© The Gritti Palace, Venezia mensile di cultura e spettacolo - n° 243-244 - anno 24 - Maggio 2020 spedizione in A.P. 45% art.2 comma 20/B - legge 662/96 - DCI-VE
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243-244 venice MAY 2020
EDIZIONE SPECIALE
guide
english inside e 3,00
LA COLLEZIONE PEGGY GUGGENHEIM A CASA TUA.
#larteresiste #iorestoacasa guggenheim-venice.it
Il Fondaco si sta preparando alla riapertura Calle del Fontego dei Tedeschi, Ponte di Rialto, Venezia @tfondaco
:editoriale Lo spazio bianco
Insomma
, l’impensabile in un nanosecondo si è preso in pieno i nostri giorni, i nostri spazi, il nostro lavoro, che poi spesso coincide con le nostre stesse passioni. Sì, perché chi lavora nella cultura se non lo fa per passione forse ha sbagliato tutto, come minimo scelta. Prima ancora della crisi enorme che investe il nostro mondo, ciò che ci lascia ogni giorno che passa più attoniti è la sottrazione del senso primo stesso del nostro vivere, del nostro nutrirci di arte, di confronto quotidiano sulle idee, sull’innovazione, sui progetti in divenire. È questa la
di Massimo Bran radice del male su cui innanzitutto bisognerebbe trovare il modo di intervenire, dalla cui guarigione deriverà poi tutto il resto. Ed è una cura complicata. Se vi è una cosa che più di ogni altra mi ha irritato in questo periodo è stato questo ossessivo, retorico mantra sul fatto che questa sarebbe stata un’occasione irripetibile per ripensare, per innovare, per scommettere su un altro futuro. Nessuno nega che qualcuno in questi momenti sappia produrre idee spiazzanti, anche rivoluzionarie, irriducibilmente aderenti al futuro da inventare più che al passato da rimpiangere. Certo, ci sono e per fortuna queste persone, ed evviva direi! Però, parliamoci chiaro, quando vedi che la grammatica del tuo mondo per come lo conoscevi un’ora prima viene cancellata dalle lavagne con un colpo di spugna fulmineo, beh, hai voglia di pretendere che con un cambio di canale sul telecomando della vita i motori possano ripartire verso altre strade come se nulla fosse. Questo farneticare superficiale sul
mondo da ricostruire più a misura d’uomo, più “naturalmente”, è una cosa che manda fuori dai gangheri per la tempistica innanzitutto. Quando subisci un gravissimo trauma sportivo non è che fatto l’intervento corri come prima il giorno dopo! C’è il tempo fisiologico del vuoto, del possibile, lento recupero, della lenta elaborazione anche di un possibile non pieno recupero. Psicologicamente è lo spazio bianco in cui la mente e il corpo devono riguadagnare consistenza, aderenza progressiva a una vita viva. Ecco, io credo che tutta la nostra società viva comprensibilmente in questo stato psicofisico. Milioni di donne e uomini svuotati di energie, di mezzi, di visioni. L’industria turistico-culturale in questa dimensione è senza dubbio tra i fronti più fragili ed esposti. Tutti ora si chiedono come e se ripartire. Ma come sempre la parola cultura fatica ad arrivare ben amplificata agli orecchi dei più, poiché nella vulgata sicuramente italiana, il che grida vendetta davvero!, essa coincide sempre (quando va bene come riflesso condizionato, quando va male per rozza convinzione) nelle teste di chi ci dirige, e di conseguenza in quelle di una grande massa di cittadini, con un qualcosa di percepito nella sua mera essenza ludica, residuale. Abbiamo certo un ministro come Franceschini che ci sta provando (non oso immaginare come saremmo messi se la pandemia fosse capitata lo scorso anno…), ma qui non è un problema di singoli più o meno illuminati, bensì di percezione sistemica della priorità di un settore che non solo rappresenta una fetta rilevante dell’industria del Paese, ma che, cosa ancora più importante, costituisce l’universo stesso in cui si dovrebbe formare la classe dirigente per dotarsi, per l’appunto, di una formazione
culturale con uno spessore adeguato indispensabile per governare e guidare sistemi complessi. Questa sorta di rimozione linguistica è uno dei due cancri, unitamente alla irriformabile burocrazia statale, che condanna l’Italia alla sua perenne incompiutezza, quindi anche a non meritarsi il ruolo di assoluta primattrice mondiale, come gli spetterebbe per patrimonio e storia, sul terreno della cultura. Bene, uno dice è questa l’occasione in cui iniziare a cambiare marcia. Ok, non possiamo avere aspettative troppo elevate e non consone al nostro portato storico a riguardo, ma almeno il minimo sindacale per poter scalare un paio di rampe nella griglia delle priorità del Paese questo sì! Staremo a vedere, senza per l’ennesima volta arrenderci al crudo pessimismo figlio legittimo dell’esperienza. Di sicura c’è una cosa: la macchina della cultura, l’industria delle arti non è una fabbrica di componentistica né di manufatti, quindi ancor di più ha bisogno di essere messa al centro di una grande visione politico-amministrativa. Ci vogliono finanze fortissime, ma ci vogliono idee altrettanto pregnanti. Sono i due lati del campo su cui si deve giocare una coraggiosa partita a viso aperto. Bisogna investire tutto quello che abbiamo e di più nelle casse pubbliche per tenere in vita questo corpo traumatizzato da un brutale scontro frontale con l’ignoto; al contempo bisogna (o meglio, bisognerebbe, perché qui il condizionale purtroppo è d’obbligo), mentre si rianima e poi si cura il corpo ferito, approfittare per rinforzarlo dove già prima dello schianto presentava lacune muscolari e motorie rilevanti, lavorando prima ancora che sul piano fisico su quello mentale, perché è da lì che parte tutto, la carica motivazionale in primis, per tornare più vivi e forti di prima. Fuor di metafo-
ra la sfida è proprio quella di fare di un investimento di salvataggio obbligatorio un’occasione per disegnare il futuro con visioni più aperte sul fronte del fare cultura, e quindi buon turismo, con la lingua viva e gli strumenti attivi del nostro tempo. Per decenni ci siamo lamentati che dare contributi a pioggia senza selezionare e pretendere alte progettualità rappresentasse la peggior droga per un sistema spesso troppo conservativo e autoreferenziale. Poi si è passati al lamento per il progressivo, sempre più verticale taglio di questi stessi contributi, per cui qualsiasi rilievo congruo a questo assistere senza selezione tizi, cai e semproni vedeva scomparire ogni suo senso vivo, legittimo, dato che resistere sembrava l’unico terreno su cui spendersi per difendere la produzione culturale di questo provinciale Paese. Bene, oggi devono per cause di stra-forza maggiore arrivare senza se e senza ma questi aiuti, che dovranno essere ben più cospicui di quelli che si erogavano ai “bei tempi”. Sarebbe però bello registrare che chi si adopererà nel rianimare questo mondo producesse un piano programmatico a medio-lungo termine in cui, passata la tempesta, chi più dimostrerà che lavorare nella produzione culturale significa reinventarsi ogni giorno, lavorando in rete, costruendo ponti attivi con gli altri soggetti sociali e imprenditoriali del mondo in cui ci si trova a operare, per fare in modo che i propri contenuti abbiamo una ricaduta la più ampia e aperta possibile al fine di creare un processo virtuoso anche da un punto di vista economico, chi, insomma, dimostrerà di aver capito che ridursi e chiudersi nei propri fortini è un operare senza senso in un mondo sempre più connesso e incrociato venisse premiato per questi sforzi nel dare prospettiva aperta al proprio lavoro, contribuendo così alla crescita dall’intero sistema
culturale. Insomma, qualità professionale, dei contenuti espressi, e apertura mentale: questa l’equazione da seguire per premiare chi davvero avrà dimostrato di comprendere la necessità di svoltare una volta per tutte dall’eccessivo provincialismo del nostro agire anche e soprattutto sul terreno della cultura. Per chiudere, noi. Lo tsunami ci ha travolto il giorno stesso in cui usciva il numero di marzo. Sono stati giorni anche per noi difficilissimi, e continuano ad esserlo. Non vi neghiamo che i timori di non farcela sono stati altissimi. Insomma, tutta la programmazione saltata in aria, la Biennale posticipata di quattro mesi tra mille incognite, tutti gli altri eventi culturali annullati e sospesi, l’intero comparto turistico improvvisamente spentosi. Per un giornale indipendente quale è il nostro già in tempi normali farcela è un’impresa, figuriamoci se il mondo viene giù in un colpo solo. Noi viviamo di pubblicità, di progetti editoriali concepiti e realizzati ad hoc per eventi di alta qualità culturale; ovvio che il crollo improvviso degli interi presupposti per lavorare in queste direzioni ci abbia messo con la spalle al muro. Dopo un primo momento di grande angoscia, abbiamo respirato per bene e a lungo, abbiamo sospeso un’uscita anche perché non vi era la materia prima su cui lavorare, ossia gli eventi. Ci siamo chiesti se attendere settembre per provare a ripartire. Insomma, abbiamo pensato e ripensato. Alla fine abbiamo concluso, come sempre nella nostra lucida ‘follia’, di (ri)alzare il tiro a muso duro, decidendo di uscire già a maggio con questo primo numero dell’era postcoronavirus fatto di grandi approfondimenti, interviste, dialoghi, recensioni, segnalazioni di nuove modalità
fruitive del fare cultura viva oggi. Abbiamo pubblicato quasi 250 numeri mensili di questo magazine, senza falsa modestia crediamo che un periodico di questo livello la città non l’abbia mai avuto sul terreno degli eventi culturali. Ci sono state decine e decine di numeri per i quali siamo andati particolarmente fieri, per la fatica espressa e i risultati ottenuti, con un progredire nel tempo continuo sempre nell’ottica dell’innovazione. Bene, questo numero che avete tra le mani, che forse presenta, seppur ad ogni modo sempre molto cospicua, la foliazione meno consistente degli ultimi quattro, cinque anni, è, posso dirlo senza retorica alcuna, l’uscita tra tutte che ci rende più orgogliosi e felici, perché esprime una tensione non solo “resistenziale”, resiliente come si ama dire oggi, ma anche e soprattutto un’urgenza a fare nostro il domani, affrontando il divenire con più bramosità di sempre. È per questo che a parte queste righe, non troverete altri momenti nelle prossime pagine in cui ci si dilunga circolarmente, alla fine senza frutto alcuno, su come si è vissuto, si debba vivere, si vivrà questo lunare momento. L’urgenza per noi era di ripartire ridefinendoci sul terreno della sfida al domani, che è l’unica, da sempre, che ci interessa accogliere e percorrere. Inutile dire che, e questa è davvero la conclusione più dovuta e bella per noi, non finiremo mai di ringraziare i nostri partner per aver confermato il loro sostanziale sostegno al nostro impegno per la cultura contemporanea della città, ciascuno con i propri mezzi, nei propri modi. Il conforto più grande è aver avvertito da parte di tutti il desiderio di condividere qualsiasi gesto, risoluzione, idea che si affacci sul domani. E ora, in carrozza!
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Melania G. Mazzucco Raffaello, L’architettrice, Roma
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Tiepolo 1770 – 2020
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Vittorio Gregotti – L’esperienza Casabella
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Plessi. Progetti del mondo Re-visioni. La nuova frontiera della fruizione dell’arte Palazzo Cini per le calli di Venezia Fondazione Valmont Jacques Henri Lartigues ai Tre Oci Incontri alla Collezione Guggenheim Teatrino Grassi digital Nowtilus by Oceans Space & TBA21 – Academy Muve Newsletter Le Metamorfosi del Moderno di Germano Celant Venice Galleries View – Storage Le mostre più attese Il racconto della Montagna – Napoleone Cozzi Architecture Public – Future for Europe Francesco Vezzoli – Fondazione Prada Les Anomalies: Philippe Jaenada
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Concerti: Che sarà? JIP on streaming Link parade Silvia Rinaldi – New Landscapes Quartet Music for a lockdown
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Il futuro della lirica Link parade Leggende da palcoscenico
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Cose, serie Absentia corporis David di Donatello We Are One Film Festival Supervisioni Direttamente in streaming
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Aspettando Biennale Danza e Teatro Link parade Lo spettacolo più bello del mondo Teatro Ca’ Foscari The show must go on… line
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Il cielo in una stanza Fondazione Ca’ Foscari 10 anni Parola Libri del Mese Fondazione Querini Stampalia Centro Tedesco di Studi Veneziani Link parade
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La cena delle beffe L’orto domestico Sfumature geografiche Veneziani a Tavola Angela Milanese
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Melania G. Mazzucco Scrittrice
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La distanza della passione
Raffaello
, L’architettrice e Roma sono tra i protagonisti di questo ‘strano’ periodo, rispettivamente una magnifica mostra alle Scuderie del Quirinale, di quelle ritenute “storiche” per il gruppo di opere del Maestro urbinate in essa esposte, programmata per fine febbraio e che forse causa pandemia, prestiti e tutela non riusciremo mai a vedere, la protagonista del romanzo storico che ci ha fatto compagnia in queste lunghe giornate e la città palcoscenico assoluto delle due storie. Dietro le quinte, Melania G. Mazzucco che ancora una volta ha generosamente condiviso la sua passione e il suo sapere per raccontarci del Raffaello ‘interrotto’ e del suo nuovo libro dedicato a Plautilla Bricci. Un racconto che pur penetrando nelle pieghe della storia passata riesce a cogliere e a riflettere sul nostro presente sospeso.
di Franca Lugato “Un uomo che sapeva vivere”. Così Melania Mazzucco ha spesso definito Raffaello nei suoi articoli e interviste dedicati all’artista urbinate in occasione della grande mostra alle Scuderie del Quirinale. Partiamo dunque dall’uomo, o meglio, dalla sua prematura morte avvenuta nella notte tra il 6 e il 7 aprile del 1520, cogliendolo nel fiore degli anni. La mostra parte proprio da quella data con la riproposizione della tomba di Raffaello al Pantheon: il luogo da lui più amato della Roma antica. Quando mi hanno chiesto di scrivere di questa mostra, prima di recarmi alle Scuderie del Quirinale, mi sono detta: «Se dovessi fare io una mostra su Raffaello partirei dalla
sua morte». Credo che tutta la storia della nostra ‘percezione’ di Raffaello nasca proprio da quella morte subito trasformata in un’apoteosi, omaggiato dai Papi e sepolto poi al Pantheon, capace di spostare definitivamente il nostro sguardo su di lui. È stata grande così la mia sorpresa quando mi sono resa conto che i curatori avevano ragionato nello stesso modo, scoprendo che il mio sentire era condiviso e reso manifesto nell’incipit della mostra, il che ha naturalmente aumentato la mia voglia di interrogarsi sulla memoria di Raffaello nel nostro immaginario. Raffaello, fin dal XVI secolo, è stato per certi aspetti mitizzato e cristallizzato come personaggio “favorito dagli dei”, “benedetto dalla grazia a dalla fortuna”, ma proprio questa grazia e questa fortuna sono diventate spesso fonte di quella che potremmo definire ammirazione sospettosa. Spesso la nostra empatia ci porta a solidarizzare con tutti quegli artisti maledetti che invece non si sapevano adattare al proprio tempo, che andavano contro le convenzioni, pagando spesso con l’ostracismo e la scarsa considerazione dei propri colleghi e degli addetti ai lavori. Questa scarsa empatia nei suoi confronti ci ha spesso impedito di capire appieno cosa Raffaello ha rappresentato per il mondo dell’arte e non solo, impedendoci di amarlo come Raffaello stesso era stato amato dai suoi contemporanei, durante la sua vita. Su questo aspetto ho cominciato a riflettere, visto che personalmente amo molto gli artisti che “non sanno vivere” e credo di essere stata io stessa una persona che si è spesso considerata tale. Il mio amore viscerale è andato quindi a personaggi come Tintoretto, uomo ispido, che si era sempre messo di traverso rispetto alle convenzioni e
al sentire comune. Tuttavia poi sono passata a ragionare su coloro che “sanno stare nel mondo” e mi è sembrato che la caratteristica principale di Raffaello fosse proprio questa: egli ha avuto la fortuna di nascere in una famiglia ben inserita nella piccola corte di Urbino, con un padre – che di recente è stato rivalutato – piccolo imprenditore, intellettuale e artigiano, uomo capace – pur morendo quando il figlio era ancora un ragazzino – di dare un’educazione compiuta al proprio figlio. Raffaello rimane solo molto presto in una corte come quella di Urbino, che negli anni in cui il pittore la frequenta subisce importanti stravolgimenti. Era molto giovane quando ha dovuto capire in che direzione orientare la carriera e la propria stessa vita. Mi interessava molto capire secondo quale geografia Raffaello avesse deciso di spostarsi, come avesse scelto le persone a cui appoggiarsi e quelle da cui avrebbe dovuto essere amato per poter essere spinto nella direzione giusta. Nessun pittore avrebbe potuto farcela da solo, sia in epoca moderna che nel Cinquecento e Seicento: era necessario trovare committenze, un pubblico e soprattutto una propria maniera. A noi Raffaello sembra un pittore già compiuto, perfetto fin dall’inizio della propria carriera, magistrale nella tecnica e nel disegno. In realtà si è trattato di un artista capace di guardarsi attorno con grande avidità di conoscenza e di capire chi dei suoi contemporanei stesse aprendo una strada nuova, cercando di fare sue le scoperte e le suggestioni più feconde. Raffaello questo lo ha sempre fatto con grande furbizia, ma anche con grande grazia, dando visibilità a tutti quei personaggi che assieme a lui avevano aperto nuove strade e per vari motivi non erano
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stati apprezzati appieno. Il suo modo di stare con gli altri artisti gli ha procurato molti meno nemici di quelli che potenzialmente avrebbe potuto avere un artista caratterizzato dalla sua fortuna. Guardando i suoi quadri, così meravigliosamente idilliaci e sereni, spesso ci dimentichiamo i tempi difficili in cui l’artista si trovava invece a vivere, anni terrificanti che si caratterizzano per le gesta di personaggi quali Cesare Borgia, tiranni capaci dei peggiori crimini concepibili. Anni affrontati da Raffaello con il desiderio, per l’appunto, di trovare pace e serenità attraverso la pittura, donandola agli altri, a conferma di come dietro alla sua opera ci fosse un pensiero ben preciso e strutturato. È importante considerare questo aspetto nella rivalutazione del percorso artistico di Raffaello. La famosa lettera a Leone X, scritta a quattro mani con Baldassarre Castiglione nel 1519, entra prepotentemente in mostra accompagnata dagli straordinari ritratti dei protagonisti. Perché quella lettera è ancora così moderna e attuale, oggi? Raffaello ha sotto gli occhi una grande devozione e rispetto per il mondo antico; ormai da decenni gli intellettuali sognavano la rinascita della classicità, invocandola nei propri scritti. Nella realtà dei fatti però a Roma, quando Raffaello ci si trovò a vivere, la città antica fungeva ormai da cava per le nuove costruzioni. Le vigne, i terreni e i cortili pullulavano di statue che venivano sbriciolate per ricavarne materiale da costruzione, lastre, architravi e pezzi di antichi palazzi (templi, anfiteatri, mercati) venivano utilizzati per gli edifici moderni. Si assisteva, quindi, a una devozione astratta verso un’epoca a cui in pratica si mancava di rispetto nella vita di tutti i giorni. Raffaello con questa lettera è il primo a sottoporre al Papa una situazione drammatica a cui dover porre rimedio. Il suo è un grido che denuncia come il patrimonio artistico non fosse stato distrutto solo dai Barbari, e dal tempo, ma anche dall’incuria della stessa popolazione romana. Si tratta di una lettera che costituisce una vera e propria pietra miliare nell’ambito della tutela di quelli che si sarebbero poi chiamati “beni culturali”, il punto di inizio della nostra storia di italiani consapevoli. È straordinario che la mostra alle Scuderie, nella seconda sala, presenti concretamente questo fondamentale pezzo di carta, eccezionale documento i cui caratteri non sono semplice inchiostro, ma segni vergati nel tempo e nella storia che attraverso la calligrafia ci fanno concretamente sentire la presenza di queste due personalità coinvolte nella stesura. La lettera è dunque viva per il concetto che esprime e il confronto che emerge tra due uomini e il loro pensiero: Raffaello e Baldassarre Castiglione, di estrazione sociale profondamente diversa, diventati amici, che qui ragionano su un argomento sentito e condiviso. Rapporto che culmina nel ritratto che Raffaello farà di Castiglione. Il paragone con gli antichi è una costante nell’opera di Raffaello, da Urbino a Firenze, a Roma. Qual è la lezione che apprende e restituisce del mondo antico? Su questo aspetto la mostra si può definire davvero molto didattica, mettendoci accanto proprio le fonti delle creazioni di Raffaello, in maniera diretta e senza il bisogno
di dire molto altro. Ci viene fatto vedere, per esempio, il bassorilievo con Enea che Raffaello ha amorevolmente studiato e copiato, affiancato all’opera in cui lo vediamo riproposto dal Maestro facendolo diventare un’altra cosa. Questo processo non è altro alla fin fine che l’atto artistico in sé: prendere spunto da qualcosa che c’è stato prima e capire come questa cosa possa divenire altro, generare nuovi contenuti speculativi. La mostra è, quindi, sbalorditiva nella propria semplicità, mettendo in risalto come l’attenzione di Raffaello verso il passato, sempre presente nella sua opera, diventi assolutamente eclatante durante il suo soggiorno a Roma, facendo un vero e proprio salto di qualità e trasformando il suo omaggio all’antico nell’invenzione di un nuovo Classicismo. Altro aspetto importante e più difficile da riproporre in mostra è l’attività di Raffaello come architetto. Come molti altri pittori che seguirono questa strada la sua attività venne apprezzata ma allo stesso tempo sottovalutata, nonostante le sue creazioni andassero nel solco di una ricostruzione di una nuova Roma che fosse all’altezza della sua antenata imperiale; non una semplice mappatura fornita al Papa, ma progetti che potessero replicare i fasti del passato. Purtroppo alcuni suoi edifici e ville sono stati nel frattempo demoliti e altri sono invece stati inglobati in contesti che ne rendono davvero difficile un’adeguata valorizzazione. Penso anche alla Villa Chigi detta la Farnesina, ancora oggi straordinaria testimonianza dell’operato pittorico del Maestro urbinate, ma il cui lavoro negli spazi non è comprensibile perché la villa originaria di Peruzzi degradava con terrazze direttamente fino al Tevere. Frazionamenti e sbancamenti successivi purtroppo ne hanno trasformato sensibilmente l’integrità. Raffaello verrà considerato il più grande artista vivente proprio negli anni “leonini”. Può dirci qualcosa di più di questo rapporto così fecondo tra il Papa e l’artista? Sono sempre stata molto affascinata dal rapporto tra il pittore e Papa Leone X, a partire naturalmente dallo
splendido dipinto Ritratto di Leone X con i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi, che ci dice moltissimo della loro relazione. Credo che il loro rapporto costituisca davvero un caso unico nella storia non solo a livello artistico, superando anche quello leggendario tra Michelangelo e Giulio II che, nonostante l’intensità della frequentazione, non poté mai raggiungere i livelli di confidenza raggiunti tra Raffaello e Leone X, i quali si specchiarono l’uno nell’altro pur essendo personaggi completamente diversi. Come romana ho sempre amato i ritratti dei Papi che provenivano dal basso, le pasquinate spesso volgari ma genuine di poeti e abitanti della città che nell’anonimato davano libero sfogo al proprio genio satirico e scatenavano la loro irriverenza. Su Leone X esistono moltissimi aneddoti, molti ben poco lusinghieri: sappiamo che era un uomo molto poco attraente, soprannominato “Er talpa”, per la sua scarsa vista, aveva il naso grosso, le mani sempre sudaticce e modi effeminati, era grasso e pingue. Quando vide Raffaello, emblema della bellezza e della grazia, si ‘innamorò’ platonicamente di lui, rappresentava l’uomo che avrebbe voluto essere. Leone X amò davvero Raffaello, al di là di tutte le banalizzazioni che si possono fare di questo sentimento. Un sentimento che traspare dal ritratto che il grande pittore fece di lui. Parliamo di un ritratto da cerimonia, che doveva essere inviato a Firenze al posto del Papa stesso, per sopperire alla sua assenza fisica a un matrimonio al quale era impossibilitato a recarsi. Lo troviamo, quindi, vestito di seta, damasco, velluto, circondato da oggetti raffinati e di valore e in parte – se vogliamo – anche idealizzato, ma neppure più di tanto. Guardando questo ritratto ho sempre pensato a La morte di Virgilio di Hermann Broch, al capitolo col dialogo tra Virgilio e Augusto; un libro importante del nostro Novecento di cui ritrovo molti elementi nel ritratto, che sottintende il dibattito tra arte e potere. Dove finisce l’amicizia e comincia la sudditanza? Cosa vuol dire essere soggetto? Dove finisce la libertà di un artista che lavora per un sovrano? A questa e altre domande il rapporto tra Leone e Raffaello cerca alla fine di dare risposta.
:incontro Raffaello è considerato per antonomasia il pittore della grazia e della bellezza. In mostra qual è l’opera che per Melania Mazzucco rappresenta al meglio l’ideale femminile del pittore urbinate? La risposta per me è obbligata. Fin dall’infanzia mi ha sempre turbato La Fornarina, opera che tra l’altro è conservata qui a Roma (Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini) e che quindi posso andare a vedere con relativa facilità. Da dove deriva questo turbamento? Dal fatto di non trovarsi di fronte a una donna smaccatamente bella, come potrebbero essere le Veneri di Tiziano; è assai significativo vedere un pittore idealizzante come Raffaello ritrarre fedelmente, nel bene e nel male, quella che sappiamo essere la sua amata. Questo aspetto è ancora più impressionante se pensiamo al lessico “virtuoso” che il Vasari associò a Raffaello e ai suoi ritratti femminili, soprattutto di Madonne. Nelle sue ultime rappresentazioni invece la bellezza è molto meno idealizzata e più fedele alla realtà, come atto di vero amore verso l’essere umano e mortale in un momento in cui a Raffaello non interessa altro. Questo suo amore verso la verità della pittura credo che a volte non sia stato adeguatamente riconosciuto: è un errore a cui penso vada posto rimedio.
L’impossibilità di visitare mostre e musei e parallelamente l’offerta virtuale (e a volte la stessa conservazione) pone ancora una volta una domanda fondamentale relativa alla fruibilità dell’opera d’arte. L’opera è il soggetto ma anche l’oggetto del mostrare, in quanto il nuovo protagonista delle mostre è il pubblico, l’uomo, il singolo visitatore e la sua esperienza rispetto all’opera d’arte stessa. Qual è la sua opinione in merito? In questo momento devo dire di soffrire un grave disagio, perché per me l’arte ha sempre significato un incontro diretto con l’opera, esattamente come accade con le persone. Sono una che “sta nel mondo” e per come sono fatta non riesco ad avere un’autentica relazione con ciò con cui non mi confronto direttamente, dal vivo per così dire. Ho studiato arte a scuola, all’università, ma non mi sono mai veramente innamorata di un’opera senza averla vista prima con i miei occhi: non avrei potuto vivere un autentico trasporto emozionale se non fossi stata fisicamente davanti al quadro dipinto dal pittore, potendone osservare la superficie materica, la pennellata, sentendone la fatica, la grazia, la bellezza, l’antichità… Se mi avessero detto che si può fare un viaggio di millecinquecento chilometri per vedere una statua romanica in Alvernia, avrei pensato che fosse un’oggettiva follia. Poi però questo lungo viaggio nella Francia profonda l’ho fatto e mi sono trovata al cospetto della statua della Madonna di Orcival, scolpita credo nel XII secolo. La vetustà di questo oggetto, la sua aura, la sua unicità, la sua rozzezza per certi versi, la sua straordinaria ieraticità nonostante le piccole dimensioni… era proprio la Madonna! Mi trovavo in presenza di un oggetto che nel pensiero primitivo sarebbe un “oggetto magico”, non solo un’opera d’arte. Anche se nella guida c’era una fotografia della statua, sono riuscita a percepirne l’essenza solo nel momento in cui mi ci sono trovata di fronte. All’epoca non esisteva ancora, ma oggi c’è internet, quindi tutti noi conosciamo gli oggetti d’arte, il web ci offre una straordinaria capacità di comparare, di entrare ‘dentro’, di vedere da vicino particolari che altrimenti non potremmo osservare, però
per me l’arte non è questo. Personalmente faccio già abbastanza fatica ad accettare i musei, in cui le opere sono decontestualizzate, strappate a chiese e palazzi, di cui erano arredo, niente affatto separate dalla vita quotidiana delle persone. Per entrare in camera da letto un cardinale si faceva dipingere una dea nuda sopra l’architrave e questo aveva un senso, mentre se io quello stesso quadro lo vedo in un museo rimane pur sempre un bellissimo quadro, tuttavia non è più l’oggetto che doveva essere in origine; la sua, ora, è una funzione completamente altra. Il fatto che tutta l’arte sia stata completamente decontestualizzata e dematerializzata, quindi privata della sua natura originaria, rende faticosa la percezione della sua complessità, questo è il punto. Insomma, tutti i miei incontri artistici li ho fatti in presenza, non c’è stato mai un incontro avvenuto in assenza. Magari ho studiato l’opera dopo, quindi la possibilità di averla riprodotta è importante. Penso ad esempio alle pitture di Pompei: ci sono delle straordinarie visite virtuali che si possono fare, ma se poi non vai fisicamente a Pompei, non cammini lungo le sue strade, non so davvero che cosa questi tour possano in sé e per sé lasciarti dentro. Io spero, dunque, che si possa ritornare a camminare tra le opere, perché per me il vero incontro e la vera rivelazione può avvenire solo in presenza. Una rivelazione che è quasi divina, molto individuale e personale, una folgorazione, un incenerimento che accade davanti a qualcosa che ti parla ed è davvero difficile che questo possa avvenire attraverso uno schermo. In questi mesi c’è stata una grandissima offerta online, una possibilità di arricchimento per ciascuno, però è qualcosa che ha potuto apprezzare e di cui ha potuto fruire chi conosceva già certe cose. Ho potuto osservarlo anche con i ragazzi, che sono stati sommersi da maestri e professori di proposte di tour e visite virtuali; ebbene, tutto questo l’hanno vissuto con un senso di fastidio e noia, perché questo genere di esperienze non emoziona, non li coinvolge e non sedimenta come ricordo personale. Al contrario ciascuno di essi si ricorderà per sempre anche una sola figura (statua, oggetto in una teca, paesaggio, spazio urbano etc.) che ha visto entrando magari in una chiesa durante una visita col professore o una gita scolastica. Bisogna assolutamente sperare di riuscire presto a riattivare una presenza reciproca, fisica tra l’arte e noi.
Le mostre interrotte. L’attesa mostra di Raffaello e con essa moltissime altre mostre in Italia sono state aperte e poi subito chiuse al pubblico, oppure posticipate e quindi non ancora aperte. Dopo la fine del lockdown e la successiva riapertura dei luoghi di cultura, oltre alle dovute condizioni di accesso mutate, potrebbe essere necessario un ripensamento del sistema stesso dell’allestire mostre. Dal suo punto di vista privilegiato che cosa dovrebbe imprescindibilmente rimanere fermo come prima e che cosa bisognerebbe invece cambiare o modificare di questo sistema? È molto difficile parlarne, perché tutto ciò che si dice rischia di essere dannoso per qualcuno. È ovvio che la fruizione ideale di una mostra è quella che si potrebbe profilare adesso, quando ci sarà la riapertura con ingressi a numero chiuso e contingentati, che permetteranno di visitare mostre e musei senza essere immersi nella ressa e nel rumore, compiendo così un percorso molto personale.
