Point Break-Book one: in the city_Capitolo primo

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-1Alcune cose che dovete sapere

Randy Il mio nome è Randy Bennett. In realtà il mio nome completo è Raimond, ma l’unico che mi chiamava così era mio padre. Per tutti gli altri ero Randy, il cucciolo di casa, il tanto sospirato maschio dopo tre femmine; non voglio essere frainteso, mio padre adorava le mie sorelle, a maggior ragione dopo che decise che non ero più suo figlio. Sono venuto al mondo, dopo ben 17 ore di travaglio, a Marquette, una cittadina che si trova nella parte nord del Michigan, quasi al confine con il Canada. Fino all’età di quindici anni ero considerato l’erede perfetto: ottimi voti, ala nella squadra di basket della scuola, figlio affettuoso e fratello accettabile. Poi è successo. Mentre tutti i miei compagni passavano la loro vita di adolescenti con l’unico obiettivo di andare a casa base con qualsiasi cosa fosse provvista di vagina, io iniziavo ad avere l’intima consapevolezza di non essere come loro. Non alludo, è ovvio, al fatto di essere intellettualmente meglio dotato, cosa peraltro vera, ma piuttosto al trascurabile particolare che, del suddetto organo riproduttivo femminile, non poteva importarmene di meno. A quel tempo mi chiedevo spesso il perché. Perché io? Perché Nostro Signore Gesù Cristo aveva deciso di rendere me diverso? Guasto. Difettoso. Questi stupidi pensieri crepuscolari passarono esattamente dieci secondi dopo che Diego Sanchez, guardia dei Bad Axe della Contea di Huron, decise di avviarmi a quelle che mio padre avrebbe definito “pratiche sodomitiche”. Per tutto il match, Diego aveva cercato di ostacolarmi in ogni modo, riuscendoci peraltro. Alla fine della partita, dopo la solita doccia, mi ero diretto verso il sentiero dietro agli spogliatoi che portava sulla strada principale; come tutti i sentieri di questa Terra si infrattava tra due spessi muri di vegetazione e proprio lì, complice l’imbrunire, Diego mi afferrò, senza dire una sola parola, facendo di me un adolescente felice. In quel momento mi si aprì un mondo; i sermoni di padre David sul bruciare all’Inferno e anni di educazione cattolica svanirono all’istante, di fronte alla splendida consapevolezza di chi ero e di cosa volevo. Quindi, per coerenza perlomeno, divenni decisamente scettico. Non che non credessi nell’esistenza di un essere superiore, solo che mi rifiutavo di pensarlo come loro lo descrivevano. Assaggiato il frutto proibito, capii che ne volevo di più. Il problema era che, in una cittadina come Marquette, mantenere i segreti era difficile, per cui prudenza diventò il mio secondo nome. Per fortuna, dietro l’apparente machismo di molti ragazzi della scuola, si celava latente la voglia di sperimentare. Per circa un anno riuscii a mantenere un basso profilo, complice il fatto che avevo trovato una ragazza. Lo so, definirmi ipocrita è un eufemismo, ma quando devi sopravvivere fai di tutto per raggiungere il tuo obiettivo. Clarisse era una dolce fanciulla senza grilli per la testa, cattolica fino al midollo e con l’unica ambizione di diventare moglie e madre. Al suo confronto, la puritana Jamie dei Passi dell’amore sembrava una disinibita meretrice. Ovvio che mi stava benissimo così: ci tenevamo per mano e, a volte, mi consentiva di baciarla. I suoi genitori, molto amici dei miei, vedevano di buon occhio la relazione e già pianificavano, nelle loro limitate menti, il nostro futuro assieme. Ma io avevo ben altri progetti.


Per cinque anni avevo fatto i lavori più disparati, dal ragazzo dei giornali al cameriere nei fast food, mettendo da parte una discreta somma. Ancora prima di scoprire la mia omosessualità, ero consapevole di non essere fatto per la vita di provincia. Sognavo la libertà delle grandi città e non avevo nessuna intenzione di andare al college. Non era il posto adatto per imparare, lì – ne ero certo – non avrei trovato la mia strada. Quale strada? Be’, da quando sono stato in grado di tenere in mano una matita, e forse anche da prima, ho sempre voluto una sola cosa: disegnare abiti da uomo. Da bambino, vedendo i film di James Bond, entravo in adorazione di fronte ai completi classici che Sean Connery indossava e guardavo avidamente tutti i vecchi film dell’epoca, beandomi della visione di cotanta arte. Non era una cosa da confessare. Mai. Per nessun motivo. Mio padre, James Bennett, fervente cattolico, diacono e incorruttibile sostenitore dell’ordine morale, non avrebbe mai accettato le mie aspirazioni nel mondo della moda, moderna Babilonia e quintessenza della corruzione. Quindi avevo solo due opzioni: andarmene e raccontare pietose bugie – tipo che sarei partito come volontario per qualche sperduto stato dell’Africa in aiuto dei più bisognosi – oppure fare la cosa più scomoda e difficile, e scegliere di dire la verità. Nella vita ci sono momenti nei quali hai la piena consapevolezza che le tue azioni determineranno esattamente il tipo di persona che sei o che vorresti diventare. Ecco, la decisione che presi allora condizionò la mia vita, ma a dirla tutta non me ne sono mai pentito. Dopo il diploma, andai da mio padre e con voce ferma, frutto di ore di preparazione, gli dissi che ero omosessuale, che volevo fare lo stilista e che avrei voluto tanto la sua benedizione. Lui iniziò a urlare come un indemoniato parole perlopiù senza senso – ma con il comune denominatore di essere insulti nei miei confronti – e preghiere per la mia anima dannata. In quel momento lo odiai e lo maledissi per essere fondamentalmente un uomo di merda. Nello stesso istante in cui lo feci, lui si accasciò di fronte a me – solo più tardi avrei saputo che si era trattato di un infarto leggero e senza conseguenze – e quando cadde svenuto, io ringraziai per l’ultima volta nella mia vita il Dio nel quale oramai non credevo più. Certo, andrò all’Inferno per questo, ne sono consapevole. Mia madre entrò nella stanza in quell’istante, forse attirata dalle urla, e lo soccorse. Alcuni minuti più tardi, sull’ambulanza che ci portava in ospedale a sirene spiegate, lei piangeva chiedendomi senza sosta che cosa fosse successo. Non risposi e, quando lo dichiararono fuori pericolo, raccolsi le mie cose, prendendo il primo bus per Milwaukee. Da lì arrivai fino a Chicago, per poi approdare – 28 ore dopo e sfatto come poche volte nella vita – a New York. Non ero partito impreparato, però; l’amico di un tizio con il quale avevo avuto una breve relazione aveva accettato di ospitarmi, per qualche tempo. Marcus non era male, e poi ci vedevamo di rado perché lui faceva i turni di notte e durante il giorno si rinchiudeva nella sua stanza. Mi trovai subito un lavoro per non dare fondo ai miei risparmi, già provati dal costo del viaggio, e nel frattempo iniziai a guardarmi intorno. Al contrario di molti non inviai mai un curriculum, mi limitavo a portare a mano nelle diverse maison un mio disegno, con in calce il mio nome e un numero di telefono. Ricevetti parecchie chiamate e iniziai diversi apprendistati. Pagato una miseria, lavoravo anche 12 ore al giorno, disegnando e cucendo abiti per pochi dollari; però imparavo e mi feci conoscere nell’ambiente. Dopo quattro anni di quella vita infernale, venni notato dal figlio del proprietario di una fiorente azienda del settore, la English Men. Vestiva tutti quelli che contavano in città, disegnando guardaroba su misura. Mi presero in prova e la nuova sistemazione mi piacque subito. Nel frattempo, potei permettermi un dignitoso appartamento vicino al Bronx, in una zona tutto sommato tranquilla. Lo arredai a mio gusto: era la prima volta che vivevo da solo e la cosa aveva i suoi indubbi vantaggi. La mia vita scorreva tranquilla tra il lavoro e qualche storia di sesso. A volte mi mancava la mia famiglia, ma i pochi tentativi che avevo fatto per riallacciare i rapporti con mio padre non avevano dato frutti. L’unica con cui parlavo era mia madre, anche se parlare è una parola grossa: le telefonavo quando ero certo di trovarla da sola, lei rispondeva e stava zitta. Io le raccontavo le novità della mia vita, del


