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ANGELO DURANTE LA FESTA 1994 Mario Rotta Quando arrivò in città, Angelo comprese immediatamente che i due inviati erano già lì. Sopra la prima porta era dipinta la danza dei demoni sulle mura di Dite, e sembrava che gli occhi di quei diavoli violacei osservassero bramosi proprio lui, mentre passava sotto l'arco, seguendolo con lo sguardo anche se si spostava da un lato all'altro della strada. Per Angelo quello era il segno: gli inviati lo avevano certamente preceduto, anche se non riusciva a capire come potessero esserci riusciti. Fu subito in preda ad una certa agitazione, ma cercò di valutare la situazione con freddezza. Per il momento, si disse, non correva pericoli. I due non potevano riconoscerlo, poichè non lo avevano mai visto in faccia, e non era neppure detto che fossero davvero lì ad aspettarlo, o che sospettassero qualcosa sul suo conto. Ma la sua impresa diventava più difficile, e la ragione stessa per cui si era spinto fino alle porte di quella città assumeva contorni meno chiari di quelli, apparentemente limpidi e innocenti, che la sua mente aveva tracciato durante il viaggio. Due concorrenti pericolosi si erano messi sulla sua strada, e doveva stare particolarmente attento ai suoi gesti e ai suoi passi. Si ricordò di come, altre volte, era riuscito a camuffarsi abilmente tra la gente o a scomparire nella folla, fino al punto di non lasciare altro che tracce leggerissime della sua presenza, più difficili da scoprire di quelle di un piccolo uccello durante una bufera di neve. Come molti esseri umani, possedeva la rara capacità di capire quale fosse l'unico angolo in cui ci si poteva nascondere nel momento del pericolo. Il dono del rendersi invisibile, di sfuggire alla sorte. Ma nella città dello stendardo di Raffaello gli abitanti erano abili nel riconoscere e smascherare un forestiero, per quanto cauto egli fosse nei suoi movimenti, astuto nel percorrere le vie, naturale e disinvolto nei suoi gesti quotidiani. Tutto il mondo sapeva che era così. Anche lui, come gli altri. Camminando per le strade, Angelo si accorse di avere una fortuna inaspettata. La città, infatti, era intenta a celebrare la sua festa maggiore, durante la quale tutti erano autorizzati a indossare maschere e a danzare per le strade improvvisando passi e cantando canzoni. I forestieri erano più del solito, in quel periodo, e avrebbe potuto, se non passare del tutto inosservato, almeno mescolarsi alla folla travestito in qualche modo, rendendo più complicato il suo riconoscimento ai passanti, e soprattutto agli inviati. Così cercò subito di acquistare un costume, e ricordandosi che gli abitanti vanno in giro durante la festa mettendo sulla testa elmi e corone di latta argentata e dorata, dove appendono fiori, foglie o collane di coralli, gettandosi addosso larghi mantelli o grandi tuniche ricoperte di nastri colorati e legando alla cintura daghe e spadoni di legno, pensò di mascherarsi come loro. Tuttavia non ci riuscì. Era tardi, e la festa era già nel vivo. I costumi migliori erano già stati venduti o noleggiati, e Angelo non trovò altro che due ali di piume sorrette da un'impalcatura di fili di ferro e una lunga tunica bianca un po'macchiata sotto le ascelle e strappata sullo strascico. Così cominciò a cercare la sua meta, Angelo vestito da angelo, sicuro che gli inviati non avrebbero potuto scoprirlo tanto presto. Le dimensioni della città erano contenute, e il reticolo delle strade, benchè complesso, lasciava intuire la presenza di un ordine, di una regola di sviluppo e di disegno tale che per nessuna ragione una via avrebbe potuto essere scambiata per un'altra, o un percorso interrompersi improvvisamente senza prima essere tornato al punto di partenza o nelle sue vicinanze. Angelo completò la pianta in poche ore, cercando di sovrapporre le case e i palazzi che passo dopo passo vedeva all'idea che di quello in particolare che stava cercando si era formato nella mente attraverso le descrizioni che aveva letto o sentito riferire. Non esistevano immagini dell'edificio, e più volte fu costretto a soffermarsi sotto le finestre di questa o quella casa, incerto sul da farsi, poichè certi particolari della