Penso che tutti noi abbiamo ricordi di visite in musei di provincia in cui non c’era nessun visitatore a parte noi all’interno delle sale. A me è capitato di recente, poco prima del lockdown, di vedere la collezione degli Impressionisti nella Pinacoteca Giaquinto di Bari assolutamente da sola: non c’era nessuno, era tutto per me. Tuttavia il bello delle grandi mostre era proprio l’apertura allargata e diffusa, le code all’entrata e la folla che si accalcava davanti a un quadro o vi passava davanti velocemente, magari senza osservarlo attentamente ma sapendo che visitare quella mostra era importante. Non ho mai guardato con il sopracciglio aggrottato le resse, anche se effettivamente ognuno di noi durante queste esperienze ha sofferto molto nel poter rimanere solo pochi minuti davanti a un quadro prima di venire spinto via dalla folla, o addirittura ‘scacciato’ appena scadeva il tempo prestabilito. Da questo punto di vista mi definisco “pop”. Nonostante gli strali che si possono gettare contro le grandi mostre, il fatto che l’arte fosse percepita come un fenomeno di massa era di fondamentale importanza e a questo noi dobbiamo tornare, anche se non so come in questo momento. Forse per un po’ di tempo non sarà possibile, però io penso che sia il primo mattone per cercare di recuperare un rapporto più profondo con l’arte, perché se essa appartiene a tutti noi, forse poi ne avremo più cura, la potremmo produrre più estesamente, ne potremmo stimolare la stessa nascita. Una donna architetto dimenticata, o semi–ignorata, e ora riscoperta. Plautilla Bricci è L’architettrice, che fin dal titolo dichiara una presa di posizione linguistica sul genere maschile. Cosa della personalità di Plautilla l’ha conquistata e come un certo femminile sembra diventare nel romanzo il suo personalissimo manifesto della contemporaneità? Cosa c’è di Melania nell’Architettrice? Molto più di quanto avrei immaginato quando ho cominciato a scrivere questo libro, perché all’inizio le scintille sono sempre degli incontri occasionali o casuali e soprattutto “al buio”. Io sono stata illuminata a partire dalla parola “Architettrice”, perché Plautilla mi è venuta incontro armata di questa parola, che è stata usata per lei per la prima volta in un abecedario settecentesco che ho avuto occasione di leggere. Non avevo mai sentito questo termine e ne sono rimasta ovviamente colpita. L’ho scoperto all’inizio degli anni Duemila, però la riflessione sul genere della lingua è stata in questi ultimi decenni abbastanza vivace e io stessa ho espresso nel tempo delle posizioni contraddittorie in merito, influenzata dalla mia formazione che mi faceva pensare che spesso il femminile di una professione fosse in verità un suo diminutivo (riduttivo) o addirittura un peggiorativo, perciò io stessa lo usavo pochissimo. Poi ho incontrato questo termine riferito a lei, Plautilla Bricci, sulla quale fino a quel tempo non era stato scritto praticamente nulla. Da allora è iniziato un viaggio lunghissimo che ha avuto il suo momento decisivo quando Carla Benocci ha rinvenuto un documento nel quale lei si firmava “Plautilla Briccia, Architettrice”. Da qui ho capito che il termine settecentesco derivava da Plautilla ed era stata lei a farlo circolare per prima, non avendo trovato nessun’altra attestazione anteriore. Con grande coscienza, dunque, Plautilla definisce se stessa in questo modo, perché nel Seicento così come nel Cinque-
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RAFFAELLO a Roma 10 capolavori dentro e fuori la mostra 1 Autoritratto*, 1506-1508 Gallerie degli Uffizi, Firenze 2 “Madonna del Granduca”* Madonna con Bambino, 1506-1507 Galleria Palatina, Palazzo Pitti, Firenze 3 Deposizione Borghese, 1507 Galleria Borghese, Roma 4 Scuola di Atene, 1509 - 1511 Stanza della Segnatura (una delle quattro “Stanze di Raffaello”), Musei Vaticani, Roma 4
5 Parnaso, 1510 - 1511 Stanza della Segnatura (una delle quattro “Stanze di Raffaello”), Musei Vaticani, Roma
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6 Trionfo di Galatea , 1512 Villa Farnesina, Roma 7 “La Velata”* Ritratto di donna , 1512-1515 Galleria Palatina, Palazzo Pitti, Firenze 8 Ritratto di Baldassarre Castiglione* 1514-1515 Museo del Louvre, Parigi 9 Ritratto di Leone X con i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi*, 1518-1519 Galleria degli Uffizi, Firenze 10 “La Fornarina”* Ritratto di donna nei panni di Venere, 1519-1520 Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini, Roma 6
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* Opere presenti nella mostra Raffaello 1520-1483 Scuderie del Quirinale, Roma
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:incontro cento il femminile di una professione non era certo un termine negativo ed esisteva: pittrice, miniatrice, scultrice e, appunto, architettrice. Mi sembra interessante che nel Seicento, quando in realtà non esistevano le architettrici, esisteva una parola per definirle, mentre oggi che esistono tantissime donne architetto, il femminile della professione è stato rimosso. Questo è stato per me un elemento di enorme interesse che andava ben al di là della riflessione sulla lingua in sé. Poi naturalmente la storia di Plautilla si è intrecciata alla mia man mano che trovavo documenti e scoprivo notizie su di lei, per cui è diventata per me una specie di alter ego lontano. Una dimensione quanto mai privilegiata per potermi interrogare al meglio sulle sue scelte o sulle sue non scelte, sul modo in cui ha saputo agire in una vita non scelta da lei – perché all’epoca le donne non avevano la possibilità di scegliere, per lo più qualcun altro agiva per loro. Pur in questa mancanza di libertà e di autodeterminazione, Plautilla ha saputo ritagliarsi una sua strada e percorrerla fino in fondo. Tutto ciò mi è sembrato da subito straordinario e probabilmente non è un caso che il libro su Plautilla l’abbia scritto dopo quello su Marietta Tintoretto, perché La lunga attesa dell’angelo e L’architettrice sono due libri per certi versi assai simili. Marietta tuttavia è morta essendo ancora (e per sempre) “la figlia di Tintoretto”, cioè è rimasta nell’ombra del padre al quale si è votata, che l’ha sacrificata e a cui lei si è data completamente sia nella sua pittura che nella sua vita. Anche Plautilla era figlia d’arte, anche se non di un genio pittorico come Tintoretto, ed è stata figlia fino a ventinove anni, per poi diventare qualcos’altro, soprattutto grazie alle alleanze che ha saputo costruire nella sua vita. Per ricongiungersi al discorso su Raffaello, ci vuole talento nell’identificare i propri compagni di viaggio, anche se essi ti tradiranno – come farà Elpidio Benedetti con Plautilla – e crederanno di toglierti tutto quello che ti hanno dato: in verità Plautilla senza Benedetti non avrebbe potuto realizzare nulla di ciò che ha fatto. La sua storia, quindi, mi ha interessato e coinvolto immediatamente intanto per il genio dell’architettrice, poi per il genio della pittrice (le opere che sono state ritrovate o le sono state attribuite dimostrano una elevata qualità pittorica) e anche per quella capacità di vivere come donna che Plautilla ha saputo trovare dentro di sé, pur essendo stata amputata progressivamente di tante esperienze proprie delle donne. Un altro protagonista del romanzo è il tempo, il suo tempo. La cosa che emerge prepotentemente nel suo nuovo libro, una delle sue più significative caratteristiche di scrittrice, è questa sua capacità di penetrare le personalità artistiche e al contempo le atmosfere culturali e di conseguenza sociali e politiche di un’epoca. Come nascono i suoi romanzi? Da dove inizia e come riesce a immergersi in modo romantico ma al contempo puntuale nella storia? Mi piace moltissimo lavorare su documenti di prima mano per capire come pensavano, come agivano e come vivevano i personaggi. Per tutti i libri che ho scritto, sia quelli ambientati in epoche lontane, come il mio romanzo su Tintoretto o questo su Plautilla, ma penso anche a Vita sulla storia di mio nonno all’inizio del Novecento, sia quelli ambientati in epoche più vicine a noi, come Un giorno perfetto o Limbo, ho avuto bisogno di vivere
nel mondo dei miei personaggi. A volte servono ricerche di anni per riuscire a trovare, magari in centinaia di inventari, quell’oggetto capace di evocare la vita di una famiglia: scoprire come era arredata una camera da letto, quanti oggetti possedeva la nonna di Plautilla, piuttosto che la cugina, quanti soldi ricevette in dote la sorella... Questi elementi mi hanno aiutato a capire qual era lo stato sociale reale della famiglia di Plautilla, al di là della mitizzazione che ciascuno fa di se stesso e delle biografie ufficiali compilate con l’aiuto di eredi compiacenti. Tutto ciò mi serve a dare verità e a comprendere i personaggi e le loro scelte. Per esempio Plautilla era ricca o era povera? Stava lavorando per l’agente della Corte di Francia e del Re Sole, ma che vita faceva in realtà? Ho scoperto che, mentre stava lavorando alla Cappella di San Luigi a Roma, quindi un impegno certo non affidato a un artista qualunque, Plautilla si trovava costretta a impegnare il reddito modestissimo che aveva per sopravvivere. Il denaro era qualcosa al di fuori dall’orizzonte della sua professione, non aveva mai potuto lavorare per denaro, o comunque aveva scelto di non farlo. Allo stesso modo tempo fa le ricerche su Tintoretto mi hanno portato a scoprire che nella sua indifferenza per il denaro, nel suo accettare compensi molto bassi o addirittura nel donare le sue opere, non si nascondeva soltanto una strategia di ‘marketing’, come è stato detto tante volte, ma c’era dietro proprio una scelta di vita. Sono cose che ho potuto apprendere leggendo documenti che lo riguardavano direttamente, così come ho capito altre cose riguardo a Plautilla lavorando molto assiduamente negli archivi, facendo un lavoro sulla Roma del XVII secolo, cercando di scoprire chi fossero gli amici, i vicini di casa, analizzando le cronache e i fatti quotidiani che erano avvenuti durante la sua esistenza. Nel romanzo c’è un episodio che sembra inventato: il riconoscimento del cadavere di una vecchia mendicante che viene ritrovato a vicolo del Villano, a Borgo. In realtà è un fatto realmente accaduto, perché questa donna senza nome, a cui poi misteriosamente viene attribuita un’identità precisa (e un’esistenza da brava cattolica), era effettivamente morta davanti al portone della casa dove abitava la famiglia Bricci. Nel libro non c’è niente di inventato perché tutto ciò che compare è tratto da documenti, a volte anche minimi; spigolature di archivio, briciole, che hanno però illuminato un modo di essere, dei comportamenti (degli artisti e delle persone comuni). Tanti episodi romanzeschi dell’Architettrice sono tratti da cronache reali e questo credo riesca a trasmettere al lettore il senso del trovarsi lì, in quell’epoca, permettendoci di capire perché i personaggi si comportano in un modo piuttosto che in un altro. Dopo essersi immersa in Raffaello e nell’Architettrice quale Roma ha riscoperto? Intanto, pur essendo io romana – per parte materna da sempre, tant’è che ho ritrovato anche i miei antenati durante le ricerche su Plautilla –, sono stata estraniata, come molti romani, dalla mia città, forse ancor più che i veneziani da Venezia. Abbiamo finito tutti per essere espulsi dal centro storico per vivere nella nostra ‘terraferma’, al di fuori della città, finendo per conoscerla poco. Io, come molti giovani artisti, squattrinati e bohémien, sognavo di andare a vivere nel centro storico, e quando ho iniziato a lavorare l’ho fatto. Abitavo nella soffitta di
un antico granaio, in un palazzo molto vicino a San Luigi dei Francesi, ed entravo spessissimo in quella chiesa per vedere Caravaggio. Ebbene, nei miei ingressi, se non quotidiani molto frequenti, non avevo mai visto la Cappella di Plautilla; ci passavo davanti senza notarla. Leggere e imparare la sua storia mi ha portato a vedere la città con altri occhi e a capire tantissime cose anche dei Borghi che sono stati sventrati negli anni Venti, in particolare con la costruzione di via della Conciliazione. Per esempio la casa dove Plautilla abitava a Borgo Vecchio oggi non c’è più, perché è stata abbattuta. Grazie alle mie ricerche ho scoperto tante cose sulla geografia della città, su come venivano disposti i conventi, i palazzi nobiliari e le case dei poveri, con una promiscuità, propria anche di Venezia, che ai nostri occhi potrebbe apparire sorprendente, tanto che all’ombra del palazzo del Cardinale c’erano i tuguri della gentarella. La disposizione delle botteghe spiega la toponomastica della città di oggi, anche se dove c’erano gli stagnari, i bilanceri, i cestari, sono rimasti solo i nomi delle strade. La città era un grandissimo bazar, brulicante di venditori, ma anche di accattoni, qualcosa che Roma ha sempre avuto e ha ancora: è una città in cui buona parte della popolazione ha sempre vissuto di espedienti, di elemosina e di scrocco. Ci sono delle caratteristiche storiche che le città si portano appresso. La lettura di alcuni documenti di Plautilla mi ha rivelato perfino le tecniche di sopravvivenza di strada. Quindi ora mi sento di conoscere Roma e di abitarla con una consapevolezza infinitamente superiore, anche se purtroppo buona parte della Roma di Plautilla è stata distrutta man mano che è stata edificata la Roma che noi ora viviamo. L’ultima cosa che mi sento di dire è che questo libro rappresenta un po’ la preistoria di Roma, perché aiuta a comprendere una cosa a cui secondo me non si pensa mai. La Roma che conosciamo è la città che pensiamo sia sempre stata, ma in verità Piazza San Pietro, che è l’esempio più clamoroso, non era affatto così. Bisogna immaginare una città che cresceva e cambiava, una città viva. A Roma ogni anno c’era qualcosa di nuovo e anche nel Settecento ci sono state delle straordinarie invenzioni architettoniche che hanno cambiato il volto della città, pensiamo ad esempio alla Scalinata di Trinità dei Monti. Questo restituisce forse a Roma l’idea della città viva che oggi pare non saper più restituire, se non in brevissimi sprazzi, tracce, vedi il progetto dell’Auditorium di Renzo Piano o il MAXXI di Zaha Hadid, momenti in cui si è capito che anche Roma deve essere una città che reinventa i suoi quartieri ricreandosi, ridefinendosi. Nella Roma di Plautilla qualcuno buttava giù qualcosa e da mezzo quartiere medioevale nasceva un palazzo barocco. È una capacità di vita della città che noi abbiamo completamente perso musealizzandola. Penso e spero che nel suo piccolo il libro fornisca un suo contributo a riflettere sulla necessità che ogni epoca debba essere in grado di lasciare una propria traccia visiva e sociale nella storia della città.
l’evento del mese the event of the month
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L’angoscia della bellezza
Storie di Antonio e Cleopatra (1746-1747), Palazzo Labia (particolare)
In tempi
meno calamitosi dei nostri, il 250mo anniversario della morte di Giambattista Tiepolo, avvenuta a Madrid il 25 marzo del 1770, sarebbe stata l’occasione per riflettere e proporre, si poteva sperare, qualche novità o qualche rilettura dell’opera e della figura di questo gigante dell’arte veneziana. A volte peraltro, e anche di recente, i modi in cui le ricorrenze di qualche artista sono state sottolineate e celebrate hanno fatto rimpiangere una più opportuna astensione da trombe fanfare e tenorili acuti, in tal modo potendoci salvare, quindi, da stecche, stonature e tronfie quanto dilettantesche banalità.
di Giandomenico Romanelli Venendo a Tiepolo, nessuno può mettere in dubbio che egli sia stato, in assoluto, il più grande, il più geniale e completo fra i decoratori del Settecento veneziano. Egli nasce non lontano dall’Arsenale, in calle san Domenico, nel 1696. Impostosi all’attenzione dei critici e dei possibili committenti già prima dei vent’anni e dopo un breve apprendistato nella bottega di Gregorio Lazzarini, egli firma opere proprie di un certo impegno in Santa Maria dei Derelitti nel Complesso dell’Ospedaletto, per entrare quindi al servizio, con incarichi di responsabilità, presso i Corner di San Polo. In questa fase la sua è una pittura piazzettesca e tendente al tenebroso, a grandi campiture semplici e compatte, a piani larghi con effetti luminosi forzati in contrasti drammatici. Ma vi si scorgono già chiaramente le potenzialità dell’artista di genio: un controllo del disegno pieno e perfetto, una capacità prospettica che ha del meraviglioso, una sicurezza nella resa anatomica da grande maestro, un’impaginazione scenografica di efficacia inedita. Ma non ci azzarderemo in questa sede a seguire nel succedersi cronologico la sua sterminata produzione. È di grande importanza per commisurare la sua dimensione e il suo rapporto con gli artisti suoi contemporanei la partecipazione all’impresa
decorativa della chiesa di San Stae a diretto contatto con i più affermati artisti del momento (Giambattista Piazzetta, Sebastiano Ricci, Giannantonio Pellegrini, Balestra, Gregorio Lazzarini), in una serie di pale d’altare sulla vita degli Apostoli. Tiepolo dipinge il Martirio di San Bartolomeo, opera di straordinaria efficacia drammatica nel difficile taglio obliquo della scena. Si tratta davvero di un capolavoro di transizione: dal mondo di Piazzetta – e con la vicina tela del San Giacomo Tiepolo sembra volersi esplicitamente misurare – a una poetica del tutto autonoma, indipendente, quella che trionferà subito dopo, quando il giovane artista approderà all’affresco, il mezzo espressivo forse a lui più congeniale. In questa direzione la prima prova è il soffitto di Palazzo Sandi, dove svolge un tema squisitamente letterario e allegorico, il Potere dell’eloquenza. Da allora (l724-25) e fino alle decorazioni per i Rezzonico e poi alla partenza per la Spagna (1762) Tiepolo mette in forma uno straordinario complesso di cicli decorativi sacri e profani per palazzi e chiese, una sorta di florilegio che attraversa tutti i generi e le possibili chiavi espressive: dall’epico al sublime, dal sentimentale al patetico, dall’idillio all’encomio, dal romanzo al poema, dal devozionale al fantastico, dall’erotico al celebrativo. Giovanni Battista è dotato di uno straordinario talento narrativo e di un’inesauribile vena inventiva: anche allorché riprende schemi e costruzioni già sperimentate, egli perviene a sempre nuove soluzioni formali, così che pur mantenendo una scrittura costantemente fedele a se stessa questa appare mutevole e cangiante come un caleidoscopio, sempre nutrita di nuova linfa, di apporti linguistici imprevedibili e sorprendenti sia nei colori, via via più argentei e preziosi, sia nell’architettura compositiva che assume, a seconda dei temi trattati, andamenti concitati o piani, isolando singole figure o montando ardue e complesse costruzioni sintattiche, imprimendo andamenti spiraliformi distendosi in pacate e maestose cadenze sinfoniche. Per il salone principale del Palazzo dei Labia Tiepolo realizza ad affresco uno dei cicli più ori-
ginali e fantastici, quello dedicato alle storie di Antonio e Cleopatra; a Ca’ Rezzonico esegue due soffitti ad affresco celebrativi e allegorici della famiglia committente; a Palazzo Pisani Moretta dipinge l’Apoteosi di Vittor Pisani. Lavora poi per il Palazzo dei Contarini, per la Villa Pisani a Strà, eseguendo anche i soffitti a fresco delle chiese dei Gesuati, degli Scalzi, della Pietà, nonché pale e soffitti su tela per varie chiese e scuole cittadine. Per Sant’ Alvise realizza lo straordinario ciclo della Passione, certamente uno dei vertici della pittura religiosa di questo secolo: qui Tiepolo lascia momentaneamente il modello spesso seguito, quello di Paolo Veronese, per avvicinarsi piuttosto alla drammaticità tintorettiana. Non possiamo naturalmente, per ovvie ragioni, seguire o snocciolare qui tutti gli innumerevoli impegni del Maestro nei suoi decenni dinamici e densi di capolavori. Quel che possiamo affermare senza ombra di dubbio è che Tiepolo manovra ogni mezzo e ogni dimensione, serrando le sue composizioni in ritmi narrativi incalzanti, mettendo in essere grandiose macchine decorative e iperbolici giochi retorici, sfoderando dovizia fantastica, erudizione letteraria, dominio assoluto del disegno e dell’impianto strutturale delle scene, trapassando dalla dimensione del gigantesco (come nei soffitti di chiesa o, ancor meglio, in quello dello scalone di Wurzburg con l’allegoria delle quattro parti del mondo) a quella del quasi miniaturistico (le acqueforti), percorrendo ogni scala cromatica in pitture di sole variazioni sulle gradazioni del bianco o in rutilanti e molteplici gamme di colori accesi e riflettenti, dominando, infine, tutte le tecniche e dando vita forse al più multiforme, ricco, variegato linguaggio pittorico mai inventato. Per le imprese decorative maggiori – soprattutto per i dipinti ad affresco – a fianco di Giovanni Battista troviamo sempre più spesso all’opera un team di specialisti nei differenti momenti ed esigenze del lavoro. Al quadraturista, in particolare, spetta di progettare e realizzare la cornice illu-sionistica delle scene. Gerolamo Mengozzi Colonna, che collabora sovente con lui, lo seguirà anche nell’im-
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presa di Wurzburg. Il ruolo del quadraturista è importante nel dar vita all’impalcatura prospettica delle scene, nel render credibile o fiabesco l’impianto architettonico, realistici gli spazi, quasi misurabili le profondità, vicini o lontani gli elementi della rappresentazione, per¬corribili le logge, illusori gli sfondi naturalistici. Tiepolo domina la sua squadra in termini assoluti: nella sua “mano” spariscono aiuti e collaboratori, traduttori dei disegni in cartoni e dei cartoni in tracciati per l’affresco; interviene con correzioni e pochi pentimenti, rinforzando qualche tinta, spostando la positura di una mano, la piega di una veste, la fuga di un profilo architettonico. Solo così si spiega la straordinaria compattezza della sua produzione, praticamente senza cadute o incertezze, senza differenti livelli qualitativi. Anche i figli, Giovanni Domenico e Lorenzo, pur inseriti nella bottega e al fianco di Giovanni Battista, non emergeranno che dopo la scomparsa del padre. Se le opere di Tiepolo sono disseminate nei musei di tutto il mondo, è a Venezia che la sua arte rifulge nei suoi capolavori irrinunciabili e che l’insieme della sua produzione acquista un senso unitario e omogeneo (e tuttavia non possono essere dimenticati i suoi cicli pittorici a Milano, Udine, Wurzburg, Madrid). Nella città che accoglieva ed esaltava i vertici della sua arte, Tiepolo veniva progressivamente scrivendo un suo personale poema, una sua storia, un suo “discorso”, che s’intesseva tuttavia con le fibre più intime di una storia collettiva, di una condizione e un modo d’essere solo ed esclusivamente veneziani. Proprio su questo carattere vorrei soffermarmi brevemente. L’universo di immagini sedimentato nella coscienza collettiva della realtà cittadina non meno che nella fantasia dell’artista si affollava nelle tele e negli affreschi di Giovanni Battista emergendo come la colata lavica di un’eruzione a stento trattenuta dai limiti delle rego¬le dell’arte, dando vita a quel bosco poetico per cui oggi ancora possiamo percorrere gli innumerevoli sentieri del senso alla ricerca di una possibile e convincente chiave d’interpretazione. Dentro alla materia sconfinata dei suoi dipinti, su quei soffitti e quelle pareti, su quei cieli e quelle volte, tra le storie e i personaggi, protagonisti e comprimari, caratteristi, generici, comparse e macchiette, tra gli studi fisionomici, i ritratti, gli esotismi e i mostri, gli angeli e i demoni, i mercanti e la nobiltà, Giovanni Battista pare sempre più spesso seminare gli indizi di un suo percorso interiore, del suo personale e insistente interrogarsi e interrogare sia la storia, che le favole e i miti, i grandi fantasmi e i segni della quotidiana esperienza del mondo e degli uomini. Vi è, infine, sotto lo splendore ‘facile’ e rutilante di un mastodontico diorama l’indagine appassionata – e forse angosciata – di un intellettuale forsennatamente assorbito dal suo lavoro, ma anche la traccia più profonda e drammatica di un uomo e di un artista impegnato nella sincera ricerca di una risposta al senso ultimo delle cose. Le tracce labili, e tuttavia leggibili, di questa ricerca si trovano sparse nella lunga operosità del nostro artista e si possono riassumere in temi iconografici e soluzioni narrative, ben rappresentate in quei vecchioni barbuti e in quelle fanciulle bellissime chiamati a simboleggiare la precarietà della bellezza, il tempo che fugge, lo scorrere
ineluttabile degli anni e delle epoche, lo scoprimento della verità oltre le illusioni di una bellezza smagliante e apparentemente incorruttibile. Giambattista ingaggia sin dall’inizio del suo cammino una lunga, interminabile partita interiore alla ricerca del senso della vita e della morte. Domanda agitata e riproposta e destinata a rimanere inappagata, radicale e senza risposta; avanzata con affanno o mascherata da un sarcasmo che non sa e non può tuttavia dissimulare il disagio di una condizione senza uscita, finale. Tiepolo poneva di continuo agli altri la sua domanda, ne cercava nella letteratura e nel mito le incarnazioni, la trasformava in soggetto decorativo splendente e poetico adattandolo al sogno di eternità dei suoi committenti: la corsa del carro del Sole, la virtù e il merito, la diffusione della fama, il coraggio e la gloria, la nobiltà, l’eloquenza. Sull’intera realtà, fatta di materia e di fantasia, di sogni e di invenzioni, domina Apollo a irradiare, a vivificare, a eternare nella dimensione della poesia e dell’arte. Ma Giambattista Tiepolo poneva quella domanda soprattutto a se stesso, fino a farla divenire l’elemento portante della sua produzione per così dire privata, i Capricci e gli Scherzi esoterici delle sue luminosissime e misteriose acqueforti. Per questi sentieri egli ci conduce allora ben dentro alla felice contraddizione attorno alla quale ha costruito il suo straordinario universo di poesia. L’angoscia della bellezza che sfiorisce è la stessa per la consapevolezza della fine della storia, del consumarsi inarrestabile del tempo. È sulla soglia di una felicità definitiva e impossibile che egli si ferma a meditare sul destino proprio e del mondo: quanti incontri e quanti addii uniscono momentaneamente e poi separano eroi ed eroine dei suoi cicli pittorici (Angelica e Medoro, Enea e Didone, Armida e Rinaldo, Apollo e Dafne, Diana, Atteone, Cleopatra, Antonio, Ifigenia, Perseo, Andromeda, Orfeo, Euridice...); quante splendide fanciulle si contrappongono a vecchi barbuti, quante falci di Crono si stagliano contro le caduche eternità di glorie non più che teatrali! Il tempo che passa, ecco il cerchio senza inizio e senza fine, la catena che non può essere spezzata, il limite oltre il quale lo stesso più spericolato virtuosismo di Giovanni Battista non può andare, che mette in scacco la fantasia e getta sull’artista l’ombra patetica della malinconia. Le storie della Gerusalemme liberata potrebbero forse essere assunte a paradigma di una tale condizione; ma così parlano anche le varie figurazioni del dramma di Ifigenia, così il regno di Flora e le storie di Diana e Atteone. Financo la passione di Antonio e Cleopatra di Palazzo Labia pare dislocarsi a pieno titolo dentro ai territori del romantico e del sentimentale piuttosto che in quelli dell’epica: pennoni e armature, alabarde ed elmi piumati sono più credibili come attrezzature di scena per una cantata in costume che come ambientazione per un episodio di romanità. Troppo banale dire che questo gigante dell’arte appare percepire, con la sensibilità che appartiene solo ai grandi artisti, le avvisaglie, i segni anticipatori e ancora cifrati della fine di un’epoca. Diremo allora che la sua poesia addita i limiti della finzione, l’inganno del teatro, l’ambiguità della nostalgia e mostra, sotto il fasto e la gloria, proprio la delusione insopprimibile e sublime di un ineluttabile destino di mor-te. Tendendo eroicamente, stoicamente di allontanarne il trionfo.
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The other Tiepolo
There is no doubt that Giambattista Tiepolo has been the greatest all-around genius in the Venetian XVIII-century art. The artist was born near the Arsenale in 1696. Before he turned twenty, Tiepolo had already caught the attention of critics and potential clients. At the time, he was working as an apprentice of Gregorio Lazzarini. One of his first important works is the decorations at Santa Maria dei Derelitti Church, in what is known as the Ospedaletto. Later, he went on to work for his newly found sponsors, the Correr Family. In this phase of evolution as an artist, his style is quite sombre, with dramatic, contrasting light effects. One could already see, though, all the potential of a genius-to-be: Tiepolo had already mastered composition, controlled perspectives beautifully, and rendered amazing anatomies. Tiepolo’s participation in the decoration of the San Stae Church, together with the most renowned artists of his time (Piazzetta, Ricci, Pellegrini, Balestra, Lazzarini), shows just how quickly he was able to make a name for himself. His contribution to San Stae stands in form of St. Bartholomew’s Martyrdom, a piece of great dramatic effect in the diagonal cut of the scene. A piece of transition from models exemplified by fellow artist Piazzetta (truly, Tiepolo seems to challenge Piazzetta with his St. James portrait, also at Ospedaletto) to the height of his maturity, in turn exemplified in his magnificent frescoes. The ceilings at Palazzo Sandi are a masterpiece. In the years 1724 to 1726, Tiepolo created an extraordinary decorative cycle of both sacred and profane themes in churches and mansions, a sort of anthology that touches an array of subjects and moods: the epic, the sublime, the romantic, the pathetic, the idyllic, the eulogical, the devotional, the fantastic, the erotic, the celebrative. Tiepolo’s talent knew no limits, and neither did his fantasy. While working on established schematics and constructs, he was always able to introduce new formal solutions and inject new life in his compositions, which were to grow more precious and silvery with time. In the main hall at Palazzo Labia, Tiepolo painted one of his most original and fantastic series: the stories of Antony and Cleopatra. At Ca’ Rezzonico, he painted two frescoed ceilings to celebrate the sponsoring family. At Palazzo Pisani Moretta, the apotheosis of Venetian admiral Vittor Pisani. The artist also worked at Palazzo dei Contarini, at Villa Pisani, at the Gesuiti, Scalzi, Pietà churches, and at many other smaller churches. There is little space, here, to list the many priceless pieces of art that would deserve mentioning. What we can do is celebrate Tiepolo’s ability to master any technique in any proportion, to compose rhythmical narratives, to create majestic decorative constructs and playful rhetoric. While his art is now shown in all corners of the world, it is in Venice that it finds unity and continuity. In Venice, Tiepolo composed his epic, his story, a universe of images deposited on the collective fantasy of a city as well as the artist’s own. Within the unlimited material of his art, on those walls and on those ceilings, stories, characters, actors, extras, anatomies, portraits, monsters, angels, demons, merchants, nobility, Giovanni Battista Tiepolo disseminated the clues to the itinerary of his mind, his questioning of history and of himself. There is, under the apparent shining splendour of a colossal diorama, the passionate, maybe distressed image of a man looking for meaning.