lavoro, dove vivevo e le chiedevo se aveva bisogno di aiuto. Lei non diceva mai niente, ma io sapevo che ascoltava ogni parola. Decisi che era sempre meglio del niente assoluto. Ero consapevole, però, della mancanza di qualcosa, sentivo come un sottile disagio, la certezza che nessuno in realtà tenesse a me. Gli amanti occasionali arrivavano e se ne andavano, perlopiù deludendomi, e per questo tenevo tutti a debita distanza. Una volta, scherzando, un mio amico mi disse che se avessi continuato così, e mi fosse successo qualcosa, nessuno avrebbe scoperto il mio cadavere, se non dopo settimane. Quell’immagine rimase per mesi nella mia mente: poteva davvero succedermi una cosa del genere, come accadeva agli anziani abbandonati di cui si leggeva nei fatti di cronaca? Forse stavo esagerando, ma non ne sono così sicuro. E poi conobbi la creatura che, più di tutte, seppe entrare nel mio cuore. Non un uomo, no, sarebbe scontato. Il suo nome era Fedora, ma era meglio chiamarla Dora se non si volevano imparare nuove parolacce. Ci conoscemmo in un giorno di pioggia, in un bar dell’Upper Side, grazie all’ultima ciambella al cioccolato rimasta. La volevamo entrambi e lei, con un fare seduttivo da gatta, si offrì di cedermela palesando chiare mire sulla mia virtù. Quando le spiegai che ero gay, me la strappò di mano e l’addentò con faccia delusa, dichiarando che sarebbe stata la sua consolazione. Poi, con un sorriso bellissimo, me ne offrì la metà, chiedendomi se ero interessato a diventare almeno suo amico. La sua schiettezza, dopo anni di un mondo nel quale il valore dell’effimero regnava sovrano, fu una ventata di aria fresca. Da allora ho smesso di avere paura di morire da solo. Un tipetto sveglio, sprecata per il lavoro di assistente di un magnate dell’editoria, Alexander Maximilian Stenton III, detto Lex, il cui unico pregio era essere la reincarnazione di un dio, anche schifosamente ricco. Dora lo odiava con tutte le sue forze, ma come capita spesso ha pagato caro questo sentimento così profondo. Si sono innamorati e, lo dico senza falsa modestia, grazie a me ora stanno convolando a giuste nozze. Ed è proprio per questo che adesso mi trovo a New Haven: ovviamente sono il testimone della sposa e ho disegnato l’abito dello sposo. Essere lo stilista di Lex mi farà guadagnare molti punti nel mio settore, ma non sono niente se confrontati alla soddisfazione di averlo reso lo sposo perfetto per la donna che amo alla follia. In questo momento la sto osservando ballare con il marito e il mio cuore si riempie di tenerezza: da come lo guarda capisco che è felice, molto felice. Lo so che non dovrei provare gelosia o rancore nei confronti di quell’eterosessuale stronzo che me la sta portando via, ma è più facile a dirsi che a farsi. Spero che la tratti bene, lo spero davvero, altrimenti potrei perdere la mia signorilità. Be’, devo ammettere che provo anche un po’ di invidia, ma se me lo si chiederà domani, con un minor tasso alcolico in circolo nel sangue, negherò di avere mai avuto un pensiero così assurdo. Io non ho niente da invidiare a nessuno, posso considerarmi un uomo felice e all’età di… be’, insomma alla mia età, ho raggiunto un discreto successo e ho più soldi di quanti mi verrebbe voglia di spenderne. Nella mia vita va tutto bene, in effetti. L’unica cosa che mi indispone è l’uomo che sto fissando in questo momento. Biondo, occhi di ghiaccio, fisico imponente, mi guarda a sua volta con quel ghigno ironico che sembra avere sempre stampato in faccia. Non arrivo a dire che lo odio, però lo detesto con tutte le mie forze.

Charlotte Il mio nome è Charlotte Davis e sono nata ventinove anni fa nella ridente cittadina di New Haven, nel Connecticut. A scanso di equivoci: quel ridente era sarcastico. Mio padre, Andrew John Davis, era un pilota di linea e durante un party – che credo, in realtà, fosse più simile a un baccanale – mise incinta mia madre del loro primogenito, mio fratello.