costruzione coincidevano con le uniche informazioni che possedeva. Ma quando passò davvero sotto la stanza che lo interessava non ebbe dubbi. Furono sufficienti, a rassicurarlo, la superficie chiara della pietra che ricopriva la facciata, le grottesche di stucco con gli aironi e le gru che raccoglievano i pesci tra le canne e i gigli d'acqua e i mascheroni dalla bocca spalancata e sdentata, i vetri smerigliati a rombi e a fondi di bottiglia, le arcate del piano nobile aperte sul terrazzo circondato di limoni. E più di ogni altra cosa un odore sconosciuto nell'aria, che soltanto da quella casa si propagava. Lo stendardo di Raffaello era lassù, dietro la seconda finestra dell'ammezzato, subito sotto il tetto. Ora cominciava la parte più rischiosa della sua missione. Doveva registrare ogni particolare dell'edificio, ogni sua crepa, ogni sua sfaccettatura, senza insospettire i passanti e tutti coloro che avevano la fortuna di abitare in quella casa magnifica, che per quanto aerea e leggera fosse nell'architettura e nelle decorazioni, perfettamente allineata alla prospettiva della strada, gli sembrò tuttavia una fortezza inespugnabile, costruita dai maghi sull'unica roccia aguzza di un deserto. Certo, non sarebbe stato possibile stringerla d'assedio, sfondare la porta e conquistare il trofeo, senza rimanere uccisi nel tentativo. Doveva scoprire il modo per entrare senza suscitare allarme e per uscire senza essere visto. Doveva, come sempre, diventare invisibile. Trovare la via più breve per raggiungere la stanza, e la più silenziosa per penetrarvi. Tutto avrebbe dovuto svolgersi rapidamente, senza rumori, ed evitando qualsiasi forma di violenza alle persone o alle cose, poichè nulla avevano a che vedere con il suo scopo lo scasso e la rapina. Avrebbe dovuto essere più innocente di un uccello, libero come lui di muoversi nell'aria, e si rammaricò che le sue ali di piume fossero finte e che la sua tunica non fosse una vela. O di non poter filtrare come un liquido tra le fessure del legno e della pietra. Ma i suoi ragionamenti non si estesero nel tempo più del necessario. Se fosse rimasto ancora incantato sotto le finestre del palazzo, infatti, lo avrebbero di certo indicato ai bambini come se fosse un figurante della festa pronto a interpretare la sua parte di rito, e da quel momento in poi nemmeno fuori dalla città avrebbe potuto occultarsi. Doveva essere veloce. Così proseguì il suo cammino, seguendo per prudenza la direzione della folla, mentre il disegno della casa, delle finestre, delle grondaie e dei muri prendeva una forma definita all'interno della sua testa. In quel momento li vide per la prima volta. Li immaginava diversi, ma non gli ci volle molto lo stesso a capire che erano loro. Erano vestiti del colore del fuoco, e i loro mantelli lunghissimi, tagliati ad arte in infinite strisce sottili, crepitavano nell'aria mossi dalla brezza, che la sera si incanalava nelle strade, fresca e uniforme come la piena di un torrente quando si sciolgono le nevi. Passarono rapidi e senza accorgersi di nulla, mentre i campanelli che ne agghindavano le corna e il cappuccio di pelo ruvido e lungo, incolto quanto la pelle di una capra, tintinnarono sinistri. Ma uno di loro si voltò per un attimo, e lo guardò con interesse. Occhi attenti, abituati al sospetto, balenarono sotto la nera maschera, tra la gobba del naso di aquila e le sopracciglia ingrossate come la volta di una caverna. Angelo sapeva che quegli occhi erano capaci di scorgere il minimo scatto nervoso della sua mascella, o un battito insolito delle sue ciglia, svelando la paura che si sforzava di dissimulare. Pensò di chinare lo sguardo e di fingere distrazione, ma si rese conto che anche un gesto innocuo come quello avrebbe potuto scoprirlo. Reagì, allora, contrariamente alle sue abitudini, rendendo palese il suo disagio: sostenne il più a lungo possibile la vista degli occhi dell'inviato, e lo seguì con l'aria incuriosita mentre si allontanava con il compagno, sorridendo appena, con espressione beffarda, quasi con l'aria di chi accetta una sfida. Fu questione di un attimo, il tempo di pochi passi sulla strada. L'inviato si voltò e si allontanò. L'altro nemmeno aveva mosso la testa. Angelo non potè dire con sicurezza di aver eluso ogni sospetto. In realtà, sebbene istintivamente, aveva scoperto che l'unico modo per distogliere l'attenzione di chi ci osserva con troppo interesse consiste nel dargli la sensazione di essere a sua volta osservato. Neppure gli inviati potevano permettersi di essere smascherati nella pubblica