Sulle tracce di Tiepolo Luoghi e opere da riscoprire a Venezia e dintorni L’apoteosi di Santa Teresa (1720–1725) CHIESA DEGLI SCALZI
Educazione della Vergine (1732) particolare
CHIESA DELLA FAVA (Santa Maria della Consolazione)
Madonna del Carmelo consegna lo scapolare al Beato Simone Stock (1739–1749) Fede, Speranza e Carità (1743) SCUOLA DEI CARMINI particolare
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Martirio di San Bartolomeo (1722-1723)
L’incontro tra Venere e Marte (1743)
CHIESA DI SAN STAE particolare
PALAZZO PISANI MORETTA
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L’Istituzione del Rosario La Gloria di San Domenico La Madonna appare a San Domenico (1737–1739)
CHIESA DEI GESUATI (Santa Maria del Rosario)
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Il sacrificio di Isacco (1724) particolare CHIESA DI SANTA MARIA DEI DERELITTI COMPLESSO DELL’OSPEDALETTO
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La salita al Calvario (ciclo della Passione)
(1738–1740) 3
CHIESA DI SANT’ALVISE
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Potere dell’eloquenza (1724-1725) PALAZZO SANDI
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1770 | 2020 Venezia riceve da Nettuno i doni del Mare
(1745)
PALAZZO DUCALE
La Vergine con le Sante Rosa da Lima, Caterina da Siena e Agnese da Montepulciano (1748) particolare
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Incoronazione di Maria Immacolata (1754-1755) particolare CHIESA DELLA PIETÀ
CHIESA DEI GESUATI (Santa Maria del Rosario)
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Storie di Antonio e Cleopatra (1746-1747)
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PALAZZO LABIA
Allegoria Nunziale (1757) CA’ REZZONICO
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Comunione di Santa Lucia (1745–1750) CHIESA DI SANTI APOSTOLI particolare
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Il Merito (1757) CA’ REZZONICO
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La Madonna con il Bambino appare a San Giovanni Nepomuceno (1754) CHIESA DI SAN POLO particolare
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L’Apoteosi di Vittor Pisani (1760-1762) VILLA PISANI | Strà
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idee, luoghi, persone ideas, places, people
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La scrittura e il progetto particolare «Marcatrè» «il Verri», del comitato scientifico di Lotus International, della direzione di «Rassegna» nel 1979. Di grande aiuto nel seguire la vicenda è la lettura del bellissimo testo di Chiara Baglione, Casabella 1928/2008 edito da ElectaArchitettura, nel quale sono raccolte citazioni dirette che ben illustrano il significato che Vittorio Gregotti attribuiva all’attività pubblicistica, alla scrittura, al lavoro sulle riviste, alla pratica architettonica e alla riflessione teorica, attività che sono sempre state componenti essenziali del suo impegno come architetto, quanto lo erano state per il suo maestro Rogers. Gregotti confidò nelle pagine di «Casabella» che «Il modo di affrontare la scrittura all’interno del contesto di una rivista è tutt’affatto speciale. Da un lato esso è in qualche modo una mimesi del progetto, perché una rivista si costruisce in redazione, con limiti speciali e attraverso una collaborazione collettiva complicata, un lavoro quotidiano e paziente che somiglia molto al lavoro della progettazione. Nello stesso tempo esso si dispone e prende senso in
In un periodo di pausa (forzata) diventa inevitabile riflettere su noi stessi, la nostra vita, il nostro percorso e il nostro futuro. Stiamo parlando qui innanzitutto di noi, di Venews! Quindi da dove partire per ripensare il magazine sia graficamente che editorialmente? Dove trovare la forza di una naturale evoluzione? Naturalmente guardando alle nuove frontiere dell’editoria, ma anche – perché la carta per noi è irrinunciabile, dove idee, spazio e tempo si fondono ai ritmi personalissimi di ogni lettore – studiando progetti che sono diventati di fatto capisaldi dell’editoria di settore. Non potevamo che partire, dunque, da un’esperienza che per quanto milanese ha radici profonde a Venezia e che diventa anche un sentito omaggio a un grande architetto recentemente scomparso: l’eredità di «Casabella» di Vittorio Gregotti, direttore della rivista dal 1982 al 1996. Un racconto attento e appassionato di Paolo Lucchetta, acuto ricercatore di idee.
Difficile
definire nella densità delle sue molteplici attività il ruolo che Vittorio Gregotti (1928– 2020) ha svolto nella cultura architettonica italiana: maestro del Novecento, professionista, saggista, teorico, polemista, critico dell’architettura, ruoli sempre e comunque interpretati nella ricerca di dimostrare che l’architetto è chiamato a svolgere una professione non solo tecnica, ma soprattutto intellettuale.
di Paolo Lucchetta C’è un progetto che riassume gran parte di queste sue anime e le dispone in una prospettiva di lungo periodo ed è, a mio parere, quello di «Casabella», rivista di cui assume la direzione dal numero 478 del 1982 fino al numero 630/631 del 1996. Gregotti aveva in precedenza lungamente ed intensamente frequentato le redazioni di «Casabella-Continuità» con Ernesto Nathan Rogers, in seguito di «Edilizia Moderna», delle riviste del Gruppo 63, in
una prospettiva di lungo periodo, nell’insieme, nella serie, nella sequenza discontinua degli atti dello scrivere mese dopo mese. Una rivista ha il compito sempre di utilizzare le condizioni circostanti, come una specie di materiale, proprio per stabilire nei confronti di queste condizioni una distanza critica: esattamente come un progetto di architettura. La relazione tra pratica architettonica e riflessione teorica non è tanto la prova della correttezza delle idee che si esprimono, quanto una base duramente necessaria, specie in questi tempi difficili, per l’architettura: indispensabile per la sua stessa sopravvivenza». Quanto tutto questo avesse una relazione con il suo lavoro di architetto, quanto il pensiero di Rogers fosse sempre vivo nel suo agire e pensare, risulta molto evidente dalle pagine dei primi suoi numeri della rivista. «Devo infatti dichiarare che gli scritti hanno avuto sempre dei rapporti diretti con il mio lavoro di architetto. Come l’insegnamento universitario, lo studio della storia dell’architettura o la direzione di una rivista, la riflessione teorica
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resta soprattutto per me un modo di accumulare e ordinare materiali per il progetto di architettura. Quando io ho assunto la direzione nel 1982, credo che il pensiero di Rogers abbia ricominciato a influenzare «Casabella». La difesa del progetto moderno che abbiamo condotto in questi anni, come progetto critico incompiuto, il valore e i limiti critici della nozione di metodo, l’idea della sua applicabilità, il principio delle verità specifiche e limitate, la nozione di progetto come forma di dialogo tra diversi con il contesto, la necessità di fondare teoricamente ogni progetto che si intraprende, e soprattutto io credo la centralità dell’architettura come un nuovo modo di essere nel mondo, di conoscerlo e trasformarlo, sono principi che Rogers avrebbe riconosciuto come da lui provenienti». Gregotti introduce però altri due temi principali che resteranno presenti nell’intero ciclo della sua direzione della rivista: la forma del territorio e la specificità disciplinare. «Sono state aggiunte due linee complementari: da un lato il tema della forma del territorio, ciò che concerne non solo la questione dell’architettura su grande scala
rivista rappresentati dalle presentazioni di un edificio, un progetto (realizzato o non) da un architetto italiano e uno da un architetto straniero. Poi attualità, argomenti, recensioni di volumi e mostre, segnalazioni di lavori in corso, interviste, risultati di concorsi e di progetti in breve. E inoltre interventi teorici e critici, “L’opinione degli altri”, oltre alla presenza di un saggio storico, “Documenti di architettura”, che propone una riflessione critica sulle tradizioni dell’architettura moderna. A differenza di Rogers, Gregotti non apre la rivista con un articolo di fondo, bensì inserisce il suo contributo teorico mensile tra gli altri testi. Si tratta di una scelta precisa, figlia dell’idea di una rivista composta da un insieme di voci che confluiscano organicamente, e non programmaticamente, verso una certa direzione. Inoltre, riservando l’apertura alla presentazione di un progetto, intende sottolineare il fatto che l’architettura torna al centro dell’attenzione. Chiara Baglione infatti a questo riguardo sottolinea che «[...] dopo l’interdisciplinarietà che aveva caratterizzato la rivista di Tomás Maldonado e preceden-
è necessario chiederci se il lavoro sino a qui svolto sia suscettibile di una qualche identità dentro la complicata geografia delle diverse posizioni attuali della nostra disciplina. Ebbene noi ci chiediamo: è sufficiente il costante richiamo che abbiamo cercato di proporre in questi primi mesi al tema del progetto articolato attraverso tutti i suoi materiali e contrapposto alla preminenza dell’immagine formalistica? È sufficientemente chiara la nostra volontà di contestualizzare i progetti per rapporto alle loro condizioni di produzione materiale? È sufficiente la nostra dichiarata contrapposizione all’uso puramente stilistico della storia? È sufficiente il nostro insistere sui temi della regola, della tecnica, del mestiere? È sufficiente il nostro riferimento al piano come preminente contenuto del progetto di architettura e alla indispensabilità del progetto stesso come qualità del piano? È sufficiente aprire, come abbiamo cercato di fare, interrogativi su quale sia la posizione della nostra disciplina nel contesto del lavoro culturale, contro il suo affondamento economicistico professionale?». Eppure il vero, indimenticabile
quanto le considerazioni e le opportunità che hanno posto in primo piano il tema del contesto come geografia e come storia, dall’altro il rapporto con la realtà e quindi la dibattuta questione dell’autonomia disciplinare e della distinzione tra questa e la nozione di specificità disciplinare a cui io faccio costante riferimento». Il progetto della rivista è molto significativo ed emblematico del suo percorso. A «Casabella» Gregotti costituisce una redazione esterna composta da storici e critici con i quali ha rapporti personali e di lavoro, selezionati anche sulla base delle aree geografiche di riferimento, vedi, ad esempio, Giorgio Ciucci e Massimo Scolari professori dello IUAV dove Gregotti insegna dal 1978. Gregotti decide fin dall’inizio di chiedere a Jacques Gubler di contribuire a ogni numero con una Cartolina indirizzata a Myriam Tosoni, segretaria di redazione di «Casabella» fin dagli anni di Rogers (anche le cartoline 1982/1996 sono raccolte in una pubblicazione di Electa). Gregotti individua poi altri due pilastri del progetto-
temente la dissoluzione dei confini tra architettura e arti visive nell’avventura di Alessandro Mendini del controdesign, si annuncia così il ritorno alla specificità disciplinare. Una rivista controcorrente nella sua stessa formula che ha sempre preferito l’analisi articolata delle opere alla loro glorificazione come immagine, perché ha cercato di opporre alle esagerazioni delle mode la ragionevolezza, l’equilibrio, lo sguardo sulla lunga durata». Anche l’elegante e sobria veste grafica studiata da Pierluigi Cerri, socio di Gregotti dal 1974 e già autore dell’immagine di «Rassegna», esprime la qualità del progetto Casabella e lo valorizza anche grazie all’adozione di una carta usomano color avorio che mette in risalto le qualità materiche dei disegni e degli schizzi, a partire dal progetto dei disegni di architettura a filo in copertina, penalizzando le fotografie in bianco e nero. Dalle pagine della rivista Vittorio Gregotti, dopo qualche tempo, si interroga sull’identità e sulla posizione della rivista stessa. «Dopo sei mesi della nuova «Casabella»
manifesto della rivista, però, rimane il primo numero, il n. 478, che significativamente si apre con un servizio sul quartiere Malagueira a Evora di Álvaro Siza. Gregotti, che aveva conosciuto l’architetto nella seconda metà degli anni Sessanta, gli aveva dedicato nel 1972 un saggio su «Controspazio», introducendo per la prima volta in Italia la sua opera, alla quale aveva poi dedicato una mostra al PAC di Milano nel 1979. Soprattutto se letto in parallelo con l’articolo che chiude il primo numero della rivista, dedicato al progetto di Gino Valle per il quartiere di edilizia residenziale pubblica sull’isola della Giudecca a Venezia, «l’intervento di Siza pone con chiarezza le questioni della specificità del luogo, come storia e fisicità dell’ambiente e della fascinazione stilistica dell’architettura spontanea introiettata da Siza come materiale strutturale della sua architettura, attraverso una nozione di povertà come economia degli strumenti, ma anche come sfida all’invenzione che tale povertà produce». Vittorio Gregotti scriverà per quel numero un testo dal titolo memorabile,
:tracce L’ossessione della storia, sulle questioni dei rapporti con la tradizione che avevano segnato la stagione rogersiana di «Casabella». Raccogliendo la provocazione lanciata dalla Biennale di Portoghesi del 1980, Gregotti scrive: «La coscienza della complessità della storia in quanto coscienza critica dell’architettura, è stata una difficile e importante riconquista proprio della mia generazione, ma essa si è andata man mano trasformando sino al tuo totale ribaltamento di significato. L’uso del materiale storico nella progettazione è divenuto sempre più frequente: si è fatto da ideologico stilistico, evocativo, dimostrativo di un rifiuto non del nuovo ma della contemporaneità. La stessa tradizione del Movimento Moderno è utilizzata spesso solo stilisticamente e quindi neutralizzata in quanto presa di posizione ideale. Io credo che l’ossessione della storia sia in un certo modo la risposta alla perdita dell’integrità dell’architettura. Poiché l’integrità dell’architettura necessita di rapporti ideali, alla caduta dei rapporti reali col mondo dei bisogni, della produzione, della crescita urbana, della significazione collettiva, della
sto numero «[...] si configura quell’asse Gregotti-Secchi determinante per la filosofia di «Casabella» fino al 1996. I temi del contesto e della rimodificazione, le questioni delle aree industriali dismesse e dei suoi vuoti urbani, delle grandi infrastrutture, del disegno degli spazi aperti, delle nuove frontiere dell’ingegneria sono affrontati da due punti di vista, quello dell’architetto e quello dell’urbanista, in un dialogo diretto o tramite le pagine della rivista talvolta sollecitato da concreti incarichi progettuali». In «Casabella» appaiono frequentemente servizi-inchieste su casi specifici un po’ in tutto il mondo di disegno urbano e sul rapporto piano e progetto, da Francoforte a Barcellona, da Berlino ad Amburgo, da Postdam a Vienna o a Bilbao. Un’attenzione particolare è rivolta agli argomenti oggetto di numeri speciali pubblicati a gennaio/febbraio di ogni anno, che a cominciare dal primo delineano un nuovo linguaggio sin dagli stessi titoli, quanto mai evocativi, di questi approfondimenti: L’architettura del piano, Architettura come modificazione, I terreni della tipologia,
nee all’ambito progettuale, in sintonia con interessi e curiosità del direttore. È nota l’attenzione dedicata da Gregotti alle ricerche filosofiche: dalla relazione con Paci al rapporto con Massimo Cacciari e al colloquio con pratiche artistiche diverse, si pensi all’esperienza con il Gruppo 63. La sezione “L’opinione degli altri” ospita interventi di studiosi di materie quali la filosofia appunto, la sociologia, la storia dell’arte, la letteratura. Il titolo della sezione di per sé segnala distanza rispetto alla ricerca di interdisciplinarità promossa da Maldonado. «Non si tratta di promuovere discutibili incontri interdisciplinari, ma di confrontare processi e fondazioni, problemi specifici di organizzazione delle diverse materie, tradizioni e ipotesi con cui si misurano». Contributi del filosofo Giacomo Marramao, del poeta Edoardo Sanguineti, del musicista Salvatore Sciarrino, dello psicanalista Elvio Fachinelli, della scrittrice Maria Corti, dello storico dell’arte Hubert Damisch, si alternano a dibattiti come quello sui fondamenti del progetto contemporaneo, avviato dal celebre saggio di Massimo Cacciari, Nichilismo e progetto, al
stessa tradizione del mestiere disciplinare, corrisponde la proiezione di questi rapporti reali sul piano fantasmatico dell’ipotesi storica. La risposta? Non c’è risposta se non quella di tornare a soffrire le incertezze della realtà». Come già detto, in quegli anni nessuna collaborazione risulta casuale o indifferente all’identità e alla posizione della rivista, tantomeno quella con Bernardo Secchi, che su «Casabella 478» inaugurerà quello che sarà un appuntamento fisso della pubblicazione: «Il territorio dell’architettura e progetti quali lo Zen, l’Università di Calabria, Amalasunta, Cefalù, Pozzuoli – scrive Secchi –, da tempo mi avevano indotto a riflettere in modi sempre più precisi sui rapporti tra architettura e urbanistica, tra piano e progetto, producendo un mio progressivo distacco dall’urbanistica europea e italiana e una progressiva distanza critica dal diluvio di immagini che sommergeva allora e continua a sommergere il mondo dell’architettura». Chiara Baglione ci invita a notare come a partire da que-
Composizione-progettazione, Architettura della nuova ingegneria, Sulla strada, Il disegno del paesaggio italiano, Il disegno degli spazi aperti, Internazionalismo critico. Numeri che rendono espliciti i rapporti tra i progetti presentati, le analisi teoriche, i saggi storici, in un intreccio che resta uno dei risultati più interessanti di questa stagione di «Casabella». Anche la storia dell’architettura è una presenza costante nella sezione “Documenti dell’architettura”, con saggi brevi su figure ancora poco studiate dalla tradizione del moderno, in Italia e all’estero, sugli edifici industriali progettati da architetti, sulle scuole di architettura, arte applicata e ingegneria, sulle riviste. Questo senza mettere mai in discussione l’indipendenza e la specificità della storia in sintonia con la lezione di Manfredo Tafuri. Un altro aspetto caratterizzante di questa stagione di «Casabella» è legato al dialogo con discipline estra-
quale partecipano Joseph Rykvert, Gianni Vattimo, Franco Rella, Massimo Scolari. Nel 1988, in occasione del 60. anniversario di «Casabella», si tenne una giornata di studi per discutere sul ruolo assunto dalla rivista durante i primi sei anni della direzione Gregotti, nel contesto della quale Gregotti stesso ribadisce la sua fiducia nel metodo critico basato sull’inclusione/esclusione: «Catalogare vuol dire anche per noi fare un esame di coscienza della nostra necessaria parzialità, di quanto l’identità della rivista sia dovuta a ciò che abbiamo scelto, ma anche a ciò che abbiamo escluso. Nel nostro mondo dell’informazione istantanea e universale, scelte ed esclusioni sono ancora più significative di un tempo, purché naturalmente ci si sforzi di spiegarne le ragioni e l’ottica, il come e il perché delle esclusioni e delle scelte, come noi crediamo di avere fatto». Proprio su questo metodo di selezione per la prima volta Vittorio Gregotti è messo in discussione da fronti opposti: da un lato vi è chi
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crede troppo strette le maglie di un setaccio che talvolta sembra eccessivamente condizionato dall’approccio e dalla ricerca del direttore, dall’altro vi è chi come Tafuri vede nel meccanismo dell’esclusione una rinuncia a formulare esplicitamente giudizi negativi: «Non ho mai nascosto a Gregotti una mia critica a «Casabella». Tutto quello che lui scrive nei suoi editoriali lo condivido pienamente. Eppure mi sembra che agisca più per censura che per polemica, vale a dire bisogna capire qual è la tendenza della rivista conoscendo le opere che essa esclude contro le quali non si trova mai nessuna argomentazione critica». Negli anni ‘90 inizia una radicale trasformazione del panorama editoriale delle riviste italiane che produce una notevole competizione di mercato e «Casabella» si trova a dover affrontare alcuni suoi nodi irrisolti, quali il rapporto problematico tra l’esigenza di ampliare la propria funzione informativa e la necessità altrettanto urgente di mantenere un proprio chiaro punto di vista. Cresce la quantità delle informazioni contenute in ogni numero, dove il rapporto tra fotografie di edifici realizzati e materiali di progetti è
oramai invertito rispetto al passato, il tutto traducendosi in servizi sintetici, illustrati per lo più con immagini di piccole dimensioni, che rendono talvolta poco agevole la lettura delle opere e non ne valorizzano appieno le qualità formali e costruttive. Proprio su questo terreno sembra farsi problematica la competizione con le altre pubblicazioni di “settore”. Ancora Chiara Baglione sottolinea che «[...] profonde modificazioni investono anche il mondo della professione, con l’emergere di una tendenza all’estromissione dell’architetto da ruoli tecnici e compiti sociali e i tentativi di relegarlo nell’universo della decorazione governato dalle leggi del successo mediatico e della globalizzazione delle immagini». È l’occasione per Vittorio Gregotti di esprimere la sua forte opinione e dissenso sulle condizioni dell’architettura. Nel saggio del 1996, Nei nostri cieli privi di idee, scrive che «la produzione architettonica dipende largamente dall’imitazione di altri prodotti di successo
e il successo è garantito proprio dalla comunicazione di massa. Essi si trasmettono attraverso forme di sempre più accentuata mediatizzazione del fatto architettonico che cerca in genere di concentrare sull’immagine la qualità specifica del prodotto, a sua volta l’immagine è immediatamente soggetta al confronto con il mercato internazionale dell’immagine stessa». Ci stiamo avvicinando qui alla fine di un ciclo glorioso della rivista, che si consuma nel 1996 con un ultimo numero doppio, il 630/631, senza commiato, come nel primo numero non vi era stata alcuna dichiarazione programmatica. Vengono raccolti solo interventi degli architetti più pubblicati: Tadao Ando, Oriol Bohigas, Henri Ciriani, Frank Gehry, Herman Hertzberger, Richard Meier, Rafael Moneo, Alvaro Siza, Eduardo Souto de Moura, Luigi Snozzi, Oswald Mathias Ungers, Gino Valle, Aldo van Eyck. Una sorta di (non) dichiarata cerimonia d’addio. Nella comunicazione della fine del rapporto con Gregotti, l’editore spiega che «[...] è una decisione che maturava ormai da tempo. Avevamo bisogno di rivitalizzare una rivista di grande prestigio che però denota i suoi anni. Innovare il prodotto, la sua linea grafica, infondergli una sensibilità per le nuove tecnologie: tutti discorsi che con il Professor Gregotti incontravano difficoltà, e non per una sua opposizione ma perché è poco addentro ai meccanismi della casa editrice». L’indipendenza rispetto a strategie editoriali è percepita dunque come un ostacolo dal nuovo editore, così come il fatto che egli sia un architetto impegnato nella professione, condizione peraltro da lui ribadita con orgoglio e letta ormai come un limite non tanto per lo spazio riservato sulle pagine della rivista ai progetti elaborati dal suo studio (in questo Gregotti ha precedenti illustri in Pagano e Rogers), quanto piuttosto per la sua inevitabile e rivendicata parzialità. «Nel 1982 – scrive Chiara Baglione – introducendo il suo primo contributo a «Casabella» che gli era stata affidata Gregotti scriveva che “una rivista di architettura è oggi uno strumento altamente inattuale”, un’inattualità che verrà contestata nel 1996 alla sua specifica e fortemente connotata idea di rivista». La lettura di questa vicenda di scritture e progetti, autentica nell’attraversare tempi di espressione e inevitabili declini, lascia però in molti di noi la sensazione di una preziosa e profonda eredità di passione, di impegno culturale e civile che ha molto influenzato la teoria e la pratica della professione dell’architetto, indicandoci i doveri e le responsabilità nel modificare l’ambiente che ci circonda. In noi non può che rimanere, inoltre, la piena consapevolezza del privilegio di aver potuto godere del nutrimento di una indimenticabile generazione di maestri.
Casabella 1928/2008 A cura di Chiara Baglione ElectaArchitettura
Abitare l’architettura Questo dannato virus ha portato via una delle menti più lucide, razionali, progettuali, è proprio il caso di dirlo, non solo dell’architettura italiana e internazionale, ma più estesamente della cultura del nostro tempo. Vittorio Gregotti è stato sicuramente uno dei quattro, cinque architetti fondamentali del nostro dopoguerra, eppure sarebbe assai riduttivo confinarlo nel recinto stretto di una sola disciplina. L’elemento profondo e intrigante che a nostro parere ha da sempre connaturato la radice prima del suo pensiero e della sua elaborazione sta nella dialettica sempre in lui viva tra specificità disciplinare del fare architettura e la relazione congrua, plausibile tra questa disciplina e gli altri linguaggi artistici, ma anche scientifici, sociali. Come dire, va bene il cosiddetto crossover (so che non ci perdonerà l’inglesismo da spot…), la contaminazione; non solo vanno accettati ma assolutamente ricercati, perché l’autoreferenzialità disciplinare è quanto di più ottuso si possa dare. Ma allo stesso tempo il mescolare per il mescolare, superficiale, alla moda è forse, anzi per lui certamente, ancora peggio, perché far incontrare i saperi, i linguaggi significa avere chiaro il senso di ogni segno, di ogni passo, di ogni incontro, altrimenti siamo al salotto. Abitare l’architettura partendo dal vissuto vivo dei cittadini, facendo proprio profondamente il contesto in cui si deve intervenire, con le sue esigenze sociali, culturali, professionali: questo ci sembra sia stato il lascito più profondo ed irrinunciabile di questo grande maestro, al netto pure delle sue creazioni, peraltro come minimo tutte significative. Perché è il suo pensiero, molto e ben scritto, quello che ci resta come strada da seguire. E anche solo il titolo di questa quasi imminente Biennale curata da Hashime Sarkis, How will we live together, ci pare per quanto involontariamente un perfetto omaggio postumo al grande architetto milanese. Massimo Bran
mostre, musei, gallerie exhibition, museum, galleries
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Note vocali
La nuova
comunicazione in tempo di pandemia include un uso massiccio di social media, solo pochissimi, tuttavia, sanno rendere poesia l’affacciarsi a un mondo potenzialmente senza confini, i cui orizzonti sono segnati dalle infinite capacità di porsi in confronto tra individui. Entrare nelle vite degli altri, spiarne i dettagli che vengono offerti è divenuta abitudine per la maggioranza dei cybernauti, un quotidiano plurimo esercizio completamente inconsapevole, quasi “normale”. E poi c’è Fabrizio Plessi in Plessi. Progetti del mondo: 44 città – una al giorno, per un minuto, alle 19 su Instagram (plessi.progettidelmondo | fabrizio.plessi), dal primo maggio fino al 14 giugno, a cura di Paolo Lucchetta e Riccardo Baggio – che hanno ispirato altrettanti lavori del Maestro, capace di stupire ancora una volta per la sua inclinazione a conquistare Instagram con la leggerezza di chi può portare oltre il suo sguardo, regalando un tour planetario per immagini, parole e suoni, nella brevità di una misurazione temporale che diviene limite valicabile della fantasia. Le pagine del libro che ha ispirato questa nuova avventura artistica, nata quasi per gioco con la complicità di Paolo Lucchetta, il multiforme architetto dotato di capacità visionaria della modernità secondo gli stilemi più colti e raffinati della tradizione, appartengono a una pubblicazione del 1997 di Gérard A. Goodrow (editore DuMont, Colonia), da cui prende il titolo il progetto. L’aver saputo rieditare digitalmente il volume, un racconto per landmark personalissimi e ispirati, con le note di Michael Nyman a segnare il ritmo, e con la voce narrante del Maestro Plessi a dare forma sonora a un taccuino personalissimo di viaggi è risultata un’idea rivoluzionaria e meta-contemporanea, un modo per utilizzare Insta-
gram scomponendo le immagini in multiformi paesaggi e passaggi mentali, interpretazioni di pura geografia emozionale in cui i dettagli completano lo spazio fisico di una mappa del cuore frastagliata attraverso i movimenti della vita. Plessi apre la sua valigia dei ricordi, fatta di infiniti viaggi, di incontri con culture differenti, di cui egli serba il tratto con una sua personalissima sintesi, frutto di conoscenza e di lungimiranza e riporta le sfumature del suo racconto attraverso la sua voce ferma, matura, ancora piena di stupore e di entusiasmo. Non c’è nessuna autocelebrazione o autocompiacimento, i luoghi dell’anima sono la meta di un vagare creativo, fonte di ispirazione continua. Fabrizio Plessi sembra condividere il taccuino degli appunti, in cui è solito annotare le idee e le suggestioni offerte alla sua mente curiosa e aperta, le destinazioni divengono altrettanti porti di una navigazione perenne che si chiama vita. Le città toccate in questa peregrinazione, da Roma a Venezia, da Bombay a Napoli, da Parigi al Sudan, dal Marocco alle amate Baleari, dal Giappone a New York, spaziando attraverso i Continenti, rappresentano una pura fonte di illuminazione, ciascun luogo è narrato per merito di una intensa osmosi che l’Artista ha saputo creare con quanto lo circondava. Una distopia geografica in cui le città ideali di Fabrizio Plessi si assommano e si nutrono con il filtro dello sguardo che le contiene, un dettaglio, una traccia di vita nella purezza di un pensiero incorrotto, libero nel fissare uno o più elementi fino a farne materia di narrazione. La scrittura viene inclusa nell’opera artistica che si offre a una nuova estetica, le parole si espandono oltre il segno, pesano come elementi cromatici senza entrare in conflitto con le immagini, la descrizione si carica della forza creativa del pensiero.
Communication at the time of a pandemic means social media. Only a few, though,
can turn this borderless world into poetry. To enter the life of another, to spy every detail is a habit for many, a daily exercise we don’t think much of. And then there’s Fabrizio Plessi in Plessi. Progetti del mondo: 44 cities – a minute each, at 7pm on Instagram, from May 1 to June 14 – that inspired 44 pieces of art by Plessi, who never fails to amaze us for his ability to conquer a media such as Instagram with the lightness that belongs to those who can see beyond. Plessi’s is a planet-wide tour made of images, words, and sounds compounded in an idea that is limited in time and unlimited in fantasy. The book that inspired this art adventured is also titled Progetti del mondo (by Gérard A. Goodrow). The book has been digitally republished with the addition of music by Michael Nyman and the narrating voice of Fabrizio Plessi. The result, a revolutionary, meta-modern travel notebook, a way to use Instagram by breaking up images into natural and mental landscapes, interpretations of emotional geography where details complete the physical space of moments of life. Plessi opens his suitcase to reveal memories, travels, encounters, cultures, and makes a synthesis with his firm, mature voice, so full of enchantment and enthusiasm. There is no self-celebratory intent, here; Fabrizio Plessi shares with us his notebook of ideas and every destination is just another stopover of the perennial source of inspiration we call life. The cities listed (Rome, Venice, Bombay, Naples, Paris…) are a source of light, and each is narrated by osmosis. Writing is included in art to add to its aesthetic, words expand beyond the written text, and descriptions are loaded with the creative force of thought.
HAMA
Un poco piazza San Pietro e un poco De Chirico metafisico, un poco Cinecittà e un poco rovina piranesiana, questa Roma evocativa e semicircolare vive della misteriosa liquidità elettronica del suo Tevere. Tutto scorre tra lastre di travertino e arcate romane come in un instancabile replay della storia.
La metaforica liquidità del tempo e l’ossessiva circolarità del movimento. Mentre le pale elettroniche del mulino scompaiono ritmicamente nel vortice dell’acqua vera, un serpente, ancora una volta, si morde la coda.
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ROMA
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Plessi. Progetti del mondo Maggio 01 Roma, Italia 02 Venezia, Italia 03 Bronx, New York City, USA 04 Zagora, Marocco 05 Colonia Sant Jordi,
Isole Baleari, Spagna 06 Cavaillon, Francia 07 Bombay, India 08 Napoli, Italia 09 Locorotondo, Italia 10 Zaragoza, Spagna 11 Sarajevo, Bosnia Erzegovina 12 Pompei, Italia 13 Venezia II, Italia 14 Kyoto, Giappone 15 Nara, Giappone 16 Paris, Francia 17 Hama, Giordania 18 Cairo, Egitto 19 Memphis, Egitto 20 Wilhering, Austria 21 Berlin, Germania 22 Goa, India 23 Juba, Sudan 24 Zacatecas, Messico 25 Pergine, Italia 26 Jodhpur, India 27 Nagoya, Giappone 28 Köln, Germania 29 Frankfurt, Germania 30 Roma II, Italia 31 New York City, USA
Giugno 01 Ca’s Concos,
Isole Baleari, Spagna
BOMBAY VENEZIA Il viaggiatore distratto di fronte alla sala dei “cristalli liquidi” penserà di averla da sempre vista così, felice in cuor suo, che tutto sia restato immutato nel tempo. Tra mobilità di luci e bagliori di specchi vedrà solo vetro e acqua: dunque metaforicamente vedrà Venezia.
