelia, 3° principessa di Castiglione Delle due figlie della principessa Laura, la primogenita Donna Cornelia ereditò le terre di Castiglione, Martirano e Nicastro, con documento del 25 maggio 1639, e con lei il feudo cominciò ad estendersi in linea femminile. Il primo aprile 1642, a circa 13 anni, età consueta in quel tempo, sposò Don Filippo II Gaetani, figlio di don Francesco, duca di Sermoneta, e di donna Anna Acquaviva d’Aragona, principessa di Caserta. Il giovane, di famiglia assai nobile, era un uomo eccezionale, dice il De Lellis, sia per gli altissimi pregi, derivati dal coraggio, quanto anche per i meriti straordinari del sapere.

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Con il matrimonio Cornelia portava una dote che raggiungeva il valore di circa trentamila ducati, come da testamento paterno, e, allontanandosi dalla sua terra d’origine, cedette Feroleto e Serrastretta allo zio Giacomo, principe di Crucoli, mentre lasciò il governo del feudo di Castiglione alla mamma, donna Laura. Le nozze però si rivelarono di breve durata, la giovinetta infatti morì di parto a Roma il 14 gennaio 1644 all’età di appena 15 anni ed i beni passarono alla sorella Giovanna Battista, rimasta unica erede, come si legge in una cronaca del 25 giugno 1642, 187 riportata dallo studioso Antonio Raffaele: “D. Cornelia d’Aquino, primogenita di D. Cesare principe di Castiglione, la quale essendo morta giovinetta senza aver fatto figliuoli, successe a tutti li Stati della Casa d’Aquino D. Giovanna Battista sua sorella allora contessa di Martirano, oggi vivente.” Don Filippo, rimasto vedovo, prese in moglie donna Francesca de’ Medici, figliuola di don Ottaviano, principe dell’omonimo feudo parente del pontefice Leone XI, appartenente ad un ramo collaterale della potente e prestigiosa famiglia di Firenze. 188 Giovanna Battista 4° principessa di Castiglione Giovanna Battista, nata postuma il 27 giugno 1638, fu l’ultima nobildonna d’Aquino che visse stabilmente in Calabria con i titoli di contessa di San Mango, Martirano, Nicastro e Principessa di Castiglione con Privilegio datato 6 maggio 1647. Una serie di circostanze storiche e politiche avevano fatto perdere al borgo di Castiglione il privilegio del primato e la famiglia, già da qualche generazione, si era trasferita a Nicastro, la cittadina che offriva condizioni di vita più dignitose. Tuttavia, come spesso accade, il desiderio di migliorare la propria posizione sociale aveva spinto molti aristocratici, già dalla metà del XVI sec., a trasferirsi a Napoli, la capitale del Regno, che garantiva maggiori successi e conseguente prestigio sociale. 187 Qui c’è da credere che ci sia un errore, certamente deve trattarsi del 1643, come da Lib ro d’Oro della Nobiltà Mediterranea ch e pone la data di morte della Prin cipessa Corn elia proprio il 14 gennaio 1643. 188 De Lellis, op. cit., pag. 207.

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Partecipare al fasto della corte napoletana comportava però un aggravio economico a cui non sempre le famiglie, pur se nobili, potevano far fronte; le spese aumentavano e di pari passo si contraevano debiti che diventarono la causa della crisi dei potentati locali, così i feudi venivano venduti o pian piano abbandonati, passando nelle mani di amministratori che dettero origine ad una nuova classe dei possidenti. Giovanna Battista d’Aquino fu una delle poche nobildonne che volle rimanere nella sua terra ed insieme alla madre donna Laura impegnò molte risorse per fronteggiare lo spopolamento delle sue campagne, ma ebbe attenzione anche per i nuovi centri abitati che sorgevano; gestì i terreni fertili di Castiglione e la produzione di grano e cereali che in gran quantità giungevano fino a Napoli, facendo così del commercio una delle fonti di guadagno. Nel 1648, dopo dieci anni dal sisma, Castiglione stava a stento risalendo la china, il borgo aveva raggiunto il numero di 213 fuochi, formati da famiglie composte da braccianti agricoli; in molti casi nel nucleo lavorativo erano compresi anche i bambini ai quali veniva negata la fanciullezza dai padroni che pretendevano il lavoro assiduo ed una produzione sempre più proficua dei grani alimentari. Fatica e fisco andavano di pari passo, i signori sfruttavano gli operai, come cosa ovvia, e contribuivano così a generare una miseria sempre maggiore. Se i potentati creavano la loro ricchezza sul lavoro dei sudditi, questi vivevano nell’ignoranza e nell’indigenza più totale per mancanza di igiene e di un adeguato vitto, così nel 1656 tutto il Regno di Napoli dovette far fronte ad una nuova epidemia di peste che decimò ancora gli abitanti. La sciagura colpì anche la Calabria, ma soprattutto le province di Cosenza e Catanzaro, dove le perdite umane furono calcolate intorno ad un quarto della popolazione e nel piccolo borgo di Castiglione rimasero in vita pochi nuclei familiari, resi ancora più miserabili dalla sfortuna e dal carico di un malessere sempre più grave.

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La disperazione era totale, si cercarono le cause del male e fra il popolo si diffuse la voce che il contagio fosse stato propagato da una calzetta di seta rinvenuta da un uomo sulla spiaggia per caso o, secondo alcuni, perché postavi volutamente. Si gridò all’untore, ci furono timori di violenze e complotti che misero in evidenza le gravi forme di malcontento che fecero temere il peggio. Una contraddizione di fondo si evidenziava nella società, infatti, se le masse popolari erano sofferenti nella miseria, il feudo di Castiglione era pur un territorio fertile e redditizio, produceva in abbondanza generi di prima necessità e gran parte del rifornimento annonario della Capitale del Regno era nelle mani dei signori d’Aquino, come appare da un documento dell’epoca in cui alla principessa Laura per ben due volte, nel 1659 e nel 1661 fu accordato “il permesso di estrarre dalla regione grandi quantità di granaglie...per un totale di 16 mila tomoli destinati all’annona di Napoli”.189 Nel 1659 dunque il territoriorio, pur se appena uscito da quella epidemia, riusciva a produrre gran quantità di “granaglie”, anche se la manodopera scarseggiava, come si evidenziò nel 1669 nel nuovo censimento ordinato dal governo in cui risultarono esservi nel castello solo 149 fuochi. Ma il disagio colpiva anche l’aristocrazia che viveva in uno stato di ansia, ricordando come nel 1647 la rivolta di Masaniello fosse nata dall’esasperazione delle classi più umili, rendendosi sempre più conto che bisognasse restare ben uniti al potere centrale della Corona. Questa dal canto suo, riscuotendo anch’essa dalle terre i benefici delle tasse, volle assicurare ai feudi una continuità dinastica,“così nel 1655 il Viceré conte di Castriglio estese la successione femminile nei feudi, in mancanza di discendenza maschile, fino alla quarta generazione.”190 La principessa Giovanna Battista godette di questo privilegio e, per non alienare i beni, anzi per ingrandire maggiormente il feudo 189 F. Cozzetto: “Città di Calabria e hinterland nell’età moderna”, pag. 246. 190 F. Cozzetto, op. cit. pag. 245.

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di Castiglione, contrasse due matrimoni con consanguinei della sua stessa famiglia, come il padre aveva suggerito nel suo testamento. Il 20 aprile 1651 all’età di 13 anni fu data in sposa allo zio trentaseienne don Cesare d’Aquino, principe di Pietralcina, figlio di don Giovanni fratello del nonno Carlo 1° principe di Castiglione,191 che dal 1626 vantava il titolo di Principe del S.R.I e militava nelle Fiandre come Capitano di una propria cavalleria spagnola. All.I

I tempi erano cambiati e Castiglione aveva perduto l’importanza politico-strategica che l’aveva sempre contraddistinta, lasciando il testimone alla vicina Nicastro192, tuttavia i principi d’Aquino, pur nella nuova sede, condividevano con gli abitanti il profondo senso religioso fatto di devozione e mistero che spingeva ad offerte votive, capaci di unire tutti in una comunità d’intenti che suggellava quasi un patto col divino.

191 Don Cesare era il p rimogenito di ben 14 figli: Fran cesco Cesare (*1612), Giuseppe Girolamo (1613-1621),Giuseppe Fran cesco (*1614), Cesare suddetto (*1615-1668), Giuseppe Tommaso (1616-1621),Fran cesco (1618-1673), Tommaso (1619-1630), Ottavio (*1620), Giuseppa (*1622), Girolamo (16241690), Luigi (1626-1634),Giusepp e Nicola (*1628), Carlo (1629-1634), Livia (1630-1703). V. Lib ro d’Oro d ella Nobiltà mediterranea. 192 Nicastro fa oggi parte del comune di Lamezia Terme (CZ), nata appunto dall’unione dei tre comuni di Nicastro, Sambiase e Sant’Eufemia Lamezia.

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In questa visione celebrativa dell’incomprensibile nel 1 663 si divulgò la notizia che la Madonna “circondata di vivida luce”193 fosse apparsa ad un pastorello, mentre pasceva il suo gregge nelle campagne di Castiglione, e gli chiese di recarsi dal sacerdote del posto a suo nome, per convincerlo ad edificare nel punto dell’apparizione una chiesa. Il fanciullo rimase sbalordito e non credette ai suoi stessi occhi, pensando dunque di aver avuto un’allucinazione, cercava di dimenticare l’accaduto. In una seconda apparizione la Madonna lo rincuorò, invitandolo ad aver fede e spingendolo a recarsi dal sacerdote del borgo: “...dirai al parroco che io voglio qui edificata una chiesa e quando si darà principio al lavoro, tu guarirai del tuo male. Io sono la Madonna della Scala”194. Questa volta il fanciullo, che soffriva enormemente per una fistola all’ombelico, obbedì e si recò dall’arciprete di Castiglione, un certo Teodosio Viterbo, che riferì l’accaduto al vescovo e questi con una bolla emanata nello stesso anno dette l’approvazione alla costruzione della chiesa di Maria SS della Scala, sotto la protezione di San Francesco da Paola e Sant’Antonio da Padova. Come promesso,il miracolo seguì l’evento delle apparizioni ed il ragazzo guarì immediatamente, mentre la Chiesa diventò meta di pellegrini che da tutte le terre del circondario andavano a chiedere l’intercessione della Vergine; la Madonna della Scala cominciò così ad essere venerata con grande fervore ed ai suoi piedi venivano lasciati ex voto e doni molto preziosi. Nel 1664 la principessa Giovanna Battista subentrò nel principato di Feroleto allo zio Giovanni d’Aquino, altro fratello del padre che reggeva il feudo insieme al fratello Francesco, ed i beni in Calabria, furono radunati sotto la sua giurisdizione e, perché venisse legalmente riconosciuto il suo diritto, presentò richiesta agli ufficiali delle città di Nicastro e Martirano: “che immettano essa comparente nella possessione di detti beni rimasti nella heredità dell’Eccellentissimo Principe di Feroleto”. 195 193 Il ricercatore Mario Folino Gallo riferisce ch e la leggenda è riportata in un antico do cumento. 194 M. Folino Gallo: op. cit. 195 R. Donato – G. Russo: op. cit. p ag. 151.

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Il matrimonio di Giovanna Battista terminò il 26 marzo 1668, dopo 17 anni, quando il principe consorte all’età di 53 anni venne ucciso a Napoli presso Port’Alba, e la giovane vedova, appena trentenne, si risposò il 17 giugno dello stesso anno con il trentanovenne Luigi d’Aquino, cugino in terzo grado per parte paterna196. All. L

Luigi era figlio di Violante della nobile famiglia Valignani, originaria di Chieti che, trasferitasi a Napoli, era entrata ben presto nella stima dei sovrani che la inserirono nella nobiltà 196 Don Luigi d’Aquino di Landolfo e Violante Valignani morì n el 1697, come da Libro d’Oro della nobiltà mediterran ea. Era il pronipote di Antonio, uno dei figli di Luigi 2° d’Aquino, 9° baron e di Castiglione.

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partenopea. Violante, dopo il suo matrimonio con Landolfo d’Aquino, andò a vivere nel palazzo del principe di Castiglione a Napoli e viene ricordata anche lei come una donna molto devota, tanto da essere annoverata fra i testimoni di rilievo nel processo di beatificazione di San Camillo de Lellis.197 Infatti nel “Processus Neapolitanus”, che si tenne nella capitale del Regno 12 anni dopo la morte del Santo, è registrata la deposizione che la nobildonna, allora venticinquenne, rese il venerdì 3 luglio 1626, descrivendo dettagliatamente quanto le era accaduto due anni prima in occasione della sua seconda maternità. Terrorizzata dal precedente parto, che si era concluso con la morte del piccolo, e sapendo che il bimbo che portava in seno sarebbe nato nel mese di luglio, affermò in sede processuale che in ogni momento della sua giornata pregava perché la nascita avvenisse nel giorno in cui si commemorava “il transito al cielo” del santo conterraneo, “asicurandomi che se fusse succeduto così saria figliata senza dolori e felicemente”.198 Consultata la “mammana” il mattino del 14 luglio, dopo una notte in cui si erano manifestati i primi dolori pre-parto, fu rassicurata che il nascituro sarebbe venuto alla luce non prima di otto giorni, ma Violante non convinta, testimoniò: “…mi vestij et andai in caroza nella Chiesa di detto Padre, dove feci un poco d’Oratione con raccomandarmi à detto Padre, dopo m’alzai et il Padre Zaccaria mi fece vedere la Chiesa, e poi mi fece vedere il “Cuore” di detto Padre Camillo qual io per divotione me lo feci applicare sopra del ventre, e non mi sortiva alcun segno di partorire, et postami in caroza per la via mi soggiunse una letitia grande conoscendo che voleva partorire, et dissi alla Sig.ra Giulia d’Aquino che stava con me, andiamo presto che voglio partorire, et giunta in casa salij da me le scale senz’alcun dolore, e dopo due ore io partorij un bello figlio masculo con pochissimi dolori con meraviglia di tutti, che non credevano che dovesse uscire così presto da fastidij, havendo havuto l’altro parto fastidiosissimo, et io lo tenni per miracolo grande perché partorij subito e senza dolori, e di detto 197 Il P. Felice Ruffini, camilliano, ripo rta la vicenda ritrovata nel “Pro cessus Neapolitanus” del 1626. 198 P. Felice Ruffini, Pr. Neap. f. 314t.