Dopo il matrimonio, soprattutto dopo la mia nascita, avvenuta un paio di anni più tardi, mio padre fu costretto a ridurre i voli transoceanici. Penso che non sia mai stato davvero felice con noi, ma questo lo capii solo molto più tardi, il giorno del mio ottavo compleanno, quando lui non tornò più dalla pasticceria nella quale avrebbe dovuto ritirare la torta per la mia festa. Ricordo che prima di uscire mi baciò sulla testa e mi disse che mi voleva bene. Bugiardo. Credo che non ci sia niente di più traumatico per una bambina di quell’età e ancora oggi mi domando che cosa gli sarebbe costato aspettare il giorno dopo. Lo attesi per settimane, rifiutandomi di andare a scuola. Diceva che ero il suo sole, che mi amava sopra ogni cosa, come poteva non tornare da me? Quando infine capii che non l’avrei più rivisto, il mio cuore si spezzò e compresi che cosa doveva essere fatto per non soffrire più. Adesso non so dove lui sia o se sia ancora vivo, e neanche mi importa. Mia madre non si riprese mai del tutto e, se possibile, divenne ancora più insopportabile e nevrotica, mentre mio fratello James già allora era un tubo digerente, i cui unici obiettivi nella vita erano mangiare e guardare l’hockey. Era naturale, quindi, che da bambina fantasticassi spesso di essere stata adottata e sul fatto che, prima o poi, i miei veri genitori sarebbero tornati a prendermi, rendendomi di nuovo felice. Qualcuno potrebbe essere portato a credere che questo trauma abbia fatto di me la donna cinica che sono ora, tuttavia ritengo che ciò sia una spiegazione troppo semplicistica. Sono sempre stata una bambina molto intelligente, diversa, e dopo l’abbandono qualcosa in me cambiò, è chiaro, ma in meglio, perché, finalmente, ero in grado di vedere al di là delle passeggere emozioni che avrebbero potuto inficiare il processo di risoluzione dei problemi. Quindi, dopo aver accettato il fatto che mio padre non c’era più e che mia madre era debole e incapace, andai avanti con la mia vita. Mi rendo conto di non essermi presentata nel migliore dei modi, ma inutile girarci intorno: io sono come sono. Questa consapevolezza la raggiungono solo le persone davvero illuminate e, nella maggior parte dei casi, risulta fastidiosa a tutti coloro che invece non hanno un’identità ben definita. Ciò non mi rese molto popolare alle superiori; il mio solo interesse era studiare per cui, pur invitata, mi rifiutavo di presenziare alle insulse festicciole organizzate dai miei compagni. Dopo un po’ smisero di chiedermi di parteciparvi. Meglio così. Quando andai a Yale l’unica nota negativa fu che era troppo vicino a casa per mettere chilometri di distanza tra me e quel che era rimasto della mia famiglia. Mi sono laureata in giurisprudenza con l’intento di diventare un’esperta in ambito fiscale. Tutti i miei colleghi erano affascinati dal penale, traviati dallo stereotipo dell’avvocato alla Perry Mason; io invece preferivo di gran lunga i numeri al dovermi confrontare con ogni sorta di rifiuto umano. Non che nel mio ramo non ci siano persone fuori da ogni schema legale, ma almeno delinquono indossando vestiti di alta sartoria. Io volevo avere successo, volevo svegliarmi una mattina e dire a me stessa che ci ero riuscita, a dispetto di tutto e di tutti. Per ottenere questo ero pronta a uccidermi di lavoro, rinunciando a quegli aspetti che sembravano avere tanta importanza per persone meno determinate, come per esempio l’avere una vita sociale. Qualcosa però durante il percorso è andato storto. Ho commesso un imperdonabile errore di valutazione: mi sono fidata di un uomo, o meglio del mio giudizio su quell’uomo. Tuttavia, questa mia affermazione non va presa con leggerezza, liquidandola magari come il classico sfogo della ragazza intellettualmente dotata, ma bruttina. No, non sto disprezzando quello che non posso comprare. Alta più di 180 centimetri, sono rossa naturale – senza peraltro dover subire l’odiosa presenza di lentiggini – e ho un corpo che attira l’attenzione dei maschi della specie. Il mio errore è stato credere in Donald Riley, quello che sarebbe poi diventato il mio fidanzato. Lo conobbi all’università, un ragazzo come tanti, non brillantissimo, tuttavia aveva quel modo di fare pacato e tranquillo che mi dava sicurezza. Era l’unico figlio del titolare di uno dei più prestigiosi studi legali di Boston ed era evidente come questo retaggio avrebbe finito per schiacciarlo; il suo scarso


talento e la sua poca voglia di fare avrebbero deluso le aspettative di chiunque. Non era particolarmente avvenente e anche in quanto a esperienza lasciava piuttosto a desiderare; essere iniziata al sesso da uno che non sapeva dove mettere le mani, non è uno degli eventi memorabili della mia vita. Se devo essere sincera, però, non ha molta importanza: ho sempre pensato che l’atto fisico dell’accoppiamento fosse ampiamente sopravvalutato. Io aiutai Donald a finire gli studi e, quando lui mi chiese di seguirlo in qualità di fidanzata, fu facile farsi adottare dalla sua famiglia. Mai scelta si rivelò più azzeccata, almeno per come la vedevo allora, perché incontrai l’uomo dei miei sogni: suo padre, Arthur Riley. Duro, cinico, l’avvocato che avrei voluto essere. Lui vide in me l’erede che aveva sempre desiderato e in realtà fu con Arthur che instaurai la vera relazione. No. Non è quello che si potrebbe essere portati a pensare: il nostro era un rapporto puramente intellettuale, due anime affini che si erano ricongiunte. In pratica, il padre perfetto che non avevo mai avuto. Quando iniziai a lavorare nel suo studio, subito dopo la laurea, Arthur mi insegnò tutto quello che sapeva, senza riserve, convinto di avere finalmente trovato chi avrebbe continuato con successo la tradizione di famiglia. Per più di un quinquennio sono stata la sua ombra e lui il mio mentore. Donald sembrava contento che i riflettori si fossero puntati su qualcun altro; si accontentava di fare lavori secondari, di avermi per sé e di condividere il mio letto una volta a settimana. Almeno fino a quando Arthur non decise che era giunto il momento di sposarci e di garantire che la stirpe dei Riley proseguisse. Fissata una data per il matrimonio, iniziammo i preparativi. Esattamente un anno fa, meno una settimana, in un tripudio di bianco e merletti – unica concessione alla mia insulsa, futura suocera – entravo in chiesa con la ferma convinzione che la mia vita stava per raggiungere il suo culmine. I testimoni dello sposo erano due amici di vecchia data, anche loro avvocati, mentre io avevo scelto una lontana cugina di Donald e Noemi, una ragazza che studiava con me al college e che aveva iniziato a collaborare con lo studio di Arthur circa sei mesi prima. Non avendo amiche erano le uniche che potessi scegliere. Quel giorno, ricordo che scesi dalla macchina al braccio di mio fratello ed entrai in chiesa con il cuore colmo di trepidante aspettativa per il giudizio di mio suocero sulla scelta dell’abito. Non appena misi piede dentro, ancor prima che i miei occhi si fossero abituati al cambio di luminosità, capii che qualcosa non andava: c’era un insolito vociare, non consono all’ingresso della futura sposa. Mia madre mi venne incontro con una faccia all’apparenza contrita, tuttavia nei suoi occhi c’era una chiara luce di trionfo; Arthur, al suo fianco, aveva un’espressione mai vista, un misto di rabbia e commiserazione. Avevo passato tutta la vita a evitare gli sguardi di quel genere, dopo la fuga di mio padre erano stati fin troppi. Cercai il mio futuro marito sull’altare, ma vidi solo i testimoni di lui e la cugina di Donald. Arthur mi abbracciò e a bassa voce mi disse che suo figlio era fuggito con Noemi e che, in quel momento, si trovavano a chilometri di distanza, grazie ai biglietti del viaggio di nozze per le Fiji. Comprati con i miei risparmi. Mi ricordo che sul momento non provai nulla, non per il tradimento di Donald perlomeno. Guardando gli invitati, con un sorriso tirato, feci l’unica cosa che andava fatta: li ringraziai tutti per la loro presenza e li esortai a usufruire comunque del rinfresco preparato per l’occasione. Tanto ben di Dio non poteva di certo andare sprecato. Quando alla sera mi tolsi l’abito da sposa, nell’intimità del mio appartamento, non versai neanche una lacrima: ciò che non ti tocca non può distruggerti. Il lunedì successivo mi presentai in ufficio come se nulla fosse e la mia vita andò avanti come al solito per circa un mese, fino al ritorno di Donald; lui e Noemi, che si erano sposati a Las Vegas prima di partire per il mio viaggio di nozze, andarono a vivere nella casa che io avevo arredato. Non ci fu mai un vero confronto tra me e lui: che cosa mai avrei potuto dirgli? Si era semplicemente stancato di essere un comprimario e aveva ripreso in mano le redini della sua vita. Pessimo momento per ritrovare gli attributi.