Non molti anni fa Pasolini scriveva L’odore dell’India. Questo piccolo libro è stata la mia vera guida a Bombay. A Bombay ho trovato però i Dhobi Ghat. I grandi, sterminati lavatoi pubblici mi aspettavano nel momento in cui casualmente mi sono affacciato sopra di loro. Tra il fumo, il caldo, l’acqua, il sudore, le grida, gli odori, il cotone, in un attimo ho capito che l’opera “era già là”, intatta, con la sua straordinaria bellezza da girone dantesco. A me non restava che trascriverla.
02 Ké Macina, Mali 03 Palma, Isole Baleari, Spagna 04 Segovia, Spagna 05 Beysehir, Turchia 06 Roma III, Italia 07 Ercolano, Italia 08 Castel di Tusa, Italia 09 Fez, Marocco 10 Den Haag, Paesi Bassi 11 Vicenza, Italia 12 Lalibela, Etiopia 13 Haarlem, Paesi Bassi
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Revisioni
Musei, Collezioni e mostre: la nuova frontiera della fruizione dell’arte I musei, siano essi di arte antica, moderna o contemporanea, ma anche di natura tecnica o scientifica, sono soggetti giuridici che agiscono in un mercato, se così si può dire, del tutto particolare. Quasi per mission, come direbbero gli americani, si tratta di entità imprenditoriali, siano essi di natura privata o, più spesso, pubblica, che normalmente non producono profitti, perché non è questa infine la loro primaria e costitutiva vocazione. Sono altresì macchine costosissime, che quindi necessitano di contributi pubblici, il cui ottimo funzionamento, però, permette al sistema che gli lievita attorno, ossia quello turistico ma non solo, di guadagnare eccome. La cifra identitaria di queste macchine del sapere andrebbe quindi valorizzata connettendo questi due tratti, traendone le adeguate conseguenze. Che a nostro avviso, ovviamente qui semplificando, non possono che essere le seguenti due: sostegno massimo da parte degli enti pubblici per alimentare al meglio questa linfa essenziale del sistema Italia; stimolo, direi di più, pretesa da parte del Ministero e dello Stato in generale che in particolare i musei pubblici, ma non solo, producano un netto scarto, una netta svolta nella propria visione gestionale, dando al percorso della valorizzazione di queste industrie civiche importanza almeno pari a quello della tradizionale, storica, rilevantissima funzione della conservazione. Per quanto riguarda questo secondo aspetto, qui non ci si vuole esclusivamente riferire alla moltiplicazione delle mostre temporanee per aumentare il numero dei visitatori e quindi degli introiti derivanti dalla bigliettazione, ma a una vera ridefinizione della “destinazione d’uso” qualitativamente aperta degli spazi museali, facendoli diventare epicentri culturali a tutto tondo, con naturalmente un altissimo lavoro di selezione sui contenuti da ospitare, nonché a una vera rivoluzione per così dire “anglosassone” nelle politiche di management, in particolare per quel che riguarda il marketing contemporaneo, di questi musei. È un lavoro al contempo di straordinaria complessità in termini di realizzazione quanto semplicissimo in termini di comprensione. E la cosa che più preoccupa è la seconda istanza, ossia il fatto che se da un lato ci si scontra continuamente con una sconcertante ignoranza e rozzezza e non conoscenza da parte dei nostri dirigenti politici su che tipo di ruolo debba svolgere oggi la cultura, l’industria museale nelle società moderne, da un altro lato ci si imbatte in una mentalità meramente conservativa ed accademica che è quella che informa l’abito mentale della stragrande maggioranza dei dirigenti dei nostri musei pubblici, una mentalità che facendosi scudo dell’erudizione e dello specialismo conservativo, bene altissimo s’intende, ritiene che tutto ciò che attiene alla valorizzazione innovativa di un museo equivalga a mercificazione. Una tenaglia mortale, che se non si spezza con idee e progetti di cambiamento decisi
l’orizzonte sarà inevitabilmente sempre dello stesso colore, immobile. Oggi, certo, viviamo un’emergenza di dimensioni inaudite, direi illeggibili quasi alla luce della radicalità dell’impatto che tutto ciò ha prodotto e produce nel nostro vissuto, lasciandoci tuttora attoniti e di fatto disarmati di fronte a un attacco devastante e mai così imprevisto. E l’emergenza ha bisogno di prime terapie d’urto rianimatorie. Tra l’infinito delta dell’industria culturale quello dei musei è tra tutti i corsi d’acqua, assieme alle librerie ecco, quello che fisicamente ha tutti i fondamentali per riaprire le sue porte senza mettere a repentaglio la salute dei visitatori. Il distanziamento non è così complesso, gli spazi comunque sono mediamente ampi, il controllo abbastanza semplice. La stessa Biennale Architettura, da tutti attesissima per far ripartire almeno basicamente l’intero sistema turistico-culturale di Venezia, ha tutti i numeri per aprire e con essa i vari suoi eventi collaterali. Aprire si può, si deve. È su questa concreta, percorribilissima opportunità, quindi, che si innesca la prima urgenza, ossia quella di sostenere finanziariamente questo comparto da subito, e pesantemente. Perché già parliamo di macchine che a re-
gime non possono guadagnare direttamente, figuriamoci quando si trovano a girare a un quinto del loro potenziale. Se questa volta non viene compreso che questa azione è un dovere civile, sociale, economico di primaria rilevanza, allora è giusto che il Paese si autocondanni alla marginalità culturale, accontentandosi di rimanere una mera, irripetibile cartolina in decomposizione. Se invece, come sempre sull’orlo del baratro, ciò verrà compreso, allora tutti dovremmo spingere chi doverosamente inietterà nuovo sangue per tenere in vita i nostri musei a pretendere da essi quanto detto sopra, ossia di impegnarsi sul serio a voltare pagina incominciando a dare circolarmente del tu al futuro, ponendosi come obiettivo la progressiva diminuzione del gap nella valorizzazione di questo straordinario patrimonio rispetto alla capacità dei paesi più moderni nel valorizzare il loro, ben inferiore al nostro come è ben noto al mondo intero. Pretendere aiuto dovuto, dovere di essere all’altezza di tale aiuto. Questa l’equazione all’osso da seguire a nostro avviso. Se solo almeno un po’ ciò accadesse sarebbe il là di un vero, agognatissimo cambiamento. Massimo Bran
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Muri Maestri
La bellezza e altre forme
Palazzo Cini mette in calle Piranesi/Basilico
Fondation Valmont per e con Venezia
La mostra era ormai pronta, avrebbe dovuto inaugurare al pubblico il 24 aprile scorso a Palazzo Cini, quando tutto si è fermato. Tuttavia le idee e la passione sanno anticipare i decreti e le necessarie modifiche di sistema – il sistema della fruibilità dei luoghi di cultura – sapendo stupire e soprattutto lanciando un fortissimo segnale. «In un momento storico in cui i luoghi dell’arte sono fisicamente ancora inaccessibili a causa delle restrizioni per contrastare la pandemia, un’arte nata per essere stampata come le incisioni di Piranesi e le foto di un maestro contemporaneo come Basilico, come è loro naturale si danno allo sguardo di chi cammina e si ferma per un attimo. L’arte anche in questo caso è un viaggiare senza spostarsi e travalica le barriere dei musei per incontrare e ispirare le persone anche in questo momento. E i muri labirintici della città diventano un atlante per questo possibile viaggio», afferma Luca Massimo Barbero, direttore dell’Istituto di Storia dell’Arte della Fondazione Giorgio Cini e curatore della mostra Piranesi Roma Basilico, ora promotore del progetto Palazzo Cini per le calli di Venezia che trasforma, a partire dal 12 maggio, per un mese, gli spazi per le affissioni della città in teatro naturale, mostra a cielo aperto unica e a prova di distanza
Una Fondazione è un organismo vivente, le cui molteplici attività sono tutte parte di un unico progetto ideativo. Definizione perfetta che descrive Fondation Valmont che, dopo una prima fase temporanea corrispondente alle Biennali 2015 e 2017, ha inaugurato nel 2019 la propria sede permanente a Venezia in un palazzo del XVI secolo, Palazzo Bonvicini. Degno erede di una grande stirpe di collezionisti d’arte, esteti e mecenati, Didier Guillon, presidente della Fondation Valmont (pilastro del gruppo Valmont), ha sviluppato una grande passione per l’arte, una sua personalissima sensibilità che lo ha portato ad essere lui stesso un artista dal notevole talento, e al contempo un promotore di bellezza e cultura da condividere con Venezia in primis e con il mondo che la attraversa. Il legame con la città diventa così il centro stesso della Fondazione, motore primo da cui si sviluppano progetti circolari, dove la mostra è l’incontro tra lo stesso Didier Guillon, artisti e curatori – anche qui la scelta di affidare a Francesca Giubilei e Luca Berta di VeniceArtFactory la direzione curatoriale dei progetti espositivi dimostra una capacità di cogliere le voci più nuove, indipendenti e internazionali della città –. Questo confronto permette all’esposizione di penetrare gli spazi di Palazzo Bonvicini e di crescere insieme per giungere a un risultato unico e assolutamente originale. Per permettere questa osmosi creativa la Fondazione ha costruito per gradi anche gli spazi stessi, restaurando la parte monumentale – modanature cesellate che ornano le pareti, affreschi luminosi, pavimenti con mosaici lussureggianti – trasformandola in un luogo espositivo perfetto e inaugurando quest’anno anche un nuovo progetto del gruppo
sociale. L’arte antica si appropria dei linguaggi del contemporaneo, non solo nell’idea stessa della mostra e cioè nel mettere a confronto la Roma antica delle incisioni di Piranesi e quella contemporanea delle fotografie di Gabriele Basilico, ma anche nelle modalità di fruizione, rubando alla strada l’idea di una guerilla di visioni e di bellezza. La poesia urbana di Roma fatta di luoghi simbolici della città eterna rimbalza così dalle vedute realizzate nel ‘700 dall’incisore veneziano alle fotografie di Basilico, realizzate con le stesse angolazioni. La mostra è stata ideata per celebrare i 300 anni dalla nascita di Giambattista Piranesi (Venezia, 1720 – Roma, 1778), svelando al pubblico non solo 25 stampe scelte dal corpus integrale conservato nelle collezioni grafiche della Fondazione Giorgio Cini, ma anche una selezione inedita del lavoro del grande fotografo paesaggista, commissionatogli dalla Fondazione Cini stessa nel 2010 in occasione della mostra Le arti di Piranesi. Basilico, ispirato dalle celebri pagine che la scrittrice Marguerite Yourcenar dedicò al Piranesi agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso, ripercorre con la macchina fotografica i luoghi delle vedute piranesiane restituendone la loro straordinaria modernità. www.cini.it
© Quentin Legallo
Valmont che diventa spazio e cioè Les Résidences Valmont – che apriranno a Verbier (2020), Hydra (2021), Venezia (all’ultimo piano di Palazzo Bonvicini, 2022) e Barcellona (2023) –, luoghi dove un pubblico ampio potrà vivere in esclusiva l’esperienza unica Valmont che mette in relazione l’arte, la bellezza e l’ospitalità. Queste Résidences saranno inoltre un crocevia per artisti locali e internazionali, invitati a creare ciò che è art for art’s sake. La Fondation Valmont è quindi parte attiva della scena artistica veneziana attraverso progetti con e per la città: Venetian Love, la nuova mostra che vede protagonisti Aristide Najean, Silvano Rubino e Didier Guillon sul tema della bellezza universale in un serrato confronto di forma e contenuto, la cui apertura è stata rinviata al 18 maggio causa lockdown, e Alice in Doomedland, terzo appuntamento d’arte contemporanea del ciclo ispirato alle fiabe in occasione della
Biennale Arte, in programma per il 2021. Progetti che sono una risposta concreta all’appello per una Venezia rinnovata, dove la cultura e l’arte devono assumere il ruolo trainante e positivo per l’economia della città. Azioni importanti che si concretizzano, in momenti difficili come questo, in una sentita partecipazione alla trasformazione delle dinamiche socio-culturali nel contesto locale determinata dalla diffusione del virus. La Fondation Valmont ha deciso infatti di contribuire in prima persona mettendo in vendita opere d’arte della sua collezione – sei delle quali sono già state vendute –, il cui ricavato viene interamente devoluto al servizio sanitario della Regione del Veneto. L’arte dunque è profondamente utile e necessaria, oltre che coinvolgente e attrattiva, aiuta a capire i cambiamenti che avvengono a Venezia e nel mondo. Questa convinzione è la base delle attività della Fondation Valmont. fondationvalmont.com
La mostra, momentaneamente chiusa al pubblico in ottemperanza alle misure di contenimento del Covid-19, riaprirĂ nelle prossime settimane e sarĂ prorogata fino al 31 ottobre 2020.
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Felicità sospesa
La Casa dei Tre Oci prima, durante e dopo la quarantena Mai titolo fu più indicato di questo, L’invenzione della felicità, per descrivere il periodo che stiamo vivendo e per raccontare l’arte fotografica di Jacques Henri Lartigues, con le sue immagini rassicuranti e bellissime di un tempo passato, ma la cui sospensione diventa quasi tangibile e attualissima. Il tema della mostra ‘in corso’ alla Casa dei Tre Oci infatti sembra fatto apposta per rischiarare questi tempi speciali e difficili che stiamo vivendo. Sembra superfluo, forse fuori posto, parlare di felicità, invece sarebbe essenziale trovare un altro sguardo, un altro modo se non felice, almeno sereno, per guardare il mondo, esattamente come lo sguardo puro che Lartigue ha sempre avuto e che traspare osservando le foto esposte in mostra. E non a caso questo suo sguardo è arrivato a Venezia, una città che ha sempre avuto e ha urgentemente ora il desiderio e la necessità di ri-aprirsi verso il mondo e verso il bello che, poderoso, si osserva dalle finestre della Casa dei Tre Oci. Già, la Casa dei Tre Oci, che naturalmente chiusa nel rispetto delle disposizioni governative, ha in questi mesi continuato la sua attività sui canali social, facendo dell’hashtag #laculturanonsiferma un vero e proprio impegno civile. Con il contributo di tutto lo staff e in particolare di Denis Curti, consulente per i fondi fotografici della Fondazione di Venezia e direttore artistico della Casa dei Tre Oci, attraverso brevi video in programma il martedì e il sabato su Instagram e Facebook, è possibile entrare in mostra e soprattutto scoprire la figura sui generis nel panorama della fotografia mondiale di Lartigue. Fin da bambino inizia a scattare foto per diletto, con la macchina fotografica regalatagli dal padre, foto dei famigliari, del suo mondo, visto e rappresentato con la leggerezza di bambino. Vive una lunghissima vita che copre quasi un secolo, essendo nato nel 1894, e fino alla sua morte avvenuta nel 1986, testimonia con le sue opere il suo tempo. Le sue foto intime, piene di vita, a volte frivole e certamente gioiose, colpiscono soprattutto perché, dopo due guerre e un periodo di ripresa economica, vedere le immagini della vita della Belle Epoque, le bellissime donne ritratte a passeggio, l’attenzione ai dettagli della moda, pareva al tempo stesso anacronistico e tuttavia pieno di fascino. Questo suo occhio speciale rivolto alle belle donne della borghesia parigina – fascinose, eleganti, quasi regali – è un tratto distintivo della sua arte. La mostra si svolge in ordine cronologico, perché si è voluto in parte sfatare il suo marchio di fotografo del beau vivre del mondo dorato in cui è vissuto e inoltre mettere in evidenza il suo percorso durato tutta una vita. Nonostante gli inizi precoci, infatti Lartigue, noto soprattutto come artista e pittore, è scoperto come fotografo solo in tarda età, quando nel 1963 John Szarkowski, nuovo direttore del MOMA, gli dedica una mostra molto importante. Le sue foto sono di una modernità incredibile e a volte
Dani Lartigue, Aix-les-Bains, agosto 1925. Photograph by Jacques Henri Lartigue © Ministère de la Culture (France), MAP-AAJHL
surreali. Quando si dice “fare i salti di gioia”, ecco, Lartigue riesce perfettamente a rendere questa espressione: nei suoi scatti le persone sembrano levitare, saltare, un po’ come le foto in voga ai nostri giorni, amate dai ragazzi che saltano davanti ai monumenti, le immagini sembrano ‘muoversi’ davanti ai nostri occhi, si sente quasi il rombo dei motori delle corse automobilistiche, il fruscio della seta degli abiti delle signore a passeggio, il suono dell’acqua, il volo dei gabbiani. Con una franchezza sfrontata ritrae la moglie seduta sul gabinetto durante il loro viaggio di nozze, con la stessa leggerezza con cui ci mostra Picasso a torso nudo, una bellissima ragazza che emerge da una piscina, un ballo a Vichy. Sono presenti celebri ritratti come quello di Federico Fellini sul set de La città delle donne e quello di Giscard d’Estaing, che nel 1974 lo vuole per la sua foto ufficiale. Ferdinando Scianna ha detto che Lartigue è stato, finora, il solo enfant prodige della storia della fotografia. La fotografia era bambina e Lartigue era bambino con la fotografia. Lartigue faceva sempre seguire la sua firma da un piccolo disegno di sole: «È per questo che ho fatto fotografie per tanti anni: per approfittare di questi meravigliosi regali del caso». Ha dato senso a questa invenzione della felicità, ha scelto con le sue foto i momenti che meritavano di essere vissuti, quelli felici. Deve essere proprio vista questa mostra e per permettere ciò a più persone possibili la Fondazione di Venezia sta
pensando già alla fase due, alla riapertura delle sue realtà culturali dopo l’emergenza sanitaria di queste settimane: l’idea è di introdurre un sistema di audioguide via podcast completamente gratuito, disponibile per tutti i visitatori a partire proprio dall’esposizione alla Casa dei Tre Oci. Accedendo dal proprio smartphone – tramite un sistema di QR code – a una piattaforma online dedicata, il visitatore avrà la possibilità di scaricare un programma audio che consentirà di ascoltare tutte le informazioni relative ai contenuti in mostra, dal racconto del percorso espositivo agli approfondimenti relativi alle singole opere, realizzati direttamente dai curatori delle mostre o da voci autorevoli del panorama culturale veneziano, senza dover usare le audioguide tradizionali o partecipare a visite guidate collettive (soluzioni non più adatte alla necessità del distanziamento sociale e alla non promiscuità dei dispositivi) e avvalendosi, grazie a questa formula, di uno strumento esclusivamente personale per un’esperienza di visita su misura. «Questo periodo di difficoltà per il Paese e per il nostro territorio – dichiara Giovanni Dell’Olivo, direttore della Fondazione di Venezia – può e deve costituire una risorsa per ripensare anche il mondo della cultura e le sua modalità di fruizione tradizionali. In attesa delle prossime prescrizioni del Governo, ci stiamo muovendo per gestire al meglio la fase di riapertura delle realtà che fanno capo alla Fondazione introducendo elementi di innovazione culturale e tecnologica che rispondono però a una esigenza di innovazione sociale». Maria Laura Bidorini www.treoci.org
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Future Perfect These are definitely uncertain times and we are all in this together by sharing feelings of confusion, anxiety and stress bringing to more positive ones such as curiosity and interest on what’s to come next. The second batch is definitely the best part to focus in order to gather positive outcomes from a really unsettling moment in our lives. Changing our entire life schedule from one day to another, working from home and being in a forced isolation isn’t easy but I wanted to outline a few digital initiatives that have made these days better. Technology has given us means to feel connected although far and the digital world gives us opportunities every day making us feel united in this and helping each other and our world. Fashion is trying to find paths to be able to continue acting during this lockdown. Most of the celebrity driven events such as the Cannes Film Festival have been cancelled or postponed to the next year. Last week’s highlight came across when amfAR and Carine Roitfeld joined forces to recreate the star studded evening through a digital fashion show streaming on Youtube and starring the usual gorgeous models such as Adriana Lima, Alessandra Ambrosio, Karen Elson and Isabeli Fontana to name a few. Fashion Unites, a special CR Runway global event with amfAR Against Covid-19, where AmfAR focused on raising funds to fight Covid-19, while continuing its research on cures against AIDS. It was really entertaining to watch these goddesses walking through their own catwalk in their own homes, dressed up by themselves for the first self-filmed fashion show. It was uplifting to feel part of this together and to further understand how we can all still be connected although differently. A similar approach brought me and some colleagues from the fashion industry to work on a Digital Red Carpet event available for whoever wanted to participate from home. Donations support the International Committee of the Red Cross Covid-19 Response Fund, focusing on helping people in war-torn regions where the usual precautions to the pandemic are very limited. The idea was to reimagine the traditional Charity Gala format into a virtual global fundraiser for an industry in lockdown. Artists have also been involved in supporting Covid-19 Solidarity Response Funds through their work. In London, Sir Michael Craig-Martin designed a “Thank you NHS” poster to colour in and display as an appreciative show of support for the work of NHS staff, which went viral across the city – creating an activity for adults and children to do together. While all museums and galleries were forced to shut their doors, most of them seized the online opportunity to launch viewing rooms and virtual tours – making the digital world the new way to consume art, from the comfort of each one’s sofa. At this point, without the limit of time or place - art is available to everyone at any moment – this is something that we can’t dislike, until we return to semi normality – it isn’t bad at all? I feel that whilst we are all suffering this pandemic, we need to learn how to see light through darkness and be productive in creating and exchanging ideas, culture through the means we have available – this might set a new trend and might open bigger doors which we would have not opened otherwise. Laura Piccinetti
Trame (im)perfette
Alla Guggenheim si incontrano Artisti e Maestri Nei momenti difficili dicono che emerga il carattere e proprio il carattere anzi la forte identità appare chiara nella risposta della Collezione Peggy Guggenheim al lockdown. Il dare del tu agli artisti, elemento distintivo e unico della mitica fondatrice americana, non poteva che essere il filo rosso della programmazione online del Museo, continuando a distanza il dialogo con chi ama l’arte. Incontri è, infatti, un ciclo di cinque lezioni di un’ora ciascuna di storia dell’arte a pagamento, sulla piattaforma Zoom, riservate ai soci del Museo in programma il 4, 11, 18, 25, 28 maggio alle ore 18. Alessandra Montalbetti, Pinacoteca di Brera, che in questi ultimi sei anni ha ideato e condotto le Guggenheim Art Classes, ha accettato
di misurarsi a distanza proponendo incontri alchemici e originali tra alcuni artisti contemporanei e i grandi maestri del passato, lontani nel tempo e molto diversi nella tecnica, ma ugualmente fondamentali: Jasper Johns e Edouard Manet; Cy Twombly e William Turner; Anthony Caro e Duccio da Boninsegna; Francesco Clemente e Tiziano Vecellio; Anselm Kiefer e Tintoretto. La straordinarietà e la particolarità di questa proposta consiste nel sapere costruire la trama di questi incontri inspiegabili per logica, ma avvicinabili per amore. Un dipinto appeso in un museo, la riproduzione di un’opera scoperta in una particolare fase della vita, frammenti di culture lontane, che in quell’istante hanno saputo ri-
spondere agli artisti che ne erano in cerca. Un invito alla maniera di Peggy rivolto a tutti i soci e a tutti coloro che per l’occasione invitiamo ad associarsi per sostenere il Museo come luogo di conoscenza, benessere, bellezza, scambio e quindi d’incontro. www.guggenheim-venice.it
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Un cielo più grande sopra la testa Teatrino Grassi digital offre spunti di creatività per tutti! Per il Teatrino di Palazzo Grassi “chiusura” non significa sospensione delle attività, ma trasformazione della programmazione in versione digitale. In collaborazione con diversi ospiti illustri, negli spazi virtuali del Teatrino vanno in scena una serie di atelier digitali, laboratori rivolti all’intera community senza limiti d’età, un invito a sperimentare il quotidiano con creatività, sviluppando un’attitudine poetica. Dopo l’illustratrice Olimpia Zagnoli, il team di studio saòr, il designer Giulio Iacchetti e la scrittrice Ryoko Sekiguchi, protagonisti del primo ciclo di laboratori durante tutto il mese di aprile, a partire dal 7 maggio i nuovi appuntamenti sono in compagnia
del designer, artista e curatore Erik Kessels, autore di Che sbaglio! Come trasformare i fallimenti in successi mandando tutto all’aria (Phaidon, 2017), che in collaborazione con MiCamera ha elaborato per il pubblico digitale di Palazzo Grassi Favolosi Fallimenti, un workshop basato sul riconoscimento dell’errore come potenziale spunto creativo; seguono i laboratori del fotografo Marco Cappelletti, con le sue visioni nitide del contemporaneo, e dell’eclettico illustratore Emiliano Ponzi, che trasforma le parole in immagini. Tutti e tre sono accomunati dalla sperimentazione di linguaggi sempre nuovi, resi con tecniche diverse, ma con la stessa voglia di raccontare storie attraverso parole, fotogra-
fie o illustrazioni. Una sintesi tra creatività, esperienza e comunicazione. Ogni settimana, sui canali Instagram e Facebook e sul sito di Palazzo Grassi – Punta della Dogana, attraverso indicazioni semplici, il pubblico è invitato a condividere con gli hashtag #palazzograssiatyours e #openlab i propri elaborati, partecipando alla creazione di nuovi immaginari. www.palazzograssi.it
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Manifesti contemporanei
Metamorfosi del Moderno
La community di Ocean Space “ripensa” la Città Riflessa
Germano Celant, la rivoluzione che voleva diventare arte
Ocean Space e l’organizzazione madre TBA21-Academy hanno scelto Venezia come città mondo, luogo ideale non solo per la sua bellezza ma soprattutto per la sua specificità legata alla sua cultura acquatica. Il luogo, che sia fisico, la chiesa di San Lorenzo a Castello, o virtuale, web e social, deve essere uno spazio di confronto e dibattito, di incontro di idee e pensieri e naturalmente di persone, con al centro Venezia, La Città Riflessa. Una aggregazione di esperienze artistiche, scientifiche, letterarie, politiche che mira a rafforzare la consapevolezza del cambiamento affrontando tematiche ambientali e attraverso queste raccogliere idee per il nostro futuro. Proprio per questo è nato Nowtilus. Storie da una laguna urbana del 21esimo
secolo, un programma di otto podcast originali condotti da Enrico Bettinello e curati insieme ad Alice Ongaro Sartori, in onda ogni due settimane, sempre di venerdì, su TBA21−Academy Radio. Dal 24 aprile gli ascoltatori sono entrati in contatto con visioni e storie di abitanti di Venezia: dopo Tiziano Scarpa e Sara Marini, Nicola di Croce e Mariateresa Sartori (22 maggio), Luigi Cavaleri, Fabiana Corami e Beatrice Rosso (5 giugno) e molti altri. La città ha riscoperto un forte senso di comunità, i ritmi rallentati hanno fatto spazio alla riflessione e alla consapevolezza che il futuro siamo noi. www.ocean-archive.org
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Oggi vi raccontiamo che... Il Muve condivide i tesori delle sue Collezioni Presi dalla frenesia, che dovrà passarci inevitabilmente, di opening e sempre nuove esposizioni temporanee, abbiamo dimenticato o quanto meno rimosso il patrimonio di storia, arte e cultura che Venezia offre. Un giacimento che sapientemente la Fondazione Musei Civici di Venezia, aderendo alla campagna #IoRestoaCasa, ha saputo valorizzare in questo periodo di forzata chiusura. Al motto «Se non potete venire nei musei, sono i musei a venire da voi», ogni due giorni una newsletter offre al lettore una storia, un’opera, un gioco, una curiosità o un riferimento occasionale che permette di penetrare l’immenso patrimonio artistico dei musei cittadini: dal Correr a Ca’ Pesaro,
da Ca’ Rezzonico a Palazzo Ducale, dal Museo del Vetro a quello del Merletto, da Palazzo Fortuny a Palazzo Mocenigo, dal Museo Storico Navale a Casa Goldoni e alla Torre dell’Orologio, l’equipe del Muve ha scandagliato le proprie collezioni restituendole in forma assolutamente accattivante, partendo da storie o opere note, affiancandole ad altre dimenticate e arrivando, nel fluire di una newsletter, a declinarle al contemporaneo. Un appuntamento atteso che ha dimostrato ancora e quanto l’arte sia vita e la vita sia anche, arte. www.visitmuve.it
Germano Celant sembra un personaggio senza tempo, immediatamente riconoscibile per il suo modo di essere e di apparire, forte ma non abbastanza per combattere questo inesorabile virus. È mancato all’età di 80 anni a Milano il 29 aprile scorso. Molto è stato scritto in sua memoria nei giornali nelle scorse settimane, molto si continuerà a scrivere nei libri, molto anzi moltissimo rimane vivo delle sue mostre il più delle volte epocali, come le ultime di Celant che hanno avuto Venezia come protagonista, diretta o indiretta: nel 2019 la grande retrospettiva alla Fondazione Prada a Ca’ Corner della Regina dedicata a Jannis Kounellis e la personale di Emilio Isgrò alla Fondazione Cini a San Giorgio, a febbraio 2020 la mostra su Emilio Vedova nella sala delle Cariatidi a Palazzo Reale a Milano. Abiti total black e anelli d’argento con grandi pietre azzurre, aria severa, autorevole. Ricorda Alfredo Bianchini, presidente della Fondazione Emilio e Annabianca Vedova, di cui Celant era stato curatore artistico e scientifico: «Se c’era una dote di Germano Celant che sembrava essere finora troppo a lungo sfuggita, era forse la sua capacità di entusiasmarsi,
quella sua passionalità ammantata di gelo, come la definisce Isgrò. Un uomo che sapeva studiare, vedere, girare il mondo e proprio per questo riusciva a sentire sempre il polso dell’arte». “Critico” era una definizione che gli stava stretta, così come quella di inventore dell’Arte povera, di cui tuttavia va considerato il padre. È stato teorico, talent scout, curatore tra i pochi in grado di diffondere il made in Italy nel mondo. Fondamentale in questo senso è stata la mostra The Italian Metamorphosis 1943-1968 al Solomon R. Guggenheim di New York nel 1994 (con Vittorio Gregotti che curava la sezione “Architettura”). Ma l’elenco delle esposizioni firmate è lunghissimo e tocca gli spazi museali più importanti del Pianeta: dallo stesso Guggenheim, di cui è stato senior curator, al Centre Pompidou di Parigi, passando per la Biennale d’Arte di Venezia, di cui fu direttore nel 1997, e negli ultimi anni curando i progetti di Fondazione Prada a Milano e Venezia. Nel 2013 si era concesso il lusso di un remake spregiudicato: a Ca’ Corner della Regina aveva riallestito When Attitudes Become Form, una mostra di Harald Szeemann del 1969, che aveva segnato un
prima e un dopo nel panorama del secondo Novecento. In una intervista in occasione dell’ultima mostra milanese di Emilio Vedova, Celant così raccontava il suo modo di procedere nella proposizione al pubblico del suo percorso espositivo: «Tutte le mostre hanno una teatralità e gli attori sono le opere. Quindi serve mettere insieme tre momenti: lo spazio, le opere come attori e gli attori visitatori per farli convivere al fine di creare un elemento emotivamente forte. Emilio Vedova scaricava la sua energia nelle opere e come si può riportare questo al pubblico? Ecco questo è il tentativo della mostra [...]». Certo Celant incuteva rispetto e, forse in modo del tutto involontario, una certa soggezione, forse era colpa di quella sua capacità – ormai universalmente riconosciuta – di grande anticipatore che sarà, almeno per ora, difficile da colmare, o forse per la consapevolezza che un suo giudizio poteva decretare l’ascesa o meno di un nuovo artista. «Al di là della sua erudizione – ricorda Larry Gagosian –, aveva una rara sensibilità. Era capace di rendere vivo il lavoro di un artista, svelando le sue intenzioni, rinnovandolo, facendocelo vedere con occhi nuovi».