via, e dovevano quindi evitare di osservare gli altri, o di essere osservati, troppo a lungo. Era stato più calmo, era riuscito a tenere gli occhi fissi sul nemico, e aveva vinto la prima partita di quel gioco di nervi. Dimostrando che la diffidenza era reciproca, che sapeva esattamente quello che loro sapevano, era come se avesse affermato che entrambi erano ancora alla pari, come se tutto dovesse cominciare. I vicoli e le strade più strette confluivano tutte in viali più ampi, ma non rettilinei, piuttosto sinuosi come le anse di un fiume maestoso. E tutti i viali, come attratti da un potente magnete, si dirigevano verso la famosa piazza circolare, che della città costituiva l'ombelico e lo stemma. Angelo non l'aveva mai vista, e in quel preciso momento, combattuto com'era tra la preparazione di un piano e la soddisfazione per il pericolo scampato, non riusciva neppure a immaginarla, benchè ne conoscesse infinite riproduzioni. Fece gli ultimi metri circondato da una folla smisurata e impazzita, pensando che una volta arrivato alla rotonda sarebbe rimasto deluso, come spesso succede quando la visione di un oggetto è stata preceduta da un numero eccessivo di immagini e di informazioni, ognuna delle quali, ricostruendo nella mente i particolari più appariscenti della cosa, priva lo sguardo dell'emozione che essa potrebbe suscitare in un osservatore ignaro. La piazza apparve ad Angelo subito dopo l'angolo dell'ultimo palazzo. Era inaspettatamente molto più bella di quanto avesse potuto credere di riuscire a immaginare. Non ebbe modo nemmeno di misurare la meraviglia che suscitò in lui il tempio colonnato che si innalzava al centro di quella perfetta superficie piatta, solcata da linee concentriche di travertino come da scie di navi su un oceano di rossi e regolari mattoni. Era il tempio che con la sua forma rendeva sferico lo spazio che lo circondava, poichè le facciate dei palazzi, i porticati sorretti da centinaia di pilastri incoronati di foglie d'oro, i cornicioni interrotti dalle docce di bronzo a testa di leone e di drago, non seguivano il perimetro di un cerchio, ma si sviluppavano lungo le linee di un ipotetico quadrato, interrotto però non quattro e non otto, ma sette volte soltanto dalle aperture dei viali che da ogni parte della città si annodavano proprio in quel punto. Tutto era chiaro. Tutto sembrava muoversi sospinto da una forza misteriosa e perpetua, che la folla stessa avvertiva e seguiva. Angelo si lasciò trascinare dal flusso. La rappresentazione che stava per cominciare era il cuore della festa. Intorno al tempio erano stati innalzati tre alberi di leccio, segati dal bosco. Quei tre alberi enormi dovevano morire perchè tutti gli altri potessero rinnovarsi. La loro corteccia veniva tolta, e parte dei rami tagliata. Il tronco era ripulito e levigato. Si formava così una superficie chiara e liscia, sulla quale chiunque, sia cittadino che forestiero, poteva incidere o scrivere versi dedicati alla Regina della festa, che ben presto sarebbe apparsa nella piazza. Un gruppo di figuranti vestiti interamente di verde aveva il compito, scalando il tronco scivoloso, di appendere grandi foglie di carta alle fronde più alte, ormai spoglie. Poco prima dell'alba il fuoco le avrebbe bruciate insieme ai rami più sottili, risparmiando però il tronco ricoperto di poemi, che sarebbe stato conservato, insieme a tutti quelli degli anni passati, fino a che il tempo non lo avesse macerato. I tre simulacri erano disposti in modo tale da costituire i vertici di un triangolo equilatero, entro il quale il cerchio perfetto del tempio era inscritto. A quel punto la porta del tempio si apriva, e la Regina della festa usciva trionfalmente nella piazza per lasciarsi ammirare dall'intera città mascherata. La prescelta, nel ruolo della Regina, era quella fanciulla che nel giorno stesso della festa compiva diciotto anni. Quella soltanto, e non una tra le tante, poichè la fortuna, che spesso sorride alle ingenue credenze dei popoli, aveva sempre fatto sì che mai, nella storia della ricorrenza, più di una ragazza fosse nata in quel giorno. E pare che si trattasse sempre di una bellissima donna. Angelo, incuriosito, cercò di farsi strada tra la gente per vedere anche lui chi fosse la Regina quella sera. Sarebbe stato meglio per tutti se si fosse disperso nella bolgia, ma non si possono controllare gli impulsi in mezzo a tanta gente piena di vitalità. Quando il carro di fiori uscì dal cerchio delle colonne sorretto da un nugolo di giovani Angelo si trovò così a pochi metri dal trono. Senza una precisa ragione, lo sguardo intimorito della Regina si posò subito su di lui, e su di lui restò per un