Arthur, all’inizio, non ne volle sapere niente, né del figlio né della nuora, dichiarando la ferma intenzione di diseredarlo, ma quando sua moglie si mise a piangere non poté fare molto di più. La convivenza non fu così difficile i primi tempi; d’altronde io non ero propriamente innamorata di Donald ed ero più arrabbiata con me stessa per il mio errato giudizio che per il suo comportamento. Noemi continuò a lavorare nello studio, ignorandomi e tentando di avere meno contatti possibili, e cinque mesi dopo annunciò al mondo la lieta novella: era incinta di quello che si sarebbe rivelato essere un bel maschietto. Le cose cambiano nella vita: una lezione che chiaramente non avevo ancora imparato appieno. Quando Arthur seppe della gravidanza diventò, in breve tempo, un altro uomo e un sottile muro iniziò a dividerci. Non ci furono più gli sguardi complici, il pranzo fisso del mercoledì per discutere le decisioni sulle strategie dello studio e la totale fiducia che mi accordava. Di contro, il suo atteggiamento nei confronti di Noemi cambiò in modo radicale e lei divenne il suo nuovo sole. Il progetto “padre perfetto” mi era sfuggito dalle dita come sabbia troppo fine, tuttavia ero sicura che il mio cuore non fosse più in grado di provare dolore; quando fui smentita, e questa consapevolezza mi colpì come un calcio nello stomaco, la sola cosa che riuscii a fare fu cercare un bar per ubriacarmi. Non ricordo molto della serata, so solo che la mattina seguente mi svegliai a casa mia senza sapere bene come ci fossi arrivata. Bastarono pochi istanti perché mi rendessi conto che non mi ero soltanto sbronzata, ma avevo fatto di peggio: un segno tangibile e reale che la mia vita era definitivamente cambiata. Era giunto, infine, il momento di spiccare il volo, di guardarmi intorno. Negli anni passati allo studio di Arthur avevo creato un software per la contabilità dei dati dei clienti, in grado di gestire tasse e investimenti, nonché di rendere il lavoro di rendicontazione molto più veloce e semplice. Poiché non sono mai stata una sciocca, lo avevo brevettato a mio nome, senza peraltro mai pensare di metterlo in commercio. Era però tempo di tirare fuori questo asso dalla manica, per essere scelta tra molti altri aspiranti, bravi e agguerriti quanto me. Inviai una demo del software, che avevo chiamato Icarus 4, a molti studi legali del paese, con l’invito a provarlo, e attesi. Per un po’ ricevetti delle offerte che però non ritenni valide, fino a quando, circa un mese fa, non è arrivata la tanto attesa email da uno degli studi più importanti del Paese, D&D, che gestisce la contabilità della maggior parte dei volti che finiscono poi sulla copertina di Fortune. L’incontro con quelli che sarebbero poi diventati i miei futuri capi è stato proficuo: Sean e Gerard Digger, due fratelli che hanno ereditato l’attività dal padre, appartengono alla mia specie preferita di avvocati, quella degli indefessi lavoratori votati al successo. Mi sono trovata subito bene e loro si sono dichiarati entusiasti del mio lavoro e del mio software, tanto da accennare a una sua possibile commercializzazione. Mi hanno fatto una proposta che sarei stata pazza a rifiutare e che ha sancito il mio trasferimento pressoché immediato nella Grande Mela. Con la mia solita efficienza ho affittato un appartamento a New York: piccolo, ma confortevole, si trova nel Financial District, a poche fermate di metropolitana dallo studio della D&D, sulla Chambers. Costa uno sproposito al mese, in pratica è un furto legalizzato, ma Arthur mi ha dato una liquidazione da favola, frutto dei sensi di colpa. Quando mi ha consegnato l’assegno, nel suo volto ho visto il sollievo. Lui si stava liberando del passato, di una presenza scomoda per il figlio e per la nuora; io me ne stavo andando con la consapevolezza di lasciarmi alle spalle una parte importante di me stessa e con la promessa che non avrei più permesso a nessuno di abbandonarmi o gettarmi via come una cosa vecchia. Mai più. L’unica seccatura, adesso, è il fatto di trovarmi di nuovo a New Haven. Sono stata invitata a partecipare al matrimonio di mia cugina Fedora con un magnate delle telecomunicazioni e dell’editoria, ma l’unico vero motivo per cui ho accettato è che sono stati invitati anche i miei capi e, da quello che ho potuto capire, sembra che leccare le scarpe ad Alexander Maximilian Stenton III sia lo sport nazionale a New York. Ho scambiato con lui poche parole e non mi è sembrato particolarmente brillante; d’altronde chiunque apprezzi Fedora non può certo avere la mia stima. Mia cugina è la classica mezza hippie fissata con la letteratura e non capisco come possa aver attirato l’attenzione di un uomo simile. Tuttavia, devo fare finta di interessarmi a questo circo se voglio


inserirmi nell’ambiente e poi il fatto che la sposa sia mia parente mi farà guadagnare ancora più punti, quindi non posso lamentarmi. La nota dolente è che essere single e senza accompagnatore genera sempre una sorta di frenesia ai matrimoni, per cui in questo momento mi trovo assediata da un avvocato quarantenne che ha deciso che sarò la madre dei suoi figli. L’ho spedito a prendermi un drink e sono alla disperata ricerca di una scusa per liberarmi di lui. Poi lo vedo. Alto, con lineamenti come scolpiti nella pietra e un naso che deve essersi rotto almeno un paio di volte. Gli occhi da questa distanza sembrano chiari; i capelli neri, leggermente brizzolati sulle tempie, gli danno la giusta aria vissuta. Un cinico, uno di quelli interessati solo al sesso occasionale, tipologia che evito come se fosse un virus letale. Tuttavia uomini così li riconosco a istinto e, al momento, potrebbe tornare molto utile per i miei scopi. Soddisfatta mi dirigo verso di lui, nello stesso istante in cui vedo tornare il mio improvvido spasimante con due bicchieri in mano. Come sempre, io ho già trovato la soluzione al problema.

Ryons Il mio nome è Ryons. Il minuto di silenzio che seguirà non sarà riempito dal mio cognome. Nel mio documento di identità c’è scritto che ho quarantuno anni, che sono alto 193 centimetri e che ho gli occhi chiari. Queste sono le uniche informazioni che voglio fornire, tutto il resto non ha importanza. La mia storia è… particolare. Quello che racconterò è solo una piccola parte di ciò che è realmente accaduto. È importante ascoltare il passato delle persone, ci si rende conto di chi sono veramente solo quando si conoscono le loro origini. Fino all’età di undici anni ho vissuto in uno dei luoghi più belli e solitari del mondo: l’isola di Jura, nell’arcipelago delle Ebridi, a poche miglia marine dalla costa sud-occidentale della Scozia. Cara, mia madre, era una ragazzina quando mi ha partorito e il nome di mio padre non si è mai saputo. Non era facile essere un figlio bastardo nella piccola comunità dove vivevamo, ma questo fatto mi fece crescere in fretta. Nel settembre del 1985, un sottufficiale americano, sbarcato sull’isola con il suo reggimento per partecipare a un’esercitazione militare congiunta tra Stati Uniti e Gran Bretagna, cambiò la mia vita per sempre. Patrick, questo era il suo nome, simpatico e sempre allegro, mi regalava dolci, giocattoli e una volta persino un pallone da calcio, ma soprattutto era riuscito a far tornare il sorriso sul volto di mia madre. Non ero stupido, capivo che cosa stava succedendo, udivo i loro respiri pesanti la notte. Tutti dicevano che mia madre non doveva illudersi, che lui se ne sarebbe andato via come fanno le maree. Avevano ragione, lui doveva andare via, ma prima le chiese di sposarlo. Mia madre accettò con gioia e qualche settimana dopo salimmo su un aereo che ci avrebbe condotto verso la nostra nuova vita. Negli anni ho capito che le cose non capitano mai per caso, che ognuno di noi ha come una linea tracciata che deve seguire e spesso, per quanto ti sforzi di abbandonarla, ricompare e ti riporta sulla rotta, nel bene o nel male. Si può chiamare destino o fato, o come diavolo si vuole, ma nell’istante in cui misi piede nella base militare di Fort Bragg, nella Carolina del Nord, capii che ero finalmente a casa, pur consapevole che la mia terra natia avrebbe sempre avuto un posto speciale nel mio cuore. La base era in pratica una piccola città, con una popolazione, tra militari e civili, di quasi 20.000 persone. Patrick apparteneva all’82esima Divisione Aviotrasportata e come sottufficiale aveva un alloggio a disposizione all’interno del complesso. La città più vicina era Fayetteville, capoluogo