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A proposito di noi! Una rete attiva, solida e non a caso al femminile, costantemente connessa, il cui filo conduttore è l’esperienza, la ricerca e la passione. Nove gallerie d’arte contemporanea a Venezia – Alberta Pane, Beatrice Burati Anderson Art Space & Gallery, Caterina Tognon, La Galleria Dorothea van der Koelen, Ikona Gallery, Marignana Arte, marina bastianello gallery, Michela Rizzo e Victoria Miro – si sono unite in un progetto comune Venice Galleries View per valorizzare il loro lavoro e i loro artisti. Un circuito virtuoso che ora diventa anche virtuale, dimostrando come identità, visioni, idee, obiettivi e network siano energia pura particolarmente in momenti difficili come questo. Il nuovo sito www.venicegalleriesview.com e una serie di progetti, primo fra tutti Storage, che permette ai visitatori di scoprire ogni settimana nove artisti e nove loro opere d’arte, scelte e presentate da ciascuna galleria, provenienti dai depositi delle stesse. Un modo per superare le temporanea impossibilità di poter visitare le gallerie e al contempo per valorizzare opere di mostre passate o magari mai esposte prima, nonché la possibilità di approfondire il profilo e l’offerta di ciascuna galleria. Abbiamo voluto presentare una selezione di opere proposte in queste settimane (10 maggio). An active, solid, and (not by chance) woman-made network is perpetually connected thanks to the threads of experience, research, and passion. Nine contemporary art galleries in Venice – Alberta Pane, Beatrice Burati Anderson Art Space & Gallery, Caterina Tognon, La Galleria Dorothea van der Koelen, Ikona Gallery, Marignana Arte, marina bastianello gallery, Michela Rizzo, and Victoria Miro – came together for a common cause in project Venice Galleries View. The project is a real and virtual circuit that shows how identities, visions, ideas, goals, and networks can be energizing in moments as hard as the ones we are living now. A new website, www.venicegalleriesview.com, and a series of projects allow visitors to discover every week nine artists and nine new pieces of art, selected by each gallery. A way to pay a virtual visit to art galleries and, at the same time, appreciate art of past exhibitions and get to know new galleries. We would like to present a selection of art presented in the current week.
GALLERIA ALBERTA PANE
MICHELE SPANGHERO Monologue Gran Teatro Fenice, Venezia, 2015
Questa fotografia del Gran Teatro Fenice a Venezia è parte della serie Monologues, che documenta in modo astratto le registrazioni effettuate nei teatri, mostrando le sale vuote in cui l’unico elemento visivo di interferenza sono dei microfoni, solitari sul palco e decentrati rispetto al punto prospettico. I soggetti delle immagini sono gli antichi teatri, ma i microfoni, come un alter ego dell’artista, sono rivolti verso la platea vuota in ascolto delle voci silenziose delle sale vuote.
I lavori di Michele Spanghero combinano il suono e le arti visive con un’approfondita ricerca concettuale e sono definiti da un approccio trasversale e un’estetica essenziale. L’impulso creativo nasce per l’artista come reazione all’enorme quantità di dati che ci circonda. Egli cerca di stimolare il coinvolgimento degli spettatori alterando sottilmente la loro percezione. L’artista afferma: «Il silenzio, la risonanza acustica e le variazioni impercettibili del suono nello spazio e nella materia sono il nucleo della mia pratica sonora. Indago la relazione tra spazio e percezione attraverso la fotografia, la scultura e il suono». Galleria Alberta Pane Calle dei Guardiani, Dorsoduro 2403H www.albertapane.com
BEATRICE BURATI ANDERSON ART SPACE & GALLERY
ANITA SIEFF Esplosioni, 2009
«Il principio dell’azione è l’agguato che l’esperienza fa su chi si lascia vivere». Esplosioni, 2009 è un’opera su carta dedicata allo studio della forma e quindi del principio dell’azione. Implicita è la ricerca sulla natura del desiderio che ne è il motore e la considerazione che l’espresso è causa dell’intento e non viceversa. La tensione del desiderio fa esplodere brani di carta, proiettandoli nello spazio contiguo, come se possedessero una coscienza e, ancor più, come se decidessero di sradicarsi con l’azione dalla cornice di senso creata dal loro pensiero. È un moto che è un azzardo perché lascia alle spalle il proprio contesto, e si mette nelle maglie del caso alla ricerca del proprio. È come lasciare la sicurezza di una appartenenza per andare verso il proprio destino personale.
Il terreno dell’indagine di Anita Sieff è l’amore come sentimento da scoprire, come motivazione ad agire e nella sua implicazione di impegno del genere umano ad evolversi in termini di coscienza. È l’andare oltre se stessi per incontrare l’altro, che crea la relazione. La relazione è dunque lo spazio comune, quel laboratorio dove, senza perdere la nostra identità, aspiriamo alla comunione. A partire dal 1985, dopo la laurea in lingua e letteratura tedesca all’Università di Ca’ Foscari Venezia, con una tesi sull’estetica contemporanea, l’artista si è dedicata alle arti visive usando performance, suono, fotografia, film, video, scultura, disegno e scrittura. Vive tra Venezia e New York. Beatrice Burati Anderson Art Space & Gallery Corte Petriana, San Polo 1448 www.beatriceburatianderson.com
CATERINA TOGNON
JAROSLAVA BRYCHTOVÁ & STANISLAV LIBENSKÝ Head T, 2000
Jaroslava Brychtová è mancata l’8 aprile 2020 all’età di 95 anni; artista acclamata a livello internazionale, ha sempre lavorato a quattro mani con il compagno di vita e di lavoro Stanislav Libenský. Rappresentano una delle prime coppie di artisti che lavorano e firmano a due nomi. Dalla fine degli anni ‘50 fino al 2002, anno di morte di Libenský, i due crearono non oggetti, come era solito fare con il vetro, bensì un ambizioso corpus di sculture e architetture. Alcuni loro lavori pesano più di 13 tonnellate a sono alti fino a 5 metri. Libenský realizzava i disegni, Brychtová li traduceva e interpretava tridimensionalmente, usando modelli di argilla per definire volumi, forme e superfici. Si presentano con rilievi al negativo, con diversi spessori del vetro e con tagli che consentono alla luce di penetrare e di creare la forma. Brychtová, seguendo le orme del padre, sperimenta la tecnica del casting sfruttando la trasparenza del vetro. Nel corso dei decenni, mentre cresceva la loro reputazione internazionale e il loro lavoro veniva esposto in musei come il MET (NY) e il Victoria & Albert Museum (Londra), in Boemia la generazione successiva di artiste donne trovava in Lei un grande esempio professionale e artistico.
LA GALLERIA DOROTHEA VAN DER KOELEN
TURI SIMETI 3 ovali blu, 2017
Il gioco fra forma, luce e ombra crea uno spazio pieno di silenzio, bellezza e armonia. La stessa tela crea un movimento migliore grazie all’ellisse. Il movimento che si instaura attraverso la percezione, riveste un ruolo centrale nell’opera di Simeti. Il movimento e il ritmo che sembrano dilatarsi oltre i limiti della tela, ma anche il movimento dell’osservatore che viene invitato a spostarsi per cercare sempre nuove prospettive di esplorazione. Un’opera che ci lascia la completa libertà di sviluppare impressioni e riflessioni personali.
Jaroslava Brychtová nacque nel 1924 a Železný Brod, una piccola città nel nord della Boemia da sempre dedicata alla produzione vetraria, dove trascorse quasi tutta la sua vita. Suo padre era scultore e sperimentatore in ambito vetraio e fondò una importante scuola, tuttora attiva. Brychtová seguì il padre nelle sue ricerche, poi studiò scultura all’Accademia delle Arti, dell’Architettura e del Design e ancora all’Accademia di Belle Arti, entrambe a Praga. Terminati gli studi torna a Železný Brod, dove nei primi anni ‘50 conobbe Stanislav Libenský, direttore della scuola del vetro. Nacque subito una profonda comunione artistica che diventò presto unione di vita.
Nato ad Alcamo (Sicilia) nel 1929, Turi Simeti intuisce fin da giovane il suo destino artistico. Dipinge di nascosto, perché nell’ambiente che lo circonda, una tale attività è considerata “eccentrica”. Nel 1958 si trasferisce a Roma, dove incontra Alberto Burri, eccezionale artista del ventesimo secolo. Dopo l’incontro con Burri, Simeti decide di concentrarsi sul processo di riduzione e trasformazione della materia e della forma. Le ellissi, che ha trovato attraverso un processo di rielaborazione, diventano, a partire dal 1962, forme perfettamente ritagliate di carta, cartone, tela o legno. Nel 1965, Turi Simeti è invitato a partecipare alla collettiva Zero Avantgarde, nello studio milanese di Lucio Fontana. Nel corso del tempo, l’artista ha elaborato un vocabolario artistico ridotto e versatile. La continua combinazione di luce, ombra, colore, ellissi, crea un campo vibrante e dinamico all’interno del quale le singole componenti sembrano reagire alle varie frequenze. Turi Simeti vive e lavora a Milano.
Caterina Tognon Corte Barozzi, San Marco 2158 www.caterinatognon.com
La Galleria Dorothea Van Der Koelen Calle Calegheri, San Marco 2566 www.vanderkoelen.de
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IKONA GALLERY
FRANCESCO BARASCIUTTI Composizione n.1, Venezia 03-03-2020
Spazialità minima è un progetto inedito dedicato ai temi della rappresentazione di luce e ombre per la creazione dello spazio. In questa nuova sperimentazione, Barasciutti abbandona il linguaggio classico della documentazione visiva per addentrarsi nella lettura d’interazione tra carta, fotografia, colore e luce, rendendo omaggio alle qualità intrinseche della materia fotografica e reintroducendo l’imprevedibilità della composizione attraverso materiali semplici, attraverso i quali definisce una nuova idea di spazialità. Le immagini nascono da un processo manuale e da un attento esercizio dello sguardo che conducono al purismo della materia e della luce. Queste nuove opere rifiutano il loro essere solo fotografie e sfuggono all’inesorabilità prospettica connessa al mezzo tecnico impiegato, e ci appaiono come immagini inclassificabili tout court, ricorrendo a un linguaggio espressivo che le approssima più a certe esperienze pittoriche del De Stijl. Viene azzerato lo scorcio prospettico e il risultato è perturbante, pur nella sua assoluta semplicità.
MARIGNANA ARTE
GIUSEPPE ADAMO Senza titolo, 2019
La tecnica del siciliano Giuseppe Adamo costituisce un approccio originale alla pittura, impossibile da associare a modelli evocativi e appartenente a un terreno ibrido di conflitto tra figurazione e astrazione. Caratterizzata da velature, trasparenze e variazioni tonali, la sua pittura ammalia e inganna, proiettando lo spettatore in un trompe-l’oeil senza architetture e scenografie, portandolo a domandarsi se si tratti di superfici tridimensionali, o meno. Ora vellutata ed evanescente, ora ispida e increspata, essa infatti imita superfici e pattern propri della natura e dei suoi paesaggi, salvo poi rivelare superfici pittoriche lisce, totalmente prive di spessore materico.
MARINA BASTIANELLO GALLERY
PAOLO PRETOLANI Kynodontas, 2020
Kynodontas ovvero “dente canino”, fa riferimento al titolo di un film del 2009 diretto da Yorgos Lanthimos, in cui i figli di una ricca famiglia vengono cresciuti all’interno della loro grande abitazione, senza contatti con il mondo esterno. Vivono questa esperienza irreale attraverso un’imposizione forzata, che non ricorre all’uso della violenza. Il padre ha detto loro che i ragazzi possono uscire solo quando perderanno i loro denti canini.
GALLERIA MICHELA RIZZO
FRANCESCO JODICE Miss Atomic Bomb, 2014
Miss Atomic Bomb rappresenta una pin-up, figura scelta per il suo caratteristico glowing gaze – sguardo scintillante e raggiante. La donna, nel dettaglio, indossa, quasi fosse un vestito, l’iconica nuvola nucleare a forma di fungo: il risultato è un forte contrasto tra le espressioni del volto della donna – di ipotetica gioia – e il rimando poco celato agli orrori del secolo scorso. La scena ha come sfondo un deserto, tipico paesaggio desolato del famoso Far West americano, quasi la donna stesse invitando giocatori d’azzardo e clienti dei motel a partecipare all’evento. L’opera fa parte della serie West (2014-2018) dove l’artista, da sempre attento ai movimenti e alle trasformazioni dell’oggi, prende spunto da due eventi della storia recente, in particolare degli Stati Uniti, che hanno segnato il primo decennio del nuovo millennio: l’attacco alle Torri Gemelle del 2001 e il crollo di LehmanBrothers del 2008, che hanno messo in totale crisi il modello americano ed il sogno americano. Jodice prende spunto da questi due drammatici avvenimenti e dalle loro conseguenze politiche, economiche, culturali e sociali per una personale rilettura della realtà e dell’immaginario statunitense.
VICTORIA MIRO VENICE
ALEX HARTLEY If only it could be this way, 2011
Questo pezzo unico è parte di una serie di 19 fotografie che presentano la continua indagine di Alex Hartley sui temi dell’architettura distopica, gli insediamenti secolari e la costruzione di un santuario come intrinseco impulso per rifugiarsi dal mondo. If only could be this way mostra una scena nel deserto Mojave che Alex catturò mentre si era perso, senz’acqua rimasta e con una crescente sensazione di panico dentro di sé. Ogni lavoro in questa serie è reso unico grazie all’aggiunta di complessi e dettagliati modelli architettonici su scala, progettati direttamente sulla superficie delle stampe, in questo lavoro si tratta di un semplice e vuoto edificio americano. Queste strutture attentamente costruite e i loro piani fotografici presentano narrative che alludono alla creazione di qualcosa che si è rivoltato contro di noi ed è diventato inabitabile. Hartley ritorna alle sue prime linee di indagine: comunità, appartenenza e isolamento, contro-cultura versus stabilità, con una disperata ricerca di occupare paesaggi inabitati e lande selvagge.
Francesco Barasciutti nasce a Venezia nel 1969. Figlio d’arte e fotografo professionista dal 1987, si dedica al ritratto, allo still-life e al reportage. I suoi lavori sono stati esposti alla 46. Biennale di Venezia del 1995 ed alla 54. Biennale di Venezia del 2011. Nel 1998 vince il premio Kodak European Portrait Gold Award come migliore fotografo ritrattista d’Italia. Collabora con diverse riviste internazionali. Le sue fotografie sono conservate presso il National Portrait Gallery di Londra e nel Fondo Italo Zannier della Fondazione di Venezia.
Giuseppe Adamo (Alcamo, 1982) è giovane artista siciliano formatosi in quella straordinaria fucina creativa palermitana che negli ultimi decenni si è imposta all’attenzione nazionale per la ricerca in ambito pittorico. Un trattamento della tela, quello dell’artista, che pone l’osservatore davanti a un’intrigante sinestesia percettiva in cui tutto si confonde, spingendolo a cercare una personalissima e stimolante sintesi visuale. Forme astratte, o c’è un aggancio alla realtà? Superfici pittoriche lisce e levigate, o c’è spessore materico? Sono questi gli interrogativi che Adamo innesca con le sue sensuali partiture, individuando nella dissimulazione, nell’ambiguità e nella mimesi i territori elettivi del suo atto creativo e del suo interfacciarsi con il mondo.
Paolo Pretolani è nato ad Assisi nel 1991. Ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Venezia. L’artista afferma: «Ho poca fiducia nella coerenza e nella congruenza come strumenti che costruiscono il linguaggio e l’identità di un artista. Lo vedo come una manifestazione aperta – senza un ordine del giorno – in cui l’obiettivo non è quello di stabilire le linee guida per un argomento, ma è, invece, creare un terreno fertile su cui sviluppare parti analitiche e poetiche, fuori tema, su un ritmo lento – che è quel vecchio, linguaggio impersonale della pittura».
La ricerca artistica di Francesco Jodice (Napoli, 1967) indaga i mutamenti del paesaggio sociale contemporaneo, con particolare attenzione ai fenomeni di antropologia urbana e alla produzione di nuovi processi di partecipazione. I suoi progetti mirano alla costruzione di un terreno comune tra arte e geopolitica, proponendo la pratica artistica come poetica civile.
Nato nel 1963, Alex Hartley si è laureato presso il Royal College of Art nel 1990 e vive e lavora tra Londra e Davon. I suoi lavori sono stati esposti largamente sia a livello nazionale che internazionale. Dal 1997 Hartley è stato impegnato in collaborazioni site-specific con architetti quali David Adjaye Associates and Alford, Hall, Monaghan and Morris. Alex Hartley avrebbe dovuto prendere parte al progetto di residenza d’artista presso la Galleria Victoria Miro di Venezia, nel maggio 2020.
Ikona Gallery Campo del Ghetto Nuovo, Cannaregio 2909 www.ikonavenezia.com
Marignana Arte Rio Terà dei Catecumeni, Dorsoduro 141 www.marignanaarte.it
marina bastianello gallery Via Pascoli 9/c, 30171 Mestre-Venezia www.marinabastianellogallery.com
Galleria Michela Rizzo Giudecca 800/q www.galleriamichelarizzo.net
Victoria Miro Venice Calle Drio La Chiesa, San Marco 1994 www.victoria-miro.com
For reservations : valentina.secco@evalmont.com
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Le più attese
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Mostre da non perdere a Venezia e in Italia, con qualche incursione in Europa COLLEZIONE PEGGY GUGGEHEIM | Venezia
MIGRATING OBJECTS Arte dall’Africa, dall’Oceania e dalle Americhe nella Collezione Peggy Guggenheim Fino 14 giugno (prorogata?)
La mostra mette in luce un episodio meno conosciuto ma decisamente significativo del collezionismo di Peggy Guggenheim. Passata alla storia per aver sfidato le convenzioni come collezionista e mecenate, e da sempre celebrata per la sua collezione d’arte moderna europea e americana, nel corso degli anni ‘50 e ‘60 Peggy Guggenheim inizia a guardare oltre i confini dell’Europa e degli Stati Uniti interessandosi all’arte dell’Africa, dell’Oceania e delle culture indigene delle Americhe. Trentacinque opere di arte non occidentale vengono esposte per la prima volta tutte insieme a Palazzo Venier dei Leoni rivelando un nucleo della collezione della mecenate raramente visibile al grande pubblico. www.guggenheim-venice.it PALAZZO GRASSI | Venezia
HENRI CARTIER-BRESSON Le Grand Jeu Date in corso di definizione
Ideata e coordinata da Matthieu Humery, la mostra mette a confronto lo sguardo di cinque curatori sull’opera di Cartier-Bresson (1908–2004), e in particolare sulla Master Collection, una selezione di 385 immagini che l’artista ha individuato agli inizi degli anni Settanta, su invito dei suoi amici collezionisti Jean e Dominique de Menil, come le più significative della sua opera. La fotografa Annie Leibovitz, il regista Wim Wenders, lo scrittore Javier Cercas, la conservatrice e direttrice del dipartimento di Stampe e Fotografia della Bibliothèque Nationale de France Sylvie Aubenas, il collezionista François Pinault, sono stati invitati a scegliere ciascuno una cinquantina di immagini, offrendo al pubblico una visione personale della fotografia e dell’opera di questo grande artista. www.palazzograssi.it PALAZZO GRASSI | Venezia
YOUSSEF NABIL Once upon a dream Date in corso di definizione
Mostra monografica dedicata a Youssef Nabil (Il Cairo, 1972): un’immersione libera nella carriera dell’artista attraverso sezioni tematiche che riproducono i suoi primi lavori fino alle opere più recenti. Realizzate con la tecnica tradizionale egiziana largamente utilizzata per i ritratti fotografici di famiglia e per i manifesti dei film che popolavano le strade de Il Cairo, le fotografie successivamente dipinte a mano da Nabil restituiscono la suggestione di un Egitto leggendario tra simbolismo e astrazione. La ricerca dei reperti identitari, le preoccupazioni ideologiche, sociali e politiche del XXI secolo, la malinconia di un passato lontano sono i soggetti che Nabil predilige nella sua ricerca artistica. www.palazzograssi.it PUNTA DELLA DOGANA | Venezia
UNTITLED, 2020 Date in corso di definizione
Caroline Bourgeois, Muna El Fituri e l’artista Thomas Houseago sono stati invitati a portare uno sguardo sulle opere della Collezione Pinault per concepire un progetto espositivo inedito. Ideata appositamente per gli spazi di Punta della Dogana, la
mostra è suddivisa in sale tematiche che presentano le opere di oltre 60 artisti, provenienti dalla collezione e da musei internazionali e collezioni private, con citazioni, ispirazioni e riferimenti tra lavori che spaziano dal Novecento a oggi, proposte secondo un dialogo basato su connessioni emozionali, sensoriali, visive e tattili. Spaziando tra diversi media, dalla scultura al video, dalla pittura alla fotografia, le opere esposte si articolano attorno alla ricostruzione dello studio di Houseago, all’interno della sala del cubo di Tadao Ando, con un’installazione site-specific. www.palazzograssi.it CA’ PESARO | Venezia
FABRIZIO PLESSI L’età dell’oro Settembre 2020
Gli ottanta anni di Fabrizio Plessi sono un racconto contemporaneo attraverso grandi installazioni storiche e nuovi lavori site-specific. Un omaggio emozionate a Venezia da parte dell’artista, ispirato dal tema dell’oro, materia fortemente simbolica e strettamente legata alla città. L’oro plasmato e declinato in diverse forme accompagnerà i visitatori nella scoperta della straordinaria produzione artistica di Plessi attraverso i decenni, fino alle grandi creazioni degli ultimi anni. L’energia creativa del Maestro dalla Galleria d’Arte Moderna giungerà a Piazza San Marco, dove dalle finestre del Museo Correr scorreranno fiumi digitali dorati a fronteggiare i sontuosi mosaici della Basilica. capesaro.visitmuve.it PALAZZO STROZZI | Firenze
TOMÁS SARACENO Aria Fino 19 luglio (prorogata?)
Artista visionario e poliedrico, la cui ricerca creativa unisce arte, scienze naturali e sociali, Tomás Saraceno invita a cambiare punto di vista sulla realtà e a entrare in connessione con elementi non umani come polvere, ragni o piante che diventano protagonisti delle sue installazioni e metafore del cosmo. In un percorso di opere immersive ed esperienze partecipative tra il cortile e il Piano Nobile, la mostra esalta il contesto storico e simbolico di Palazzo Strozzi e di Firenze attraverso un profondo e originale dialogo tra Rinascimento e contemporaneità: dall’uomo al centro del mondo, all’uomo come parte di un universo in cui ricercare una nuova armonia. www.palazzostrozzi.org PALAZZO REALE | Milano
GEORGES DE LA TOUR L’Europa della Luce Fino 27 settembre (prorogata?)
Mostra da non perdere innanzitutto perché dedicata a un artista che raramente si vede in Italia, questa è la sua prima monografica! Riscoperto solo a partire dal primo ‘900, sebbene rimanga ancora poco popolare tra il grande pubblico, Georges de La Tour è in realtà considerato dagli storici dell’arte uno dei più importanti pittori del Seicento europeo. Più di 30 opere, frutto di prestigiosi prestiti internazionali, permettono di scoprire
un artista dal talento sorprendente e inimitabile. I suoi quadri a tema notturno, in cui figure ombrose vengono illuminate da luci calde e fioche, sprigionano un fascino commovente. www.georgesdelatourmilano.it PALAZZO MADAMA | Torino
ANDREA MANTEGNA Rivivere l’antico, costruire il moderno Fino 4 giugno (prorogata?)
La grande esposizione vede protagonista Andrea Mantegna (Isola di Carturo, 1431–Mantova, 1506), uno dei più importanti artisti del Rinascimento italiano, in grado di coniugare nelle proprie opere la passione per l’antichità classica, ardite sperimentazioni prospettiche e uno straordinario realismo nella resa della figura umana. Sei sezioni che, tramite documenti, dipinti e proiezioni multimediali, affrontano le tappe più importanti della sua vita e della sua carriera. Un racconto che si dipana anche attraverso i capolavori di alcuni dei maggiori protagonisti del Rinascimento italiano, con cui l’artista ebbe occasione di rapportarsi: Donatello, Bellini, Correggio, Paolo Uccello e Antonello da Messina. www.palazzomadamatorino.it HAMBURGER BAHNHOF – MUSEUM FÜR GEGENWART | Berlin
MAGICAL SOUP Media Art from the Collection of the Nationalgalerie, the Friedrich Christian Flick Collection and Loans Autunno-inverno 2020
La musica ha il potere di creare mondi immaginari. Il suono può essere usato per scuotere fisicamente lo spazio. E le immagini possono evocare spazi uditivi che si estendono oltre una tela o uno schermo. Una collettiva attesissima che esplora il rapporto tra l’udito, il vedere e l’esperienza dello spazio socialmente modellato. In mostra opere d’arte, installazioni e opere su carta che vanno dagli anni ‘70 a oggi. Gli spazi geografici, sociali e immaginari sono negoziati sulla base della musica, dei suoni, dei rumori e delle voci e della loro notazione o implementazione visiva. Le opere propongono prospettive alternative su una realtà in costante mutamento. www.smb.museum MUSÉE DU LUXEMBOURG | Parigi
MAN RAY ET LA MODE 23 settembre 2020-17 gennaio 2021
Mostra attesissima che mette in luce un lato nascosto dell’artista che fu uno dei protagonisti principali della vita artistica parigina nel periodo tra le due guerre mondiali. Esplorando per la prima volta il lavoro di Man Ray dal punto di vista della moda, la mostra mette in evidenza il suo lavoro per i più grandi stilisti – Poiret, Schiaparelli, Chanel – e le più grandi riviste da Vogue, a Vanity Fair e Harper’s Bazaar. Mentre la fotografia di moda era ancora agli inizi, nel 1921 Man Ray sviluppò un’estetica nuova e moderna, fatta di inventiva tecnica, libertà e umorismo. I suoi esperimenti surrealisti e le strizzatine d’occhio confondono le linee tra arte e moda e lo rendono uno degli inventori della fotografia di moda contemporanea. museeduluxembourg.fr
:arte :notonlyvenice
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Napoleone Cozzi, dal taccuino Monte Chiampon. Pasqua 1898
La Squadra volante
Le Dolomiti Friulane negli acquerelli di Napoleone Cozzi Il racconto della Montagna nella pittura tra Ottocento e Novecento, a Palazzo Sarcinelli a Conegliano, è una delle mostre che avrebbero dovuto aprire proprio nei giorni in cui, tra fine febbraio e marzo, tutto si è fermato. La sua apertura al pubblico, rinviata ancora per qualche settimana, permetterà di scoprire il nuovo capitolo d’indagine sul paesaggio offerto dalla curatela attenta e sorprendente di Franca Lugato e Giandomenico Romanelli. Nell’attesa non proponiamo un tour virtuale, come quelli meravigliosamente offerti da mostre e musei che stanno occupando le nostre giornate, ma chiediamo di seguirci in un viaggio fatto di storie, persone e sogni, che vanno oltre le immagini per spiegare la Montagna e il suo valore simbolico di limite e di bellezza pura. Dopo Irene Pigatti, di seguito la seconda, coinvolgente puntata dedicata a Napoleone Cozzi e alle Dolomiti Friulane. La Squadra volante, formatasi da un manipolo di giovani alpinisti triestini allo scadere del XIX secolo con animo irredentista e un vessillo che si ispirava al tricolore, divenne famosa per la capacità di affrontare le maggiori sfide alpinistiche del tempo. Precursori del moderno alpinismo “senza guida”, questi scalatori erano preparati tecnicamente e psicologicamente grazie al continuo allenamento che praticavano nelle piccole pareti calcaree vicino alla città. Possiamo ancor oggi rivivere gli ardimenti di questi uomini che amavano sfidare la montagna grazie ai preziosi acquerelli di uno di loro, il pittore Napoleone Cozzi (1867–1916), che ne divenne il trascinatore e la guida carismatica. Nato in una Trieste ancora austro-ungarica, Napoleone manifestò precocemente una particolare sensibilità per l’arte, talento che perfezionò frequentando il Banco Modello di Trieste, la prestigiosa scuola di disegno, sotto la guida del pittore Eugenio Scomparini. Con il suo maestro ebbe occasione di partecipare a diverse imprese decorative fin de siècle in teatri cittadini come il Politeama Rossetti, ma altresì nel tempo lavorò per numerosi teatri ubicati nell’opposta sponda dell’Adriatico, da Zagabria a Spalato, da Pirano a Pisino, per i quali progettò anche apparati scenografici. Decorò due caffè triestini, il Caffè Sport e lo storico Caffè San Marco, e alcuni ambienti della sede della Società Ginnastica Triestina di cui era uno dei principali animatori. Si espresse con gusto secessionista, tra simbolismo e Jugendstil, mescolato alle manierate inflessioni neotiepolesche che aveva appreso dal suo maestro. Di non comune prestanza fisica, Napoleone praticò anche svariati sport, dal pattinaggio alla corsa, dal nuoto al canottaggio, ma la disciplina in cui si distinse maggiormente fu la scherma, partecipando ai tornei più ambiti dell’epoca. Divenne maestro presso la Società Ginnastica Triestina dove compare come socio ufficiale già dal 1888. Questa fu un’istituzione alla quale Cozzi dedicò molto
tempo ed energie e per la quale realizzerà l’elegante decorazione della sala dei saggi degli schermidori, oltreché un gran numero di progetti grafici per manifesti, diplomi, distintivi e attestati. La sua grande passione però resterà l’alpinismo. Comincia a frequentare la montagna da adolescente e all’età di diciassette anni compare negli elenchi della Società Alpina delle Giulie. È grazie alla creazione della Squadra Volante, che si allenava nelle vicinanze di Trieste, tra la Val Rosandra e le rocce di Prosecco, che venne dato nuovo impulso all’arrampicata. Il piccolo gruppo di amanti della montagna si avventurava tra cime e pareti scoscese senza il supporto di una guida alpina, in controtendenza rispetto alla tradizione degli alpinisti della generazione precedente. Precursori dunque dell’alpinismo “senza guida”, costituiranno una tappa fondamentale in quel cambiamento di rotta tra alpinismo esplorativo, ancora ampiamente praticato allo scadere dell’Ottocento, e quello che diventerà l’alpinismo sportivo. Imprese audaci e ardite venivano preparate con costanti allenamenti sulle piccole pareti calcaree nei dintorni della città, combinando tecnica e formazione psicologica in atleti già abituati a frequentare agonisticamente la Società Ginnastica Triestina. I benpensanti di allora osteggiavano queste salite “sguidate”, che possiamo ancora oggi seguire negli acquerelli di Napoleone e nelle sue ricche narrazioni scritte per la rivista specializzata «Alpi Giulie». Alcuni di questi preziosi album esposti in mostra sono conservati nella ricca collezione della Società Alpina delle Giulie, fondata nel 1883, alla quale il pittore si era associato l’anno seguente. Nei due taccuini datati 1898 possiamo rivivere l’esperienza della salita al Monte Chiampon nelle Prealpi Giulie durante il periodo della Pasqua: le tavole sono spassosissime grazie all’accompagnamento di ironiche e goliardiche didascalie. Mentre nel taccuino che rende conto della salita alla Piccola Cima di Lavaredo viene ripercorsa, con grande efficacia, l’avventurosa ed emozionante arrampicata. L’impresa più impegnativa di Napoleone risulterà essere quella raccontata nel sorprendente terzo album della Società Alpina delle Giulie, realizzato nell’estate del 1902, quando la Squadra affronta tre cime inviolate: la Rocca Duranno, il Campanile Montanaia e il Monte Toro, appartenenti a quelle che venivano chiamate Prealpi Clautane, le odierne Dolomiti Friulane. La partita si giocò proprio sul Campanile (6 e 7 settembre), isolato e vergine monolite roccioso, conteso con un gruppetto di giovani alpinisti austriaci. Ironia della sorte spetterà proprio a loro e non ai triestini il merito della prima salita, agevolati però dai segni a gessetto lasciati da Napoleone lungo il percorso di salita. La Squadra Volante incassò sportivamente la sconfitta. Cinquantatré acquerelli raccontano questa straordinaria impresa e le tavole che descrivono il per-
Napoleone Cozzi, dal taccuino Piccola Cima de Lavaredo
Napoleone Cozzi, dal taccuino Piccola Cima de Lavaredo
Napoleone Cozzi, dal taccuino Prealpi Clautane
corso di avvicinamento al Campanile di Val Montanaia sono le più visionarie: una valle infernale, una pietraia con mostri al posto dei monti e violenti contrasti tra la luce e l’ombra. Napoleone considerava forse il taccuino delle Prealpi Clautane quale proprio biglietto da visita. Le numerose dediche apposte nelle pagine finali testimoniano l’apprezzamento dimostrato da alpinisti e appassionati di montagna che avevano potuto sfogliarlo rimanendone impressionati. Cozzi si spense prematuramente il 23 dicembre del 1916 in un sanatorio di Monza dopo una lunga e sofferta malattia. Nel 1930 la Società Alpina delle Giulie gli dedicava il rifugio sul monte Tricorno. Franca Lugato «Il racconto della Montagna nella pittura tra Ottocento e Novecento» (date da definire) Palazzo Sarcinelli-Conegliano www.mostramontagna.it
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Spazi dell’Insieme Public Architecture – Future for Europe, European Cultural Centre Italy conquista Mosca
Francesco va veloce
Una nuova avventura quella della Fondazione European Cultural Centre, che oltre a caratterizzare da quasi dieci anni il panorama artistico di Venezia durante le Biennali Arte e Architettura con le mostre Time Space Existence e Venice Design, a gennaio 2020 ha conquistato un importante spazio anche a Mosca, proprio accanto alla Piazza Rossa. Ospitata nel prestigioso Museo Nazionale di Architettura Schusev, il primo museo al mondo dedicato all’architettura, la mostra Public Architecture – Future for Europe, organizzata da ECC Italy ed ECC Russia, presenta progetti realizzati o ancora solo platonici rivolti all’architettura pubblica nell’Europa del futuro. Circa quaranta fra studi di architettura, grandi firme, fotografi, università e istituzioni attive in tutto il continente condividono le loro prospettive su approcci alternativi e una nuova concezione di architettura che sia in linea con il rispetto del patrimonio culturale europeo. I progetti riguardano social housing, edilizia verde, mobilità, e rappresentano spazi civici ed educativi, stazioni ferroviarie, aeroporti e altre aree pubbliche. Toccano temi importanti quali
l’espansione e la pianificazione urbane, l’innovazione e la sempre più attuale questione ambientale. Molti dei casi studio esposti si concentrano sul ruolo fondamentale, adottati dalle arti e dall’architettura, della creatività e del pensiero critico e su quanto questi giochino una veste significativa nella formazione di comunità attive nei contesti urbani più diversi. Il tema analizzato può essere considerato non solo in linea, ma proprio una prima anticipazione del dibattito che aprirà la 17. Mostra Internazionale di Architettura di Venezia, curata da Hashim Sarkis, dal titolo emblematico How will we live together?. Questa mostra sembra infatti accogliere il concetto di “insieme” e della memoria dello spazio, come si evince dal progetto Chalet in Action presentato dallo studio architettonico maltese NIDUM. Si propone di focalizzare l’attenzione sulla rapida trasformazione urbana e le sue implicazioni di carattere sociale. Lo Chalet, nato negli anni Venti del secolo scorso come quello che noi chiameremmo “centro culturale a cielo aperto”, è oggi solo una piattaforma di cemento fronte mare.