intervallo eterno, mentre su quel viso di rosa l'emozione e la vergogna del mostrarsi nella piazza assumevano il contorno di un sereno sorriso. Angelo si sentì perforato da mille lance con la punta d'oro, dubitò di riuscire ancora ad aprire la bocca per parlare, o di poter muovere il torace per respirare. Mai aveva visto donna più bella, e mai provato prima l'oscura, magnifica certezza che dentro di lui una sensazione ignota stava nascendo, per esplodere su tutta la sua pelle. Il carro ondeggiò paurosamente, e proseguì il suo viaggio fendendo la folla sconvolta. Angelo non percepì il momento in cui lo sguardo della ragazza passò oltre. Era rimasto immobile, come se nient'altro esistesse, e mentre la Regina si allontanava s illuse che continuasse ad osservarlo. Una sola visione lo aveva rapito. Dimenticò ogni prudenza. Corse verso il più vicino dei tronchi innalzati e si arrampicò più in alto che potè, senza scivolare. Lassù incise profondamente il suo epigramma. Non vides verno variata flore, così cominciava il poema ***. Per poi srotolarsi lungo la circonferenza della corteccia come una scala a elica. Moltissimi occhi lo notarono, e parecchi cittadini si chiesero chi fosse quell'uomo con le ali, irriconoscibile nella sua maschera, così bravo ad arrampicarsi, tanto sapiente da osare scrivere in latino. Gli inviati erano da qualche parte nella stessa piazza, e forse anch'essi lo videro, interrogandosi sulla stravaganza dell'angelo bianco, che sfiorava la follia. Angelo scese dal tronco slittando lungo la parete, e si trovò nuovamente circondato dalla folla, che per un po'fu tanto attenta alle sue mosse e alle sue fattezze quanto in precedenza aveva ignorato i suoi passi e il suo travestimento. Secondo la tradizione, il carro della Regina stava percorrendo le strade della città per accompagnare la ragazza alla porta della sua casa. Ormai del tutto indifferente alla ragione del suo arrivo e alla missione che quella notte stessa avrebbe dovuto compiere, Angelo si mise a seguirlo, non senza qualche difficoltà, poichè la cittadinanza intera si muoveva nella stessa direzione, perdendo metro dopo metro ogni ritegno e ogni regola. Più di un branco di lupi all'assalto di un gregge di pecore o di un gregge in fuga davanti a un branco di lupi. Più della fame, più del terrore, trasforma gli uomini l'esaltazione. Angelo, tuttavia, riuscì a non perdere di vista il carro, che dopo aver percorso molti vicoli ed essere ritornato più volte sui viali principali, tanto che dall'alto si sarebbe detto che l'itinerario disegnava un fiore, si fermò sulla soglia di un palazzo che per una notte tutti avrebbero chiamato la reggia. Spingendo, sgomitando, calpestando, Angelo lo raggiunse, proprio mentre il portone si spalancava al passaggio della giovane donna. Fulmineo, riconobbe l'edificio: lo stendardo di Raffaello apparteneva alla sua Regina. Il piano che aveva elaborato si rivelò suo malgrado ineccepibile, sebbene egli stesso non ne fosse più consapevole. Quello che desiderava veramente, ora, non era tanto raggiungere la stanza in cui l'opera d'arte che cercava era conservata, ma di rivedere la ragazza, ed era pronto a rischiare l'esito del suo viaggio per raggiungere il suo scopo. Tuttavia si comportò esattamente come aveva pensato di fare per mettere le mani sul dipinto. Salì agilmente sul muretto che circondava una parte del giardino del palazzo. Poi camminò su di esso con la grazia e la velocità di un equilibrista, e quando fu sotto la facciata si lanciò verso il vicino loggiato, aggrappandosi alla balaustra tornita che lo ***

Il testo dell'epigramma fu trascritto più volte dagli studiosi e dagli esegeti della festa, che ebbero modo di leggerlo sulla corteccia, dopo che essa venne collocata nell'insolito archivio dei lecci. Risultò essere stato estratto da un'imitazione latina di Michele Marullo, dedicata all'amico poeta Manilio Rallo. Il testo completo dell'estratto di Angelo è il seguente: Non vides verno variata flore tecta ? / Non postes viola revinctos ? / Stat coronatis viridis juventus / mixta puellis. / Concinunt Majas pueri kalendas, / concinunt senes bene feriati; / omnis exultat locus, omnis aetas / laeta renidet. / Ipse, reiectis humero capillis, / candet in palla crocea Cupido, / acer et plena iaculis pharetra, / acer et arcu. / Et modo huc circumvolitans et illuc, / nectit optatas iuvenum choreas, / artibus notis alimenta primo / dum parat igni; / nunc puellaris medius catervae / illius flavum caput illiusque / comit et vultus oculisque laetum / addit honorem. Inspiegabilmente, Angelo omise nella sua versione le altre tre stanze dell'originale.