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giorno tanto bramato dà me, et per divotione à di detto Padre li posi nome à detto mio figliuolo Alessandro Camillo il quale hoggidì vive”. 199 Il nobile Luigi d’Aquino era il fratello di Alessandro, discendeva anche lui da Luigi II d’Aquino, 9° barone di Castiglione, e, divenuto principe consorte di Giovanna Battista, si trovò subito a dover provvedere al feudo acquisito e far rinascere quelle terre di Calabria che ancora una volta risentivano del nuovo terremoto che nello stesso anno 1668 aveva sconvolto le popolazioni, procurando ancora danni ed aggravando una situazione già precaria. Così nel 1669 fece riedificare il castello di Castiglione ed irrobustì le mura che diventarono più massicce, tanto da farne un complesso militare imponente e fra i più importanti della zona. Rinforzò la marina con un presidio di guardie costiere a cui pose a capo il caporale Giuseppe de Gattis nella postazione di Torre di Rupe,200 che continuava ad essere il baluardo di avvistamento di enorme importanza, e che con il suo interno costituito da “una cameretta quadrata di 3,20 m. di lato… Lo spessore del muro è di m. 2,50. La base misura all’esterno m. 8”201 in cui ospitava i militari, contrastava i nemici provenienti dal mare. La vita della famiglia d’Aquino si svolgeva così fra le consuete pratiche militari, portate avanti dagli uomini del casato, e le occupazioni domestiche delle nobildonne, che curavano molto anche lo svolgimento assiduo delle attività religiose. Giovanna Battista, educata in quest’ambiente, mantenne sempre viva quella fede che si risolveva spesso in doni di enorme pregio, offerti alle comunità ecclesiastiche. E’ stata tramandata la grande venerazione per San Domenico, il cui simulacro era esposto ai fedeli nel Santuario di Soriano, dove il popolo giungeva da ogni parte della Calabria, facendo del luogo il 199 P. Felice Ruffini, Pr. Neap. F. 315. 200 A. Cario: “ Le Origini di Falern a nella seconda metà del Seicento” in Storicittà Genn. Febbr. 2013. 201 Fran cesco Cataudo: “La costa lametina ed i suoi sistemi difensivi” da Vittorio Faglia: “Tipologia d elle torri costiere di avvistamento e segnalazione in Calab ria Citra e in Calabria Ultra dal XII secolo”, pag. 346.

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più visitato ed il più ricco non solo di tutta la regione, quanto anche del Regno. San Domenico infatti era la figura di riferimento a cui la famiglia d’Aquino si ricollegava proprio nel ricordo dell’avo Tommaso, così quando nella metà del 1600 proprio Domenico fu proclamato Patrono del Regno di Napoli, la notorietà del Santuario calabrese divenne ancora più di rilievo e più diffusa. Nel 1675 donna Laura regalò allora ai monaci di Soriano “una cortina di ricamo”202 con l’effigie del Santo Patriarca nel mezzo ed allo stesso modo la figlia Giovanna Battista, ne offrì una con la Cappella del Santo stesso ricamata nel centro; entrambe lo celebravano nella ricchezza degli ori e nella magnificenza dei ricami, tali da destare profondo rispetto nei confronti dei nobili donatori. Nessuno aveva mai visto drappi così belli! Il 1675 fu inoltre un anno di giubilo particolare per la città di Nicastro, infatti venne inaugurata la cattedrale e le principesse donna Laura d’Aquino e la figlia Giovanna Battista, chiamata affettuosamente donna Betta, parteciparono all’evento nel tripudio popolare. Era presente tutta la nobiltà della Calabria, come si legge nella nota storica del decano Canonico Francesco Verardi: “...nell’anno sesto del pontificato di Clemente X.., Giovan Tomaso Perrone della città di Rossano, Calabria Citra, Vescovo di Nicastro, nell’anno settuagesimo terzo della sua età e trigesimo sesto del suo presulato, a primo settembre dell’anno e giubileo del 1675 consegnò la suddetta sua Chiesa Cattedrale edificata come sopra e finita sotto il titolo di Pietro e Paolo Apostoli, con l’assistenza di tutto il clero e i cittadini. Era presente il sindaco Angelo Colelli e donna Betta d’Aquino, principessa di Castiglione e contessa di Feroleto, donna Laura di San Mango, don Domenico conte di Martirano con don Carlo e figli, il maggiordomo Mariano Del Turco. Vidi il conte di Monteleone con la sorella madre Antonia, Badessa del convento dei poveri della Vicaria …Tra i presenti era pure il fratello germano del Vescovo, Marc’Antonio Perrone,

202 A. Lembo: “Croniche del Convento di San Domenico in Soriano”.

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Abate del convento “Sant’Andrea delle Fratte” in Roma e Protonotaro Apostolico, uno dei sette alti prelati, componenti la famiglia papale,...”203 Così dopo 35 anni la Cattedrale si innalzò in tutta la sua sontuosità, accogliendo al suo interno, per la prima celebrazione solenne, un ingente numero di dignitari e di gente accorsa da ogni angolo del territorio, in un momento storico in cui ancora una volta la rivolta popolare contro gli Spagnoli imperversava a Messina. Qui infatti gli abitanti, angustiati dalle pessime condizioni di vita, sin dall’anno precedente avevano messo a ferro e a fuoco le case ed i beni dei nobili locali e dei senatori ed avevano chiamato in aiuto i Francesi che, nel raggiungere la Sicilia si erano fermati a Castiglione occupandola e seminando terrore e sventure. Il castello fu presto liberato dalle truppe spagnole venute per mare dalla vicina Nocera a portare aiuto alla guarnigione militare del principe d’Aquino, tuttavia il disagio fu ancora una volta notevole per una popolazione già provata, che pian piano cominciò ad abbandonare il luogo, determinando l’inizio della decadenza di Castel Leone che le cronache di Summonte avevano definito “buona et abbondantissima terra”.204 Una nuova calamità era infatti in agguato, infatti, a seguito di una violenta perturbazione atmosferica che portò scrosci di pioggia di forte intensità, il 18 ottobre 1683 il fiume Piazza esondò, riversando su Nicastro una mole immensa di detriti che si sparsero nelle campagne circostanti, distruggendo i gelseti e gli oliveti, immensa ricchezza della zona, e che, come riferisce il chierico Giacinto Colelli, erano: “speranza di alcun sollievo a nostre necessità, che non son di poche, non essendosi altro di preciso bene e d’industria nel nostro paese”.205 Le terre dei principi d’Aquino furono invase dalle acque, che danneggiarono un intero raccolto, mettendo in difficoltà tutte le famiglie di braccianti agricoli che ponevano sul lavoro le loro 203 Don Maurizio Perrone, barone di Sellia: op. cit. 204 A. Cario: “Le Origini di Falerna: il Settecento e i d’Aquino prin cipi di Castiglione” in Storicittà, marzo 2013. 205 F. Mazza: op. cit. pag. 122.

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misere risorse; così anche la raccolta delle olive, che si prolungava per alcuni mesi da novembre a febbraio e che dava la possibilità di un guadagno certo in una parte dell’anno abbastanza lunga, andò completamente perduta, gettando nella disperazione i contadini di Castiglione che non videro via d’uscita alla miseria sempre più schiacciante. Dopo circa un mese, nuovi temporali provocarono una nuova piena del fiume che, ancora una volta, inondò la cittadina di Nicastro, distruggendo quartieri, come quello di Terravecchia e Cavallerizza, e raggiungendo alcune chiese, come quella di Santa Croce e San Pietro in Vinculis.206 I danni furono immensi, i magazzini invasi dalle acque ed il numero elevato di morti gettò la popolazione nel lutto e nel dolore di aver perso tutto, così molti contadini presero la decisione di stabilirsi sulle montagne circostanti, dove si sentivano più sicuri, dando origine a nuovi agglomerati di case, destinati a diventare paesi. La famiglia della principessa Giovanna Battista di Castiglione fu numerosa, infatti ebbe dal primo marito don Cesare, quattro figli: Francesco nato nel 1652, ma vissuto appena un anno,morì infatti nel 1653; seconda fu Apollonia, nata il 19 febbraio 1654, la quale visse nel palazzo paterno fino all’età di 18 anni, quando, rinunciando alla successione, volle prendere il velo col nome di Suor Tommasa nella Chiesa della SS. Trinità di Napoli. L’edificio sacro, collocato nei Quartieri Spagnoli, centro antico della città, era fra i più eleganti, fondato nella metà del 1500 per volere della nobildonna spagnola Vittoria De Silva, che alla vigilia delle nozze con Emilio Caracciolo, conte di Biccari, preferì entrare nel monastero di San Girolamo delle monache, col nome di Suor Eufrosina. Desiderosa di un ritiro più consono alle proprie esigenze ed a quelle delle numerose fanciulle che si erano avvicinate a lei, col permesso del papa Clemente VIII iniziò nei primi anni del 1600

206 F. Mazza: op. cit. pag. 121.

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la costruzione della Chiesa, accanto alla superba abitazione del Viceré. L’edificio sacro fu poi ingrandito trasformando in monastero l’annesso palazzo Sanfelice e creando dunque un complesso immenso, circondato da giardini meravigliosi e scenografici posti su più piani, che piacevano molto alle famiglie aristocratiche del tempo. Il chiostro del convento poi era di una bellezza solenne con un solo porticato di 28 arcate, mentre, aperto negli altri tre lati, permetteva la vista spettacolare sulla città col mare e col Vesuvio. C’è da credere che la giovane Apollonia, rimasta orfana di padre all’età di 14 anni, abbia sentito il bisogno di ritirarsi a vita privata e nel 1672 alla sua richiesta di entrare in convento la famiglia cercò per lei il luogo più consono alle esigenze nobiliari. Così la principessa Giovanna Battista, certo presa dalla maestosità del luogo le permise di abbracciare la regola francescana, accanto a giovani consorelle tutte rigorosamente provenienti dalle famiglie più aristocratiche, che come lei godevano della “Nobiltà di Sedile”207, in quel monastero che si sosteneva economicamente con le doti cospicue portate dalle novizie, le quali comunque dovevano essere mantenute dai familiari con un vitalizio. Altra figlia era Antonia, la primogenita nata il 28 febbraio 1656, la quale all’età di sedici anni celebrò a Nicastro il suo matrimonio con Mario Carafa, duca di Ielsi, feudo del Molise; il giovane era il terzo figlio di Giambattista Carafa e Cornelia del Tufo, unico erede, in quanto il primo fratello Decio era morto celibe e il secondogenito Francesco aveva abbracciato la carriera ecclesiastica. Il matrimonio di Antonella e Mario fu celebrato il 23 giugno 1672, in un momento in cui tutto il territorio viveva ancora un periodo di disagio economico per il nuovo terremoto che si era avvertito quattro anni prima, nel 1668, e che aveva lasciato ancora una volta distruzione e dolore; sembrava che pure la natura volesse ribellarsi allo stato di angheria a cui la gente era 207 I “Sedili” o “Seggi” della città di Napoli erano delle Istituzioni i cui rappresentanti amministravano la città.

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sottoposta, quali la gravosità delle imposte, lo sfruttamento da parte dei signori e gli incessanti conflitti armati. Il peso del disagio si aggravò per gli abitanti con l’arrivo delle epidemie di peste e vaiolo, dovute alle condizioni igienicosanitarie assai precarie, che si aggiungevano alle malattie più comuni quali la malaria, la deformazione delle ossa, il tifo, la tubercolosi. Il sisma colpì soprattutto la zona centrale del Regno di Napoli, dunque a Nicastro i festeggiamenti per il matrimonio di Antonia furono certo imponenti, tuttavia gli abitanti del feudo molisano certamente fecero fatica ad allestire un apparato altrettanto gioioso per celebrare l’arrivo degli sposi novelli, perché, dopo la violenta epidemia di peste che anche qui aveva decimato i residenti, una nuova sciagura si era di recente abbattuta, gettando lo sconforto sul paese di Ielsi, quando il 22 marzo del 1672 la popolazione aveva subito l’attacco del brigante Cesare Riccardo il quale, alla testa di 60 malviventi, aveva incendiato molte abitazioni.208 La ricchezza ed il prestigio della giovane Antonia d’Aquino tuttavia aumentarono nel 1690 nel momento in cui ereditò dal padre il feudo di Pietralcina, divenendone signora e partecipando anche lei al sistema di governo del Regno di Napoli, con l’iscrizione alla nobiltà del “Seggio di Porto”, creato da Carlo I d’Angiò. Ultima figlia di Giovanna Battista fu Caterina, nata a Nicastro il 6 maggio 1657, la quale, appena tredicenne, nel 1670 si unì in matrimonio a Marcello Caracciolo, principe di Terranova e signore di Casalbore, nato il 3 maggio 1619; il nobiluomo aveva 51 anni, ma era figlio di Francesco Caracciolo e Cornelia Coscia, una famiglia dell’alta aristocrazia aggregata al patriziato del “Seggio di Capuana”. La vita coniugale di Caterina e Marcello si protrasse per circa 16 anni e nacquero 5 figli, dei quali il primogenito, come da legge nobiliare del tempo, ereditò il feudo, mentre delle tre figlie si sa 208 Archivio Storico per le Provin cie Napoletan e, vol. XIV, pag.294.

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che Isabella ed Ismara presero il velo, mentre di Porzia non si hanno notizie.209 Il principe Marcello morì il 29 ottobre 1696 e Caterina d’Aquino sposò Domenico di Sangro, primo principe di Castelnuovo, anche lui di famiglia nobile che vantava molti nomi fra i più illustri; il matrimonio, celebrato il 19 marzo 1699, fu sontuoso e la nobildonna fu accolta fra gli aristocratici appartenenti al “Seggio del Nido.” Dal secondo marito Luigi d’Aquino, la principessa Giovanna Battista d’Aquino ebbe due figli: Tommaso e Carlo; il primogenito Tommaso ereditò il feudo di Castiglione, il secondo, nato il 13 marzo 1670, ebbe il titolo di Patrizio napoletano, ma fu anche chierico a Roma ed ottenne a Nicastro il beneficio della Cappella nel Palazzo di San Tommaso, titolo a cui rinunciò nel 1699. Giovanna Battista, rimasta vedova per la seconda volta nel 1697, fu l’ultima nobildonna d’Aquino che visse stabilmente a Nicastro, la città a cui era profondamente legata, perché vi aveva trascorso la sua infanzia; qui custodì i ricordi della sua famiglia e qui morì il 26 ottobre 1711. La città di Nicastro era stata l’unica del feudo capace di soddisfare le esigenze di una vita principesca, ma il maniero di Castiglione, seppur non adatto ad essere abitato da una famiglia di alto rango, continuò anche per i discendenti a prestarsi per le attività militari, rimanendo sempre l’occhio vigile sul mare e sulla strada di collegamento con Napoli, la capitale del Regno; la sua importanza dunque restava integra, perché in esso i principi d’Aquino continuavano a vedere le radici della propria fortuna. In Castiglione era rimasto solo il castello che si ergeva maestoso sulla povertà degli abitanti e si affiancava allo splendore superbo degli arredi sacri che ornavano la Chiesa principale di Sant’Antonio, dove Mons. Ibànez de Arilla, vescovo di Tropea, nel 1698 aveva fatto confluire tutte le ricchezze provenienti dalle Chiese e dalle Cappelle minori, quali l’Annunziata, San Giacomo, e Santa Rosa. 209 Libro d’Oro della Nobiltà mediterran ea: I Caracciolo Pisquizi, linea antica.

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La dovizia di questi tesori proveniva non solo dagli ex voto, che il popolo offriva, pur nell’indigenza personale, quanto anche dai ricchi doni che i principi avevano elargito nel tempo e che costituivano il senso profondo di una fede fatta spesso di superstizione e di bisogno interiore alla ricerca di una condizione di serenità. Nicastro alla fine del 1600 era invece il centro nevralgico del feudo, dove la famiglia d’Aquino svolgeva la sua vita di società, praticava la giustizia, mantenendo il suo ruolo importantissimo dal punto di vista economico, ma alla morte della principessa perdette tale prerogativa in favore di una nuova sede più centrale e capace di offrire migliori situazioni di vita. Così don Tommaso d’Aquino, figlio di donna Giovanna Battista e suo successore, andò a vivere a Napoli, la capitale del Regno che concedeva a lui ed alla sua famiglia un prestigio più elevato e permetteva di rimanere al centro di una società molto elegante in una vita di relazione nelle sue diverse manifestazioni. Modificando dunque il tenore sociale, fra cerimonie e ricevimenti mondani, iniziò a svolgere un ruolo politico di rilievo, divenendo esponente di spicco del partito antiaustriaco. Tommaso, 5° principe di Castiglione Figlio di Giovanna Battista e del secondo marito Luigi d’Aquino, Tommaso nacque a Reggio Calabria il 9 luglio 1669 e fu l’erede legittimo del maniero di Castiglione, che sembrava stesse pian piano ripopolandosi, dopo l’epidemia di peste del 1656 ed il sisma del 1668, cosicché ora contava 215 fuochi . Fu sesto principe di San Mango ed ancora principe di Feroleto e conte di Martirano e di Nicastro, come da donazione da parte di madre, registrato con atto del notaio Domenico De Vivo di Napoli in data 27 febbraio 1697.210 Tommaso, sicuramente dotato di grande ambizione e di larghe vedute, considerando la realtà del tempo, si trasferì da Nicastro a 210 M. Pellicano Castagna op. cit. pag. 52. Do c. registrato nel Quinternione, Refute 11, f. 76.