Architecture Public – Future for Europe è un primo passo del team European Cultural Centre - Italy nella curatela di mostre internazionali in diverse capitali europee e mondiali. Fra i partecipanti troviamo: 3RW arkitekter, Andrey Bokov. Apt Architecture. Architectural Democracy, Baar-Baarenfels Architects. Bjørnådal Arkitektstudio. Carlos Seoane Arquitectura, Chalet in Action, Christoph Hesse Architects, Craft, Cristina Parreño Architecture, Duplex Architekten, Form4 Architecture, Fundació Mies van der Rohe Barcelona, GRAS, Happycheap + Merom architects, Ideal Spaces Working Group, IttenBrechbühl Basel, KAAF Architects, Kirsh+Dereka Arkitkter, LAVA, Laboratory for Visionary Architecture, M+R interior architec- ture, Mæ, Peter Kulka Architektur, Schulz und Schulz, Sei Studio, Souto Moura + Pinearq, UNStudio. USUAA - Ural State University of Architecture. Art &Vidal Arquitectos e Oblò Architetti, con sede a Venezia. Julija Kajurov «Architecture Public – Future for Europe» Fino maggio 2020 Museo Nazionale di Architettura Schusev-Mosca - ecc-italy.eu
Non poteva che essere lui, Francesco Vezzoli, a farsi manifesto di un nuovo mostrare, niente di rivoluzionario per le abitudini ormai consolidate ai più, ma nel dibattito dell’arte contemporaneo e delle nuove sfide sulla fruizione date dalla pandemia, il suo progetto apre nuovi fronti possibili. Love Stories – A Sentimental Survey by Francesco Vezzoli è infatti il nuovo progetto, a cura di Eva Fabbris, presentato dall’11 maggio sull’account Instagram di Fondazione Prada in cui l’artista esplora attraverso il linguaggio dei social lo stato emotivo, amoroso e psicologico di una vasta comunità online. Nel 2004 con l’opera Comizi di non-amore, commissionata sempre da Fondazione Prada per la mostra Trilogia della morte, Vezzoli aveva reinventato la tradizione del documentario e del cinémavérité, contaminando modelli come Comizi d’amore (1965) di Pier Paolo Pasolini e L’amore in Italia (1978) di Luigi Comencini con i canoni televisivi del reality show. Con Love Stories si appropria delle strategie comunicative di Instagram, e in particolare della funzione sondaggio delle stories, per sperimentare un nuovo territorio di condivisione di idee, visioni e impressioni sull’amore, il sesso, l’identità, il corpo, la solitudine, l’appartenenza, l’alterità, il futuro. I followers di Fondazione Prada, e in più in generale gli utenti di Instagram, sono invitati, story dopo story, a scegliere tra due possibili opzioni, a schierarsi a favore di una delle due affermazioni proposte, ad accettare la logica binaria, forzatamente semplificatoria, dei sondaggi, a partecipare a un gioco solo apparentemente leggero. L’indagine sarà composta da oltre 50 domande poste da Francesco Vezzoli e associate a immagini che creano cortocircuiti visivi e sottotesti interpretativi. I sondaggi di ogni settimana formeranno un nucleo tematico liberamente ispirato a un’aria tratta da opere liriche di compositori italiani come Vincenzo Bellini, Giacomo Puccini, Gioacchino Rossini e Giuseppe Verdi, e dal Don Giovanni di Wolfgang Amadeus Mozart, in omaggio a Pasolini, che aveva usato questo brano musicale come commento sonoro per Comizi d’amore. Alla fine di ogni settimana i risultati dei sondaggi saranno commentati da una personalità del mondo del mondo della cultura, dell’arte, del giornalismo e della televisione. Attraverso un testo, un video o un altro contributo creativo ognuno di loro tenterà di decifrare le risposte, interpretare le disposizioni d’animo e le emozioni dei partecipanti, abbozzare un ritratto parziale di una comunità di persone unite in questo momento storico da condizioni esistenziali come incertezza, sospensione e desiderio di ripartenza. Love Stories forza la natura effimera e istantanea di Instagram trasformandolo in un luogo virtuale di indagine sociale, riflessione artistica e provocazione intellettuale.
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Philippe Jaenada
I
n scienza un’anomalia designa un fenomeno che si allontana da ciò che è considerato normale. Cos’è normale, cosa non lo è e chi sono io per dirlo? Infatti non sono nessuno, solo una francese residente in Italia che, se non riesce a definire la normalità, si stupisce di fronte a casi clamorosi di anormalità. Qualche esempio: come mai di Parigi si conosce la Torre Eiffel, l’Arco di Trionfo e il Pantheon ma sono rare le persone che sanno delle arene di Lutetia? Parlando di Lutetia, perché il libro eponimo di Pierre Assouline è stato tradotto nella lingua di Dante solo cinque anni fa quando riscontrava un successo nazionale da più di dieci anni? Perché Zaz è famosa in Italia e Camille non lo è? E perché i biscotti LU che deliziano i bambini francesi non sono mai riusciti a penetrare i supermercati a sud delle Alpi quando invece i Carrefour di tutto l’esagono traboccano di Mulino Bianco? Sono queste tutte anomalie agli occhi di una francese residente in Italia e che necessitano una correzione. Oggi il mio obiettivo è di portare oltralpe persone, libri e luoghi ingiustamente e stranamente sconosciuti dagli italiani.
a cura di Delphine Trouillard
Amo regalare libri. Regalo spesso gli stessi. Ho i miei autori, quelli con cui si è sicuri di non sbagliare: Stefan Zweig, Kazuo Ishiguro, Yasmina Reza, Sylvain Tesson, Philippe Jaenada. Ora che vivo in Italia e che i miei amici sono, per lo più, italiani offro le traduzioni in italiano degli autori suddetti. Quale non fu il mio stupore quando mi sono accorta che Philippe Jaenada non era tradotto in italiano o quasi: solo il suo romanzo d’esordio Il cammello selvatico, vincitore del Prix de Flore nel 1997, era stato pubblicato lo stesso anno da Feltrinelli, ma è oggi esaurito. Al momento nessuna ristampa è prevista. E quindi come si fa? Philippe Jaenada è, per me, come un fratello maggiore. Conosco le sue minime abitudini, i suoi pregi e i suoi difetti. So che in caso di bisogno lo posso trovare al Café Le Progrès, metro Gambetta, sotto casa sua, e che potremo bere lui un whisky e io un Diabolo grenadine, parlando del tempo che va e viene, dei premi letterari che vanno e vengono anche loro, di Georges-Henri Clouzot, con cui i suoi romanzi s’incrociano spesso, e degli ultimi fatti di cronaca che ha letto la mattina stessa. Quando inizia a scrivere, saluta i suoi contatti su Facebook. Chiude temporaneamente il suo account, come un fratello maggiore che ti sbatte in faccia la porta su cui è appeso un cartello di divieto di entrare, perché ha delle cose “da grande” da fare. E te ne stai fuori, ad aspettare e curiosare regolarmente davanti alla porta, chiedendoti cosa diavolo possa combinare lì dentro per così tanto tempo. Finalmente ne esce. Dopo lunghe settimane ricompare con, in mano, un mattone di 650 pagine di cui, come sempre, è lui stesso il protagonista. Perché Jaenada è il narratore delle storie che racconta. Jaenada parla d’altri ma sempre in prima persona. L’inatteso successo del suo primo romanzo, Il cammello selvatico, l’ha in qualche modo spinto a raccontare sempre la stessa storia: la sua, ovvero le vicissitudini di un tipo un po’ pigro, molto sfigato e soprattutto perso nella sua vita. Leggendo dei suoi incontri, delle sue infelici storie d’amore con delle donne tutt’altro che sane mentalmente, delle sue
lunghe passeggiate per Parigi o dei soggiorni rinchiuso nella casa di Veules-les-Roses, sembra di essere appoggiati al bancone del bar insieme a lui e sentirlo percorrere molto seriamente la sua vita, aprendo sotto-racconti nel racconto e sotto-sotto-racconti nel sotto-racconto – delle digressioni che nel testo sono materializzate da parentesi che si aprono una dopo l’altra e si chiudono tutte insieme alla fine del capitolo. Sono tutti disastri che racconta e che il lettore scopre fingendo di non ridere, per empatia... Il suo pubblico, tranne me credo, si è stancato di sentirlo con inerzia a rimuginare le stesse tre cose. Man mano che Jaenada va avanti con l’età il suo personaggio cresce, affrontando sfide (e sfighe) di vario genere: il lavoro, le donne, la vita di coppia, la paternità e altri momenti per lui altrettanto traumatici. Il lettore italiano l’ha mollato fin dal suo secondo romanzo, quello francese si è disinteressato al settimo. Non a caso l’ottavo romanzo di Philippe Jaenada narra la disperazione di uno scrittore coronato dal successo con il suo primo libro e caduto nel dimenticatoio dodici anni dopo. Ha quindi capito che poteva sempre raccontarsi aggiungendo nella narrazione dei personaggi oggettivamente più interessanti. Ed è stato attratto da perdenti, da persone che per un motivo o per l’altro hanno avuto un destino triste, una vita difficile, una morte brutale. Sulak, il ladro gentiluomo, Pauline Dubuisson, l’amante omicida, Georges Arnaud, lo scrittore assassino, sono tutte persone realmente esistite che hanno vissuto vere sventure (spesso se le sono cercate) e che in qualche modo Jaenada cerca di riabilitare. Riuscendoci. A casa ho sempre un “Jaenada d’emergenza”, in caso di calo ormonale, di scarsità di libri a disposizione o di attacco di allergia. Il “Jaenada d’emergenza” me lo leggo con gran senso di colpa e con l’ansia di dover aspettare molto prima di averne un altro. Perché i romanzi di Jaenada hanno l’effetto di una droga, una sensazione euforizzante che permette di relativizzare ogni cosa. Un inizio di soluzione alla crisi sanitaria che si è diffusa in Europa. Peccato che le traduzioni non passano i confini con la stessa tragica velocità.
M9, un museo multimediale e interattivo. M9, an interactive and multi-media Museum. Il ’900 come non è mai stato raccontato. The story of the 20th Century as it’s never been told before. Un grande progetto di rigenerazione urbana. An important project of Urban re-generation. M9 è un progetto di M9 is a project by
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:musica Che sarà?
Il 16 aprile
scorso, con JIP- Jazz Italian Platform, la piattaforma formata da otto storiche organizzazioni musicali italiane (Umbria jazz, Jazz Network/ Crossroads, Pomigliano jazz, Saint Louis college of music, Bologna jazz, Jazz in Sardegna, Visioninmusica e noi di Veneto Jazz) abbiamo chiesto al governo in una lettera aperta «Che ne sarà della musica?». Per ora sappiamo che la nostra musica dal vivo non ci sarà. Impossibile azzardare una programmazione a medio-lungo termine. Dopo la cancellazione delle rassegne Jazz& , Nordic Frames, Etnoborder, Dal Vivo al Teatro Goldoni, On Stage al Teatro Toniolo
di Giuseppe Mormile Presidente di Veneto Jazz
e Live Music Aperitif all’Hotel Splendid, non avrà luogo nemmeno la XIII edizione di Venezia Jazz Festival, tradizionalmente in programma a luglio, così come l’annunciato concerto del 25 giugno al Teatro Romano di Avishai Cohen, realizzato in collaborazione con Verona Jazz. Nell’attesa comprensibile dell’evolversi dell’emergenza e di regole chiare su come poter ripartire, dopo la lettera e con gli ultimi decreti governativi non si sa ancora non solo quando, ma con quali modalità riapriranno i teatri e le arene e se si potrà organizzare ed assistere ad uno spettacolo dal vivo. Come detto da più parti, non si tratta ‘solo’ di pensare a come rendere ancora possibile in condizioni inevitabilmente mutate la fruizione della cultura da parte delle persone, ma anche e soprattutto a quali soluzioni elaborare per tenere in vita un’industria come quella dello spettacolo live che interessa migliaia di lavoratori che in questo momento non hanno una prospettiva. In questa situazione di incertezza i promoter stanno guardando al 2021. Nel futuro che verrà si lavorerà in uno scenario completamente nuovo, non solo in merito alla
riorganizzazione degli spazi e della gestione dei flussi di pubblico, con inevitabili maggiori costi per i teatri e per gli organizzatori, ma anche nell’approccio delle persone agli eventi. Con quale spirito gli spettatori parteciperanno ad uno spettacolo dal vivo? Sicuramente alla riapertura dovremmo aspettarci una diminuzione del pubblico, sia per ragioni logistiche che psicologiche, legate ad un cambiamento dello stile di vita. Sarà anche inevitabile stabilire nuovi equilibri fra i costi di cachet degli artisti (che dovranno fare i conti con spazi meno capienti) e quelli di produzione, legati soprattutto alla sicurezza e alla gestione del pubblico. Ora è davvero tutto da riscrivere. Il settore dello spettacolo dal vivo, che tanto qualifica il nostro Paese, per ripartire necessita adesso, in questo momento, di aiuti concreti e di agevolazioni fiscali e amministrative, a favore in particolare di quelle centinaia di organizzazioni come la nostra che, accanto all’attività di promozione culturale supportata da contributi pubblici, sono abituate a lavorare in pieno rischio di impresa, in un contesto tra le altre cose dai margini economici già fortemente penalizzati ancor prima dell’emergenza. Nel frattempo, sempre con la nostra piattaforma, abbiamo dato vita a JIP on streaming, il primo festival nazionale di jazz sul web, accessibile gratuitamente. Sono stati nostri ospiti Markus Stockhausen, Tim Sparks, David Helbock, Alessandro Lanzoni e Gabriele Mirabassi, con dei concerti davvero belli, alcuni inediti. Molti altri ancora seguiranno in questi mesi, a tenere viva la fonte prima del nostro esistere, per quanto consapevoli, questo è sicuro, che il futuro non possa certo essere questo: la musica e il pubblico hanno bisogno del pathos del live, del contatto con i musicisti, dell’abbraccio della platea. La rassegna in streaming è solo un’alta forma di resistenza. E di speranza.
What will be?
On the last
April 16, we at Jazz Italian Platform petitioned the Italian Government with an open letter: “Che ne sarà della musica?” (What will be of music?). For now, all we know is that our concerts will not take place. At this point, we are unable to make mediumterm plans. After the cancellation of programmes Jazz&, Nordic Frames, Etnoborder, Dal Vivo at Goldoni Theatre, On Stage at Toniolo Theatre, and Live Music Aperitif at Splendid Hotel, the thirteen edition of the Venezia Jazz Festival won’t take place either. As we wait and see how the coronavirus crisis evolves and what rules will be in place once we will be able to get back to work, we must think long and hard not only at what concerts will look like in the future, but what to do to keep alive an industry that employs thousands – people who at the moment see no future. In this situation of uncertainty, promoters are already looking at 2021. In the future, everything will be different: from spaces, crowd management, rising costs, and a different attitude in the public. With what spirit will audiences participate to a live concert? Surely, we are looking at smaller audiences, both for logistical and psychological factors, and to changes in lifestyle. A new balance shall be found between artists’ fees and organizational costs in face of dwindling profits per square metre. This is what we know, and it isn’t much. The live entertainment sector, a staple of the Italian economy, urgently needs help in the form of cuts to tax rates and red tape. While we, as cultural promoters, do enjoy state-issued contributions, we always conduct our business under the aegis of entrepreneurial risk, and we haven’t seen high margins in a long time. All the while, we moved to the web for a streaming-based jazz festival: JIP on streaming will be freely accessible. Concerts by Markus Stockhausen, Tim Sparks, David Helbock, Alessandro Lanzoni, and Gabriele Mirabassi are already available, with more to come.
:musica 39
L’estate, ormai alle porte, è la stagione calda della musica, il momento più impegnativo per la misura dell’offerta e per la quantità di pubblico che viene coinvolto. Festival di jazz, di musica classica, concerti pop, raduni negli stadi, rassegne rock. Una vera e propria industria che interessa migliaia di lavoratori, migliaia di musicisti e centinaia di migliaia di spettatori, un mondo che in questo momento vive sospeso nell’incertezza o meglio nel non sapere. Che succederà? Nei piani di riapertura graduale per il ritorno alla vita del Paese non viene fatta menzione. Si dice che sarà l’ultimo settore a poter riprendere la propria attività. Ma per l’immediato futuro nulla, nessuna prospettiva. Possibile che il governo, i ministeri competenti non siano già in grado di stabilire con una certa sicurezza quale sarà il destino di questo settore nei suoi prossimi tre mesi? Si sa che la fase 2 è iniziata il 4 maggio. Quanto durerà? E prevedibile che si allungherà sull’estate, prima di una liberalizzazione più ampia. In altri paesi hanno spiegato: scordatevi di tornare nelle arene, negli stadi, nei teatri. Sarebbe una parola di chiarezza per tutti, spettatori compresi. I festival, le rassegne, i concerti potrebbero cominciare a stabilire in che modo far saltare i propri appuntamenti o se posporli come è stato fatto da altre parti, farebbero così chiarezza con le proprie strutture e con gli spettatori. In fin dei conti potrebbero risparmiare anche dei costi, cosa che in questo momento non sarebbe mal vista. E allora, diteci che succede. Non costa nulla. Marco Molendini Presidente Jazz Italian Platform* chng.it/ Yh984K9sDD
*JIP, è un’associazione che riunisce otto organizzazioni musicali di grande tradizione diffuse sul territorio nazionale: Umbria Jazz, Bologna Jazz, Jazz in Sardegna, Jazz Network, Pomigliano Jazz, Saint Louis College of Music, Veneto Jazz, Visioninmusica. Si pone come interlocutore per festival, musicisti, agenzie, case discografiche e istituzioni per la produzione di nuove opere, oltre che per la creazione, realizzazione e diffusione di progetti ad ampio respiro e destinati a sostenere la memoria presente e futura, in generale piuttosto trascurata. I progetti di JIP sono molteplici: valorizzare il concetto di impresa culturale dei propri associati in un rapporto definito e produttivo con le aziende e con il territorio; sviluppare il terreno educational, diffondendo i contenuti sia di ordine musicale, sia culturale e sociale, del jazz e delle musiche improvvisate lavorando alla costruzione di un pubblico consapevole e informato fin dall’infanzia; favorire gli scambi e la circuitazione internazionale.
JAZZ ITALIAN PLATFORM
Nella rassegna sono stati coinvolti alcuni dei principali protagonisti della nostra musica improvvisata, chiamati a esibirsi nelle prossime settimane dalle piattaforme social dei principali Festival jazz, compreso Veneto Jazz, secondo un calendario consultabile sulla pagina Facebook di JIP. Tutte le performance sono accessibili gratuitamente. Fra i jazzisti impegnati: Stefano Bollani, Fabrizio Bosso, Mauro Ottolini, Danilo Rea, Javier Girotto, Markus Stockhausen, Gegè Telesforo, Rita Marcotulli, Dado Moroni, David Helbock, Giovanni Guidi, l’Orchestra Napoletana di Jazz, Julian Oliver Mazzariello, Karima, Enrico Pieranunzi, Joe Locke, Rosario Giuliani, Francesco Nastro, Fabrizio Sferra, Francesco D’Errico, Michele Rabbia, Gabriele Mirabassi e molti altri. Prossimo appuntamento il 14 maggio con Nicola Andrioli, tappa di un programma in aggiornamento continuo.
VAPORE IN STEAMING
In attesa di tornare ad assaporare la vastissima gamma di eventi live offerti, lo storico club di Marghera si presenta al pubblico con eventi streaming, anzi “in steaming”, dal termine inglese che significa appunto “cotto al vapore”. Il 16 maggio ecco Fabio Koryu Calabrò artista a 360° dalla voce calda e graffiante, seguito una settimana dopo da Alberto Vianello Paolo Vianello Duo. Assieme ai concerti ecco il format #VaporeTalk, scambio di idee, di stimoli e di ricordi, rilevanti per potersi trasformare in una realtà nuova, ma sempre legata al senso che si è voluto attribuire al Vapore fin dalla sua nascita. Si comincia il 15 maggio con Lucio Spinozzi e Sergio Renier, appuntamento poi il 22 con Michele Bugliari, Diegolandi e David Boato e il 29 con Federico Della Puppa, Giovanni Mancuso, Carlo Mezzalira, Francesco Socal e il Diplomatico e il Collettivo Ninco Nanco.
PEARL JAM – GIGATON
Sette anni separano Lightning Bolt da Gigaton, ultimi due album dei Pearl Jam: i grandi sopravvissuti dell’epopea grunge alternativo non avevano mai fatto passare tanto tempo da un disco all’altro. In attesa per tutti i fan di avere tra le mani la versione fisica dell’album, che sta subendo inevitabili rinvii e comprensibilissimi ritardi, dal 27 marzo il profilo Instagram di Eddie Vedder e soci permette di ascoltare il lavoro in streaming, appoggiandosi alle più funzionali piattaforme social.
JOVA HOUSE PARTY
Nei giorni del Covid-19 quando uscì l’ordinanza di lockdown in tutto il territorio italiano Lorenzo ha tenuto una sere di appuntamenti pomeridiani in diretta sul proprio canale Instagram che in poco tempo sono diventati un luogo dove stare uniti e incontrare alcuni amici favolosi che arrivavano da ogni parte della vita. Tra tutti i volti che sono passati ogni giorno c’è la presenza speciale e generosa del grande Fiorello, una forza della natura positiva, grande amico e artista impareggiabile. JOVA HOUSE PARTY è un documento a suo modo storico delle settimane che hanno cambiato tutto.
THE HEART OF JAZZ
Un evento che ha portato la musica in ogni casa, in ogni luogo. In un momento particolare come quello che stiamo vivendo, Blue Note Milano non poteva restare fermo: per la prima volta, il suono e l’atmosfera del locale sono usciti da Via Borsieri e sono entrati in ogni casa. L’8 maggio Paolo Fresu, grande artista e grande amico del Blue Note, si è esibito con il suo Devil Quartet in un grande spettacolo in diretta sulla pagina Facebook del locale, rigorosamente a porte chiuse nel rispetto delle norme anticontagio Covid-19. Presentatore d’eccezione Nick The Nightfly, voce storica di Radio Monte Carlo e direttore artistico del leggendario luogo di ritrovo.
ENRICO PIERANUNZI HOME CONCERTS
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Lettera aperta
A partire dal 20 maggio per 4 appuntamenti alle 18.30, il pianista e compositore Enrico Pieranunzi è protagonista degli Home Concerts, quattro esclusivi concerti in solo in streaming dalla sua abitazione, una residenza casalinga virtuale dedicata a quattro diversi repertori: plays Scarlatti, Fellini Jazz, My Songs e New Songs. Per la produzione, a cura dell’agenzia International Music and Arts, verrà costruito un vero e proprio set con riprese audio e video professionali e la visione degli eventi sarà a pagamento (3,99 euro per il singolo concerto, 14 euro per l’abbonamento ai 4 concerti) e avrà luogo sui siti di International Music and Arts e dello stesso Pieranunzi.
:musica
intervista
Passo dopo passo
New Landscapes Quartet, per un nuovo contemporaneo New Landscapes è un ensemble cameristico che esplora potenzialità espressive inedite. Si propone come un nuovo classico, consapevole della tradizione e coerente con la contemporaneità. Dall’inizio della sua attività si pone in relazione con spazi e destinatari diversi, interagendo con realtà culturali ed istituzionali come Ca’ Pesaro, la Fondazione Benetton, la Fondazione Save Venice, Cubo Unipol a Bologna, Electro Camp - International Platform for new sounds and dance di Forte Marghera, e molti altri. La capacità di proporre una nuova musica contemporanea affiancando a composizioni originali la rilettura di vari repertori ha spinto Sky Classica a produrre nel 2015 un documentario su New Landscapes e Battiti (RadioRai) a dare ampio spazio a Rumors, debutto discografico, live recording di un riuscitissimo concerto. Dalla primavera del 2019, con l’ingresso di Sergio Marchesini al bajan, New Landscapes diventa un quartetto. Veneziana appassionata delle arti, la violinista Silvia Rinaldi studia danza classica e jazz, si diploma in violino al Conservatorio Benedetto Marcello di Venezia ed è tra i componenti del gruppo fin dagli albori della sua attività. Suona con l’orchestra Haydn Philarmonica di Udine, con l’Orchestra d’Archi Italiana diretta da Mario Brunello e con altre formazioni ancora, ma la passione per la musica antica la spinge a dedicarsi alla specializzazione in violino barocco. Entra successivamente a far parte dei più importanti Ensemble barocchi internazionali con cui sarà attiva in numerose tournée, sia in Italia che all’estero. Nel 2005 si trasferisce in Francia dove collabora per più di due anni con Ensemble Matheus diretto da J.C. Spinosi, affiancando a questa esperienza lavori con le orchestre più celebri del mondo, incidendo per etichette come Virgin Veritas, Dynamics, Deutsche Harmonia Mundi, Virgin Classic, Naive, Deutsche Grammophon. Con lei abbiamo parlato di musica contemporanea e molto altro, alla scoperta di un ensemble che attraverso il trampolino della musica traccia nuovi orizzonti da scoprire, nuovi paesaggi da esplorare in un presente mai come ora incapace di dare punti di riferimento sociali e culturali. Dopo il fortunatissimo Rumors, il 2020 vede l’uscita di Menhir, concept album assai articolato nella realizzazione e nelle collaborazioni. Ci parli di questo progetto. Il lavoro appena pubblicato per Visage Music è appunto un concept album, molto caratterizzato quindi dal punto di vista tematico ed espressivo. È nato in prima istanza come un’urgenza che sentivamo di proseguire nel percorso musicale intrapreso fino a questo momento, con la necessità viva di mettere in musica tutta l’esperienza che avevamo accumulato. La forma che abbiamo dato a questo bagaglio di esperienza affianca composizioni originali realizzate da tre di noi e ‘prestiti’ provenienti da repertori
anche molto diversi tra loro, come il jazz di Sun Ra, il linguaggio minimalista di John Cage, viaggiando poi indietro di qualche secolo con John Dowland, per ripassare poi al jazz con Ornette Coleman. Ci saranno quattro brani studiati per il nostro organico, riscritti per noi, sia pure in maniera comunque molto fedele all’originale, in modo da adattarsi al meglio ad una formazione composta da 4 strumenti che in genere non sono molto comuni da sentire assieme. Gli altri brani sono invece composizioni ex novo, scritte e ovviamente suonate da noi. L’urgenza da cui questo disco è scaturito nasce dal percorso esperienziale da un punto di vista culturale e professionale che ciascuno di noi si porta dentro, ovviamente declinato attraverso la nostra personale sensibilità: letture, immagini, viaggi possono fungere da ispirazione a un lavoro complesso quale è la composizione. Questa disposizione è sempre stata vissuta da noi autenticamente, senza forzature. Menhir nasce dalla lettura di Walkscapes, libro di Francesco Careri incentrato sulla pratica del camminare. Noi consideriamo questo concetto come principale fonte di ‘inspirazione’, più che di ‘ispirazione’, capace cioè di farci respirare al meglio per trovare lo stimolo giusto a far nascere qualcosa di nuovo. Come mai il riferimento al menhir? Ci siamo concentrati su quest’oggetto perché non precisamente legato ad un specifico territorio o a una popolazione data, ma riconosciuto come elemento, simbolo significativo in culture differenti. Elementi cruciali dell’età della pietra, i menhir venivano considerati ‘pietre danzanti’, a ribadire un legame indissolubile tra la musica e la traccia architettonica che è arrivato fino ai giorni nostri. Si tratta quindi di un ‘non luogo’ che al tempo stesso potrebbe corrispondere a qualsiasi luogo, fuori dallo spazio
e dal tempo. I menhir per noi sono luoghi da attraversare piuttosto che da abitare, accomunati come siamo dalla passione per le lunghe passeggiate introspettive. La passione per il cammino è poi collegata intimamente alle parole di Francesco Careri. Viviamo in un contemporaneo in cui la circolazione della musica è amplificata ai massimi livelli dalle più disparate forme di tecnologia, più che mai fondamentali in attesa di un ritorno alla fruizione live dell’elemento musicale. Quanto questo incide sull’ispirazione di un musicista? Quali secondo lei i vantaggi e i rischi di una dimensione pressoché obbligata come questa oggi? Viviamo in un’epoca in cui tutto viaggia a velocità smodata, in tutti gli ambiti, quello dell’informazione in primis. Il mondo musicale non fa eccezione e men che meno i musicisti, che di sicuro non possono vivere nell’isolamento autoreferenziale. Veniamo subissati di immagini e suoni praticamente in ogni momento della nostra giornata; basta aprire un sito qualsiasi per essere colpiti da stimoli visivi e sonori, input capaci di generare reazioni di difforme tipo in noi musicisti come in chiunque altro. In un’epoca come questa, che mi sento di poter definire anche ‘confusionaria’, credo sia di fondamentale importanza avere un proprio centro di equilibrio, dei punti fermi su cui poter fare riferimento, conservando una propria sensibilità da nutrire secondo quello che ci interessa e ci piace, scegliendo in maniera consapevole in un’offerta tanto smodata come quella attuale. Personalmente non utilizzo ad esempio la musica elettronica: semplicemente perché non mi sento in grado di padroneggiarla al meglio. Non posso però certo dire che non mi interessi, non la escludo nella maniera più assoluta a priori dai miei orizzonti, magari ora più orientati al pop.