delimitava. Dal loggiato partì per arrampicarsi verso la finestra del piano ammezzato, facendo abilmente perno con le mani e con i piedi sulle sporgenze degli stucchi. Tutto avvenne sotto gli occhi di migliaia di testimoni, che tuttavia non lo scambiarono per un malintenzionato, ma piuttosto per un ammiratore audace, che certo ben sapeva che tutto era permesso durante la festa, anche scalare le mura della reggia per corteggiare la Regina. La quale, secondo la tradizione, avrebbe trascorso l'intera notte vegliando nella sua camera, con poche vesti addosso, pronta a respingere per gioco tutti coloro che fossero riusciti a raggiungerla e a dichiararsi suoi amanti. Angelo, in realtà, non sapeva altrettanto bene che cosa stesse facendo. Entrò dalla finestra come un furtivo ladro, allargando le tende che la corrente spingeva sulla sua faccia, e districandole dalle ali. Il gatto lo sentì immediatamente, e corse via verso le scale rizzando il pelo sulla gobba. Fu l'unico essere vivente, in quel momento, che si spaventò alla sua vista, e l'unico che riuscì a percepirne la presenza. Angelo si guardò intorno cercando di abituare la vista alla penombra. E la prima cosa che vide fu lo stendardo emergere dal buio di un angolo. Era di finissima fattura, e recava senza dubbio l'impronta della mano del miglior Raffaello: un guerriero era disteso sotto un albero scheletrico, e dormiva appoggiato al suo scudo. In sogno gli apparivano due donne, e la prima lo chiamava allettandolo con un fiore, la seconda lo esortava con una spada e un libro. In lontananza paesi e castelli, acque e montagne si perdevano mirabilmente nell'infinitezza. Che cosa stava accadendo ? Angelo, perchè avverti tanta emozione ? E perchè tanta paura ? Perchè non fuggi via, finchè sei in tempo, e torni dove sei venuto ? Angelo non volle ascoltare alcuna voce. L'istinto gli suggerì di prendere il piccolo drappo dipinto e di nasconderlo sotto la tunica. Poi cercò la porta della stanza ed entrò nella casa per seguire le tracce della ragazza. appoggiandosi ai legni intarsiati che ricoprivano le pareti. Percorse per intero un corridoio, finchè non vide un raggio di luce filtrare da uno stipite accostato. Cautamente, silenzioso, si avvicinò alla soglia per poter guardare, non visto, dentro la camera, aggrappandosi con le mani ai ricami della cornice che inquadrava la forma dell'anta. Stanca e bellissima, la Regina della festa era distesa sul suo letto. Solo una lucida camicia la copriva. Angelo riuscì a seguire il profilo del suo petto che si alzava e si abbassava affannosamente, spinto da un violento respiro. Incosciente, spalancò la porta, con tanta rapidità e irruenza che la donna si alzò di scatto a sedere sul bordo del letto. Poi restò immobile, appena un passo dentro la stanza. La Regina, superato il primo spavento, si sforzò di sorridergli, e abbassò la mano che aveva portato alla gola per calmare l'affanno che la stanchezza, o la paura, le avevano provocato. Nessuna parola fu pronunciata. Angelo sentiva le gambe tremare e la voce mancare, ma i suoi occhi erano spalancati dalla meraviglia. La Regina, ogni attimo che passava gli sorrideva con più sincerità. Angelo si fece coraggio e avanzò fino al limite del letto per salutarla. Allungò le braccia e passò le mani delicatamente lungo le increspature dei suoi lunghi capelli. Il sorriso della Regina, che lo aveva accompagnato paziente, fu velato dall'ombra del dubbio e dell'incertezza. In quello stesso momento un rumore secco e preciso tagliò l'aria di tutta la casa. Più nitido dello sbattere di un vetro, più forte di un passo sul marmo, più chiaro di un sussurro. Angelo, colto impreparato dal panico, non pensò di scoprirne la causa prima di agire. Scappò, abbandonando il bellissimo volto che stava accarezzando, gettandosi nel corridoio in direzione opposta rispetto a quella da cui era venuto. Si ritrovò in una foresta di stanze affrescate, che sfilarono l'una dopo l'altra accanto a lui. Non ebbe il tempo di notare uno solo dei soggetti raffigurati. Arrivò sul ballatoio della corte interna, e lo percorse quasi totalmente sui quattro lati prima di trovare l'unica via d'uscita: uno scalone ellittico che portava direttamente nell'atrio del palazzo, e che scese rischiando ad ogni salto di cadere. Gli ultimi gradini si allargavano repentini verso il pavimento del piano terreno come il fronte della lava di un vulcano. Qui, finalmente, Angelo tornò padrone delle sue decisioni. Dietro il grande portone la festa stava crescendo di intensità, e la ragione appena ritrovata gli disse che non sarebbe stato opportuno uscire da quella parte. Cercò allora qualche altra via di scampo, e trovò una porticina seminascosta, che aprì guardingo. Uscendo si ritrovò in uno dei vicoli laterali, senza che nessuno dei molti passanti lo notasse. La fortuna era dalla sua parte, e fu subito preso dalla corrente della folla impazzita, come un cittadino