della Contea di Cumberland, ma capii presto che uscire fuori dalla recinzione non era una cosa ben vista. Eravamo un mondo a parte, autosufficiente, connotato da regole e valori che permeavano qualsiasi gesto o parola. La mia avventura come cittadino americano iniziò quando mia madre e Patrick si sposarono e lui mi adottò ufficialmente. Superai con facilità l’esame di ammissione alla scuola della base, anche se la vita nel nuovo continente non fu facile all’inizio. Il mio accento e certi modi di fare molto diversi attirarono ben presto la cattiveria degli altri ragazzi; in ogni caso, dopo che pestai per bene i primi due, nessuno ebbe più niente da ridire. Imparai così sulla mia pelle che, a volte, il dialogo è sopravvalutato. Passarono gli anni, io mi integrai e mia madre era felice con Patrick. Il mio patrigno si rivelò un uomo degno e il nostro rapporto crebbe fino a diventare qualcosa di unico e speciale: in un certo senso noi ci eravamo scelti e questo aveva molta più importanza di un legame di sangue. Fu paziente con me, mi guidò nella crescita facendomi diventare l’uomo che sono adesso. Fu il padre che non avevo mai avuto e, a parte mia madre, non credo di aver amato mai nessuno come amavo lui. Alla fine della scuola superiore, mi trovai di fronte alla prima, vera decisione della mia vita: al ballo del diploma, mi sarei dovuto scopare Jeanette oppure Olivia? Decisioni in apparenza banali, ma che lo si creda o no fu l’aver scelto Olivia, quella sera, a decretare la mia entrata nell’Esercito. A diciotto anni non ero un gran pianificatore, non ancora, per cui fummo beccati in macchina mentre le mostravo concretamente le prime fasi della riproduzione umana. Lei era ancora minorenne, l’unica amatissima figlia di un parigrado di Patrick che, come si può ben immaginare, non la prese bene e minacciò di farmi accusare di violenza sessuale. Il mio patrigno, per salvarmi il culo, riscosse molti crediti accumulati in anni di onorato servizio e alla fine il padre di Olivia si accontentò di una punizione esemplare. Quella fu la prima e unica volta che vidi Patrick davvero arrabbiato con me; lo era più per il fatto che fossi stato tanto idiota da farmi beccare e, per dimostrarmi che tutte le azioni hanno delle conseguenze, mi obbligò ad arruolarmi. Mia madre sognava il college per me, lui però fu irremovibile; ancora oggi non so se, o quanto, essergliene grato. Patrick lo fece per punirmi, ma forse aveva anche intravisto qualcosa in me, tale da indurlo a credere che potessi essere un buon militare. Entrai anch’io nella Fanteria Aviotrasportata e scoprii l’esistenza di un mondo diverso dalle sicure mura entro le quali avevo vissuto sino a quel momento. In seguito, grazie alla mia forza fisica e alla resistenza, mi arruolai nei Ranger. Non voglio scendere nei particolari, ma per entrarci – e soprattutto restarci – oltre alle doti fisiche è necessario avere anche sale in zucca. Molto. Nell’estate del 1993 venni quindi trasferito nella base di Fort Benning a Columbus, in Georgia. Ero caporale di prima classe nel 75° Reggimento Ranger che, pochi mesi dopo, venne inviato in Somalia, per schierarsi a favore della popolazione, vittima delle devastanti conseguenze di una guerra civile. Il nostro obiettivo era di arrestare il Generale Aidid, testa pensante di una delle più pericolose fazioni in lotta; non ci aspettavamo una passeggiata, ma neanche il disastro che si abbatté su di noi. La stampa la chiamò la “Battaglia di Mogadiscio”, ma chi l’ha vissuta in prima persona come me la chiama ancora oggi la “Battaglia del Mar Nero”, dal nome del quartiere della città nel quale, per due giorni e due notti, lottammo, non più per catturare Aidid, ma per uscire da quell’inferno vivi. Furono 48 ore senza un attimo di tregua, con i nervi in costante tensione, combattendo casa per casa e vedendo i propri compagni morire sotto il fuoco nemico. Alla fine dello scontro, nonostante le ingenti perdite, lasciammo a terra più di 2.000 miliziani nemici e dopo due settimane Clinton decise di riportarci a casa. In quella missione fui testimone di atrocità che nessuno dovrebbe sperimentare e fu allora che capii realmente che cosa significasse essere un soldato. Niente di quello che ti insegnano in addestramento ti prepara davvero. Ciò che alla fine ti resta è la consapevolezza che parole come onore, patria e morte non sono più dei concetti astratti; lo capisci mentre strisci nella terra e nel sangue, mentre sporco di polvere da sparo e urina ti fai strada tra i cadaveri di quegli stessi uomini con i quali, solo qualche giorno prima, avevi fatto a gara a chi si scolava più birre. Esperienze simili ti cambiano, è inevitabile. Ci sono cose che semplicemente non si possono spiegare, che un civile non potrebbe comunque capire e per le quali è impossibile trovare le parole. Quando rientrai – con il braccio sinistro ancora dolorante a causa di una ferita che mi ero procurato durante gli scontri a Mogadiscio – fui insignito della Stella di Bronzo al valore, perché, dissero, il mio