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Napoli, dove trovò la possibilità di esprimere al meglio le proprie aspirazioni sociali e dove continuò ad interessarsi alla storia di quel feudo, da cui avevano origine le sue radici, ed alla sua valorizzazione. Conosceva bene le vicende della costa tirrenica e si impegnò perché le sue terre rivivessero il glorioso passato di quei centri di grossa importanza nell’antichità, quali Temesa e Terina, assai industrializzate e punto di riferimento di vasti traffici marittimi e fluviali. Due città in posizione strategica per l’intera regione, ubicate in zone molto vicine ai fiumi Savuto e Crati, che costituivano importanti vie di comunicazione fra la costa tirrenica e quella ionica, dove dominava Sibari, l’altra grande colonia della Magna Grecia, che aveva un porto assai attivo da cui partivano le navi cariche di manufatti verso il cuore del Mediterraneo. Il principe Tommaso era sicuramente un uomo abile nel maneggiare le armi, ma anche colto, pertanto desiderava che la Calabria venisse conosciuta come zona abitata da sempre da uomini valorosi; era informato sugli avvenimenti che avevano caratterizzato la storia del suo territorio e voleva celebrarli a memoria perenne. Ben conosceva il tentativo di Pirro, il re dell’Epiro che nel 280, aveva portato aiuto alle colonie greche contro i Romani invasori. Da Brindisi, dove era sbarcato, aveva raggiunto via mare la punta di Capo Suvero e nei pressi del fiume Savuto aveva combattuto una furiosa battaglia contro i soldati di Mamertum, città rimasta fedele a Roma. Lì però il re dell’Epiro era stato sconfitto clamorosamente e così, a ricordo dell’avvenimento nello stesso anno del suo insediamento in Castiglione, proprio nel 1697 don Tommaso d’Aquino volle che venisse apposta sul luogo detto “Passo di Pirro”211 una lapide in latino, a celebrare la vittoria del popolo calabrese. 211 Armando Orlando: “Storia di Falerna, dalle origini ai nostri giorni” pag. 19. Lo storico ritiene ch e la città di Mamertum fosse l’odierna Martirano Lombardo, ma non possiamo trascurare che altri studiosi ritengono invece si tratti di Oppido Mamertino.

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Come già molti nobili, il principe viveva con la sua famiglia a Napoli, città vivace ed intellettualmente acuta, partecipando ai molti consessi culturali che venivano offerti dagli esponenti cosiddetti “illuminati”. Accolto dal sovrano a corte, accumulava onori ed onorificenze, ma il suo nome era noto anche negli ambienti letterari, perché, da buon mecenate, favoriva e proteggeva gli artisti ed i poeti, aggiungendo alla fama di uomo d’armi quello di principe raffinato e colto. Erano i tempi in cui l’Accademia dell’Arcadia 212si diffondeva a macchia d’olio e, nata come una “radunata” di nobili e menti eccelse che, dal giardino del duca di Paganica in S. Pietro in Vincoli di Roma, si era trasferita in quello di Palazzo Riario, residenza dell’ex regina Cristina di Svezia, si affermava come centro propulsore di un rinnovamento culturale e, ricollegandosi al mitico mondo greco dell’Arcadia, mirava a ripristinare il “buon gusto” del classicismo, dopo il “disordine” barocco. Il principe Tommaso seguiva con interesse il nuovo pensiero, sostenuto dai 14 letterati 213 appartenenti al circolo della regina Cristina la quale, dopo la sua eclatante conversione al cattolicesimo, motivo di scandalo nel suo ambiente protestante avendo preferito la nuova religione al trono, aveva ricevuto nello Stato Pontificio una accoglienza trionfale. L’abate Alessandro Guidi,214 seguace del nuovo genere poetico e fedelissimo del duca Ranuccio Farnese di Parma e della stessa 212 L’Accademia dell’Arcadia fu fondata a Roma nel 1690 d a Gianvin cenzo Gravin a e Giovanni Mario Crescimbeni. 213 Gian Vin cenzo Gravina e Giovanni Mario Crescimbeni (fondatori dell’Acc. Dell’Arcadia), Paolo Coardi di Torino,Giusepp e Paolu cci di Spello, Vincenzo Leonio di Spoleto, Paolo Antonio Viti di Or vieto, Silvio Stampiglia e Jacopo Vicinelli di Roma, Pompeo Figari e Paolo Antonio del Nero di Genova, Melchio rre Maggio di Firenze, Agostino Maria Taia di Siena, Giambattista Felice Zappi di Imola, il cardinale Carlo Tommaso Maillard di Nizza. 214 Alessandro Guidi (1650-1712) Po eta di notevole fama, ebbe a Parma una intensa attività nel campo del teatro per musica. Presentato alla regina Cristina di Svezia, si trasferì a Roma, dove entrò a far parte d ell’Accademia dell’Arcadia, assumendo il nome di Erilo Cleoneo.

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regina Cristina, volle coinvolgere il principe d’Aquino nell’avventura poetica e, per metterlo a conoscenza delle leggi interne al movimento, gli dedicò un componimento in versi in grado di ispirare gli alti valori della nuova poesia:

Al Sig. Principe di Castiglione Don Tommaso d’Aquino, Grande di Spagna La Promulgazione delle Leggi d’Arcadia Io non adombro il vero Con lusinghieri accenti: La bella età dell’oro unqua non venne. Nacque da nostre menti Entro il vago pensiero, E nel nostro desìo chiara divenne: ……………………………………………………. Chiude nostra Natura In mente gli aurei semi, onde sorger potrian l’Età beate; Ma il suo desir, che è cieco, E incontro al ben s’indura, Da così bel pensiero la diparte. ……………………………………………. Io non invan su questo colle istesso Al popol di Quirino Un giovanetto Cesare rammento: Quei, che si vide impresso Del bel genio latino, e che un lustro regnò placido, e lento: Quegli che poscia spense Ogni sua bella luce, e il ferro mise Entro il materno seno, E guardò le ferite e ne sorrise; …………………………………………………

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Or voi recate il freno, O Sante Leggi, alle nascenti voglie, E gli Arcadi Pastor per man prendete: Voi di natura illuminar potete La fosca, e dubbia luce: Se voi non foste in nostra guardia deste, Nostra mente sarìa sempre viaggio In su le vie funeste; Ed Arcadia vedreste Piena solo dell’opre orrende antiche: Or voi splendete al viver nostro amiche; Che se indugiasse il Fato A recarne i felici imperj vostri, Governo avrian di noi furori e mostri.215 Il Principe, considerato fra i magnati di corte, ebbe il titolo di “Grande di Spagna di prima classe per tre vite”, 216 la massima dignità nobiliare posta nella scala gerarchica immediatamente al di sotto dell’Infante di Spagna. Il privilegio gli venne conferito dal re Carlo II in data 20 luglio 1699, ed a questo si aggiunsero poi i titoli di Patrizio Napoletano, Gentiluomo di Camera e dal 1702 Capitano Generale della Cavalleria del Regno, Cameriere d’Onore e Cavaliere della Chiave d’Oro. Carlo II di Spagna, V come re di Napoli, ebbe in grande considerazione il principe Tommaso, vedendo in lui la figura principale su cui poggiare la sua sicurezza politica in quel mondo fatto di guerre e rivalità nel contesto della successione dinastica. Il re spagnolo era nato nel 1661 da Filippo IV e Marianna d’Austria con una salute cagionevole, tanto che l’ambasciatore di Francia così riferì al suo re Luigi XIV: “Il principe sembra essere estremamente debole. Ha un’eruzione erpetica sulle guance. La testa è completamente ricoperta di croste. Per due o tre settimane si è formato sotto 215 Poesie d’Alessandro Guidi con la sua vita descritta da Gio. Mario Crescimbeni, Ven ezia 1751. 216 Alberico Lo Faso di Serradifalco: “Grandi di Spagna Italiani”, So cietà Italiana di Studi Araldici.

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l’orecchio destro una sorta di canale di drenaggio o di scolo”. 217 Tuttavia, pur se le sue condizioni furono sempre precarie a causa di continue emicranie ed attacchi epilettici, succedette al padre nel 1665. Di scarsa intelligenza ed incapace di esprimersi in modo chiaro, per una patologia malformativa ereditaria che, conferendo alla mandibola una sporgenza rispetto alla mascella con conseguente malocclusione, procurava difficoltà masticatorie e problemi fonetici, non dimostrò mai una volontà propria, per cui il suo regno si avviò inevitabilmente verso una crisi profonda. Durante il periodo della sua minorità, allo scopo di circondarsi di persone fidate, la madre ed i suoi consiglieri elargirono titoli a piene mani ed in seguito, divenuto sovrano legittimo, lui stesso concesse agli italiani un numero di “grandati” superiore a quello distribuito dai suoi predecessori. In questo contesto politico don Tommaso d’Aquino, fedele alla causa spagnola, ottenne il titolo di Grande di Spagna non solo per sé, ma anche per il figlio Alessandro e per un componente la terza generazione. Queste qualifiche gli conferirono meriti che accrebbero la sua fama, ma che lo allontanarono sempre più materialmente dai suoi feudi di Calabria, dove la famiglia aveva affermato il suo prestigio, tuttavia continuava a conservare i titoli feudali, pertanto fu Signore di Falerna, Sambiase, Zagarise, Serrastretta, Conflenti, Motta Santa Lucia, feudi in cui probabilmente non si recò mai e che nel 1707 furono confiscati dal governo austriaco. Siamo alle soglie del 1700, il secolo del Grand tour, quando i giovani dell’aristocrazia e gli ecclesiastici eruditi si avventuravano in viaggi che duravano anche mesi, per approfondire le proprie conoscenze artistiche, storiche, sociali. L’abate G.B. Pacichelli, intraprendente uomo di chiesa e scrittore dall’intelligenza versatile, nell’effettuare il suo giro attraverso il Regno di Napoli redasse una sorta di diario in cui, riportando le notizie locali, fissava le caratteristiche dei luoghi che visitava e le 217 Arturo Soria: Articulo dal Dr. Antonio Castillo: “Carlos II: El fin de una dinastìa enferma”.

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sue impressioni in stampe, che si sono rivelate vere e proprie fotografie dell’epoca. In Calabria in particolare rimase colpito dal paesaggio pittoresco ed affascinante che gli procurò una emozione intensa, così da lasciarla trasparire dal suo scritto, che vuol essere una relazione dettagliata di ogni contrada e di ogni ambiente della regione. Il viaggiatore ha dimostrato attenta curiosità dei luoghi e, nel riportare fedelmente i tratti del borgo di Castiglione, lascia intravedere un luogo ordinato e gradevole, che segnala adoperando le lettere dell’alfabero, A) il suo imponente maniero, B) i magazzini del vino, C) l’hosteria con la torre centrale, D) la torre di guardia, E) F) ben due conventi agostiniani G) Chiesa e Romitorio dedicati a S. Maria della Scala (vedi immagine che segue). Nella stampa ha segnalato una possente muraglia (H) che circondava e proteggeva il castello in cui si rinchiudevano gli abitanti nei momenti di pericolo di guerre o di incursioni saracene; mentre il fiume, baluardo naturale, lo si vede scendere verso il mare sulla cui spiaggia si intravedono le barche dei pescatori.La descrizione puntuale e precisa dei luoghi è accompagnata dalle sue personali considerazioni che vogliono sottolineare l’amenità del paesaggio: “Si lascia godere dal mare sovra un’amena collinetta questa terra, nobile per l’antico suo sorgimento, forte per lo sito e vaga per l’aspetto degli edificii. Vien chiusa dalla forma simetrica delle mura, munita d’artiglieria, e difesa da un eminente e magnifico Castello, che forse le presta il nome. Nel suo mare si fa la pesca de’ Coralli e de Tonni; e qui presso era il Porto dell’antica Terina, di cui si servivano per le loro Navi i Popoli Mamertini. Il Territorio produce vini di somma perfezione, olivi e celzi. Tutta la campagna è sparsa di Casini piacevoli, che adornano quella costiera, della cui vaghezza, e fertilità hebbe à dire Bernardo Tasso nel suo Poema dell’Amadigi. – E Castiglione è quella vaga costa,/ Che di Calabria ricca al mar s’accosta… Castiglione hà sotto di se un’altra

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buona Terra, che per la bontà de’ suoi vini hà tratto il nome dall’antico Falerno; e con essa arriverà à trè mila anime, ò poco meno.”218

Anche P. Fiore da Cropani nel profilo del borgo, tracciava le attività produttive, richiamando l’attenzione sia sulle vaste tonnare dove i pescatori impiegavano le loro energie, sia sul prodotto pregiato della seta in cui si indirizzava tutto il lavoro della gente del posto; ma il luogo, diceva ancora, era importante anche per aver dato i natali a personaggi illustri che gli attribuirono il titolo di Principato e fecero del castello “il più forte e magnifico di quelle riviere”.219 Il principe Tommaso tuttavia, preso dagli impegni politici, nel 1701 si schierò contro i ribelli riuniti nella congiura dei Macchia, dal nome del protagonista Gaetano Gambacorta principe di Macchia, il quale con i suoi fedelissimi si era alleato agli austriaci offrendo la corona all’arciduca Carlo d’Asburgo, figlio 218 G.B. Pacich elli: “Il Regno di Napoli in Prospettiva” pag. 38-39. Gli studiosi ritengono non attendibile storicamente il profilo d emografico di Castiglione ch e, dicono, avesse all’epo ca circa 700 abitanti. 219 P. Fiore da Cropani: “Della Calabria Illustrata”, pag. 123.