qualsiasi. Non si sa quanto tempo passò. La festa continuava. Angelo si ritrovò in un viale che non riuscì a riconoscere. Si sentiva ubriaco contemporaneamente di amore, di timore e di rumore. Entrò in una delle tante osterie che i commercianti più furbi aprivano esclusivamente in quelle occasioni, e si fece strada tra i tavoli e le sedie, tutte occupate. Riuscì a conquistare uno sgabello vicino al banco, nulla di meglio, e chiese un bicchiere del buon vino dolce del luogo, giudicandolo il minimo indispensabile per riprendere fiato e coraggio. Sentì il dipinto rubato premere all'altezza dei muscoli dell'addome, e provò a calmarsi. La necessità di dover ideare un piano per portare via dalla città lo stendardo e rivenderlo a buon prezzo era infatti un buon motivo di distrazione. Ma, per quanto si sforzasse, non fu capace di pensarci troppo. Nella sua mente, e in qualsiasi altro organo vitale si possa collocare la sede delle passioni insondabili, lì c'era l'immagine della donna, che aveva appena lasciato. Troppo in fretta. Per codardia. Per abitudine alla fuga. E non poteva cancellarla per ragioni così futili. L'oste versò il vino in un bel bicchiere di cristallo sfaccettato. Mettendo il calice contro una fonte di luce Angelo vide che il vetro si colorava del liquido fino a sembrare uno smisurato e prezioso topazio. Bevve gustando lentamente ogni sorso del nettare, cercando nel sapore una scusa per sgomberare la mente da ogni pensiero. Ma non gli fu possibile nemmeno questa volta: attraverso l'orlo trasparente del bicchiere inclinato rivide infatti, con orrore, gli inviati. Erano seduti proprio sotto la rampa montante di uno degli archi della cantina e conversavano tra loro come due amabili ospiti. Indossavano la stessa maschera terrificante che avevano quando li aveva incontrati per la prima volta, poco prima del tramonto, e bevevano vino rosso. Pensò di uscire in silenzio, prima che potessero vederlo. Poi ebbe un'idea. Improvvisa. Folle. Pericolosissima. Forse fu l'effetto del vino, forse fu per l'innamoramento che lo aveva catturato, ma si sentì così forte e incosciente da tentare l'impossibile. Subito si diresse verso quei due esseri, che non si erano affatto accorti della sua presenza. Quando fu davanti a loro aspettò che alzassero lo sguardo torvo e che lo scrutassero attentamente. I due, vedendo la sua audacia, esitarono. Sono indecise alla stessa maniera le belve, quando la vittima si offre loro spontaneamente, privandole del piacere della caccia. Il più acuto di loro stava probabilmente preparando una parola o un gesto per distruggere sul nascere ogni sua velleità, ma Angelo fu più veloce. Con un gesto rapido e ben calibrato, ben sapendo che un oggetto sembra più prezioso di ciò che è finchè rimane nascosto ma appare insulso e immeritevole di attenzioni quando viene sfacciatamente esibito, gettò sul tavolo lo stendardo di Raffaello. Con tale noncuranza che nessuno dei tanti presenti, ad eccezione dei due inviati (che tuttavia dissimularono abilmente il loro stupore) dette importanza alla cosa in sè o riconobbe la pregiata immagine. Poi disse, l'incauto: "Signori, so che siete qui per lo stesso motivo per cui io stesso sono venuto. Ma sono arrivato prima di voi. Ecco il dipinto, l'ho già rubato. E'stato facile. Tuttavia, se proprio lo desiderate, possiamo metterci d'accordo. Ve lo posso cedere a buon prezzo." Chi può dire se gli inviati lo presero sul serio, o lo scambiarono per un pazzo ? Uno dei due, per un istante, sembrò propenso a prendere in considerazione l'offerta, e a trattare sulla cifra. Ma l'altro gli posò una mano sul braccio, come si fa tra vecchi amici, e rispose ad Angelo che non sapevano neppure di che cosa stesse parlando. "Ben altro è ciò che ci interessa - disse la maschera - vattene." Quasi un avvertimento, una minaccia. Angelo raccolse il dipinto e lo rimise sotto la tunica. Non aveva calcolato alcun tipo di reazione, perciò non fu stupito da quella che gli inviati ebbero. Sapeva che mentivano abitualmente, e non fu certo convinto dalle poche parole che dissero. Ma insistere sarebbe stato inutile. Non poteva far altro che voltarsi e uscire. I loro malefici occhi lo inseguirono fino al portale dell'osteria. Una volta sul viale, Angelo si guardò intorno e capì che quella notte non avrebbe trovato in città una sola strada deserta per passeggiare senza meta e riflettere meglio sul da farsi. Tutte le vie erano invase da una marea crescente di folla che correva, beveva,