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Sergio Marchesini e Francesco Ganassin sono invece diversi da me in questa direzione, avendo loro esperienza in ambito elettronico e potendo quindi usare questa forma espressiva con cognizione di causa. Sergio l’ha utilizzata assieme ai nostri strumenti proprio per soddisfare la necessità di fondere diversi linguaggi espressivi. Crediamo che l’elettronica possa supportare in maniera significativa e raffinata la musica classica. Assemblare i diversi linguaggi può essere molto interessante, tenendo sempre ben presente l’importanza di conservare un baricentro ben saldo, per non snaturare la propria sensibilità e per poter così creare qualcosa di effettivamente originale. Il rischio forte è quello di spersonalizzarsi e diventare voce di un coro indistinto, derivante dalla confusione generale che spesso si genera dalla molteplicità di offerte. Non vogliamo rischiare di creare una ‘musica di tutti’ che in realtà sia ‘musica di nessuno’. Al vostro attivo anche una collaborazione con il regista Andrea Segre, per la colonna sonora de L’ordine delle cose. Come si sviluppa un lavoro di questo tipo rispetto alla composizione ‘tradizionale’? Il progetto è nato su impulso di Sergio Marchesini, che vanta una lunga e proficua collaborazione con Andrea Segre per Il pianeta in mare (2019) e La prima neve (2013), presentati alla Mostra del Cinema di Venezia, e ancora per I sogni del lago salato (2016), Come il peso dell’acqua (2014), Mare chiuso (2012), Il sangue verde (2010), Magari le cose cambiano (2009), La mal d’ombra (2007). Ha inoltre scritto le colonne sonore per Niente sta scritto (2017), La sedia di cartone (2015), Daily Lidia (2014), Me We (2013) di Marco Zuin, e per Non è mai colpa di nessuno (2012) di Andrea Prandstraller. Per il teatro, Sergio scrive ed esegue musica per Giuseppe Battiston, Mirko Artuso, Giuliana Musso, Vasco Mirandola, Massimo Cirri, Andrea Pennacchi e per molti altri ancora. Per L’ordine delle cose Segre decise di coinvolgere musicisti per così dire ‘live’ come noi, che eravamo in trio, vale a dire io, Luca Chiavinato e Francesco Ganassin, cui si è aggiunta una musicista molto brava, Sofia Labropoulou, capace di suonare uno strumento straordinario chiamato kanoun, Leonardo Sapere al violoncello ed Elia Casu alla chitarra. Segre ha quindi innescato il meccanismo tipico delle colonne sonore, nelle quali su di un tappeto si andavano ad innescare i diversi strumenti, con delle diverse melodie, oppure dei canti come accaduto ne L’ordine delle cose. Ogni scena, ogni dialogo hanno un tempo misurato al secondo e quindi la libertà è diversa rispetto alla composizione tradizionale: l’espressività di chi esegue è spinta al massimo ma dentro un tempo preciso. A livello personale la cosa più affascinante di questo lavoro è stato vedere come musica e parole potessero amplificare a vicenda le rispettive possibilità espressive all’ennesima poten-
za. In quest’ottica anche un silenzio a volte può essere assolutamente carico di significato. Nel caso de L’ordine delle cose, poi, il dato emotivo è ancora più significativo, trattando una tematica come la questione libica che è ancora ben lontana da una sua risoluzione, nonostante il clamore mediatico sia venuto meno. Inoltre il mood della trama indicativamente è connesso a quello della musica stessa: la vicenda era talmente intrisa di significato da non poterne quasi mai uscire, anche quando avevamo finito di suonare un pezzo e prima di cominciare quello successivo. Si è trattato di un lavoro coinvolgente a più livelli, in primis quello esistenziale proprio. Il fatto che dopo anni di distanza frequentiamo ancora tutti gli altri musicisti coinvolti nella lavorazione della colonna sonora, pur di estrazione assai diversa rispetto alla nostra, credo sia assai eloquente a riguardo. Chi suona per la colonna sonora in genere trascorre in studio di registrazione ore e ore dovendo in ogni caso seguire un ritmo preciso, in quanto ogni composizione vive in relazione allo scorrere del film. Un lavoro enorme, soprattutto per chi compone ma anche per chi suona, sebbene in forma diversa. Il risultato spesso è perciò straordinario ed emozionante: può dare forza e pienezza ad uno spazio vuoto, tra un dialogo e l’altro, oppure rimanere in sottofondo, conservando comunque una propria cifra di rilevante importanza. Diciamo che si entra in un clima completamente differente rispetto ai concerti, dove l’improvvisazione è ammessa, la libertà espressiva è più libera e l’interazione tra i musicisti avviene tramite sguardi. Se si suona leggermente più lento o leggermente più veloce l’intesa è quella che conta. Registrare un cd è un lavoro incredibile, che richiede pazienza, ascolti infiniti durante e dopo. Il tecnico del suono deve avere una sensibilità acuta e Francesco Fabiano, che ci conosce e ci segue da anni, ne ha assai. Altro aspetto rilevante del lavoro in studio è che si possono registrare un brano o anche solo poche battute 50 volte o più, finché non si arriva alla perfezione. Talvolta va bene immediatamente, altre …mai, quindi le variabili sono infinite. In concerto, invece, vale solo quel momento. Ognuno ha un modo differente di vivere sia l’una che l’altra attività; chi ama stare in studio anche per giornate intere e chi invece predilige l’esperienza bruciante ed irripetibile del live. Quali i progetti più significativi del vostro percorso? Penso che ogni lavoro viva di una propria, irriducibile peculiarità, portandosi dietro e restituendo un portato esperienziale inconfondibile. Il primo lavoro è stato Rumors, in trio, che definirei ‘puro’ e assolutamente live, cui seguirà poi Walking Sounds, pubblicato da Caligola Records, lavoro che pur non essendo una colonna sonora potrebbe essere considerato come tale in termini di coinvolgimento, grazie all’interazione tra musicisti italiani e
iracheni, segnatamente il collettivo Mshakht. È stato Luca Chiavinato, bravissimo suonatore di oud e liuto barocco, componente del gruppo, a farsi promotore del progetto, grazie al lavoro che porta avanti in parallelo attraverso la sua ONG, la Walking Arts. In uno dei tanti viaggi in Iraq sono stati registrati suoni e canti, sui quali abbiamo poi lavorato qui in Italia in maniera per certi aspetti simile a come abbiamo lavorato in occasione della produzione della colonna sonora di Andrea Segre. Sì, in Walking Sounds ritengo vi sia stata un’interazione simile a quella vissuta nella lavorazione per L’ordine delle cose. Si è trattato di un inno all’interazione, che in questo caso si è costruita in differita, su suoni registrati e poi riproposti, combinati con i nostri. Da tutti i nostri lavori traspare la voglia di interagire con le persone che ci troviamo di fronte e con le culture di cui si fanno portatrici. Si tratta di un’indole che tutti noi del gruppo condividiamo, pur essendo caratterialmente diversi. Rumors, L’ordine delle cose, Walking Sounds e Menhir rappresentano quindi evoluzioni di un percorso portato avanti all’insegna della curiosità, frutto di tutte le esperienze passate: non è un caso che questi lavori abbiano precise caratteristiche che li accomunano. Quali i progetti futuri, i ‘nuovi paesaggi’ da esplorare? E chi può dirlo?! Menhir è nato dalla forte urgenza di voler mettere nero su bianco molti concetti. La volontà ora è di godersi appieno il frutto concreto di tutto questo lavoro, durato quasi un anno tra progettazione, elaborazione e realizzazione del cd. Abbiamo voglia di mettere la nostra musica a disposizione di chiunque la vorrà ascoltare, sia dal vivo che sul lettore o sui vari, altri dispositivi utili.
GUIDA ALL’ASCOLTO Leblebi | Menhir
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Music for a Lockdown
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a cura di F.D.S.
I
l contagio ha fatto esplodere la musica, l’ha trasformata in un antidoto fisiologico ed emozionale all’isolamento. L’offerta si è moltiplicata in ogni forma e veicolo possibile: dai balconi, dalla Rete, dalle dotazioni personali di ciascuno di noi, la musica in queste settimane è fluita costante e consolatoria, rappresentando non solo un modo per utilizzare l’enorme quantità di tempo non-libero a disposizione, ma anche una maniera di condividere l’esperienza della solitudine e dell’isolamento. Assistere via pc ad un concerto o ad un’opera messa in rete da una delle tante istituzioni culturali impossibilitate agli eventi in diretta, ascoltare una playlist linkata da un amico, sfruttare le enormi risorse musicali finora inesplorate di Youtube non solo ha permesso a molti di conoscere musica che altrimenti non avrebbero mai avuto la possibilità di conoscere, ma nello stesso tempo è stato anche un gesto di partecipazione, di adesione ad una comunità separata e isolata. Un piacere culturale che è stato anche una forma di reazione alla paura ed al disagio. Musica come conoscenza e musica come resistenza. Immaginare allora una playlist di sfondo musicale al contagio è uno sforzo che, lungi dallo sfrutta-
Throbbing Gristle After the Fall
Einstürzende Neubauten Lament – Der 1. Weltkrieg
Olivier Messiaen Quatuor pour la fin du temps: V. Louange á l’Éternité de Jésus
mento di facili assonanze di titoli e contenuti con gli standard delle nostre giornate (l’esempio più facile è Don’t Stand So Close To Me dei Police…), cerca invece di cogliere la gamma delle infinite sensazioni vissute da ciascuno di noi: un disagio strisciante che talvolta sfociava in una paura confusa, un senso di condivisione del nostro palinsesto quotidiano con centinaia di milioni di altri esseri umani sulla Terra, una percezione intima e personale dell’isolamento che tuttavia diventava anche percezione misurabile con il metro di un evento globale. La nostra individualità si è confrontata per mesi con un’entità di impatto mondiale che assorbiva e agglutinava qualsiasi altro tipo di pensiero e valutazione. Se non si è trattato di una guerra, della guerra l’isolamento ha avuto gli stessi connotati di esperienza totalizzante e assoluta, gli stessi bollettini quotidiani, le stesse fughe in avanti e le stesse paure. Eccola, quindi, la nostra PLAYLIST, come espressione di un’alternanza di momenti di estasi individuale e di ipnosi collettiva, di scarto continuo tra corpo e mente, sempre comunque al di là del piacere e al di là della ragione. Fino all’urlo di gioia tribale del grande Ferruccio Tagliavini.
William Basinski The Disintegration Loops
Richard Strauss Vier letzte Lieder: Im Abendrot
Talking Heads Don’t Worry About the Government
Bob Dylan Murder Most Foul
Miles Davis It Never Entered My Mind
Ferruccio Tagliavini Voglio vivere così (col sole in fronte)
opera, classica, contemporanea opera, classical and contemporary music
:classical Ascolti speciali
Ogni aspetto della nostra vita ha subi-
to radicali modificazioni a causa del Covid-19, la cultura e lo spettacolo sono fortemente penalizzati e ogni ente teatrale, grande o piccolo, ha cercato di lanciare segnali di esistenza in vita utilizzando i canali social per mantenere aperto il dialogo con il pubblico. Oltre agli aspetti drammatici dal punto di vista economico, la rivoluzione dei cartelloni ha implicato la cancellazione o quasi sempre il differimento ad altra data delle rappresentazioni, con l’incognita delle condizioni di svolgimento in sicurezza sanitaria per il pubblico e gli interpreti. I prossimi mesi segneranno una rivoluzione e seppure ancora sulla programmazione penda la spada di Damocle della possibile recrudescenza nella diffusione del contagio, gli enti lirici come quello dell’Arena di Verona, che basa la sua stagione dai grandissimi numeri sul pubblico estivo che affolla il più grande teatro dell’opera all’aperto del mondo, hanno lanciato un’idea per evitare la totale chiusura con conseguenti ingenti perdite anche sul versante economico e di indotto. Se tutto andrà per il meglio l’Arena 2020 avrà una capienza massima ridotta a 3000 spettatori e lo spazio centrale occupato solitamente dalla platea sarà riservato alle scene e all’orchestra. Gli spettatori, in condizione di sicurezza nell’afflusso e nel deflusso potranno trovare posto distanziati nelle gradinate e probabilmente il gigantismo areniano potrà lasciare spazio a un’atmosfera più ‘ovattata’ e una qualità del suono ancora migliore, per concerti-evento che si preannunciano di qualità elevata. All’idea della sovrintendente Cecilia Gasdia hanno aderito i nomi principali del
panorama lirico, riuniti in un progetto intitolato Nel Cuore della Musica: Marcelo Álvarez, Marco Armiliato, Roberto Aronica, Daniela Barcellona, Ezio Bosso, Plácido Domingo, Yusif Eyvazov, Vittorio Grigolo, Francesco Meli, Anna Netrebko, Leo Nucci, Daniel Oren, Lisette Oropesa, Michele Pertusi, Saimir Pirgu, Anna Pirozzi, Marina Rebeka, Luca Salsi, Fabio Sartori, Ekaterina Semenchuk, María José Siri, Sonya Yoncheva. La stagione areniana prevista per il 2020 è stata differita di 12 mesi al 2021 con identico cartellone. A titolo di puro suggerimento sarebbe altrettanto bello se a Venezia per l’estate 2020 si potessero utilizzare spazi magnifici all’aperto come il Teatro Verde dell’isola di San Giorgio, un piccolo gioiello, un’arena in mezzo agli alberi, in cui per un pubblico meno numeroso, ma certamente appassionato, potrebbero essere presentati concerti e recital, per non dover vedere solo attraverso lo schermo televisivo spettacoli di indubbio interesse, ma senza l’immediatezza e l’emozione di uno spettacolo dal vivo. Finiamo con un ultimo suggerimento: in questo periodo di stress notevole e di difficoltà oggettiva per tutti non va scordato l’influsso più che positivo della musica classica per alleviare le tensioni via via crescenti. A titolo di esempio, tra i brani che svolgono un’azione rilassante si consiglia l’ascolto di: Le Cygne di Camille Saint-Saëns, i primi minuti dell’Ouverture Tannhäuser di Richard Wagner, nonché l’Aria della Suite n°3 in re maggiore di Johann Sebastian Bach. Un’azione tonificante è prodotta invece dall’ascolto dell’Ouverture Rienzi di Wagner e dalla Danza delle ore di Amilcare Ponchielli. Buon ascolto!
Special listening
Every aspect
of our lives changed due to the Covid-19 epidemic. Culture and show business have been especially penalized and theatres large and small have been giving their all to publicize their existence on social media and to keep the conversation going with their public. While economic concerns are especially dramatic, theatres do not know how (and when) they will be able to resume shows, and what level of sanitation practices will be needed. A revolution is coming: the Arena di Verona, which bases its yearly budget on its summer open-air performances, will be able to accommodate 3000 audience at best. Patrons will be required to socially distance as they take their seats, which are obviously reduced in number. An upside will be in the higher quality of the acoustics since the orchestra will be able to use the parterre area. The 2020 programme at the Arena has been put off by twelve months exactly thanks to the participation of all artists involved. Wouldn’t it be great if, for summer 2020, Venice made use of the large open-air Teatro Verde at San Giorgio Island? While not as large as the Arena, this tree-lined theatre could be the perfect stage for concerts and recitals. And another suggestion we have: in this stressful, objectively difficult time, we should not forget the positive influence classical music has on the human psyche. Alleviate tension with such pieces as Le Cygne by Camille Saint-Saëns, the Ouverture Tannhäuser by Richard Wagner, the Suite No. 3 in D minor by Johann Sebastian Bach. Find an invigorating experience in Wagner’s Ouverture Rienzi and Amilcare Ponchielli’s Danza delle ore.
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L’Archivio Storico del Teatro La Fenice custodisce, unico al mondo assieme all’Archivio storico del Teatro Regio di Parma, tutta la propria attività a partire dai primi documenti della sua nascita. Il database ospita informazioni e documenti relativi a cronologia, locandine, manifesti e avvisi, libretti d’opera originali, lettere autografe, manoscritti, spartiti, documenti sulle coreografie, documentazione e fotografie di scena degli spettacoli, bozzetti originali, modellini scenici, documenti amministrativi, dei più importanti nomi dell’Otto e Novecento. Consultabile online, garantisce il fascino di un viaggio in più di due secoli di musica, opera, danza e cultura.
SIMON BOCANEGRA LOU SALOMÉ AIDA TOSCA
ARCHIPELAGO ONLINE
Le Dimore del Quartetto in collaborazione con la Fondazione Giorgio Cini nell’ambito del progetto Archipelago, lanciano il primo ciclo di incontri online curato da Simone Gramaglia, direttore artistico del progetto e de Le Dimore del Quartetto, nonché viola del Quartetto di Cremona, e dalla musicologa Chiara Lijoi. Il 9, 16 e 23 maggio Il Quartetto, questo sconosciuto racconta la storia del quartetto d’archi a partire dai compositori di spicco del repertorio in diretta streaming sul canale YouTube della Fondazione Giorgio Cini. Al termine, sarà possibile porre domande e interagire con i conduttori e gli ospiti. I contenuti resteranno disponibili anche dopo la diretta, sullo stesso canale e su quello de Le Dimore del Quartetto corredati da playlist musicali e suggerimenti di lettura.
PALAZZETTO BRU ZANE ONLINE
MUSIKÀMERA
L’Associazione Musikàmera, le cui attività sono sospese dallo scorso 4 marzo, dà appuntamento a tutti i suoi ascoltatori e amici online: ogni due giorni alle ore 18 sulla propria pagina Facebook l’associazione pubblica dei brevi video, in cui esecuzioni di concerti delle passate stagioni di Musikàmera si alternano a quelle di artisti che si esibiranno nei mesi a venire. Un modo per tenere i contatti con il pubblico di amici e appassionati, per far sentire la propria vicinanza attraverso la forza espressiva della musica.
REFLECTING ON HORNBOSTEL-SACHS’S VERSUCH A CENTURY LATER
Il volume, curato da Cristina Ghirardini, è presentato il 15 maggio alle 18 in un evento live ospitato dalla pagina Facebook della Fondazione Ugo e Olga Levi e comprende gli interventi degli studiosi di tutto il mondo che si sono riuniti a Venezia nel 2015 per parlare della classificazione e della descrizione degli strumenti musicali. Il tema del convegno era stato proposto dal maggior conoscitore di Hornbostel-Sachs il professore Febo Guizzi, ora purtroppo scomparso, che ha riunito i massimi esperti per avviare una costruttiva discussione su come rendere questo metodo indispensabile per organizzare in maniera sistematica tutte le opere di catalogazione degli strumenti musicali.
LA FENICE EDUCATIONAL
Il Teatro La Fenice ha accolto con entusiasmo l’invito ad aderire alla campagna #iorestoacasa – nata spontaneamente sulla rete e rilanciata dal Ministro per i beni e le attività culturali e per il turismo – e quindi a utilizzare al massimo il proprio Canale YouTube per portare la cultura nelle case. Marzo e aprile hanno già registrato un forte riscontro da parte del pubblico, per un’esperienza che a maggio rivede protagonista la fortunata edizione del Simon Bocanegra di Verdi, il 7 maggio anche su Rai 5, con nuovi appuntamenti il 10, 15 e 22 rispettivamente con Lou Salomé, Aida e Tosca .
Nonostante il lockdown e la momentanea sospensione della stagione concertistica, Palazzetto Bru Zane continua a dare forma alle proprie iniziative attraverso i binari paralleli che caratterizzano la propria attività. Ecco allora che le uscite discografiche di Martini: Requiem pour Louis XVI e di Nuits si affiancano ad attività didattiche online come la lettura Soffio di vento, mentre proseguono a pieno regime le trasmissioni della Bru Zane Classical Radio, attiva 24 ore su 24 e raggiungibile da ogni parte del mondo e del Bru Zane Mediabase, sito delle risorse digitali sulla musica romantica francese del Palazzetto Bru Zane arricchito regolarmente con nuovi contenuti.
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ARCHIVIO STORICO DEL TEATRO LA FENICE
Malgrado il periodo di forzata pausa pandemica le attività della Fondazione Teatro La Fenice rivolte al pubblico più giovane, ma non solo, non si fermano e adottano la modalità online per lanciare un nuovo progetto sostenuto e promosso da McArthurGlen Designer Outlet di Noventa di Piave. Suoni in gioco e La Fenice ti racconta online sono i titoli dei tutorial e delle videonarrazioni musicali rese disponibili per tutti i ragazzi ogni settimana, gratuitamente, sui profili Facebook, Instagram, YouTube e sulla pagina educational del Teatro di Campo San Fantin.
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Leggende da palcoscenico I
l leitmotiv di questi mesi allucinanti è il virus cornuto che sta rivoluzionando il nostro futuro, dopo aver pesantemente condizionato il nostro presente, rendendo il passato prossimo quasi un trapassato remoto. La permanenza in casa è servita ai più fortunati, muniti di spazio e distanze sociali consone da familiari e conviventi, per poter gioire dalla visione e ascolto di opere liriche e concerti, proposti dai maggiori teatri del mondo, propagati in canali tematici che hanno rappresentato e rappresentano un viatico per coltissime evasioni tra note sublimi ed interpreti di altissimo livello, con direzioni e orchestre tra le migliori al mondo. Certamente l’immediatezza dell’ascolto dal vivo regala altre e alte emozioni, tuttavia spaziare tra un patrimonio di testimonianze filmate di importanza capitale permette di avere una storia della musica a portata di schermo e inoltre si può
15 Teatro San Carlo
10 Fox Theatre
14 Teatro dell’Opera dei Margravi
9 Teatro degli Stati
(Napoli, Italia) Costruito nel 1737, ha una capienza (ante Covid-19) di 1386 posti ed è il più antico teatro d’opera in Europa ancora attivo. La capienza iniziale era di 3300 persone. I lavori furono portati a termine in meno di un anno e il teatro fu di ispirazione per tutti i successivi teatri europei.
(Bayreuth, Germania)
Costruito dal 1745 al 1750, ha una capienza (ante Covid-19) di 1500 posti. Esempio eccellente di architettura barocca fu spesso usato da Wagner, che visse a Bayreuth dal 1872 al 1883, la platea priva di poltrone era riservata al ballo. Il sipario originale fu rubato dalle truppe napoleoniche di passaggio in città.
13 Opera House
(Sydney, Australia) I lavori furono iniziati nel 1959 e fu inaugurato nel 1973. Dal 2007 è patrimonio UNESCO ed è uno dei simboli iconici del continente australiano. Ha una capienza (ante Covid-19) di 5532 posti.
12 Teatro Bolshoi
(Mosca, Russia) Inaugurato nel 1856 è il sancta sanctorum per il balletto, grazie alla sua celeberrima compagnia stabile di danza, con una capienza (ante Covid-19) di 2500 posti.
11 Teatro dell’Opera
(Copenaghen, Danimarca) Costruito dal 2001 al 2004, è uno dei teatri più costosi e grandi che siano stati costruiti in tempi recenti. Pagato circa 500 milioni di dollari da un donatore privato, la Fondazione A.P. Møller e Chastine Mc-Kinney Møller, si trova lungo le rive dei vecchi docks e può essere raggiunto anche in barca. Ha una capienza (ante Covid-19) di 1703 posti.
comprendere fino in fondo quanto il mondo dell’opera lirica sia imprescindibile dalla nostra cultura anche personale. Questo piccolo e modesto contributo all’ascolto diviene soltanto un viaggio virtuale tra i palcoscenici più blasonati del panorama mondiale, ciascun appassionato avrebbe una playlist da suggerire, ci si limita qui ad indicare i maggiori teatri in cui goderne, ciascuno poi potrà ricavare la propria programmazione in base alle personali preferenze attingendo ai canali social di ciascun teatro, particolarmente ricchi di offerte. Questa la “classifica” dei 15 teatri più importanti al mondo per la lirica, salvo omissioni o differenti punti di vista:
(Detroit, Stati Uniti) Inaugurato nel 1928 è uno dei 5 spettacolari teatri Fox costruiti negli anni ‘20 del Novecento da William Fox, ha la parte esterna e interna riccamente decorata con motivi asiatici e di notte, quando è illuminato è visibile per molti isolati. Ha una capienza (ante Covid-19) di 5174 posti. (Praga, Repubblica Ceca) Inaugurato nel 1783 in stile rococò è uno dei teatri più belli e importanti d’Europa. Vanta le prime rappresentazioni di alcune opere di Mozart, Don Giovanni e La clemenza di Tito, e nel 1796 si esibì anche Beethoven. Ha una capienza (ante Covid-19) di 1300 posti.
8 Metropolitan Opera House (New York, Stati Uniti)
La sua prima versione risale al 1883, ma venne ricostruito dal 1963 al 1966, situato nel Lincoln Center è il teatro d’opera più grande al mondo. Ha una capienza (ante Covid-19) di 3800 posti.
7 Gran Teatro La Fenice
(Venezia, Italia) Inaugurato nel 1792, ospitò le prime rappresentazioni di opere di Rossini, Bellini, Donizetti e Verdi, è uno dei più bei teatri al mondo, fu distrutto due volte da incendi e l’ultima riapertura è del 2003. Ha una capienza (ante Covid-19) di 1000 posti.
6 Royal Opera House
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(Londra, Regno Unito) Edificato la prima volta nel 1732, venne ricostruito a seguito di violenti incendi, l’attuale edificio è il terzo in ordine cronologico, dopo le distruzioni del 1808 e del 1856. Il teatro è sede della Royal Opera e del Royal Ballet. La capienza (ante Covid-19) è di 2256 posti.
5 Teatro dell’Opera
(Vienna, Austria) Costruito tra il 1861 e il 1869, fu inaugurato con il Don Giovanni di Mozart. Durante la Seconda guerra mondiale venne completamente distrutto. Venne ricostruito e riaperto al pubblico nel 1955. La capienza (ante Covid-19) è di 1709 posti.
4 Opéra Garnier
(Parigi, Francia) Costruito dal 1861 al 1875, ebbe una travagliata edificazione a causa della scoperta di numerose gallerie d’acqua. Lo stile è quello del Secondo Impero, con un’eccezionale ricchezza di decorazioni interne ed esterne. Il grande palcoscenico può ospitare fino a 450 artisti. La sua capienza (ante Covid-19) è di 1900 posti.
3 Teatro Massimo
(Palermo, Italia) Costruito tra il 1875 e il 1891, è il più grande edificio teatrale lirico in Italia, con una superficie di oltre 7.700 mq. La sala è strutturata a ferro di cavallo e ospita 5 ordini di palchi. La capienza (ante Covid-19) è di 1358 posti.
2 Teatro Alla Scala
(Milano, Italia) Costruito dal 1776 al 1778, è considerato uno dei luoghi sacri per la musica lirica. Il nome deriva dal luogo sul quale il teatro venne edificato, su progetto dell’architetto neoclassico Giuseppe Piermarini: il sito della chiesa di Santa Maria alla Scala. La capienza (ante Covid-19) è di 2030 posti.
1 Teatro Colòn
(Buenos Aires, Argentina) Costruito tra il 1889 e il 1908 è considerato a tutti gli effetti un vero e proprio monumento dell’arte teatrale e lirica ed è acusticamente ritenuto il miglior teatro al mondo. L’edificio si estende per 8.200 mq e si trova nei pressi di Avenida 9 de Julio, uno dei viali più ampi al mondo. La sua capienza (ante Covid-19) è di 2487 posti.
film, festival, rassegne... films, festivals, reviews...