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dell’imperatore Leopoldo; in questo frangente con grande audacia ospitò nel suo palazzo di Napoli, l’ultimo Viceré spagnolo Juan Manuel Fernàndez Pacheco y Zùniga, duca di Escalona e marchese di Vigliena, quando il 15 febbraio 1702 giunse nella città partenopea inviato dal re Filippo V di Spagna,220 e con lui si prodigò nell’organizzazione dei festeggiamenti per l’accoglienza del re. La guerra di successione spagnola era però alle porte e si richiedevano tributi di uomini e danaro; Napoli dovette dare un contributo di ben 400.000 ducati che vennero recuperati con l’introduzione di nuove imposte estese a tutti i censi e che gravarono non solo sul popolo, ma anche sulla nobiltà. Da tutte le parti del regno vennero arruolati nuovi giovani, ma la guerra ebbe una svolta negativa per la coalizione spagnola e nel 1706 a Napoli il viceré fu costretto a riunire ormai in permanenza il Supremo Consiglio del Regno, formato da cinque membri della nobiltà locale (fra i quali vi era anche il principe don Tommaso d’Aquino), per deliberare sugli affari di stato. Le truppe imperiali di Giuseppe I d’Asburgo composte di 8000 uomini, al comando del feld-maresciallo Wirich Philipp von Daun avanzavano e le sorti della Spagna furono segnate. Il 20 giugno 1707 il principe Tommaso di Castiglione con i suoi 1000 uomini tentò invano la resistenza al Garigliano insieme al duca di Bisaccia e a Nicola Pignatelli, mentre il Viceré fu preso prigioniero e rinchiuso nel carcere di Gaeta. Il Colletta scrive del d’Aquino: “Solamente il principe di Castiglione don Tommaso d’Aquino e ‘l duca di Bisaccia don Nicolò Pignatelli con poche migliaia di armati accamparono dietro al Garigliano…Il Principe di Castiglione, o non ancora sentisse morte le speranze, o (che più l’onora) si conservasse fedele alle sventure della sua bandiera, con mille cavalli riparavasi 220 Il 1° novembre 1700 era morto Carlo II d’Asburgo di Spagna il quale per le sue precarie condizioni di salute non aveva potuto generare alcun erede. La guerra di su ccessione portò sul trono Filippo V, nipote di Luigi XIV di Fran cia, ch e fu il primo re di Spagna d ella dinastia Borbone, ma col trattato di Rastadt del 1714 dovette ced ere agli Asburgo d’Austria il Regno di Napoli.

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nelle Puglie; ma, trovato munito dal nemico il passo di Avellino, deviò per Salerno. Più numerosa cavalleria tedesca lo inseguiva; le sue genti lo abbandonarono; con pochi resti de’ mille fu prigione”.221 La sua resistenza fu inutile ed il Regno di Napoli passò dagli Asburgo di Spagna agli Asburgo d’Austria. Fu firmata la pace ed il principe, piuttosto che sottomettersi al nuovo sovrano, preferì abbandonare Napoli e recarsi in Navarra con il titolo di Capitano Generale. Lasciò dunque la famiglia nella città partenopea, dove il 29 novembre 1686, secondo altre fonti il 10 gennaio 1687, all’età di appena 18 anni, aveva sposato la ventunenne Fulvia Pico, di Alessandro II, duca di Mirandola, e di Anna Beatrice d’Este, principessa di Modena e Reggio, nobildonna di alto lignaggio, il cui matrimonio era stato celebrato con grande pompa a Modena il 29 aprile 1656.222 Fulvia Pico, nata l’11 agosto 1666, era sesta di nove figli e vantava un lignaggio reale, infatti discendeva da Carlo Emanuele I di Savoia e da Filippo II di Spagna, per cui ai tre figli: Alessandro, nato il 17 giugno 1689, Luigi, nato il 10 maggio 1690, e Rinaldo, nato il 24 dicembre 1691, fu permesso di aggiungere al cognome d’Aquino anche quello materno di Pico. Entrambe le famiglie vantavano il titolo di Principi sovrani, cosa che aveva permesso di effettuare la strategia matrimoniale, avendo i d’Aquino, come tutta l’aristocrazia spagnola, l’ambizione di intrecciare rapporti di parentela con “signori” considerati indipendenti. Il matrimonio con Fulvia Pico fu dunque, diremo oggi, interessato e rivolto a raggiungere scopi dinastici, infatti Alessandro della Mirandola era “signor libero in Lombardia, essendo 221 P. Colletta: Storia del Reame di N apoli dal 1734 al 1825, cap. I. 222 Figli dei du chi di Mirandola erano: Maria Isabella,(1657- Mad rid 1720); Laura (1660-1720),sposa di Ferdinando III Gonzaga, Fran cesco Maria(16611689, sposò Anna Camilla Borghese; Galeotto (1663 -1710) signore di S. Martino in Spino; Virginia (*1665); Fulvia (1666-Napoli 1731); Giovanni (1667-Madrid 1723); Ludovico (1668- Roma 1743) cardinale; Alessandro (1670-Roma 1711) cavaliere di Malta.

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feudatario imperiale” e pertanto Tommaso d’Aquino aveva ben pensato di annullare il contratto matrimoniale stipulato con il Principe di Bisignano, che era “principe vassallo”, sottraendosi all’impegno di sposarne la figlia.223 Don Tommaso morì il 20 ottobre 1721 a Pamplona, ma la moglie volle che gli ultimi onori venissero resi nella sua città, per cui, portata la salma a Napoli, la fece tumulare in S. Domenico Maggiore, l’edificio sacro della nobiltà aragonese. La Chiesa, che si trova nel centro antico della città, era considerata fra le più prestigiose della capitale, non solo perché fu edificata per volere di Carlo II d’Angiò, ma soprattutto perché era dedicata a San Domenico, che aveva avuto un rilievo determinante nelle decisioni personali del Santo d’Aquino ed era considerata al tempo la Chiesa madre dei domenicani del Regno di Napoli. Per Fulvia Pico d’Aquino il luogo aveva poi un’importanza ancor più rilevante, perché avvertiva ancora la presenza dell’illustre avo, che aveva qui studiato e poi insegnato Teologia; la cella del Santo e la sala di insegnamento costituivano un forte ricordo per l’intera famiglia, che aveva ottenuto sin dal 1300 il patrocinio di una cappella personale. Don Tommaso fu quindi sepolto accanto a Giovanna d’Aquino, figlia di Roberto d’Angiò e signora di Belcastro, della quale abbiamo già detto, nella cappella del Santo omonimo, dove ancora oggi sono visibili i due eleganti sepolcri. Fulvia Pico sopravvisse al marito dieci anni ancora, morì infatti il 24 marzo 1731 all’età di 65 anni. Alle soglie del 1700 nel Regno di Napoli ormai si era conclusa l’egemonia spagnola, cedendo la supremazia a quella austriaca e più che mai appaiono autentiche le parole del prof. De Majo quando disse che la Calabria si trovò in quella situazione “in cui i

223 Angelantonio Sp agnoletti: “Prin cipi e Seniores Grandes nell’Italia spagnola” da D. Confuorto: Giorn ali di Napoli dal 1679 al 1690, a cura di N. Nicolini vol. I, pagg. 148, 149.

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popoli venivano palleggiati tra le diplomazie nella più assoluta impossibilità di autodeterminare il proprio destino”224. Alessandro, 6° principe di Castiglione Il nuovo Principe di Castiglione successe “de jure” alla morte del padre, assumendo i titoli di Principe di San Mango e Feroleto, Duca di Nicastro e Conte di Martirano, Grande di Spagna di prima classe ed erede dei beni di Calabria, che possedeva per donazione sin dal 1718, avendo il principe padre abbandonato il Regno di Napoli per seguire in Spagna il Viceré, dopo l’avvento degli austriaci. Alessandro Pico d’Aquino viveva nella sua residenza napoletana ed ormai i feudi in Calabria erano considerati dall’intera famiglia solo una fonte di risorse necessarie alla vita assai dispendiosa che essa conduceva nella capitale del regno, infatti attraverso i suoi rappresentanti, che assumevano sempre più potere politico, riscuoteva i tributi ricavati dai terreni prosperosi su cui lavoravano masse ingenti di braccianti agricoli i cui diritti venivano violati ed usurpati brutalmente. Si verificavano dunque situazioni incresciose dove nuove famiglie di nobiltà recente legittimavano norme e privilegi non stabiliti dalla legge, ma prettamente dettati dallo stato di fatto, infatti “l’assenza del feudatario e la facilità di corruzione degli agenti favorirono l’affermazione della nobiltà non feudale: questa poté arricchirsi indisturbata, espandendo patrimoni, poteri ed influenze, ricorrendo, spesso e volentieri, ad abusi e soperchierie”. 225 Nel 1718 Alessandro vendette a Giovan Battista Le Piane la terra baronale di Savuto per 27.000 ducati, con Regio Assenso datato 5 ottobre 1718, registrato nel Quinternione 240,f.1; tutto avvenne tramite alcuni mediatori, infatti il principe viveva sotto la tutela del fratello Rinaldo in quanto “debole di mente”226. 224 A. Orlando in Calabria letteraria: “La dinastia dei Borbone a Napoli e il viaggio del re in Calabria”. 225 A. Cario: “Le o rigini di Falerna: Il Settecento e i d’Aquino prin cipi di Castiglione” in Storicittà, marzo 2013. 226 Libro d’Oro della Nobiltà Mediterran ea.

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Il 1° luglio 1760 si intestò poi le terre di Castiglione con casali, portulania e zecca, Martirano con i casali e la baronia di Motta Santa Lucia con i casali e con le prime e seconde cause civili, criminali e miste, come registrato nel Cedolario 77, f. 399.227 Alessandro non venne mai nel suo feudo di Calabria e pian piano lo affidò tutto a rappresentanti incaricati che sfruttavano gli abitanti e negoziavano con lui, per ottenere il massimo profitto personale; la corruzione raggiunse allora limiti estremi e permise la nascita di una classe aristocratica non feudale, che allargava il proprio patrimonio ed acquistava potere sulle terre. Da alcuni fogli di Giovanbattista Pugliese siamo venuti a conoscenza delle consuetudini vigenti nel territorio di Crucoli nell’anno 1715, ma risalenti, con solo qualche piccola modifica, al 1561, dove si mettono in evidenza lo stato di soggezione e sudditanza del popolo, costretto a subire ogni sorta di soprusi da parte dei potenti locali. Non è stato tramandato nulla di preciso che riguarda il territorio di Castiglione, tuttavia c’è da credere che le stesse leggi proprio nel 1561 fossero estese in tutto il territorio governato dai signori d’Aquino e dunque in epoca seguente le consuetudini si fossero conservate seguendo gli stessi principi: Nelle acque correnti dei valloni e fiumare non potevano andare porci ad abbeverarsi, onde non intorbidare a discapito degli altri, ma il Sindaco fissare i segni detti “Jiffale” al più basso della corrente, al di sotto dei quali poter menarsi tali animali, e contravvenendosi potersi ammazzare un porco per mora portandosi il quarto alla Corte, e ciò dal primo giugno a tutto ottobre. Che la difesa universale (terreni appartenenti alla Camera Marchesale e ai Notabili) era destinata pe’ soli bovi di aratro, ed era proibito il pascolo ad ogni altra sorta di bestiame, come vacche, capre, porci, giumente ecc. anche se appartenessero alla Camera Marchesale. Chiunque dei cittadini era autorizzato ad ammazzare. Che nel macellare animali si pagasse il diritto di Scandaglio alla ragione di grana cinque per bove o vacca, un grano per gli animali minuti da un anno in sopra, ed un tornese per quelli al di sotto dell’anno. 227 M. P. Castagna op. cit. pag. 53.

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Che il Baglivo (ufficiale che si occupava delle cause civili, riscuoteva contravvenzioni ecc. I Baglivi potevano essere in numero di sei per ogni borgo) esigesse dai fittuari un capretto per pagliaro e due ricotte per pagliaro ogni Baglivo. Che i padroni di pecore o capre non potevano fare ricotte senza l’ordine dei Sindaci e secondo le loro prescrizioni sotto pena della perdita delle ricotte. Che nella caccia ai palombi, tortore ed uccelli, la Marchesal Corte riceveva una porzione in tutti i diversi siti che si cacciava. Egualmente doveva avere un quarto tanto di conigli che di capri e cervi e di ogni natura di bestiame selvaggio. Che per ragione di ubbidienza e di diretti domini della Marchesal Corte niuno poteva vendere o permutare fondi senza licenze sotto pena di perdere il prezzo e la roba. Che apparteneva per effetto di tal diretto dominio alla Marchesal Corte la successione per morte di coloro che non lasciavano figli ed a’ quali non era lecito di far testamento neppure a pro’ de’ nipoti figli di fratello. 228 La dominazione degli Asburgo d’Austria nel Regno di Napoli, durò solo 27 anni dal 1707 al 1734, fu dunque breve ma con la stessa intensità di depauperamento, in quanto seguì le stesse direttive della precedente famiglia d’Asburgo di Spagna; la pressione fiscale aumentò, continuò il malessere di sempre e la Calabria venne spogliata di ogni risorsa. Castiglione si impoverì ancora di più, diventando pure bersaglio di ruberie degli arredi sacri, le uniche ricchezze che restavano a testimoniare una fede fatta di sofferenze e privazioni. Era il 25 agosto 1725 quando davanti al notaio Domenico Antonio Dara di Gizzeria si presentarono Bruno Rametta, sacrestano della Chiesa di Sant’Antonio Abate di Castiglione, ed il sindaco Giacomo da Fiore, figura garante che tutelava l’autenticità dell’atto di furto che lo stesso sacrestano stava per denunciare. L’uomo riferì che qualche giorno prima, precisamente il 13 agosto, si erano presentati nel borgo quattro uomini, che dicevano di provenire da Siena, diretti a Roma; due erano civili, il 228 G. B. Pugliese:”Descrizione ed Istorica n arrazione d ell’origine Politico Economich e di Cirò”, vol. I, p ag. 256 e segg.

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terzo, che sembrava essere cieco, indossava l’abito religioso ed era accompagnato da un ragazzo. Questi, notando la bellezza del luogo, si erano fermati per riposare, avevano chiesto di visitare le chiese e si erano soffermati ad ammirare, nella Cappella del Rosario, la Madonna con il bambino in braccio, entrambi con la corona d’argento; la statua era custodita sotto l’altare ed era ricoperta di monili d’oro, ex voto degli abitanti del posto e di quanti venuti dal circondario attestavano di avere ricevuto miracoli. Gli uomini manifestarono il desiderio di voler pregare in solitudine e chiesero al Rametta di allontanarsi un po’, tanto avrebbero poi loro stessi provveduto a chiudere la porta ed a riportargli la chiave, ma lui, disse di essersi insospettito e di non avere ceduto alle richeste. Anche don Nicola Sasso, parroco di Castiglione, confermò il furto e testimoniò quanto aveva visto il 14 agosto, giorno di vigilia dell’Assunzione, quando, dovendo “trasportare certe candele e suppellettili …racchiuse dentro una cassa”, 229 vide che questa era stata manomessa, tuttavia non ebbe alcun sospetto, dal momento che non conosceva il contenuto della stessa. Il furto venne confermato da don Domenico Marino e dal diacono Nicola Gagliardi, i quali il 19 agosto, entrati in chiesa per recitare il rosario, “entrorno in sospetto d’esser rubbata la Chiesa”, 230 perché subito si accorsero che la Madonna ed il Bambino non avevano più la corona né i gioielli; ma il reato era stato ben più pesante, perché mancavano tra le altre cose: una pianeta di damasco, un velo di taffetà, quattro tovaglie d’altare e più di un chilogrammo di candele. Aggiunsero poi che alcuni giorni prima avevano visto quattro stranieri231 che si allontanavano con dei sacchi sulle spalle, forse pieni di quelle preziose ricchezze che ornavano da lungo tempo la 229 La cronaca è ripo rtata da A. Cario in Storicittà di Ottobre 1012. 230 A. Cario, o p. cit. 231 A. Cario ripo rta dal testo “passag gieri” e dice di avere trovato il do cumento nell’Archivio di Stato di Lamezia Terme.