cantava, aspettando di veder bruciare gli alberi della piazza e che l'intero rituale fosse compiuto. Non ebbe tuttavia bisogno di particolare concentrazione per comprendere che sarebbe stato difficilissimo, ora, vendere il dipinto a qualcuno. Svelandolo lui stesso, ne aveva reso di fatto impossibile la collocazione, così che adesso gli restavano soltanto due possibilità. La prima era cercare di nascondere l'oggetto rubato per tutto il tempo necessario a far perdere ogni sua traccia agli inviati, placare il clamore che la notizia del furto avrebbe ben presto suscitato e tessere una rete di contatti segreti per poterlo finalmente vendere. Un'ipotesi rischiosa, data la situazione, probabilmente non conveniente. La seconda consisteva nello sbarazzarsi al più presto della refurtiva. Pensò allora che così com'era venuto, poteva tornare sui suoi passi: andare al palazzo della Regina e rimettere al suo posto lo stendardo di Raffaello. Come se niente fosse successo. Cercando contemporaneamente di rivedere la ragazza, che era ciò che in realtà desiderava di più. A fatica, arrancando in senso contrario al movimento di quasi tutta la gente, riuscì a ritrovare la reggia coperta di stucchi. Il carro fiorito era ancora posato davanti al portone principale. Tra i tanti modi possibile per entrare gli sembrò meglio rifare a rovescio il percorso che aveva seguito poco prima per scappare. Si infilò nella porticina laterale, svelto e sicuro, e fu nuovamente nell'atrio. Salì lo scalone, e ritrovò nel ballatoio l'uscita del labirinto di stanze dipinte attraverso le quali era passato correndo. Ancora una volta non vide le decorazioni, che della casa erano il vanto, perchè un buio nerissimo era sopraggiunto a nasconderle. Se anche fossero state visibili, peraltro, non ci avrebbe fatto caso. Alla porta della camera si fermò, e dette una rapida occhiata all'interno, senza però scorgere nessuno. Ogni suo desiderio, ogni speranza che aveva coltivato, trascolorarono in paura improvvisa. E fu tanto il terrore di non rivedere la donna da superare quello che avvertì sentendo, dall'ultima stanza del corridoio, le urla concitate di parecchie persone. Era evidente che il furto dello stendardo di Raffaello era stato scoperto, e lui, il ladro, era ancora a pochi metri dal luogo del suo delitto. Entrò nella stanza, che in effetti era vuota, e si appiattì dietro uno spigolo, mentre i passi e le voci si avvicinavano dal corridoio. Ora poteva percepire anche le parole: "Il mio Raffaello. Il mio Raffaello. Chi è stato ?" "Calmati. Lo ritroveremo." "Vorrei averlo tra le mani. Il ladro. Il vigliacco." "Torna in camera. Non piangere." La porta si spalancò improvvisamente, e Angelo fu allo scoperto, rintanato nel suo angolo, di fronte alla bella Regina. Che versò lacrime e singhiozzi anche quando lo vide, e tuttavia un lampo che non sembrava di timore passò attraverso il suoi occhi. La ragazza, che era entrata veloce e decisa, esitò, e per qualche secondo non parlò con nessuno. Rimase ferma sulla soglia, come se volesse impedire che anche gli altri scoprissero Angelo. Anzi, li spinse nuovamente nel corridoio gridando come una forsennata, tenendosi alla maniglia della porta per socchiuderla alle sue spalle senza destare sospetti. Angelo pensò che volesse offrirgli una via di fuga. Ma quella notte era già scappato troppe volte. E un calore improvviso aveva attraversato tutto il suo corpo nel ritrovare la Regina; non si può scegliere in piena libertà in quei momenti. Solo lasciare che il destino si compia, se mai un destino esiste e ha già ordito la sua trama. La donna, intanto, gridava ancora più forte, in modo che tutti i presenti, scoperti o nascosti che fossero, sentissero le sue parole. "Vorrei vedere il suo cadavere." - diceva - "Nudo. Sul bancone di una stanza di anatomia. E io stessa lo vorrei fare a pezzi sotto gli occhi degli studenti. E mentre gli organi affiorano, prima che il dottore ne spieghi la natura, vorrei dire a tutti che così finiscono i ladri dell'arte, rovinati dopo la morte come le cose inanimate che hanno rubato da vivi." "Non dire così. E'tremendo." Angelo, ipnotizzato, si staccò dalla parete e in perfetto silenzio mosse dei passi verso il centro della stanza.


"Lo faremo cercare dappertutto" - diceva qualcuno, nel corridoio, in tono autoritario e deciso - "non potrà fuggire !" E intanto la ragazza si lamentava. Per prima cosa, tirò fuori il dipinto, e lo appoggiò sopra il letto, sotto la luce, in modo tale che chiunque fosse entrato nella stanza lo avrebbe subito notato. "Aspettiamo domani" - sussurrava un'altra voce, supplichevole e materna - "stasera c'è troppa confusione in città. Non possiamo sciupare la festa". Si tolse a fatica l'impalcatura delle finte ali, e poi la tunica bianca e le altre vesti. Nudo e indifeso, si distese immobile su una cassapanca, non lontana dalla finestra. I finissimi intagli del legno del prezioso mobile ricordavano i disegni di un antico sarcofago. "Andate via ! Andate via tutti !" - gridava la Regina - "Lasciatemi sola !" E piangeva ancora, quando rientrò nella sua camera chiudendo la porta alle sue spalle. Fu allora che vide lo stendardo che le apparteneva, offertole come un dono sulle lenzuola bianche. Fu allora, che evaporava la rugiada della sua ultima lacrima, che fissò Angelo adagiato sulla cassapanca. Lui guardò il soffitto di rosoni dorati, mentre la Regina si avvicinava cauta. La osservò