intervento era stato risolutivo per salvare la vita ad alcuni membri della Delta Force, rimasti accerchiati all’interno di un edificio. Avendo combattuto fianco a fianco con quei gran figli di puttana delle Forze Speciali, mi ero reso conto di quanto il mio addestramento fosse solo la punta dell’iceberg di una preparazione, la loro, che non sembrava neanche umana. Quelli della Delta Force sono una vera e propria aristocrazia tra i combattenti; entrare nelle loro file è difficilissimo, la selezione ha maglie molto strette e solo ai migliori è concesso di farne parte, dopo un addestramento ufficiale di sei mesi, a cui se ne aggiungono altrettanti per diventare un vero operativo. È facile comprendere quindi che, quattro anni dopo quando vi fui ammesso, la mia carriera fece un balzo in avanti e, allo stesso tempo, divenni qualcosa di molto diverso. Tornai a casa, visto che la sede operativa è a Fort Bragg, ma tutto era differente e io per primo. Non potevo più dire a nessuno, nemmeno ai miei cari, quale sarebbe stata la mia prossima missione e dovevo tenere un basso profilo, diventare quasi invisibile anche agli occhi di chi, fino a qualche anno prima, era stato mio compagno sul campo. Una volta che sei dentro a un gruppo come la Delta, la tua vita cambia radicalmente: l’unità diventa la tua famiglia, il tuo credo e tutto il tuo mondo. Non posso rivelare nomi o luoghi, per ovvie ragioni, tuttavia dove era necessario infiltrarsi, soccorrere, destabilizzare o sporcare le acque noi c’eravamo. Non importa chi ci ordinava la missione, se direttamente l’Esercito o la Casa Bianca, noi partivamo e dopo l’11 settembre la nostra esistenza divenne prioritaria. Non impari a conoscere la vera natura umana fino a quando non vedi con i tuoi occhi che cosa è davvero capace di fare l’uomo. Noi non eravamo gli unici a occuparci di certe faccende, ma eravamo tra i pochi ad avere un codice di comportamento molto rigido. Quando per settimane affronti le condizioni climatiche più avverse, nutrendoti delle poche provviste che hai o di quello che riesci a catturare, quando anche le ombre hanno l’unico obiettivo di farti fuori, le tue priorità cambiano. Con esse, spesso, cambiano anche le prospettive e i valori, anche se a tutt’oggi resto convinto che certe situazioni che ho visto, certi atteggiamenti ai limiti non possono essere giustificati solo dalle circostanze avverse. Tutti eravamo là, tutti abbiamo combattuto e perduto persone importanti, ma non tutti ci siamo abbassati a certi livelli di degrado. Dopo molti anni di quella vita a volte basta un niente, un unico episodio – la proverbiale goccia nel vaso colmo – per farti cambiare di nuovo strada. Prendi decisioni sofferte, necessarie per salvare quel poco di te che ancora esiste, vai avanti senza mai voltarti indietro e non rinneghi nulla, ma non sei più in grado di essere impermeabile come prima. Te ne vai perché è l’unica chance per salvare quel poco di anima che ti resta ostinatamente attaccata. Però uno come me non può restare per troppo tempo fermo, l’adrenalina è oramai una droga e non ne puoi più fare a meno. Prima ancora che la mia uscita fosse ufficializzata, un mio ex superiore alla Delta mi contattò per propormi un affare. Da alcuni anni aveva aperto una compagnia militare privata, la BLACK EAGLES, e stava cercando un socio con esperienza per gestirla. Misi subito in chiaro, prima di accettare, che avrei selezionato di persona gli uomini che avrebbero lavorato per me e che, salvo particolari missioni, non avrei più accettato di partecipare ad azioni “sponsorizzate” dal Governo. Concordammo che mi sarei occupato del settore delle commesse per i privati; fare da babysitter a qualche riccone non è il massimo nella vita, ma ti fa guadagnare bene e la mattina riesci a guardarti allo specchio. Il più delle volte almeno. Non mi pento delle scelte fatte, tuttavia spesso mi chiedo che cosa sarebbe successo se non mi avessero beccato a scopare con Olivia, se fossi andato al college diventando un colletto bianco, più interessato al tipo di macchina nel vialetto che a destabilizzare piccoli Stati esteri. Nonostante il mio passato, però, tutto sommato il mondo è un buon posto dove vivere, anche se a volte per poter andare avanti è necessario indossare delle maschere. Ma, dopotutto, c’è forse qualcuno che non si nasconde? Attualmente organizzo la sicurezza personale di politici e uomini d’affari che mi guardano con diffidenza e mi percepiscono come un male necessario. Ciascuno di loro vede solo ciò che io voglio che veda, niente di più, niente di meno. Alcuni sono degli insopportabili coglioni, altri sono passabili e almeno con uno di loro ho instaurato una sorta di tregua armata.


Alexander Maximilian Stenton III è un uomo che ancora non ho decifrato del tutto: a volte rientra nello stereotipo del miliardario figlio di puttana, altre volte mi stupisce con azioni che rimettono in discussione le idee che mi sono fatto su di lui. In questo momento, per esempio, sovrintendo alla sicurezza del suo matrimonio, anche se in realtà Stenton mi avrebbe voluto in qualità di ospite. Non avendo tutta questa gran voglia di mischiarmi con dei ricconi con la puzza sotto il naso fuori dall’orario di lavoro, ho colto l’occasione per declinare l’offerta nel ruolo di invitato e partecipare come addetto alla sicurezza. In ogni caso si è sposato con una donna tutto sommato accettabile che, a parte essere un’autentica rompicoglioni, credo sia perfetta per lui. Lo manderà al manicomio e io me la godrò alla grande. L’inconveniente, però, è che da ore mi sto annoiando a morte – non sopporto le cerimonie in genere e i matrimoni ancor meno – e per mantenere desta l’attenzione continuo a perlustrare con lo sguardo ogni angolo della sala. Poi la vedo. Rossa, gambe chilometriche e un carattere a dir poco insopportabile, almeno a sentire Stenton e la sua neo-mogliettina. È Charlotte Davis, cugina della sposa e assunta di recente come avvocato fiscalista da uno degli studi legali più importanti di New York. Lei si sta guardando intorno come se stesse cercando qualcuno e, quando mi nota, resta interdetta per qualche secondo; poi sorride e viene verso di me con passo deciso. Houston, abbiamo un problema.

Iceman Il mio nome è Finnigan Rudolf Wood e sono nato in Louisiana, più precisamente a Jennings, nei pressi del Lake Arthur. Sono tre le cose che abbondano nello Stato del pellicano: paludi, cibi piccanti e razzisti. Mia madre diceva che ero nato con la camicia, ma tutta questa fortuna non l’ho mai avuta nella vita. Lei è morta di cancro quando io avevo otto anni e mia sorella Ellie dodici. Mio padre, August Wood… ecco, il titolo di padre non se lo è mai guadagnato, se non da un punto di vista strettamente biologico. Uomo violento, dedito all’alcol e senza un briciolo di spirito paterno, gestiva un deposito di rottami sulla Castex Landing, attività che ci consentiva a malapena di tirare avanti. Era il candidato ideale per essere attratto da gruppi estremisti che, nella zona, non mancavano di certo. Come si vantava spesso, lui era un “cavaliere”, così venivano chiamate le ultime ruote del carro del Ku Klux Klan, galoppini che aiutavano a mantenere alto il disprezzo verso tutto ciò che era diverso. Neri, ebrei, comunisti e omosessuali, tutti considerati alla stregua di un male incurabile da estirpare per preservare la purezza della razza. Sono cresciuto a pane e odio: non c’è stato un giorno della mia vita in cui non mi si ricordasse contro chi stavamo combattendo e non mi si educasse a provare lo stesso rancore. Mia sorella non se la passava meglio, costretta a fargli da serva in casa e sempre con qualche livido addosso se non era stata svelta con la cena. Esasperata dalla situazione, si sposò presto e andò a vivere a Shreveport, abbandonandomi. Non la biasimo per questo, forse non avrei fatto altrettanto, ma non provo rancore perché fece una scelta diversa. Sono sempre stato un ragazzino taciturno, schivo; all’età di quindici anni ero già alto quanto un uomo adulto e altrettanto robusto, visto il costante lavoro fisico al quale mio padre mi obbligava nella gestione del deposito. A scuola andavo bene, niente di straordinario, ma magari se mi fossi impegnato sarei riuscito a prendere una borsa di studio per il college. Tutti questi progetti di normalità si scontravano con le ristrette vedute di mio padre, il quale voleva che continuassi l’attività di famiglia. I rottami, però, non erano mai stati la mia massima aspirazione.