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Chiesa di sant’Antonio, colma di tesori, come si legge in una relazione del 1723 (riportata nel documento del Cario) in cui si dice che l’Arciprete possedeva “molti beni che prima erano de’ Cittadini”. In questa incertezza sociale gli abitanti di Castiglione intensificarono il loro ritiro sulle colline e sui monti circostanti per sottrarsi anche alla malaria ed alle incursioni dei pirati, che provenivano dal mare e seminavano panico sempre maggiore, non solo perché razziavano tutto ciò che trovavano sul loro cammino, ma prendevano uomini, donne e bambini per poi venderli sul mercato degli schiavi. Questo fenomeno procurava un fuggi fuggi della popolazione, alla ricerca di un isolamento pressoché totale in nuovi borghi creati su alture non facilmente raggiungibili se non attraverso sentieri spesso impraticabili e segnati dal fenomeno del banditismo e del contrabbando. In questa decadenza sociale Alessandro d’Aquino non prese alcuna iniziativa ed attraverso il suo tutore e fratello elesse Don Domenico Albuccini quale sovrintendente Vicario ed Amministratore di Castiglione, concedendogli ampia ed illimitata facoltà di amministrare e praticare la Giustizia.

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Documento originale di Don Alessandro D’Aquino Pico. Nel documento, emesso a Napoli il 23 aprile 1725, ordinava a tutti i Governatori, Assessori, “Sindici”, Luogotenenti e quanti altri detenevano incarichi nei suoi Castelli, Città e Terre, di ubbidire incondizionatamente al Sovrintendente Vicario che operava in sua vece, il quale aveva facoltà di sospenderli, privarli degli incarichi e punirli. L’Albuccini dunque aveva raggiunto sulle terre un potere così immenso, tale da permettergli di ingrandire in maniera smisurata il suo patrimonio personale ed a questo punto i problemi della giustizia si aggravarono in tutto il feudo, aggiungendo i soprusi che gli amministratori perpetravano nei confronti dei più deboli. Una supplica del 14 ottobre 1726, inviata al principe Alessandro dal mastrogiurato di Nicastro, dà prova concreta delle prepotenze subite dalla popolazione: “Ecc.mo Signore Francesco Antonio Serra odierno mastro Giurato della città di Nicastro umilissimo schiavo , vasali di V.E. con dovute suppliche gli rappresenta …..che non v’è memoria d’uomo in contrario corroborato dalla general pandetta, dei quondam Ecc.mi Principi di Castiglione a tenore di quella dell’Illustre Conte Caracciolo…………..

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concernente l’ufficio di m.ro Giurato si trova espresso che tutti i diritti di pedatici in qualsivoglia modo succedessero, o per atto di scarcerazione, o di sequestro spettassero al m.ro Giurato, anche se si facessero dai soldati del Baricello……………………ciò non ostante da più di un anno a questa parte dai soldati del Baricello si sono esatti assolutamente per loro i detti pedatici senza che ne avesse partecipato esso supplichevole con inibire al magnifico castellano la scarcerazione senza che prima fossero soddisfatti dei detti pedatici;………………..”232 La risposta di Don Alessandro fu subitanea: “Vogliamo che in tutto si osservino le Pandette (leggi) enunciate confermando noi tutti i Privilegi contenuti in esse, e conceduti dai nostri Predecessori ai magnifici mastro giurati pro tempore della nostra città di Nicastro ed in specie intorno ciò che concerne l’esigenza dei pedatici retro espressi”.233 Le suppliche e le risposte che si alternavano rimanevano solo parole prive di effetti, la precarietà della giustizia era palese e si affiancava a quella economica e sociale; punto di riferimento restava solo il senso religioso al quale gran parte degli uomini si aggrappava, credendo alla potenza divina e sovrannaturale capace di dominare gli eventi umani. Ecco che allora si riponeva la fiducia nelle comunità ecclesiastiche, che proliferavano, si arricchivano con l’acquisto di terreni e case e costituivano l’altro potere in una società di miseria. L’esame delle Relazioni vescovili e dei Registri parrocchiali sono utili a comprendere meglio la realtà di Castiglione nel primo 1700, dove vi erano ben due conventi agostiniani, riportati anche nella stampa del Pacichelli: quello di San Carlo non molto lontano dalle mura del castello, l’altro detto degli “Zumpani” di Campodorato con la chiesa di S. Maria di Loreto, posto al confine tra Castiglione e Nocera. Vi erano poi il convento di San Francesco di Paola, quello della Pietà ed ancora innumerevoli chiese, di Santa Maria della Scala, di 232 F. Raffaele: “ Cronaca del ‘700, Richiesta di Istituzione della Corte di Prime Cause a Sambiase n el 1765” in “Storicittà” Genn./febb r. 2000. Sez. Arc. Di Stato di Lam. Terme Prot. Notaio G. B. Caputi, 1726, f. 335. 233 F. Raffaele op cit.

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S. Antonio abate, dell’Annunziata, Sant’Anna, S. Caterina e del Suffragio, edifici dei quali molti sono stati distrutti dai terremoti che si sono susseguiti, lasciando soltanto labili tracce. Il 14 gennaio 1697 il Cardinale Marcantonio Barbarigo consacrò vescovo di Tropea lo spagnolo Mons. Juan Lorenzo Ibanez de Arilla, sacerdote agostiniano il quale nelle sue relazioni “ad limina” degli anni 1705, 1708, 1711 ha dato grande risalto a Castiglione, mettendo in evidenza la presenza dei conventi e la “dignità arcipretale” dei tre sacerdoti, i quali si dividevano fra loro i benefici derivanti dai terreni posseduti. Di essi due operavano nel castello ed uno era destinato al casale di Falerna. La situazione si trovò ad essere ribaltata qualche anno dopo nel 1723, quando nella relazione successiva Castiglione appariva ridotta nel numero degli abitanti contandone solo 398, contro i 664 di Falerna.234 L’antico e nobile borgo si avviava a gran passi verso quel declino economico e demografico, le cui ragioni si ritrovano negli “Acta super extrajudiciali informatione presentis status Universitatis Castilionis Maritimi” di cui il Galasso riporta fedelmente la nota relativa proprio all’anno suddetto: “……l’impoverimento di detta Università con il processo di appropriazione Ecclesiastica e Feudale dei beni dei cittadini, che veniva apprezzato per una rendita annua di Docati 1500, mentre l’attuale apprezzo è di soli Docati 600. Molti beni che prima erano posseduti dai cittadini, al presente si possiedono, dal monastero di Santo Agostino, avendoli acquistati a poco a poco sotto vari titoli, così di donazione come legati……….La Chiesa parrocchiale di detta terra, possiede molti beni che prima erano dei cittadini e molti altri ne possiedono le Cappelle dette: Santa Maria della Pietà, Santo Tommaso d’Aquino, Santa Maria delle Grazie, Santo Ottavio, santo Giacomo, santa Rosa, Santa Maria della Lettera e il Santissimo Sacramento”. 235 Da ciò appare chiaramente come ai soprusi feudali si aggiungevano anche quelli ecclesiastici ed a questi una nuova epidemia di peste, forse malaria, provocata da miasmi provenienti 234 A. Cario: “Le origini di Falerna” op. cit. in Storicittà di marzo 2013, pagg.125-126. 235 G. Galasso: “E conomia e So cietà nella Calab ria d el Cinquecento” pag 406.

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dalle zone paludose e dalla mancanza totale di igiene, procurò un ulteriore stato di malessere. La vita degli abitanti superstiti di Castiglione si chiuse in un ulteriore isolamento che procurò disperazione; ancora molti altri fra i pochi abitanti presenti abbandonarono il castello per trovare rifugio nel nuovo abitato di Falerna, posto in alto ai piedi del monte Mancuso, che sembrava offrire migliori condizioni di vita, soprattutto per l’aria più salubre. La Chiesa di Nicastro era anch’essa in una situazione assai difficile, dal 1709 al 1718, dopo la morte di Mons. Nicola Cirillo, il seggio vescovile fu tenuto da un vicario in uno stato di disattenzione della Chiesa di Roma, che probabilmente si trovava in forte disagio a causa della politica condotta dai principi d’Aquino che chiaramente, soprattutto col principe Tommaso, avevano manifestato tutta la loro avversità agli Asburgo d’Austria, che si erano appropriati in Nicastro del palazzo curiale. Il feudo di Calabria dunque cadde nel più totale stato di abbandono ed a ciò si aggiunse la morte di Rinaldo, avvenuta il 14 marzo 1737 all’età di 46 anni, che lasciò Alessandro trentenne, privo di esperienza e capacità di prendersi cura della gestione giuridica e sociale del patrimonio feudale. Nel tentativo di dare una discendenza alla famiglia, il 7 marzo 1707 ad Alessandro appena diciottenne fu data in moglie la dodicenne Cosima Beatrice Antonia Caracciolo, 7° duchessa di Celenza,236 figlia di don Giovanni, principe di Torrebruna di Chieti, e di Porzia Caracciolo dei Marchesi di Sant’Erasmo. La fanciulla era troppo piccola per adempiere agli obblighi matrimoniali e, poiché sopraggiunsero gli Austriaci che invasero il Regno, la bimba fu rinchiusa nel convento di S. Chiara, così nel 1718 il matrimonio fu annullato perché non consumato. Alessandro, contrariamente alla sposa, non contrasse più alcun matrimonio, e la sua figura rimane collegata nella storia di 236 Cosima Beatrice Antonia Caracciolo nacque il 5 marzo 1695 e morì il 20 giugno 1769. Dopo l’annullamento del matrimonio sposò don Andrea dei Prin cipi di Pescara, p atrizio napoletano.

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Castiglione direttamente a quella di Rinaldo, il suo tutore e fratello che ebbe il titolo di principe di Feroleto. Rinaldo fu colui che continuò la discendenza, il 21 giugno 1730 trentanovenne sposò a San Paolo Belsito, nel napoletano, la nobile Francesca di appena 18 anni, figlia di Michele Capecelatro, barone di Rocca Bascerana di Avellino, e di Vincenza d’Afflitto. La famiglia Capecelatro godeva di grande fama fra la nobiltà, perché il barone Michele vantava il merito di aver ospitato nel suo palazzo il sovrano Don Carlo di Borbone quando nel 1735, terminata la parentesi del vicereame austriaco, nel primo anno del suo regno, partì da Napoli, con un seguito di cento granatieri a cavallo, diretto a Palermo, per ricevere la corona. L’imparentarsi con i Capecelatro dunque era una garanzia per Rinaldo d’Aquino, il quale ebbe dalla moglie una sola figlia, Vincenza Maria, l’ultima principessa di Castiglione, che lasciò orfana all’età di appena tre anni, il 14 marzo 1737. La bimba ancora in tenera età, trascorse la sua infanzia in un contesto familiare in cui riconobbe come figura paterna quella di Giovanni Battista Protonobilissimo, secondo principe di Muro Leccese e terzo Marchese di Specchia, che la madre, dopo qualche mese di vedovanza, sposò a Napoli in seconde nozze il 23 giugno 1737.237 Il principio di conservazione dei beni aveva fatto sì che i d’Aquino da tempo si sposassero fra membri della stessa Casa e certamente questo contribuì a rendere i discendenti sempre più deboli, infatti anche Luigi, secondo fratello di Alessandro, per caso o per conseguenza di una radicata consanguineità era morto bambino, così quando lo stesso Alessandro morì il 3 giugno 1763, senza lasciare eredi, il principato di Castiglione passò alla nipote Vincenza Maria, figlia del terzo fratello Rinaldo, alla quale già da tempo aveva comunicato la volontà di trasferire i suoi beni. Il feudo di Castiglione, abbandonato da tempo, si era ormai avviato irrimediabilmente verso il declino politico, il re Carlo di 237 Con Giovan Battista Protonobilissimo si con cluse il march esato di Specch ia, in fatti il suo governo fu così duro ed esoso n el fisco ch e il re di Napoli nel 1774 lo chiamò perch é gli rendesse conto d el suo operato.

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Borbone, prima di partire definitivamente per Madrid col titolo di Carlo III di Spagna, dette l’avvio ad una serie di riforme, tra cui la compilazione del catasto onciario che fu completato nel 1742, dove si evince che lo stato degli abitanti aveva registrato un’ulteriore flessione demografica ridotta a 235 unità. Anche Nicastro subiva la perdita di una certa vitalità, pur se il numero dei residenti aumentava, come appare dalla relazione ad limina ben documentata, stilata dal vescovo Domenico Angeletti, il quale nel 1726 dichiarava esservi nella città ben 4.408 abitanti e 967 famiglie, quasi il doppio rispetto alla rilevazione del 1669, numero che salì ancora fino a raggiungere nel 1746 le 7000 unità.238 Nella Relazione il Vescovo rilevava anche lo stato di ignoranza in cui versava il clero regolare, ricordando l’avvenimento ostile occorsogli proprio nel 1726 quando, avendo tentato di visitare il Convento dei Minimi di Sambiase, era stato allontanato dai monaci, che lo avevano minacciato addirittura con le armi, così infatti annotava nel suo scritto: “viget in clericis omnibus, summa ignorantia et aequalis paupertas”239, come a dire: “tanto ignoranti quanto poveri”. La vicenda esposta rivela tutta la sua gravità in un contesto sociale in cui le comunità religiose, peraltro numerose, formate da Domenicani, Francescani, Cappuccini e Clarisse, comprendevano in tutto circa un centinaio di ecclesiastici ordinati che avevano fatto voto di obbedienza. Il clero secolare invece era sostenuto dai nobili che possedevano chiese e cappelle private, sulle quali avevano la facoltà di scegliere gli ecclesiastici, incaricati di gestirle, ed elargire loro prebende di ogni tipo. La popolazione viveva dunque in un territorio che nel complesso aveva buone potenzialità produttive, come più volte è stato riportato, e la società era formata da una metà circa di piccoli

238 F. Mazza: op. cit. pag. 122-123. 239 F. Mazza: op. cit. pag. 126.

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contadini, il 5% di professionisti ed un 12% di artigiani che lavoravano soprattutto la creta e la ceramica. La rimanente parte era formata da nullatenenti e gente che lavorava “a giornata” nei terreni della Chiesa, che costituivano il 30% del totale, ed in quelli degli amministratori dei signori principi che possedevano circa il 50%; il 20 % della terra restante apparteneva al ceto dei piccoli proprietari che spesso la lavoravano in proprio. La situazione del feudo in Calabria era dunque in uno stato di grande degrado quando passò nelle mani di Vincenza Maria d’Aquino Pico, ultima discendente di un Casato fra i più importanti del Regno di Napoli. Vincenza Maria d’Aquino Pico, 7° princ.ssa di Castiglione. La giovane nacque a Napoli il 15 dicembre 1734 ed alla morte del padre ebbe i diritti onorifici del feudo, divenendo settima principessa di Castiglione e Feroleto, Contessa di Martirano, ottava principessa di San Mango, seconda duchessa di Nicastro, ed ancora signora di Falerna, Sambiase, Zagarise, Serrastretta, Conflenti, Motta Santa Lucia, Turboli; i feudi tuttavia vennero da lei ereditati alla morte dello zio Alessandro con intestazione del 6 febbraio 1767.240 Era ormai l’unica erede diretta delle terre appartenute da secoli agli Aquino, terre grandemente estese e ricche, così all’età di 26 anni si ritrovò de jure ad essere padrona di questo latifondo immenso e lontano da Napoli, di cui non aveva alcuna conoscenza e probabilmente nemmeno alcun interesse ad approfondire e risolvere i problemi sociali. Come unica figlia dei baroni Rinaldo d’Aquino e Francesca Capecelatro era l’ultima di quella famiglia antichissima ed una volta anche potente, che col passar del tempo aveva perduto ogni requisito di autorevolezza politica, serbando invece la tradizione dell’alta aristocrazia, così, appena adolescente, fu promessa a 240 M. P. Castagna: Cedolario 78, f.1. Cedolario 86, f. 1 per intestazione di Nicastro e Feroleto.