abbassando gli occhi che apriva un cassetto e ne cavava un grosso coltello. Vide il coltello su di lui, e la bellezza immensa della ragazza in piedi. Sentì che tutta la sua esistenza era compiuta. L'unica cosa che in quell'istante non conosceva era che nella notte della festa, ogni anno, la Regina di turno doveva compiere lo stesso gesto contro chiunque fosse riuscito a raggiungere il suo nascondiglio. Lei recitò alla perfezione la sua parte, con il coltello levato sul suo corpo quasi inanimato, pronta a colpire. Ma per una volta almeno andò oltre, sebbene la tradizione non chiedesse tanto alla protagonista del rituale. Abbassò la lama verso Angelo con un movimento secco e improvviso del braccio, e la fermò così vicino al petto dello sventurato che ogni volta che Angelo respirava la punta dell'arma sfiorava la sua pelle. Ma lui non si mosse ancora, e continuava a sentirsi beato della sola vista di lei. Allora la Regina chinò la testa in avanti per guardare negli occhi, vicinissima, l'uomo immobilizzato, mentre la lama scendeva lentamente verso il ventre, simulando il gesto di forza e di odio del soldato che sta tagliando in due il nemico, ma sfiorandolo soltanto, leggerissima, innocua. Angelo si chiese se la morte poteva essere riconosciuta dall'odore, e si rammaricò che fosse il profumo dei fiori di campo che la fanciulla bellissima portava sui capelli, intrecciati a corona. Ma lei non osò ancora colpire. Passò una mano sopra i suoi occhi, come la benda di un condannato. Angelo fu pronto a percepire lucidamente il gelo della lama affondare in qualche parte della sua persona. Sentì invece le labbra della donna toccare le sue, e la seconda mano che lo accarezzava su tutta la superficie del corpo, mentre il rumore del coltellaccio si piantava sul pavimento. Poi sentì il contatto con la pelle di giglio della Regina e il suo seno rigoglioso, e un immenso, lunghissimo brivido di piacere lo colse quando lei lo strinse forte tra le sue cosce. Anzichè morire, stava sbocciando come i fiori della primavera. Angelo e la donna fecero l'amore e stettero abbracciati per una parte della notte, dapprima sulla cassapanca, poi sul letto, dove si rotolarono insieme al prezioso dipinto. Nessuno più osò importunare la Regina, nè dalla strada nè dalla casa, e gli amanti furono i padroni di tutto il tempo che passarono insieme. Non doveva mancare molto all'alba quando la donna si alzò, nuda e splendente sotto la luce artificiale, e raccolse lo stendardo caduto, stringendolo a sè. "Aspettami" - disse ad Angelo, che si era incantato a guardarla - "distenditi ancora sulla cassa. Per favore. Chiudi gli occhi. Aspettami. Tornerò subito." Angelo la seguì fino alla porta. La ragazza guardò dapprima attentamente nel corridoio immerso nell'oscurità, per sincerarsi che nessuno potesse spiarla. Poi scivolò via, portando addosso, strette al petto, le divine figure di Raffaello. Angelo non vide mai più una veste così bella sulle forme di una donna. Impaziente come tutti gli amanti, fedele ai desideri di lei come tutti gli innamorati, fece tre passi nella stanza, e si rimise disteso sul piano di legno del mobile. Nessuna sensazione di panico attraversò la sua persona. Non sentì nemmeno il freddo al primo contatto con la cassa. Innaturalmente, appoggiò le mani sulle anche, e si mise a guardare in alto, sognando un nuovo gioco. La Regina, intanto, toccando le pareti del corridoio, era finalmente arrivata all'ingresso dell'ultima


stanza. L'oggetto prezioso stava per tornare al suo posto, e la Regina dal suo Angelo. In fretta. Ma più veloci di lei furono i due demoni mascherati, che le strapparono via lo stendardo e le tapparono la bocca prima ancora che potesse inghiottire il sussulto della paura. Feroci e decisi, non si commossero neppure di fronte alla sua nuda bellezza di adolescente appena consapevole della molteplicità della vita, e la lasciarono lì, incosciente, finchè qualcuno, il giorno dopo, non la trovò. Angelo chiuse gli occhi soltanto quando sentì che la porta si apriva. Chiuse gli occhi, e un brivido di eccitazione corse sul suo corpo nudo quando la lama fredda sfiorò la sua coscia. Subito dopo i coltelli degli inviati affondarono nel suo petto con violenza, molte volte, e Angelo, che aveva amato la sua Regina credendo di essere ucciso, morì sperando di essere amato, senza nemmeno gridare, senza poter vedere i suoi assassini. Il suo sangue rosso chiaro schizzò sui mobili e sulle lenzuola, e macchiò le piume delle ali che si era tolto. Nella stanza ci fu il silenzio della fine. Ma nelle strade la festa era al culmine. Le maschere correvano verso la piazza gridando, i mantelli e i nastri volavano al vento sospinti dalla corsa, le foglie di carta degli alberi incisi si accartocciavano al fuoco, i fuochi d'artificio scoppiavano sul tetto del tempio. E come un unico stormo tutti gli uccelli della città si levarono in volo.


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