Una calda sera di luglio mi fece vestire come se dovessimo andare in chiesa e mi portò in un posto che avevo soltanto sentito nominare nei corridoi della scuola, da adolescenti arrapati che giuravano di conoscere qualcuno che c’era stato: la casa di Miss Lizzy, ovvero il bordello della città. L’interno puzzava di profumo scadente e di scarti di umanità; ovunque si aggiravano uomini dagli occhi rossi per il troppo bere, alla ricerca di un pezzo di carne in vendita. Mio padre diede dei soldi a una grassona dai capelli di un improbabile colore rosso, e lei mi sorrise complice, strizzandomi l’occhio. Rivivendo quell’esperienza, negli anni successivi, posso affermare di non aver mai avuto tanta paura come in quell’occasione, neanche in mezzo al fuoco nemico o intrappolato in luoghi dei quali non riuscivo nemmeno a pronunciare il nome. Mi ritrovai nella penombra di una camera dove una donna di nome July, che doveva aver il doppio dei miei anni, mi accolse riempiendomi di complimenti su quanto fossi bello, giovane e robusto e mi rassicurò affermando che ci avrebbe pensato lei a farmi divertire. Quando iniziò a toccarmi con fare sbrigativo e professionale, avrei preferito essere faccia a faccia con un alligatore. Parti essenziali del mio corpo non collaborarono per niente: calma piatta. Non trovavo niente di attraente in lei e mi resi conto che non si trattava solo della forma, ma della sostanza: erano le donne a non interessarmi. Lo scoprii nel peggiore dei modi, facendo goffi tentativi tra le cosce di una prostituta e pensando, per tutto il tempo, che lei lo avrebbe spifferato a mio padre e che per me sarebbero stati grossi guai. Non appena fu chiaro che nulla sarebbe accaduto, neanche per sbaglio, July mi fece rivestire e, quando uscì dalla stanza, io la seguii a capo chino, in attesa che desse fuoco alla miccia. Invece si limitò a fare un gesto di “ok” a mio padre che subito gonfiò il petto come un pavone fa con le piume e sentenziò che non aveva mai avuto dubbi: i Wood erano dei veri stalloni da riproduzione. Poi si allontanò per andare a bere al piccolo bar del postribolo. Io mi avvicinai timidamente a July e lei mi strizzò l’occhio, raccomandandomi di stare attento perché “quelli come me erano considerati peggio dei negri”. Quelli come me… Da quel momento in poi feci di tutto per dimostrare a me stesso il contrario. Iniziai a fare la corte a qualche ragazza e scoprii di suscitare il loro interesse senza difficoltà. Le baciai persino, in molte occasioni, ma le sceglievo tra quelle della parrocchia e stavo ben lontano da un altro genere, ossia quelle che prima o poi avrebbero preteso di più. Intanto, poco alla volta, qualcosa dentro di me andava cambiando. Trovarsi dall’altra parte della barricata, tra quelli braccati, è un’esperienza illuminante. Non dovevo nascondere il colore della mia pelle, il mio credo religioso o politico, ma forse era persino peggio: dovevo nascondere tutto me stesso, ciò che realmente ero e quello che volevo, e avrei dovuto fingere per il resto della vita, con ogni probabilità. Come si può intuire, non era una bella prospettiva. Tre anni dopo, per festeggiare il mio diploma, mio padre mi portò a una delle riunioni del Klan. Speravo fosse una delle tante, nella quale avrebbero bevuto, vaneggiando sulla supremazia ariana. Purtroppo, non appena vidi tutti quei camion, i cani e percepii l’eccitazione nell’aria, mi resi conto che sarebbe stata una caccia. Molti pensano che certe cose non capitino più, non nel civilizzato mondo tecnologico e liberale nel quale crediamo di vivere, ma non è così. Nel mio mondo, stanare un poveraccio di colore, magari solo perché aveva fatto un piccolo sgarbo insignificante, era ancora prassi consolidata. La suddetta preda veniva strappata dal suo letto in piena notte da un gruppo di deficienti incappucciati e portata in un luogo adeguato. Qui veniva liberata e doveva tentare di fuggire. Non appena veniva catturata, perché questo accadeva sempre, rimediava un pestaggio feroce, se le andava bene. Se le andava male, invece, non rivedeva più l’alba. Le autorità locali chiudevano entrambi gli occhi e, a volte, qualcuno di loro partecipava con entusiasmo all’avvenimento. Quella specifica sera, capii troppo tardi che mi trovavo alla mia iniziazione. Per l’occasione avevano catturato un ragazzino della zona di nome Darren, la cui unica colpa era essere il figlio del proprietario di un terreno confinante con quello di un membro del Klan. Lo conoscevo perché frequentava la mia vecchia scuola ed era un anno indietro a me. Un tipo tranquillo per quel poco di cui avevo memoria.


La paura che lessi nei suoi occhi è qualcosa che ancora oggi mi fa svegliare nel cuore della notte, sudato e in preda ai rimorsi. Anche lui aveva di sicuro notato che, dopo averlo catturato, i suoi rapitori si erano tutti tolti il cappuccio, chiaro segno che non sarebbe mai più tornato a casa. Mio padre, sghignazzando, disse che quella sera non ci sarebbe stata la classica caccia e per un istante mi illusi: un breve, inutile istante. Poi aggiunse che ci sarebbe stato un incontro di lotta. Mi disse che avrei dovuto picchiare Darren fino a ucciderlo, premurandosi di aggiungere che prima, magari, avrei potuto farli divertire un po’, battuta che strappò molte risate. Guardai Darren. Era sporco perché lo avevano trascinato nella polvere e indossava un oramai logoro pigiama a righe; dalla chiazza appena sotto il cavallo dei pantaloni capii che se l’era fatta addosso. Molto più basso di me, a occhio pesava almeno venti chili in meno. Tutti si misero in cerchio intorno a noi e iniziarono a spintonarlo, passandoselo di mano in mano. Alla fine lo spinsero verso di me e lui, nel tentativo di mantenere l’equilibrio, si aggrappò alle mie spalle. D’istinto lo tenni su, abbracciandolo, e per qualche attimo restammo sospesi in mezzo alle urla: la macabra parodia di un ballo d’altri tempi. Nel vociare che ci circondava distinguevo parole come “fallo a pezzi”, “sporco negro” e altre cordialità. Ci sono momenti nella vita nei quali capisci che sei arrivato a un bivio, che le tue successive azioni sanciranno tutti i futuri giudizi che darai mai a te stesso. Ecco, quello fu uno di quei momenti per me. Non mi pento della decisione che presi, né allora né oggi. Afferrai Darren per un braccio e, con tutto il peso del corpo e la determinazione di un folle, riuscii a forzare il cerchio. E poi iniziai a correre, trascinandolo con me verso il fiume, dove il fogliame avrebbe cancellato le nostre impronte e l’acqua confuso i cani. Avanzai per chilometri, spintonandolo quando protestava e caricandomelo sulle spalle nei momenti in cui cedeva. Ci inseguirono solo per un breve tratto; sentivo la voce carica di odio e rabbia di mio padre urlare il mio nome e, ogni volta, era un colpo al cuore, ma anche una spinta a proseguire. L’alba ci colse infine esausti, ansimanti, seduti lungo la sponda in un’ansa nascosta alla vista. Darren non aveva aperto bocca fino a quel momento, per cui quando mi chiese il perché del mio gesto, io borbottai solo uno “sta’ zitto” poco gentile. Non volevo ascoltarlo, non volevo i suoi ringraziamenti, sarebbe stato osceno sentirli dopo che la mia gente lo aveva trattato peggio di un animale. L’unica cosa che mi sentii di dirgli fu di andare dritto di filato dallo sceriffo federale e di non voltarsi mai indietro. Ci separammo, ma io non potevo più tornare a casa. Raggiunsi la città come un ricercato in fuga, mi fiondai a un telefono pubblico e chiamai mia sorella. Lei accettò la telefonata a suo carico e io le chiesi se potevo stare da lei per qualche giorno. Intuì che c’era qualcosa che non andava e mi disse di sì, che mi avrebbe aspettato alla fermata. Mi diressi alla stazione degli autobus, stando ben attento a non farmi notare. Conoscevo il tipo che faceva i biglietti e in qualche modo lo convinsi che mia sorella avrebbe pagato il passaggio, una volta giunto a destinazione. Al mio arrivo lei non chiese niente. Il giorno successivo mi comprò due paia di pantaloni, due maglie, della biancheria e un paio di anfibi. Mi regalò un vecchio giubbotto del marito e mi mise in mano 100 dollari. Il messaggio era chiaro: “Non puoi restare”. Ancora una volta compresi le sue ragioni: aveva fatto tanto per tenere lontano nostro padre dalla sua vita e non avrebbe rischiato di mettersi contro di lui per me. Oramai aveva la sua famiglia e una splendida bambina di nome Sue che assomigliava tantissimo a nostra madre. Con in spalla un vecchio sacco militare, mi avviai fuori città fino a raggiungere la I-49. La mia meta era Dallas, dove avrei trovato un lavoro da qualche parte, in un posto dove nessuno mi conosceva e dove, forse, avrei potuto trovare anche la pace che desideravo. Feci l’autostop, sempre con il terrore di vedere spuntare il camioncino di mio padre; dopo un’ora di inutili tentativi mi caricò un ragazzo che guidava un pick-up rosso. Disse di chiamarsi Peter e di venire da Atlanta; era diretto a San Diego e avrebbe potuto portarmi nelle vicinanze di Dallas.