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Landolfo d’Aquino, un patrizio napoletano e lontano parente, affinché i beni venissero tramandati integri. Il 13 giugno 1749 si celebrò il matrimonio. La sposa aveva 15 anni, lo sposo solo 18, era nato infatti il 22 marzo 1731 come da Libro d’Oro della Nobiltà Mediterranea, ed in quel giorno, in cui i festeggiamenti si rivelarono sontuosi, il giovane ebbe, come dono di nozze, il titolo di principe di Feroleto. La vita che la giovane coppia cominciò a condurre a Napoli si rivelò subito assai dispendiosa, non vi era abbastanza denaro, sufficiente a soddisfare le esigenze che diventavano sempre più esagerate, così il 25 settembre successivo, comunicando ai vassalli di Calabria le nozze avvenute, gli sposi chiesero di non festeggiare in modo plateale nelle loro terre come si conveniva e come era usanza, ma inviassero invece a Napoli i loro doni. La cerimonia di nozze, promisero, si sarebbe tenuta in seguito, quando avrebbero fatto visita al feudo insieme allo zio, principe Alessandro. Nulla è stato tramandato e c’è da credere che quella festa tanto ventilata, non si tenne più nel feudo calabrese, perché Alessandro morì e la principessa venne in Calabria solo per motivi gravi di interesse economico ed in quel frangente gli abitanti furono ancora vessati da nuove tasse, che andarono a gravare sul già malandato bilancio familiare di ogni famiglia del territorio. All. M

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Nel 1734 era salito sul trono col titolo di VII re di Napoli, Carlo di Borbone, duca di Parma e Piacenza, figlio di Filippo V di Spagna e della seconda moglie Elisabetta Farnese, il quale, dopo una lunga lotta contro gli Austriaci, aveva riaffermato la dinastia dei Borbone, destinata a governare nell’Italia meridionale fino al 1860. Il re Carlo, dice la leggenda, giovane di 18 anni, bruno, esuberante e dal carattere allegro, in quel lunedì 10 maggio del 1734 aveva attraversato con un grandioso corteo le strade di Napoli in sella ad un cavallo bianco tra il popolo festante e l’anno successivo, avendo sottratto agli Austriaci anche la Sicilia, riuscì il 3 luglio a farsi incoronare a Palermo “Rex utriusque Siciliae”. Subito volle conoscere il suo nuovo regno, avviando da despota illuminato una politica in cui affermava la sua sovranità personale. Il suo programma prevedeva la moderazione di ogni forma di lusso e promuoveva una sorta di uguaglianza sociale, così nel 1741 ordinò un censimento ed il Catasto Onciario fu il risultato del lavoro effettuato dalla Giunta da lui formata, di cui facevano parte il ministro Tanucci, grande avvocato e giureconsulto, ed i famosi economisti e giuristi napoletani, Filangieri e Genovesi. Nel Catasto si stabilì che tutti i sudditi che possedevano redditi da fondi rustici e urbani o beni di qualsiasi tipo, consistenti in possesso di animali o capitali che producevano reddito, dovessero denunciarli tramite una “Rivela”, affinché lo Stato, venuto a conoscenza dei proventi, potesse equamente tassarli. Il borgo di Castiglione fu sottoposto anch’esso alla legge ed il bando venne emanato il 20 dicembre del 1741, quando era sindaco il Magnifico don Carlo Maselli e cancelliere il Magnifico Bruno Rametta. Nella Chiesa parrocchiale di Sant’Antonio Abate si riunì il Parlamento dei cittadini e fu creata una Commissione di 10 persone, di cui fecero parte: Tre nobili nelle persone di: il Magnifico don Giuseppe Basile, il Magnifico don Alessandro Giammaria, il Magnifico don Domenico Sasso;

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Tre popolani nelle persone di: Antonio Pagliaro, Michelangelo Andricciola, Giuseppe Mandile; Due estimatori del paese nelle persone di: Antonio Paladino e Michelangelo Giudice; Due forestieri nelle persone di: Giuseppe Vescio Fronzino e Antonio Spinelli di Falerna. La Commissione doveva provvedere a stilare il censimento di tutti gli abitanti del borgo, recandosi casa per casa e trascrivendo l’identità di ognuno ed i beni in loro possesso o in fitto, in questo caso dal testo si doveva risalire all’identità del proprietario. I dati furono regolarmente rilevati e fu inviato nella capitale il documento, datato 12 gennaio 1742 e firmato dall’arciprete don Gregorio Giammaria e dal parroco don Nicolò Sasso. Dal testo si evince che in quell’anno il castello era abitato da 238 anime di cui ben otto sacerdoti: don Aloisio Giammaria di 36 anni, don Carlo Giammaria di 32 anni, don Gregorio Giammaria suddetto di 60 anni, tutti fra di loro “congiunti”. Don Antonino Andricciola di 48 anni, don Domenico Marino anche lui di 48 anni, don Francesco Magna di 36 anni, don Michelangelo Oliverio di 31 anni, don Nicolò Sasso suddetto parroco di 48 anni. Nei pressi della Chiesa di Santa Maria della Scala vi era poi un eremita che dichiarò nella sua “rivela”: “Io Nicola Curatole, della terra di Fiumefreddo, abitante in questa terra di Castiglione, rivelo di essere”Romito” nella Venerabile Chiesa di Santa Maria della Scala, sita fuori di questa suddetta terra di Castiglione, da mezzo miglio circa, di anni quarantasei -46. Abito in una cella sita accanto le mura di detta Venerabile Chiesa della Scala, per la quale non pago cosa veruna. Vivo coll’elemosina che da abitanti di questa terra di Castiglione mi viene somministrata, Mercoledì e Sabato. Segno di croce di questa mano del sudetto fra Nicola Curatole, “Romito” che rivela come sopra.241 Nel 1753 la principessa Vincenza Maria ottenne il titolo di Grande di Spagna di Prima Classe, così come lo zio Alessandro ed il nonno Tommaso, dal re di Spagna Ferdinando VI, 241 M. Folino Gallo: “Castiglione Marittimo a metà settecento. Catasto On ciario 1742”.

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fratellastro del re Carlo in quanto figlio di Filippo V e della prima moglie Maria Luisa di Savoia.242 La qualificazione onorifica, che si configurava come una fra le maggiori dignità di cui godevano gli appartenenti all’aristocrazia, si divideva in tre classi e, se l’ultima era solo “onoraria”, come veniva definita, la prima conferiva all’interessato privilegi particolari. Così Vincenza Maria ebbe vari benefici come quello della zecca, ossia la possibilità di battere moneta, o ancora quello di “portulania” nelle terre di Castiglione, ovvero poteva effettuare prelievi fiscali di qualsiasi natura. Tale riconoscimento, come già detto il più alto fra i titoli di Spagna, risaliva al tempo di Carlo V, il quale aveva concesso ad alcuni dei suoi vassalli, appunto i “Grandi”, l’emblema nobiliare, considerandoli cugini con diritto di “cobertura”, che permetteva di potersi sedere al suo cospetto col capo coperto, assistere alle funzioni religiose nella cappella reale, avere incarichi di comando durante le guerre, godere nelle corti d’Europa di un trattamento pari a quello dei principi sovrani, non poter essere arrestati, se non su suo diretto mandato. Vincenza Maria d’Aquino Pico, pienamente adagiata nella sua posizione di privilegiata a corte, si avvaleva di quella “grandeza personal” concessa al nonno Tommaso, al quale il re Carlo aveva permesso anche la successione per via femminile, e da grande possidente, trascorreva le sue giornate fra i giochi d’azzardo, concedendosi una vita brillante e dispendiosa nella splendida villa di Posillipo, poco interessata a quel feudo in Calabria che aveva avuto un grande significato per i suoi predecessori ed a cui lei richiedeva danaro liquido ed in gran quantità. Il Castello di Castiglione, antico e possente maniero, versava in condizioni disastrose, come appare da un resoconto relativo 242 Ferdinando VI fu in carica dal 1746 al 1759, anno d ella sua morte. A lui subentrò nel Regno di Spagna Carlo VII di Napoli col titolo di III di Sp agna, il quale lasciò il Regno delle due Sicilie al figlio Ferdinand o (1751-1825), an cora bambino, sotto la reggenza di un Consiglio in cui predominarono lo zio Domenico Cattan eo, prin cipe di San Nicandro, ed il ministro Bernardo Tanu cci.

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all’anno 1761: “Il quarto della parte di levante di lamie reale consistente in camere n. 5 abitabile vi manca una fermatura, il quarto di sopra inabitabile essendo scoverto e non vi sono finestre ne porte ne tavolate solo le pure mura, e travi con pochi ceramili…….”243 Anche il palazzo baronale di San Mango in un inventario dello stesso anno appare “senza tegole, con le travi delle camere pericolanti ed il magazzino scassato e con un muro aperto”.244 Da troppo tempo l’intero feudo era ormai dimenticato e trascurato in una terra che, molti anni dopo, in una relazione del 1783, al tempo del terribile terremoto, così veniva ancora descritta: “Il terreno di questa penisola è, come deve credersi uno de’ più produttivi di tutta l’Europa. Dicesi anche, che non essendo la vigesima parte del Regno di Napoli, forma almeno il decimo della sua rendita… prima l’autore aveva detto… “possiede anche una marineria di pescatori egualmente numerosa, addetta alla pesca del tonno, dello spada, e degli altri delicati pesci, di cui il suo mare abbonda...ed aggiungeva...La mano feudale e la clericale usurpandovi tutta la propietà, vi han soffocato tutta l’industria, che la pirateria barbaresca non ha potuto rapire. Esse l’han ridotta ad esser più deserta di marinari delle Coste di Labrador, o della Nuova Zelanda...245 E’ chiaro il riferimento al cattivo governo sia dei Signori quanto anche della Chiesa, che agivano con l’unico scopo di ricavarvi lauti guadagni, calpestando ogni legge morale e deliberando norme che oggi definiremmo “ad personam”. Se a Castiglione gli Ordini religiosi si arrogavano diritti ineluttabili, anche a Nicastro la Diocesi si reggeva in piena autonomia, gestendo le rendite assai elevate che ricavava dai suoi possedimenti e generando all’interno profondi malcontenti, infatti dal 1709 al 1718, dopo la morte di Mons. Nicola Cirillo, la Diocesi fu retta da un Vicario Capitolare, perché la S. Sede non provvide a nominare un successore, dimostrando così una 243 R. Donato – G. Russo: op. cit. p ag. 155. 244 A. Orlando: Cleto, Savuto e San Mango. 245 M. Torcia: “Tremuoto accaduto nella Calabria e a Messina alli 5 febbraio 1783” p ag. IX, VIII.

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profonda disattenzione in un momento in cui il Palazzo Vescovile era stato occupato dai soldati austriaci. Probabilmente la Sede Episcopale di Roma volendo estraniarsi da ogni evento riguardante la Diocesi lametina per il particolare stato di forte disagio in cui venne a trovarsi, dovuto al fatto che la famiglia d’Aquino aveva dimostrato apertamente la sua ostilità alla presenza asburgica nel meridione d’Italia, permise l’avvento di vescovi, per la maggior parte calabresi, che non furono in grado di adempiere ai propri compiti. Alla morte di Mons. Francesco Maria Loyero di Badolato, avvenuta il 24 dicembre 1736, dopo poco più di cinque anni di guida spirituale, il clero locale nella corsa alla carica di Vicario Capitolare cadde nel disordine più totale, per cui si contrapposero due fazioni nel tentativo di imporsi sul controllo della Diocesi vacante, l’una sosteneva il nipote del vescovo defunto, l’altra invece, adducendo il pretesto di volere una guida apostolica locale, proponeva Agostino Sacco. Da qui si giunse allo scontro violento che lasciò sul pavimento della Cattedrale un morto ed un ferito grave.246 In questo contesto fu nominato vescovo Mons. Achille Puglia, originario di Laurino, eletto l’11 febbraio 1737, il quale, non considerando affatto i problemi interni alla sede lametina, elesse come suo vice il fratello Smeraldo, non solo, ma lo nominò anche Arcidiacono del Capitolo, col compito importante di amministrare la Diocesi.

246 F. Mazza: “Lamezia Terme: Storia, Cultura, E conomia” pag. 140, nota 111.

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Museo Diocesano di L. Terme – Nicastro Ritratto di Mons. Achille Puglia sec. XIX La scelta non pose assolutamente fine allo scompiglio anzi lo accrebbe, così che alla fine degli anni trenta il Capitolo ed il Comune ricorsero al Pontefice per denunciare come durante il presulato di Mons. Loyero erano stati istituiti cinque canonicati soprannumerari che si riferivano alle Chiese di S. Antonio Abate, della Vetrana, di S. Maria Lauretana, di S. Giovanni Battista e dei Cappellani Corali, alle quali, dicevano, erano state consegnate le rendite destinate alle opere di pietà.247 Mons. Puglia fu costretto allora nel 1738, dopo appena un anno dalla sua nomina, a sopprimerne quattro, lasciando solo quello dei Cappellani Corali, ma la lotta continuò e probabilmente per il suo cattivo carattere negli anni intorno al 1760 i ricorsi contro di lui 247 F. Cozzetto: “Città di Calabria e hinterland nell’età modern a” pag. 199, nota 48.

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arrivarono alla Nunziatura Apostolica di Napoli e da lì trasferiti a Roma, da dove giunse la decisione di sospendere dagli incarichi entrambi i fratelli prelati, salvo poi reintegrare il vescovo nel 1765. Ma i disagi e la mancata affezione per l’ambiente circostante non finirono, come appare dalla relazione del Visitatore Apostolico Mons. Paolino Pace, che solo tre anni dopo, nel 1768, lamentava ancora lo stato di disagio economico e sociale in cui versava la Chiesa locale, per cui la stessa Cattedrale mancava delle necessità primarie. Il tetto, diceva nella relazione, lasciava penetrare infiltrazioni di acqua piovana e non c’erano nemmeno le candele per celebrare la Messa, cosicché: “se un sacerdote forestiero non porta le candele in sacca non dirà Messa nella Cattedrale di Nicastro”, addebitando la colpa al degrado della diocesi retta da Mons. Puglia.248 Nelle sue “Relationes ad limina” il Vescovo lamentava la condizione di disagio in cui versava la Diocesi, dal momento che era impossibile riscuotere dalle famiglie benestanti le rendite dovute ed in particolar modo i crediti dei proprietari risultavano inesigibili. Il Puglia ricoprì la Cattedra Vescovile fino al 1773 in un continuo crescendo di conflitti e di interessi personali, infatti negli ultimi anni fu accusato dal Capitolo e dal reggimento comunale di Nicastro di avere spogliato di ogni bene la sede “in 34 anni del suo Vescovado niente aveva dato alli poveri, e alla Chiesa; spogliò tutto l’Episcopio, e fece trasportare nella sua patria , e propria casa, tutta la roba, e mobili; senz’averci lasciato neppure un chiodo.”249 Anche gli Ordini Religiosi si trovavano in uno stato di profonda debolezza ed i Cappuccini in particolare dimostrarono poca capacità di saper gestire la propria posizione regolata da un provvedimento imperiale asburgico del 1718, che aveva concesso a loro di trasformare un piccolo mercato detto “della Perdonanza” in una fiera da tenersi per ben 15 giorni nel primo periodo del mese di giugno. 248 F. Cozzetto: “Città di Calabria e hinterland nell’età moderna”, p ag.200, n. 49. 249 F. Mazza: op. cit. pag. 125.

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L’atto legislativo, che intendeva riconoscere una forma di dinamismo nelle manifestazioni della vita sociale lametina, fu sostituito nel 1767 da un provvedimento comunale, preso in accordo con l’agente della Principessa Vincenzina e con il consenso dello stesso vescovo, per cui la fiera fu trasferita nella “Piazza Grande” nei pressi della Cattedrale, al di fuori dello spazio dei Cappuccini,250 che persero quel riconoscimento sociale che procurava enormi giovamenti e vantaggi non solo economicamente, ma anche nell’immagine. La principessa Vincenzina si sentiva completamente estranea a questa realtà che seguiva con fatica, la società si era assai modificata e non vi erano più quelle lotte fra clero e signore feudale che avevano caratterizzato il secolo precedente, al contrario si era stabilita nella città un nuovo equilibrio politico in cui si erano formati due parlamenti separati: il primo dei nobili, il secondo del popolo, dove i 20 rappresentanti dei due ceti portavano le esigenze e le proposte emergenti in ciascuno di esso. La principessa venne due sole volte in Calabria e soggiornò proprio nella cittadina di Nicastro, la prima volta nel 1765, nel pieno della lotta che dilaniava la Chiesa locale, ma il suo interesse era tutt’altro, in quest’occasione divise il feudo, concedendolo in affitto con contratti di sei anni ad amministratori del posto, che avrebbero tutelato i suoi interessi, come da tempo era prassi delle famiglie nobili proprietarie che risiedevano a Napoli. Risale proprio a questa data una supplica presentata dal nobile Gennaro Barone, capo eletto dell’Università di Sambiase, in cui si elencavano i pericoli che i cittadini affrontavano ogni volta che erano costretti a recarsi a Nicastro per problemi di giustizia. Il tragitto, dice nella sua relazione, era disagevole non solo per la strada dissestata, ma soprattutto perché si introduceva pericolosamente nel bosco, dove si nascondevano i briganti, i quali derubavano i viandanti, spesso li uccidevano e violentavano le donne. Il nobiluomo chiedeva quindi l’autonomia della giustizia e della politica, con la designazione di un governatore e 250 F. Mazza, op. cit. pag 125.

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mastrogiurato indipendente con capacità di poter operare senza supporti esterni e chiedeva ancora la possibilità di avere carceri proprie. “Eccellenza l’Università della terra di Sambiase e quei umilissimi vassalli supplicando espongono alla E.V. come si ritruova angustiatissimi per dovere giornalmente andare a ritrovar giustizia nella città di Nicastro, luogo stante da circa più di due miglia con notabilissimo incomodo con insoffribili scandali………per ragion che le povere donne per rinvenir ivi giustizi a o colà citate per comparire per le correnze di Corte, passar debbon per foreste e nascondigli, s’incontrano per la via con pericolo per l’onestà, come ivi più volte è avvenuto……………………………………………Altri funesti esempi sono accaduti, come quello del miserabile Giorgio d’Orlando ucciso da un suo competitore per la via, mentre andava in Nicastro ad esporre contro di lui criminale querela, e ricevere la giustizia……” Il Barone a nome dell’Università denunciava pure la cattiva giustizia a cui la cittadina di Sambiase doveva soggiacere: “Oltre agli enunciati motivi si aggiunge la generale mancanza della giustizia, da poiché essendo detta Università supplicante numerosa, ed accresciuta di popolo fino al numero di tremila, e più centinaia, il Governatore di Nicastro, risiedendo sempre in essa Città, senza neppur un giorno dell’anno farsi vedere……………………….manca dispensare all’Università e suoi Cittadini Supplicanti quella giustizia, che anche pedaneamente in alcuni casi si potrebbe impartire. Vengono perciò tutti a rimanere oppressi, e defaticati dall’andirivieni per più, e diverse volte senza ottener l’intento. Vengono inoltre i vostri fedelissimi, ed ossequiosi vassalli dell’Università supplicante oppressi, e defaticati, qualora si trasportano carcerati con decreto di detta corte di Nicastro nel Castello di essa città malmenati, e estorti per la via, come prima estorti vengono nelle proprie loro case dalli famigli di Corte, e da Nicastro emissari……………………all’incontro la vostra Università supplicante gode il vantaggio di creare indipendentemente dall’anzidetta città di Nicastro non solo il suo Magistrato, e V.E. compiacersi confermarlo qualora sia del suo gradimento, ma si bene ave un particolare, ed indipendente Mastrogiurato, che s’elegga dall’E.V………………………” La risposta della principessa non si fece attendere e con data 10 agosto 1765 inviò il suo assenso: “……..Per quanto spetta a noi, e

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dipende dalle nostre potestà, veniamo ad accordare alla diletta nostra Università di Sambiase la facoltà di restar separata, e divisa in qua nto all’esercizio della Giurisdizione dall’Università della Città di Nicastro, obbligandoci noi di crearli, e destinarli in ogni vacanza un Governatore separato da detta città, il quale abbia a riconoscere tutte le cause delli naturali di Sambiase, così civili, che criminali e miste, con tutte le facoltà, e preminenze, che a detti Governatori de jure co……………………..quale nostra grazia, permesso e consenso s’intenda dato, ottenuto che sarà il Regio Assenso…………quale Assenso la suddetta Università di Sambiase lo dovrà procurare a proprie spese…………………….”251 Dai documenti appare dunque chiaro che negli ultimi anni del 1700 le cittadine della piana lametina vivevano momenti di degrado e spesso inutili apparivano le denunce ripetutamente formulate. La cattiva amministrazione non provvedeva nemmeno alla manutenzione del territorio, anche se le bellezze paesaggistiche incantavano i viaggiatori che vedevano questa terra come un angolo di paradiso. Così l’inglese Henry Swinburne quando passò per la Calabria fra il 7 ed il 12 maggio del 1777 e di ritorno fra l’8 ed il 22 febbraio 1778, nel suo viaggio a cavallo alla volta della Sicilia, annotava nel suo diario le sensazioni ricevute attraverso descrizioni pittoresche di un territorio considerato ai margini del mondo civile. “Dopo aver camminato per 24 miglia, giungemmo a Nicastro dove fui alloggiato dai Domenicani. I dintorni sono ricchi di bellezze paesaggistiche ……..Il castello di Nicastro è un romantico rudere in posizione pericolante sul letto di un fragoroso torrente che scorre giù in una valle buia e boscosa……Ai piedi e lungo i fianchi della salita, che è solcata da vallate boscose, si trovano alcune cittadine e piccoli villaggi. Vicino a quello di San Biagio ci sono acque termali di grande efficacia per molte malattie”.252 Ancora una volta tuttavia questo splendido paesaggio dalla visione pittorica fu preda degli agenti atmosferici che si accanirono per vari anni seguenti. 251 F. Raffaele: Op. cit.Sez. Arch. Di Stato di Lamezia Terme, Proto collo Notaio P. Agapito, 1765, ff.101-104. 252 Hen ry Swinburne: Viaggio nel Regno delle due Sicilie.

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Nel 1780 Nicastro si trasformò in un lago a causa delle piogge continue che portarono ancora una volta all’esondazione dei due fiumi Canne e Piazza, che scorrono intorno alla città, e poi ancora nella notte del 10 dicembre 1782 un uragano impetuoso accompagnato da grandine, vento e fulmini inondò nuovamente l’intero territorio, mentre l’“irruzione mostruosa”253 del torrente Piazza procurò la morte di ben 113 persone. Il 5 febbraio 1783 la Calabria fu poi colpita da un terremoto devastante simile a quello del 1638; si registrarono scosse fortissime di cui la prima raggiunse una magnitudo pari a 7,4 della scala Richter. Cinque altri eventi sismici si susseguirono da quel giorno fino al successivo 28 marzo, con epicentri che si spostarono dal sud verso il centro della Calabria, cosicché le scosse fortissime si propagarono dal territorio posto fra Soriano, Polistena, Borgia e Girifalco, colpendo in pieno il feudo dei d’Aquino. Una cronaca di quell’anno così riporta: “Sembra che il centro del tremuoto sia stato situato immediatamente sotto il pezzo meridionale, ed il termine della rovina fissato ai due fiumi di già citati…(precedentemente si era parlato dei fiumi Lamato e Corace, Lametus et Crotalus che scorrono nella piana di sant’Eufemia, versandosi l’uno nel golfo lametino, a cui dà il nome, l’altro nell’opposto golfo di Squillace)…… Le parti le più vicine del suo nocchio sono state più fortemente smosse , voragini subitanee vi hanno inghiottito ciò che si era presentato al loro abisso, gli alberi vi sono stati svelti dalle loro radici; le città rovesciate dalle loro fondamenta; le acque sorgive vi hanno perduto, o nascosto il loro corso………..La forza Volcanica produttrice di tutti questi effetti ha dovuto trovarsi ad una enorme profondità, e di una violenza inimmaginabile. L’estensione della superficie, che ha agitata, ed il peso de’ monti granitici, che ha sollevato in tempi uniformi, non altrimenti, che il continuo tremore, che non fa tuttavia rassettare il terreno, sembrano esserne pruove incontrastabili………Se gli edifici crollavano per terra, le navi non sono state meno conquise per mare…………………Il cominciamento del tremuoto ha scoppiato senza verun precedente segno il Mercoledì 5 di 253 F. Mazza op. cit. p ag. 127.

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febbraio. La prima scossa la più terribile di tutte, e che durò tre minuti, avvenne tre quarti di ora dopo il mezzo giorno; la seconda, quasi egualmente forte a’ 7 ore di notte; la terza, che finì di abbattere le Città, ed i Villaggi, il venerdì seguente a 20. Se ne sono contate fino al giorno 3 del corrente Marzo in sì gran numero tra forti, e leggiere che cogli avvisi posteriori parlasi di un tremuoto continuo;…………………Il loro movimento è stato di ogni genere, di sussulto, ondulatorio, di trepidazione. Non è stato un moto della terra, ma un rovescio totale della sua superficie…………….Una dirotta pioggia con venti, e nebbia indicava la piena agitazione del quarto elemento. I pastori, e i fuggiaschi della Campagna sentivano gli aliti tramandati di bitume e di solfo, come gli equipaggi de’ bastimenti, che solcavano lungo la costa…….”Riferendosi al 28 marzo poi la relazione così riporta. “……….alla seconda ora della notte, fu inteso romor cupo come rombo pieno e prolungato: e quindi appresso moto grande di terra, nello spazio tra Capi Vaticano, Suvero, Stilo, Colonna, 1200 almeno miglia quadrate………..durò 90 secondi, spense 2000 e più uomini……..”254 Fu questa la scossa che provocò danni catastrofici non solo al feudo dei d’Aquino, ma anche a molte altre località della Calabria. In complesso ci furono più di 900 scosse, che si susseguirono nei tre anni successivi, e centinaia di città e di villaggi subirono danni immensi con perdite umane incalcolabili. Si parlò di 3000 morti, ai quali si aggiunsero ancora più di 5.000 per malattie, epidemie e stenti sopraggiunti. Castiglione era ormai ridotto a poche casupole, per l’esodo degli abitanti verso il nuovo centro di Falerna, ed il Castello subì ancora altri gravi danni che lo portarono al totale abbandono. Una cronaca del tempo riferisce: “Nel 1783 furono asciugati tre grandi ristagni che si erano formati sui territori di Falerna e Castiglione Marittimo, e propriamente nella contrada detta “Malvitano”. Dal Vicariato generale fu incaricato dell’esecuzione della bonifica l’Ing. “delli Reali Eserciti, Piazze e Frontiere di Sua Maestà” Don Giuseppe Bardet di Villanova, il quale affidò l’appalto a Francesco Chirumbolo.

254 M. Torcia, op. cit. p ag.IX e seg.

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“Di questi in tale anno, uno fu asciugato interamente: gli altri due, quantunque fossero stati colmati di fascine e di arena, colle susseguenti acque si riempirono di nuovo, ma alla sola altezza di un palmo: anche nel 1785 fu ordinato al Chirumbolo di disseccarli perfettamente a tenore d’obbligo fatto”.255 La città di Nicastro fu tra quelle più danneggiate dall’evento, le esondazioni del fiume Piazza si aggiunsero ai moti della terra che si ripeterono per tutto il mese di marzo, la cattedrale ancora una volta fu colpita e molte case nobiliari caddero, mentre altre subirono lesioni gravi. Tra gli edifici più danneggiati vi fu l’imponente palazzo d’Aquino che nel passato era stato il fulcro della feudalità nel territorio. Allo stesso modo furono profanati dal sisma molti altri luoghi religiosi, che sottolineavano nel territorio la fede immensa del popolo, unico elemento che lo univa in una catena di uguaglianza umana alla stessa nobiltà; così a Soriano la Cattedrale di San Domenico con il convento, centro principale del meridione d’Italia, che dal 1612 era sede del Capitolo Provinciale della Calabria, fu raso al suolo. Il santuario, protetto dalla famiglia d’Aquino sin dal 1530, anno della sua edificazione, presto era divenuto meta di continui pellegrinaggi di tutta la popolazione del meridione lì chiamata dalla fama delle grazie che si ottenevano per intercessione della “Tela acheropita”,256 trasformandolo in centro propulsore di incontri, cultura e religiosità.257 255 M. Folino Gallo, op. cit. pag. 86. 256 Ach eropita = “Non dipinta da mano d’uomo”. L’immagine di San Domenico che, resistendo ai terremoti (1659 e 1783), si può an co ra vedere nella nuova Chiesa di Soriano, costruita n el 1838, è circondata d a un alone di mistero. Racconta la leggenda che nel 1510 il domenicano Vin cenzo da Catanzaro si recò a Soriano p er edificare un convento dedicato a San Domenico, ma, ultimata la Chiesa, si acco rse di non possedere un’effigie del Santo. Nella notte del 15 settembre 1530 apparvero a frate Lorenzo da Grotteria tre donne ch e poi si rivelarono essere: la Madonna, Santa Maria Maddalena e Santa Caterin a d’Alessandria, che gli consegnarono la Tela, raffigurante San Domenico, ch e da subito si rivelò miracolosa. 257 Hen ry Swinburne, op. cit., annotava n el suo diario che ogni anno si

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Lo stesso Filippo IV, re di Spagna, aveva mostrato predilezione per questo complesso sacro quando, dopo il terremoto del 5 novembre 1659 a causa del quale aveva subito ingenti danni, lo volle riedificare, incaricando del progetto il certosino P. Bonaventura Presti, architetto bolognese, che prese a modello l’Escorial di Madrid, il quale si fece aiutare dall’altro grande maestro Guarino Guarini. Dai ruderi oggi visibili si deduce che la costruzione si estendeva su una superficie di circa 15.000 mq., aveva cinque chiostri, 258 circondati da porticati con colonne, e la Chiesa tardo barocca ad unica navata maestosa a croce latina in granito e travertino, con imponente altare maggiore, progettato da Martino Longhi il Giovane, simile dicono gli studiosi, a quello che oggi possiamo ammirare a San Carlo ai Catinari a Roma, ideato dallo stesso artista .259 L’ed ificio sacro era a quattro campate con sei cappelle laterali comunicanti tra loro ed era ornato da meravigliose sculture, molte delle quali, recuperate, possono ancora ammirarsi in tutta la loro bellezza. Erano state eseguite da artisti assai famosi, come Gian Lorenzo Bernini, di cui è conservata una splendida testa di Santa Caterina d’Alessandria in marmo di Carrara, o Giuliano Finelli260, suo allievo, autore di un busto in marmo di San Domenico, ma ancora lavorarono per la Chiesa di Soriano Pietro Bernini, padre

recavano in quel luogo circa 1500 donne presunte indemoniate 258 Oggi i chiostri sono quattro, su uno infatti è sorta la nuova Chiesa ottocentesca di San Domenico. 259 Carlo Vulpio: Art. “Bernini tra le macerie” Co rriere d ella Sera, 8 genn. 2012. Il gio rnalista ripo rta la scop erta del Prof. Mario Panarello, Storico dell’arte e Do cente di Restauro e Diagnostica dei Beni Culturali all’Università di Cosenza, il quale nel 2010 h a esposto le sue teo rie n el volume: “Il grande cantiere del santuario di San Domenico di Soriano. Scultura, marmi e argenti” Ed. Rubbettino. 260 G.Finelli artista della scuola del Bernini è autore d ella statua b ronzea di San Domenico n ella cappella del Tesoro di San Gennaro a Napoli e collaborato re dello stesso Bernini nella composizione del gruppo Apollo e Dafne nella galleria Borghese di Roma.