Per un certo tratto parlammo del più e del meno e, quando gli chiesi perché stesse andando a San Diego, il suo sguardo si illuminò: rispose che aveva da poco superato il SERE e, dopo la licenza appena finita, avrebbe preso servizio attivo nei Navy SEAL, i famosi “uomini rana” della Marina. Gli domandai che cosa significasse l’acronimo e lui mi spiegò che stava per “Survival, Evasion, Resistance, Escape” e che indicava un corso durissimo che tutti i SEAL dovevano superare per poter concludere l’addestramento ed essere assegnati a una unità. Non so cosa fu, ma qualcosa scattò in me, in quel preciso momento. Iniziai a tempestarlo di domande su cosa bisognasse fare per diventare un SEAL e lui rispose paziente al mio interrogatorio. Alla fine non andai mai a Dallas, ma mi presentai con lui a Coronado, una penisola vicino a San Diego che ospita uno dei porti militari più importanti e nella quale c’è la base dei Navy SEAL. Mi arruolai e feci subito domanda per la selezione e da quel momento in poi trovai una nuova ragione per vivere. L’addestramento fu durissimo, un continuo attentato alla resistenza fisica e psicologica. Gli istruttori avevano come unico obiettivo dichiarato quello di farti cedere, ma io ero determinato come lo sono tutti quelli che non saprebbero dove altro andare; mi aiutarono in questo il mio fisico, la mia disperazione e il fatto che l’acqua fosse sempre stata il mio elemento. Nella “Hell Week”, fui tentato più volte di suonare la “campana della rinuncia”, ma poi mi tornava sempre in mente quella maledetta sera con Darren e andavo avanti. Superai il BUD/S e il successivo corso di paracadutismo, ma mi aspettavano ancora circa sei mesi di addestramento, nei quali approfondii l’utilizzo di armi e di esplosivi, e ogni forma di combattimento concepita dall’uomo. Appresi anche come sopravvivere in ogni condizione, quando venivamo calati in possibili scenari operativi, e infine giunsi al SERE. Fu allora che compresi realmente le parole di Peter e, nonostante le difficoltà e le ferite, superai anche quell’ultimo scoglio e ricevetti quello per cui avevo sputato sangue e polmoni: il sospirato stemma, una spilla che raffigura un’aquila mentre regge tra gli artigli un tridente e una pistola, con in mezzo una grossa àncora. Ero finalmente un SEAL a tutti gli effetti. Trascorsi i successivi diciotto mesi ad apprendere cosa voleva dire essere davvero una squadra, lavorando fianco a fianco con i miei compagni, e affinai alcune abilità divenendo un esperto cecchino. Nel periodo passato a Coronado non fu sempre facile nascondere la mia “natura”, anche perché eravamo prede ambite per ogni donna nel raggio di chilometri. Alcune erano come delle groupie, vere e proprie fan scatenate che non esitavano a lanciarsi nelle nostre braccia. Nel bar dove ci riunivamo a fine giornata per scaricare la tensione, c’erano quelle che i miei commilitoni chiamavano “Frog Hog”: noi eravamo le rane e loro ecco… le troie. Per mia fortuna non tutti apprezzavano quel genere di compagnia, quindi potevo tranquillamente bere birra e giocare a biliardo senza destare sospetti. Fu in quegli anni che ebbi la mia prima esperienza sessuale con un uomo che si vendeva per denaro; temendo di essere scoperto, andai fino a San Diego e il tutto accadde nell’anonimato di una stanza d’albergo, mentre io mi vergognavo come mai mi era accaduto prima. Non rivelai mai a nessuno ciò che ero: il clima alla base era pesante, per quelli come me. Tutto era relegato nel regno del non detto, nessuno chiedeva e tu non eri obbligato a rispondere, ma se ti scoprivano in atteggiamenti ambigui venivi congedato con disonore. La mia prima vera missione fu nel 2002, in Iraq, e per sette lunghi anni, da allora, fui tutto quello che avevo sempre voluto essere: qualcuno in grado di avere il pieno controllo della sua vita, qualcuno che niente e nessuno poteva più toccare. Poi il destino ti riserva sempre delle sorprese e qualche volta ti mette di fronte ai fantasmi del tuo passato. La mia vita nella Marina finì ufficialmente in un bellissimo giorno di sole, uno di quei giorni in cui non credi che possano accadere cose così brutte, anche se sei in culo al mondo e per molti sei tu il cattivo. Tu ritorni all’improvviso a essere un civile, con una libertà nuova di zecca della quale non sai cosa fare e più soldi di quanti tu riesca a spenderne. Pensi di poter finalmente vivere un’esistenza piena, di non doverti più nascondere, ma poi scopri all’improvviso che gli angoli bui sono dentro di te. Ti rifugi in essi perché ti senti al sicuro e tutto torna a scorrere come prima. Fino a quando non trovi un muro e non ci sbatti contro.


Ogni cosa era perfetta, prima che lui entrasse nella mia vita. Rappresenta tutto ciò che detesto, perchÊ mi mette di fronte ai miei timori e alle mie debolezze, e perchÊ sono attratto da lui. In questo momento lo sto guardando aggirarsi sicuro e tronfio tra gli invitati al matrimonio e non riesco a distogliere lo sguardo. SÏ, lo detesto con tutte le mie forze.



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