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di Gian Lorenzo, Giuseppe Scaglia, Orfeo Boselli, Antonio Corradini, Matteo Bottigliero, Francesco Pagano. Il campanile del tempio era alto 40 m. ed il convento possedeva una biblioteca con circa 40.000 volumi, molti dei quali stampati dalla tipografia dello stesso convento, testimonianza di un fervore culturale ed intellettuale che da qui si propagavano. La notizia dell’immane disastro giunse alle orecchie della principessa Vincenza ed al Governo di Napoli qualche giorno dopo il sisma, il 14 febbraio 1783, portata dalla nave militare S. Dorotea che, partita da Messina, si trovava di passaggio lungo le coste calabresi proprio nel momento dell’evento catastrofico. Il re Ferdinando IV di Borbone impose una tassa straordinaria di 1.200.000 ducati ed inviò nelle zone colpite il generale Francesco Pignatelli, principe di Strongoli, perché di persona tracciasse un resoconto dettagliato della situazione.

Ferdinando IV e Maria Carolina Gli esperti misero in risalto le gravi condizioni in cui la Calabria versava, non solo a causa del terribile evento, quanto anche per il cattivo governo locale, così prospettarono un nuovo sistema

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amministrativo che eliminasse la prepotenza dei baroni, le gravose tasse derivate dalla manomorta, la corruzione, la violenza. Il sisma poi aveva seminato indicibile paura ed aveva diviso la popolazione in due categorie: quella più fragile che si affidava alla volontà divina e chiedeva l’intercessione della Madonna di Visora di Conflenti, dove si recava in continui pellegrinaggi per offrire doni e celebrare l’effigie in solenni processioni,261 e l’altra alla quale la miseria aveva reso i costumi più duri, spingendola verso la criminalità. I malviventi dunque proliferarono e, non avendo nulla da perdere, compivano stragi e vendette, dandosi subito dopo alla macchia. Augusto Placanica ha scritto: “Un certo dinamismo -inattesocaratterizzava dunque la Calabria settecentesca …che, quasi giovandosi della “provvida sventura” del terremoto del 1783, conobbe un certo cambiamento…la regione continuava, sì, ad essere il vecchio serbatoio granicolo di sempre (tanto più importante per la regione quanto più essa manteneva livelli bassi di popolazione, a fronte di una crescita demografica altrove notevole), ma il nuovo si faceva strada. Quel che però stupiva i forestieri – i funzionari, gli alti burocrati, i viaggiatori- era la grande, e spesso giustificata, diffusione della violenza: lo stato, la giustizia, il fisco erano quasi in gara con la feudalità nell’alimentare abusi d’ogni sorta: se gli omicidi aumentavano – e aumentarono ancor di più all’indomani del sisma…-, è anche vero che spesso gli uomini si “gettavano alla campagna” per non avere ormai più nulla da perdere: gli episodi di violenza, di corruzione, di abusi, di vendette, erano tanti, e anche tali, da costruire un quadro della Calabria e dei calabresi estremamente inquietante. Si trattava di antichi nodi irrisolti, tra i quali primeggiava l’eccezionale disparità nella distribuzione delle ricchezze…-era subentrata una nuova classe di possidenti borghesi, inaugurarono un’amministrazione ben più impietosa e programmaticamente incurante d’altro che non fosse gestione di rendite e profitti”.262

261 La d evozione alla Madonna di Con flenti si è tramandata fino ai nostri giorni e, nel ricordo di quei gio rni terribili, la solenne pro cessione del 7 febbraio di ogni anno, raccoglie pellegrini da tutta la Calab ria. 262 A. Placanica: “Storia della Calab ria dall’antichità ai nostri giorni” p ag. 254.

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Il governo della principessa fu certamente tra i più negativi; dalle sue terre in Calabria la nobildonna cercava solo di trarre i massimi guadagni per far fronte agli ingenti debiti che contraeva a causa della sua vita caratterizzata dalle cattive abitudini del gioco, così nel 1784 confermò per la seconda volta in affitto i feudi di Castiglione a don Odoardo Fiore da Sambiase “per lo tempo d’anni sei da cominciare dal primo gennaro 1784, tempo in cui dovrà terminare questo che al presente si trova fatto a lui medesimo, gli ha offerto e (?) si è convenuto di aumentargli in annui centoquaranta l’anno….). 263 La richiesta del fitto veniva aumentata da 13.638 a 13.778 ducati l’anno, e da essa si doveva detrarre la somma di 228,62 ducati per “la manutenzione et accomodi necessari e forzosi nelle case, botteghe, taverne, molini, trappeti ed altro”.264 Una cifra comunque immensa che gravava in gran parte sugli abitanti del territorio, che risultavano sempre più oppressi da questi carichi enormi di tasse. Nello stesso atto vengono elencate le rendite che la principessa possedeva nelle due province di Calabria. “E sono 13. In Provincia di Calabria Ultra possiede la città di Nicastro col suo casale di Platania e le terre di Zangarona, Sambiase, Feroleto e Serrastretta.”265 Il notaio Narici di Napoli trascrisse anche quanto la principessa richiedeva le venisse inviato nella sua residenza napoletana: “oglio commestibile staja ventidue, zibibbo sportelle sei, fichi secche tomoli due, olive tomoli due, cacio forme 132,…sopressate rotoli 30 e candelotti libre 100...” L’elenco continua con “staia quindici di vino di Castiglione, salme 263 Atti dell’Archivio di Stato di Catanzaro, Sez. di Lamezia Terme, Fondo Notarile, Registro del notaio Prospero Staglianò da Nicastro, Anno 1780, fol. 7 ss., data stipula 25 settembre. Oggetto: “Pubblico istrumento di affitto de’ feudi, delle rendite ed altro stipulato tra l’E cc.ma Sig.ra Vin cenza Maria d’Aquino, prin cipessa di Castiglione e don Odoardo Fiore d a Sambiase”. Il notaio Staglianò di Nicastro riceve l’atto redatto dal notaio Carlo Narici di Napoli ed a pag. 9 specifica ch e i terreni: “furono da lei dati in affitto al (?) D. Odoardo de Fiore per tempo d’anni sei continui di fermo, e forzosi, che devono terminare nel dì ultimo decembre 1783, per prezzo affitto et …et a ragione di tredicimilaseicentotrentotto... Oltre diversi pesi, et altre prestazioni, siccome dall’istro. di affitto stipulato per mano mia a g. otobre 1773.” 264 Atti cit. p ag. 13. 265 Atti cit. p ag.10.

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cinque lino femminello pesi n° dodici, e olive secche tomoli due, sicchè resta fissato l’intiero Estaglio di ducati per ciascun anno in contanti 13.425.”266 Don Odoardo Fiore si impegnava inoltre a versare 240 ducati annui a don Francesco Valignani “in virtù di publico stromento e principiare e tenere il primo pagam.to ...nella fine di aprile di l’anno 1784, e egli continuare durante il sessennio …”267 Non si conoscono di preciso i motivi di questo pagamento, forse si trattava di un subaffitto o di debiti che la principessa aveva contratto negli anni precedenti, come si evidenzia dall’atto in cui si legge che la nobildonna nel 1771 aveva acquisito col Banco di sant’Eligio un mutuo pari a 13.000 ducati e poi nel 1775 aveva richiesto ancora un prestito pari a 4.000 ducati. Nel 1777 ebbe a fare alla stessa Banca ancora una richiesta di 9.000 ducati e nel 1778 richiese un mutuo di 2.000 ducati alla Real Congregazione di S. Giacomo de’ Spagnuoli. Cifre da capogiro diremmo oggi che con disinvoltura la principessa richiedeva, sapendo di poter confidare sui suoi vassalli ai quali elargiva titoli nobiliari. A soffrire erano invece i braccianti ed i contadini i quali lavoravano quelle terre fertili che producevano ricchezze a dismisura, ma dalle quali restavano per loro solo le briciole, anzi spesso alle domande di sgravi fiscali, si sentivano rispondere con richieste di rinunce a diritti acquisiti da tempi remoti. Il degrado era dunque generale e la disperazione totale, ma in qualche caso con l’aiuto di amministratori consenzienti, si modificavano i catasti onciari, inserendo parti di terre feudali in quelle burgensatiche,268 sulle quali la principessa doveva pagare le sue tasse allo Stato; così avvenne proprio nel 1792 a San Mango, per volontà del cittadino primo eletto della terra.269 In generale però, in rappresentanza degli interessi del feudatario, gli amministratori governavano senza scrupoli, per cui in seguito alle continue lagnanze che giungevano, la principessa fu costretta 266 Atti cit. p ag. 20. 267 Atti cit. p ag. 23. 268 Non feudali, ossia beni allodiali o p rivati. 269 Ricerch e di F. Torchia: “Disfacimento dei Feudi d’Aquino”.

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per la seconda volta a venire in Calabria proprio negli anni intorno al 1790 per imposizione del Re, che minacciò di confiscarle le terre.270 Il 4 marzo del 1794 la principessa Maria Vincenza continuò a disfarsi dei suoi feudi e diede altri terreni in affitto ancora per un periodo di sei anni a don Gaetano Torchia di Serrastretta, compilando così ancora un inventario generale che fu siglato a Napoli dal notaio don Andrea Tufarelli. Il documento si rivela di grande rilievo, non solo perché in esso ancora una volta viene posto in evidenza lo stato di abbandono in cui versavano gli edifici, tra cui “la Taverna” sita sulla marina di Castiglione, ma viene pure descritto quello della dogana che ha costituito per la terra un importante ufficio di controllo alla frontiera del territorio dei d’Aquino. Da alcuni documenti si evince la struttura della costruzione, a cui si accedeva attraverso un portone in legno diviso in due ante, che dava l’accesso all’interno in un luogo scoperto, probabilmente una sorta di androne. Alla destra di esso vi erano due stanze, che servivano come stalle dentro le quali vi erano le mangiatoie, ed uno stanzino usato come Chiesa, che però non aveva alcuna suppellettile, di fronte invece vi erano cinque stanze in cui erano insediati i vari uffici della dogana stessa. A sinistra vi erano alcuni gradini in muratura che portavano ad una camera detta la torretta, dalla quale, attraverso una scaletta a chiocciola, si saliva nell’atrio superiore, dove vi era una loggetta in legno, ricoperta di tegole, da cui era ben visibile l’ampia distesa del mare. Dal documento risulta che al Pian delle Vigne la principessa possedeva un uliveto di 460 alberi ed un ampio spazio con 106 alberi di fichi, da cui ricavava grossi guadagni. La campagna nella zona di Castiglione viene ancora descritta come luogo produttivo a cui si contrapponeva la miseria più totale dei contadini costretti ad una vita miserevole per mantenere l’elevato tenore di vita della principessa dedita al vizio del gioco, che ormai, divenuto una vera e propria patologia, la trascinava vorticosamente nelle sue spire, oserei dire, con conseguenze sul 270 Ricerch e di F. Torchia.

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suo equilibrio psichico. Anche durante le sue visite in Calabria la nobildonna perseverava in questo suo unico piacere, intrattenendo il patriziato locale e perdendo molto spesso grosse somme, così ricompensava i suoi creditori con donazioni di terreni ed attribuzioni di titoli nobiliari, mentre i beni del feudo, di cui non aveva alcuna cura, andavano sempre più in declino, tanto che ancora nell’anno 1796 anche il bellissimo palazzo di Nicastro si trovava in pessime condizioni, con molte stanze “baraccate”271 ed addirittura una rimasta senza pavimento a causa del terremoto di tredici anni prima. Il principe Landolfo morì, all’età di 54 anni, il 20 aprile 1785, due anni dopo il sisma, e la principessa gli sopravvisse fino all’8 ottobre 1799, quando anche lei lasciò la sua vita terrena all’età di 65 anni, dopo aver trascorso la sua esistenza tra gli svaghi estremi ed il vano desiderio di lasciare un buon ricordo. Così si era dedicata, come avevano fatto i suoi predecessori, ad opere cosiddette pie, proteggendo le case religiose ed arricchendo le loro Chiese con doni di pregio. Infatti nel 1799, poco prima di morire regalò all’Ordine dei Domenicani di San Domenico Maggiore di Napoli alcuni drappi pregiati, che rappresentavano le Opere e le Virtù di san Tommaso D’Aquino, suo illustre antenato. Questi tessuti, che formavano addobbi e paramenti sacri, erano stati realizzati dalle abili mani dei ricamatori del luogo fra il 1669 ed il 1685 ed andarono ad arricchire l'edificio sacro che costituiva la casa madre della nobiltà napoletana. Vincenza Maria Pico d’Aquino non ebbe figli e nominò nel suo testamento come erede Filippo Leopoldo Monforte, duca di Laurito, fratello di Giovanni vescovo di Tropea, suo lontano parente, al quale andò il patrimonio allodiale, ossia quello privato. I beni feudali invece, come da un’antica legge secondo la quale in mancanza di eredi diretti dovevano ritornare alla Corona, passarono al Regio Demanio, così la famiglia dei principi d’Aquino di Castiglione si estinse e la città di Nicastro qualche anno più tardi appariva secondo la stampa riportata di seguito. 271 F. Mazza: Lamezia Terme: Storia, cultura, economia.

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Apparato Fotografico E l’estreme sembianze e le reliquie Della terra e del ciel traveste il tempo. (Foscolo: I Sepolcri, vv. 21,22)

Gli scatti di seguito riportati esprimono con chiarezza il divenire della storia. Il tempo nulla distrugge, ma tutto trasforma e della ricca e nobile famiglia d’Aquino rimangono il nome e le vestigia della loro potenza. -La natura incontaminata con il blu del mare profondo, con l’azzurro cinerino del cielo immenso, con il verde degli alberi rigogliosi, domina ora su quelli che furono i loro territori. - I ruderi possenti con il loro profumo di storia indicano la gloria di un passato eloquente. - Gli ori ed i preziosi scampati ai furti ed alle ruberie che accadevano per la povertà incombente, evidenziano lo sfarzo e l’ostentazione compiaciuta di una classe che avvertiva la solidità della propria posizione sociale. - Gli ex-voto tramandano la forza della fede, unico appiglio in un mondo di miserie.

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Finito di stampare a Viterbo nel mese di dicembre 2014 www.edizioniarcheoares.it edizioni@archeoares.it


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