:cinema Cose, serie
Fabio Di Spirito Ciao Sergio, come te la passi? Stai aspettando la Fase 2 per riprendere le tue folli scorribande da runner nella bassa friulana? Twin Peacks, David Lynch (1990)
In questo
periodo di clausura (non se ne può più di questo lockdown!) è tutto un teorizzare sui mille e uno formati di immagini in movimento che affollano le nostre ore, tutto un riflettere sulla irreversibile mutazione della fruizione filmica, con la domus a prendersi la piena scena senza di fatto rivale alcuno. Francamente di aggiungere un’ulteriore, poco utile riflessione sulla mutazione verticale del vivere presente anche in chiave ludico-culturale non ne abbiamo proprio avvertito il bisogno. Primo perché, per l’appunto, non se ne può davvero più di questo disporsi pensosi in diretta su un fronte aperto ma totalmente avvolto dalle nebbie, per cui qualunque conclusione può essere smentita il giorno dopo; secondo perché in realtà questa mutazione era già robustamente in corso di accelerato dispiegamento da anni, tanto che pure i nostri amati festival, ora in pieno blocco da… a chissà chi lo sa…, si interrogavano, si confrontavano, si scontravano sulla posizione da tenere verso Netflix e compagni vari, presunti killer terminali delle sale cinematografiche. Quindi tutta questa enfasi su una supposta mutazione repentina del consumo dei formati l’abbiamo trovata prevedibile e stucchevole. Più che altro la cosa interessante è che questo forzato chiudersi in casa ha, al cospetto dell’eterno lamento sulla crisi strutturale ed irreversibile del cinema, paradossalmente ancora di più spinto verso l’alto la fame di cinema in tutte le sue declinazioni, accelerando e moltiplicando il desiderio, l’attrazione verso le offerte senza fine che le
piattaforme ci hanno propinato in questi mesi. “Piattaforma”: ecco la magica parola di questo tempo. Tutti a parlare della propria piattaforma. In questa alterata dimensione quotidiana in cui il nostro vissuto domestico si è dovuto ripiegare, ciò che ci è sembrato più divertente e anche intrigante è stato allora quello di restituire senza alcuna ambizione teorica (sia mai!) un confronto tra persone normali ma appassionatissime sulle reciproche preferenze, predilezioni, in questi giorni in particolare ma non solo, attorno al multiforme panorama delle serie tv, vero fenomeno dirompente di questa età nell’universo fiction. Ne è nato un dialogo in cui si sono incrociate abitudini proprie, difformi vedute per ragioni generazionali o di “heimat”, convergenze su prodotti che hanno segnato il nostro tempo, riflessioni, ebbene sì!, sull’evoluzione dei diversi format che hanno caratterizzato la crescita esponenziale in questi anni di questo modo di fare “cinema”. Un dialogo senza alcuna pretesa critica ma schietto, autentico, tra due onnivori, per quanto asistematici, di culture contemporanee, con una naturale, identitaria vocazione crossover. Sergio Collavini e Fabio Di Spirito (alias FDS), due nostri storici collaboratori di cinema, musica e altro ancora, si sono prestati a questa chiacchierata aperta, pur chiusissimi e sdraiatissimi nelle proprie stanze, con zoomate digitali. Buona lettura libera!
a cura di Marisa Santin e Massimo Bran
Sergio Collavini Ciao! Oramai sono più un camminatore che un runner; gli anni di scorribande presentano il conto e gli acciacchi si fanno sentire. Comunque (sssstt!) qualche fuga all’alba in aperta campagna l’ho fatta. Per me l’attività fisica in solitaria e in campagna equivale ad una sorta di meditazione. Il ritmo della camminata o corsa, la respirazione regolare e il mero aspetto contemplativo di ciò che mi circonda mi aiutano a svuotare la mente e di conseguenza ad allentare le tensioni e quindi in questo periodo è stato difficile trovare un sostituto valido. Pedalare sui rulli in garage riguardando I sopravvissuti non è stato male, ma per quanto mi consideri una persona resiliente (che va di moda…), l’aria aperta mi è mancata. A proposito de I sopravvissuti (mmmh, forse non era il caso di rivederla proprio adesso!), oltre ad essermi innamorato di nuovo di Carolyn Seymour, ho trovato che con gli anni non ha perso nulla. FDS Per quanto mi riguarda, fin da ragazzo il mio contributo alla podistica e allo sport in generale è sempre stato pari allo zero. Se vuoi farti odiare da me devi propormi di “andare a fare due passi”. Sono sempre stato un gattone domestico, per cui queste settimane di forzata casalinghitudine non hanno cambiato in modo radicale il mio vissuto quotidiano. Diverso il discorso, invece, per quel che riguarda la percezione interiore, sollecitata da stati d’animo più vari e mutevoli. Se devo isolare uno stato d’animo di sintesi di questo periodo altro, mi viene da indicare soprattutto lo stupore di vivere un’esperienza condivisa dal mondo intero non come reazione comune ad un evento mediatico di
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portata mondiale (lo sbarco sulla Luna, l’11 settembre, ecc.), ma proprio come adesione globale ad un format esistenziale, fatto di regole, limiti, strategie di sopravvivenza. Gran parte del mondo si è allineato allo stesso protocollo di vita dentro le case, aspettando le notizie di una battaglia contro un nemico ignoto e invisibile. Di mediato/mediatico non c’era nulla. SC Per me la preoccupazione è stata dominante. Ha permeato le mie mezze giornate lavorative, i miei pomeriggi casalinghi e le mie notti agitate da sogni inquietanti. Da maniaco del controllo quale sono, è stato ed è frustrante non poter fare nulla. FDS Credo che per molti esseri umani che hanno condiviso questa esperienza il lockdown sia stato anche una causa di buoni propositi legati alla possibilità di colmare dei buchi culturali. Avevamo (e abbiamo ancora) settimane di tempo vuoto: quale migliore occasione per leggere libri non ancora letti, ascoltare musica non ancora ascoltata, vedere film non ancora visti? Anche tu sei stato tentato di sfruttare il lockdown in questo senso?
nero. E che forse non è proprio, per DNA, da considerarsi una vera serie. Diciamo che i miei propositi, a parte la rassegnina su Demme e la musica, sono andati del tutto disattesi: non ho letto Moby Dick, ho visto solo 2-3 film del periodo inglese di Hitchcock, due puntate di Twin Peaks, e niente di Heimat. Mi capita spesso di buttare al vento simili opportunità. Come avrai certamente capito dalle due serie che ho citato come miei capisaldi, per me la serie è un prodotto fortemente intriso di cinema. Twin Peaks è stato girato da un grande regista di cinema e Heimat dopotutto è solo un film di 15 ore montato in episodi di un’ora. Ci ho messo tantissimo a godere della serie tv come di un prodotto autonomo, fatto di proprie regole progettuali, realizzative, distributive. Tu forse ci avrai messo molto meno tempo di me. SC Heimat l’ho visto anni fa e ne ho un ricordo vago. Su Twin Peaks, invece, mi trovi preparato perfino sulla seconda stagione, che non mi ha deluso per niente. La prima fu una rivelazione, anche se come molte altre in seguito (Lost per esempio) ci ha lasciato l’amaro in bocca sul finale, soprattutto allora.
tempo libero. Il mio rapporto con le serie è così scandito da alcuni momenti fondamentali: • La visione nei primi anni ‘60 di un particolare episodio di Ai confini della realtà (la storia di un signore amante dei libri che sopravviveva ad una guerra nucleare e si costruiva un suo habitat fatto di libri presi da una biblioteca e di cibo preso al supermercato, ma che ad un certo punto spaccava i suoi occhiali e sprofondava nella disperazione); • Heimat alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1983, seguita nel ‘94 dalla seconda stagione al Nuovo Sacher di Roma; • Twin Peaks nel 1990; • La prima stagione di Dexter che mi fece vedere mio figlio 5/6 anni fa. Come ti dicevo, sono approdato molto tardi alla serie così come si è definita negli ultimi vent’anni. SC Farei innanzitutto una distinzione netta tra le sitcom e le fiction. Capostipite delle sitcom per la mia generazione è stata Happy Days. Sostanzialmente tono leggero e divertente, durata della puntata non oltre la mezz’ora.
SC Diciamo che sono andato a giornate. Ho affrontato un paio di libri impegnativi (cito solo Vivere momento per momento di Jon Kabat-Zinn, che mi sta impegnando
FDS Anche per me fu una rivelazione, un abbaglio. Come se nel format seriale fosse entrata una mente superiore che stava scombinando tutte le regole.
FDS E chi se la dimentica! Undici stagioni dal 1974 al 1985, con ben 255 puntate. In Italia la RAI cominciò a trasmetterla nel 1977. Fu il primo caso in cui un personaggio
ancora), suonato parecchio, fatto diversi lavoretti in casa (e non sono uno portato per queste cose), chiamato amici che normalmente sento poco. La tv ha riempito il resto. La ‘serie’ che più di tutte ha scandito le mie giornate è stata il bollettino della Protezione Civile...
SC La seconda stagione non fa molta più luce e dopo tanti anni sono giunto alla conclusione che certe storie non possono e non devono avere una conclusione chiara o, peggio, un happy ending. Due parole ‘musicali’ vanno poi spese per Twin Peaks 2. Ogni episodio si conclude con una band che suona dal vivo al Bang Bang Bar (soluzione già vista parzialmente in True Detective 2): a parte i Nine Inch Nails non ne conoscevo nessuna, ed è stato come un bonus per me!
secondario diventava il protagonista, ovviamente sto parlando di Fonzie, perché l’originario protagonista, Ron Howard che impersonava Ricky Cunningham, era sempre più impegnato nella carriera di regista.
FDS Io ad esempio volevo leggere Moby Dick. Non l’ho mai letto, né da ragazzo né da grande. Poi mi ero ripromesso di trasformare casa mia in un cineforum e costruirmi delle rassegne di film, una sulle pellicole musicali del sommo Jonathan Demme, l’altra sui film inglesi di Hitchcock. SC Su Moby Dick, già dato da ragazzo. Come romanzi mi sono buttato su La valle dell’Eden, che non avevo mai letto. Sui film e sulle serie sono stato, com’è mio costume, abbastanza disordinato, senza piani particolari. FDS Venendo al tema della nostra chiacchierata, le serie tv, mi ero ripromesso di rivedere le due serie che per me rimangono ai vertici di ogni classifica: Twin Peaks di David Lynch e Heimat di Edgar Reitz, la storia del Novecento tedesco in tre stagioni di folgorante bianco e
FDS Io avevo sentito qualcosa delle Au Revoir Simone, un gruppo di tre ragazze che facevano una sorta di indiesynth-pop. Peraltro devo aver letto da qualche parte che ai tempi era il gruppo favorito di David Lynch. Ma vorrei ora per un attimo produrmi in un rimbalzo verso le radici, quelle della mia generazione perlomeno, del fruire intrattenimento dal tubo catodico, in particolare per quel che riguarda, come si dice oggi, la fiction. Io e la televisione italiana siamo praticamente coetanei, entrambi frutto nei primi anni ‘50 della ripresa produttiva del Paese e della voglia di accompagnare questo sforzo con modalità nuove e forti di entertainment e di gestione del
SC La serie che per me fa da spartiacque tra prima (anni ’70-’80) e seconda generazione (dagli anni ‘90 ad oggi) di sitcom è stata senza dubbio alcuno Friends. Dieci stagioni senza mai cali di tono (il famoso “salto dello squalo” di Happy Days), con un taglio più adulto, affrontando anche temi che negli anni ‘70 sarebbero stati considerati pruriginosi. Da Friends in poi il livello si è alzato notevolmente e l’offerta si è moltiplicata in modo esponenziale. Stesso discorso per le fiction, le serie. Dopo Twin Peaks il livello si è alzato notevolmente e ad oggi contiamo prodotti di qualità assoluta come True Detective, Breaking Bad, House of cards, Homeland. FDS Posso tradurre? L’espressione “salto dello squalo” fu coniata da un critico americano per indicare il momento in cui una serie abbassa il suo standard di qualità, riferendosi nello specifico al primo episodio della quinta
stagione di Happy Days, in cui Fonzie pratica lo sci nautico col costume da bagno e ovviamente la sua giacca di pelle e scommette di avere il coraggio di saltare con gli sci sopra uno squalo. SC Nel variegatissimo panorama seriale un discorso a parte va poi fatto per una serie come Il Trono di Spade, che ha visto un dispiegamento di mezzi (effetti speciali soprattutto) senza precedenti e difficilmente ripetibile visti i costi altissimi. FDS Forse inconsapevolmente come fruitore tv sono un conservatore, ma anche per Il Trono di Spade la ragione dell’enorme fascino su di me è che si tratta di una delle poche serie che aspira a un respiro cinematografico. Non solo da un punto di vista economico, del budget (si dice che l’ottava stagione sia costata 240 milioni di dollari, solo 40 milioni in meno di quanto è costata l’intera trilogia de Il Signore degli Anelli!), ma anche come qualità delle riprese, attenzione ai dettagli, ecc. SC Gli alti costi di produzione sono la principale causa della cancellazione di molte serie, assieme ovviamente al non sufficiente seguito. Destino che è toccato a Penny Dreadful per esempio. Cito questa perché la protagonista è Eva Green e io guardo qualsiasi cosa
dove c’è lei, a prescindere! Ma anche a Studio 60 on the Sunset Strip, bellissima serie incentrata proprio sulla produzione televisiva, con Matthew Perry (il Chandler di Friends), cancellata dopo una sola stagione (andate a recuperarla perché merita). Insomma, non sempre la qualità paga, ma rispetto al cinema la platea è molto più ampia e quindi trovano fortunatamente spazio anche progetti particolari come The End of the F***ing World o I Am Not Okay with This, sebbene nati entrambi dall’onda lunga dello straordinario successo di Stranger Things. Aggiungerei che specie per alcune serie (Breaking Bad e True Detective per esempio) la qualità del doppiaggio, seppur ottima, non rende assolutamente la forza e l’intensità dei dialoghi in lingua originale. Questo lockdown ha costretto molti ad adattarsi alle versioni originali sottotitolate e chissà che non ci sia un cambio di tendenza anche in questo Paese così ancora grandemente angloleso. FDS Hai ragione! L’Italia è stato ed è ancora il Paese dei grandi doppiatori, tengono famiglia pure loro…
SC …una volta. Ho visto recentemente Animal House ridoppiato (non con il doppiaggio originale, questione di diritti credo) ed era una cosa obbrobriosa. Per non parlare delle traduzioni non costruite da un traduttore professionista ma fatte al pc. Un esempio ricorrente è il “lasciami solo” con il quale traducono “leave me alone”, che significa invece “lasciami stare” o “lasciami perdere”. Va detto viceversa, aprendo una breve parentesi a riguardo, che le serie di produzione italiana negli ultimi anni hanno raggiunto un livello talmente buono da risultare esportabili. Su tutte Gomorra, Romanzo Criminale e The New Pope (d’accordo, quest’ultima è targata Sky Atlantic, ma la produzione è italiana), ma anche prodotti minori come Rocco Schiavone, I bastardi di Pizzofalcone, I delitti del BarLume, che portano sullo schermo l’ottima ultima generazione di giallisti italiani. Ovviamente come dimenticare poi Montalbano? FDS Certo, è però vietato tenere fuori dalla lista La Piovra, andata in onda complessivamente in dieci miniserie dal 1984 al 2001. È ancora la serie italiana di maggior successo insieme a Montalbano. E voglio spezzare una lancia per L’ispettore Coliandro, serie che ho letteralmente adorato, così sospesa tra il mito dell’ispettore Callaghan impersonato da Clint Eastwood e i malanni dell’Italia del nuovo millennio. E dire che la RAI la tenne in freezer per
due anni perché non credeva che questo ispettore così imbranato potesse riscuotere successo... SC Certo, La Piovra, volevo citarla anch’io prima, anche se mi è sempre sembrata una serie un po’ edulcorata. Coliandro molto valido, le sitcom italiane invece abbastanza pietose, da Don Matteo a Un medico in famiglia, eccezion fatta forse per Un posto al sole, che però è una soap, e Commesse. Tornando al di là dell’oceano, ma con un paio di balzi indietro nel tempo, come non ricordare poi qui anche La Conquista del West, forse la prima serie di grandissimo livello cinematografico? Tralascio volutamente Dallas e imitazioni varie, invece. Ma ora che siamo verso la fine, facciamocela infine la domandona fatale: perché guardiamo una serie? Per quanto mi riguarda non è che improvvisamente abbia smesso di guardare film, ma una serie mi permette di familiarizzare e di affezionarmi ai protagonisti in modo più completo, i quali finiscono per diventare dopo qualche stagione quasi dei vecchi amici. Visto il proliferare delle saghe, è oramai forse il cinema che guarda alle serie per fidelizzare un pubblico. Tu che ne pensi?
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FDS Già, ottima domanda da porsi infine. Solo dopo averne viste a go go però! Perchè guardo una serie? Perché ho visto le tre stagioni di Versailles, una serie francese su Luigi XIV, e non ho visto nemmeno un minuto di Lost? Per me è decisivo l’ingaggio iniziale più che la fidelizzazione, come dici tu: la scelta di perdersi dentro una serie per me nasce da un gesto di fiducia nei confronti del futuro e dalla mia capacità di tenuta psico-fisica lungo tutta la durata di una serie stessa. È un gesto di ottimismo nei confronti del mondo e del suo futuro. Il livello medio delle serie credo abbia raggiunto un grado di qualità altissimo oramai, più di quello oggi offerto dal cinema. Durante il lockdown mi sono visto Carnival Row, Unorthodox e Ragnarok: devo dire che le ho trovate tutte eccellenti, peraltro legate tra loro dal tema dell’accoglienza da parte di comunità coese di soggetti che rivelano, palesemente o meno, elementi di forte diversità. Credo che la serie sia riuscita a superare, in questi ultimi vent’anni, un deficit di capacità di interpretare il mondo che i prodotti consimili precedenti non avevano. E questo non è davvero poca cosa. SC Sono contento che tu abbia citato Carnival Row, bellissima ed inquietante serie rimasta purtoppo monca, cancellata dopo tre stagioni credo.
Riflettendo ancora un attimo sulla natura e l’evoluzione di questo format, trovo che le serie siano l’equivalente moderno dei romanzi d’appendice. In questo la serie si avvicina molto al romanzo, specie quelli belli tosti, con tanti personaggi ben delineati, mentre il cinema è più un racconto lungo, anche se, come dicevo sopra, con le saghe i film stessi si stanno adeguando al format delle serie. Importantissimo, ed imperdonabilmente quasi me lo stavo dimenticando, il ruolo del fumetto (soprattutto nella forma più evoluta di graphic novel), sempre più fonte d’ispirazione sia per il cinema che per le serie (vedi The Walking Dead, per esempio). Lo script è già fatto, il plot narrativo anche e pure buona parte delle scenografie e della sceneggiatura. Per me che da ragazzo divoravo riviste quali «Métal Hurlant», «Totem» e «L’Eternauta» è un ritrovarmici, tanto che ho ripreso ad acquistare (timidamente) fumetti. Infine, come degna chiusura, parliamo dei migliori video e categorie di questo fortunato periodo di You Porn Premium Free...ma oohhppss, non c’è più tempo! À la prochaine.
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Absentia corporis
Le forme di uno spettacolo al futuro «Il corpo che se ne va porta con sé il suo spaziamento, se ne va come spaziamento e in qualche modo si mette da parte, si ritrae in sé - lasciando però questo spaziamento “dietro di sé”, cioè al posto suo, e questo posto resta il suo, assolutamente intatto e assolutamente abbandonato. Hoc est aenim absentia corporis et tamen corpus ipsum». (Jean-Luc Nancy, Corpus, 1992) Il cinema e con esso ogni simulacro o idolo - eidolon, direbbe Debord - della presenza nella società dello spettacolo, che oggi vive il suo apice nel dramma che si consuma e si moltiplica attraverso i corpi, cancellandone la presenza e l’impronta spaziale, è un fenomeno meramente incorporeo che oggi compie, nell’obliterazione necessaria di ogni corpo, parte del suo destino. Lo spazio del cinema - e di quanto dal cinema deriva - aumenta col diminuire della presenza dei corpi. Il cinema oggi, e con esso il suo habitat naturale, e cioè ogni piattaforma streaming che ne amplifica la vocazione alla riproducibilità a e alla diffusione, non è mai stato così presente e così decisivo. Nel tempo in cui l’esistenza corporea vive nella scia del proprio «spaziamento», il cinema, inteso come monumento simulacrale, trova il suo senso ultimo e forse la sua rinascita. Mai come oggi è divenuto chiaro il suo senso, il suo volersi costituire a tutti gli effetti come esperienza, prima ancora che come fatto artistico. Il cinema è esperienza in assenza del corpo. Naturale quindi che i dispositivi che, intorno al cinema, hanno insistito lungo la sua storia per voler consegnare al cinema anche una dimensione fisica, di presenza corporea dello spettatore, oggi entrino in crisi. Le sale
cinematografiche e i festival oggi incontrano da vicino una crisi già in atto e forse iscritta nella natura stessa del cinema. Non una crisi circostanziata all’emergenza della pandemia, ma un fatto in qualche modo congenito e iscritto nel destino stesso della settima arte. Del resto la crisi dell’evento live nell’epoca della diffusione massiva di Internet e di tutte le manifestazioni di presenza incorporea che la rete postula, ammette e incoraggia, è evidente da almeno due decenni. È da più o meno una ventina d’anni, infatti, che i festival fanno i conti con l’universo del possibile generato da Internet e che si assiste alla moria delle sale cinematografiche tradizionali, sostituite da quella sorta di congelanti mausolei che sono sempre stati i multiplex. Ed è da sempre, dai tempi dei padiglioni itineranti, che il cinema sottrae spazi alla realtà tangibile e concreta per potersi riprodurre al suo interno, oltre ogni spazio, oltre ogni corpo. Il cinema, in sostanza, vive di sottrazioni alla realtà e oggi
che lo spazio sottratto ha una dimensione, uno statuto e una legittimità propria (Internet), il cinema perde interesse a piantare radici nel mondo concreto. Abita già altrove. Sta migrando altrove e non sarà possibile fermarlo. E i festival? I festival lo seguiranno, trasformandosi. O forse inabissandosi definitivamente. Lo stanno già facendo: già TriBeCa aveva i suoi canali di diffusione in rete del suo palinsesto ed era circuito, prima ancora che evento. E ora, in piena emergenza pandemica, non a caso proprio i suoi ideatori, gli ideatori di un festival nato sul vuoto di un luogo fisico - Ground zero - hanno creato il primo pan-festival virtuale, We Are One: A Global Film Festival, in streaming su Youtube dal 29 maggio. Un’iniziativa che supera i confini dell’evento circoscritto al luogo e, riunendo venti tra i maggiori festival del mondo, tenta di rispondere alla cancellazione di molti degli eventi in carne e ossa con un’iniziativa globale in absentia. Nel frattempo Cannes si auto-
sospende, mentre Locarno si reinventa come evento misto in presenza e on line, che intende fare da tramite tra opera, mercato e spettatori. E Venezia? Venezia per ora si limita ad andare avanti. E andrà avanti, forse meglio di prima, per molti motivi. La Mostra del Cinema, per volume e posizione, farà da apripista ai grandi eventi cinematografici del futuro prossimo. Se saprà giocare bene le sue carte potrà risolvere moltissime delle tensioni che da molto tempo attanagliano i festival cinematografici. Dovrà limitare la presenza fisica all’interno degli spazi del Lido, da sempre risicatissimi: tra tensostrutture, edifici storici, progetti mancati e crateri coperti, è ormai chiaro l’imbarazzo che il luogo fisico prova nell’ospitare un evento di tale peso. La limitazione di presenze potrebbe essere quindi una buona carta per la manifestazione veneziana, non un problema. La Mostra dovrà poi finalmente pensare a una sua diffusione extraterritoriale. Se riuscirà a espandersi in diversi
luoghi, in diverse sale (in tutta Europa, perché no?) e in diverse piattaforme in tutto il mondo, diventerà un evento in grado di offrire un’immagine significativa della complessità che viviamo oggi. E darà al cinema lo spazio che chiede ormai da tempo. Il mercato potrà così trovare al Lido la sua dimensione ideale, con il pubblico ridotto ai soli addetti ai lavori, coinvolti in presenza per meeting ed eventi di lavoro che vivono di istanti pregnanti, di presenze vive. Mentre il grande pubblico potrà seguire in altro modo, in absentia, appunto, una kermesse che saprebbe riqualificarsi come brand e come canale, offrendo le stesse sicurezze che oggi offrono i protagonisti del mondo dell’intrattenimento e dell’arte audiovisivi, come Netflix o Amazon, che non sono solo piattaforme, ma anche produttori e distributori di opere originali. La Biennale non dovrebbe lasciarsi sfuggire questa opportunità: trasformare l’assenza potenziale in una nuova, attualissima presenza. Riccardo Triolo
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a cura di Loris Casadei
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Lo schermo doppio David, un’edizione da non scordare questo momento è il miglior attore italiano in circolazione: Pierfrancesco Favino. Protagonista assieme a Lo Cascio (altro fuoriclasse) de Il traditore di Bellocchio, Favino si è aggiudicato il premio come miglior attore, per un film che ha primeggiato anche nelle categorie “miglior film”, “miglior regia” e “migliore sceneggiatura”. Un attore “vecchia scuola”, Favino, capace di condire le proprie interpretazioni trasformandosi fisicamente e aderendo mentalmente alla storia di volta in vola al centro della trama, grazie anche a straordinarie doti di trasformazione vocale, davvero impressionanti in Hammamet di Gianni Amelio nei panni di Bettino Craxi, esilaranti come si è potuto sentire
dal vivo durante le conferenze stampa della Mostra del Cinema quando ha imitato alla perfezione Al Pacino. Favino nel film di Bellocchio è un Buscetta in tutto e per tutto aderente all’originale, nei modi, nell’aspetto e ovviamente nella voce: accusato di tradimento da Cosa Nostra per la sua collaborazione con la giustizia, rispedì al mittente le accuse per dichiararsi a sua volta tradito dall’organizzazione che aveva tanto fedelmente servito come feroce sicario. www.daviddidonatello.it
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Global warning Tutte le lingue del cinema Combattere per il futuro del cinema ma soprattutto contro il coronavirus, così devastante nel cambiare radicalmente il nostro quotidiano stile di vita, il mondo che incontriamo appena messo piede fuori dalla porta di casa. Non si può che rendere omaggio all’idea che sta alla base di We Are One: A Global Film Festival, il “festival dei festival” che dal 29 maggio al 7 giugno porta su un’unica piattaforma, quella di Youtube, le principali rassegne cinematografiche mondiali in un evento gratuito che incoraggia gli spettatori a donare alla World Health Organization per la lotta contro il coronavirus. I venti festival che hanno aderito sono: Annecy dedicato all’ani-
mazione, il Festival di Berlino, il London Film Festival, il Festival di Cannes, il Festival di Guadalajara, quello di Macao (Iffam), il Jerusalem Film Festival, il Mumbai Film Festival (Mami), Karlovy Vary, Locarno Film Festival, il Marrakech International Film Festival, il New York Film Festival, quello di San Sebastian, Sarajevo Film Festival, il Sundance, il Sydney Film Festival, il Festival di Tokyo, quello di Toronto, il TriBeCa Film Festival e dulcis in fundo la Mostra del Cinema di Venezia. La rassegna virtuale composta di materiali d’archivio presenterà anche titoli nuovi che verranno annunciati in un secondo momento: film, documentari, cortometraggi, ma anche conversazioni.
Un modo per far sentire che il mondo del cinema è vivo e coeso. In una realtà che inevitabilmente sarà diversa da quella che conoscevamo – non per forza migliore o peggiore – una rassegna “globale” carica questa parola di nuovi significati: descrivere sì una comune condizione, dalla quale tuttavia scaturisce impetuosa la volontà di rialzarsi dopo una rovinosa caduta. Doloranti, a volte gravemente feriti. Ma dannatamente più consapevoli. www.youtube.com/WeAreOne
Tableau vivant Nel suo L’origine dell’opera d’arte del 1935 Heidegger prende spunto da un famoso quadro di Van Gogh conosciuto come Un paio di scarpe per chiarire una sua tesi. Senza il dipinto, quelle scarpe sarebbero rimaste un ‘semplice’ oggetto. L’arte, paradossalmente, ci fa capire la cosa rappresentata meglio del vero. Ma esiste anche un’arte che indaga l’arte, che la riprende, le dona una nuova vita o la svela: il cinema. Emblematico anche se poco conosciuto L’ile des morts di Benjamin Nuel, presentato a Venezia nel 2018 nella sezione Virtual Reality, dove il regista francese rende viva la serie di quadri dipinti dal pittore svizzero Arnold Böcklin nel 1880/1886. Già Rachmaninov con la sua Op. 29 aveva realizzato una musica che descriveva le emozioni suscitate dal quadro. Normale circolazione nelle sale hanno invece avuto alcuni stupendi capolavori che partono da un’opera d’arte del passato e la indagano nel prima e nel dopo, anche con passione spesso filologica nella ripresa dei dettagli. I colori della passione del 2012, regista Lech Majewski ,si concentra su La salita del Calvario di Brueghel il Vecchio del 1564. Pieno di suggestioni simboliche, dal taglio dell’albero per ricavarne prosaicamente zoccoli e che servirà poi a trasportare il corpo di Cristo, alla vita nel mulino, luogo simbolo in cui veniva generata la vita. Il fondale del film è ad intarsi e disegni, ma i corpi sono sempre di attori vivi. Dopo la visione il quadro assume una nuova dimensione, lo ha caricato di gioia, dolori, sorpresa, umanità. Lo stesso regista aveva nel 2004 diretto anche Il giardino delle delizie che aveva l’omonimo quadro di Hieronymus Bosch come ispirazione. Quest’ultimo può essere visto su iTunes. Nightwatching è invece un film del 2007 diretto da Peter Greenaway presentato alla 64a Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia sulla vita di Rembrandt, che dedica particolare attenzione al dipinto La ronda di notte. Il regista Sokurov nel 1996 diresse Madre e figlio, interamente ispirato alla pittura di Caspar David Friederich. Arrivò anche a girarlo in un formato inusuale, 1/1.75, in relazione al formato dei quadri. Usò specchi, lenti e filtri sporcati con oli per alterare le immagini girate e riprodurre l’intonazione sognante e perturbante di Monaco in riva al mare, Abbazia nel querceto o Vista dal Baltico. Nei pochi dialoghi non mancano citazioni, dal Faust di Goethe, vissuto nella stessa epoca di Friederich. Per ultimo vorrei menzionare anche Melancholia di Lars Von Trier e le atmosfere che crea riprendendo la pittura preraffaelita, in particolare Ophelia di John Everett Millais del 1851.
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Un’edizione destinata senza ombra di dubbio a rimanere nella storia, unica nel modus operandi e (speriamo davvero) nel momento che il mondo non solo del cinema si trova ad attraversare, fatto di incertezza elevata all’ennesima potenza. In un presente fatto di trasmissioni televisive senza pubblico in studio, ecco un conduttore, Carlo Conti, che da quello stesso studio arriva non solo a casa degli spettatori, ma degli stessi protagonisti del mondo dello spettacolo che collegati dai loro salotti aspettano di conoscere il nome del vincitore della propria categoria. Ed ecco che proprio grazie a questo David 2020 emerge ancora una volta la conclamata bravura di quello che probabilmente in
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Direttamente in streaming
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a cura di Marisa Santin
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on le sale chiuse già dal 23 febbraio, il cinema ha dovuto fare da subito i conti con gli effetti collaterali del coronavirus. Le strategie adottate da molte case di distribuzione hanno riguardato i tempi e le modalità di uscita dei film sulle diverse piattaforme streaming. Alcuni titoli già passati in sala tra fine 2019 e inizio 2020 sono approdati immediatamente alla visione da casa, accorciando così i canonici tre-quattro mesi di pausa tra il grande e il piccolo schermo. Ma il vero passo nel buio dell’industria cinematografica ha riguardato i film che puntavano al botteghino durante questa stagione. La Universal Pictures si è mossa per prima, trasferendo già da marzo sulle piattaforme on demand l’anteprima di Emma, atteso nelle sale in giugno. Per i film italiani, la prima a bypassare le sale è stata la Eagle Pictures con Un figlio di nome Erasmus, disponibile ancora per pochi giorni su YouTube e Google Play. Molti altri hanno seguito l’esempio. Finita l’emergenza, e ad oggi non si sa ancora bene quando sarà, si dovrà ripensare a come tornare al cinema e a come l’intero comparto degli esercenti potrà riorganizzarsi e ripartire. Guarda avanti in questo senso la Lucky Red con MioCinema, una piattaforma ideata insieme a Circuito Cinema e MyMovies dedicata ai film
The Hunt
di Craig Zobel
(Chili, Infinity, Rakuten TV) Osteggiato negli USA (e dallo stesso Trump via Twitter) con l’accusa di istigare alla violenza, The Hunt è un horror a sfondo politico firmato dal creatore di Lost Damon Lindelof. Dodici sconosciuti si risvegliano inspiegabilmente in una villa isolata e diventano prede di una caccia all’uomo da parte di un manipolo di ricchi intellettuali. Le regole del gioco cambiano quando una delle vittime si trasforma in carnefice. Nel cast anche Emma Roberts e Hilary Swank.
L’uomo invisibile di Leigh Whannell
Emma
di Autumn de Wilde
(Chili, Infinity, Rakuten TV, Tim Vision, Sky Primafila Premiere) Previsto in uscita in Italia a partire dall’11 giugno, il film è stato dirottato sul digitale già a partire dal 19 marzo. Il debutto al cinema di Autumn de Wilde, apprezzata fotografa e regista di videoclip, è il quarto adattamento cinematografico tratto dal romanzo di Jane Austen. Emma Woodhouse, una giovane e ricca donna nell’Inghilterra di inizio Ottocento, tanto intelligente quanto superba, è interpretata da Anya Taylor-Joy. Nella versione di de Wilde la storia assume tratti di contemporaneità, diventando un elogio al femminismo.
Trolls World Tour di Walt Dohrn
(Chili, Infinity, Rakuten TV, Sky Primafila Premiere) Ha fatto appena in tempo a uscire negli States il 28 febbraio, mentre in Italia ha saltato del tutto l’anteprima nelle sale del 5 marzo. Nonostante questo, il film ha incassato 122 milioni di dollari sui 7 del budget, con gli apprezzamenti della critica. Elisabeth Moss interpreta Cecilia Kass, una donna che cerca di liberarsi dalla violenta relazione con il marito. L’incubo sembra finire dopo la notizia del suicidio dell’uomo, ma Cecilia continua a sentirsi braccata. Il thriller è una rivisitazione moderna del classico di H.G. Wells.
(Sky Primafila, Apple TV, Chili, Google Play, Infinity, Rakuten TV, TIMvision) Tornano i Trolls, i pupazzetti ballerini e canterini, strafelici e supercolorati (sic) di casa DreamWorks. Quattro anni dopo le vicende del primo capitolo (un successo da 200 milioni di dollari), Poppy e Branch scoprono che in giro per il mondo esistono altri popoli Troll sparsi in cinque terre, ognuna delle quali è dedicata ad un genere musicale: pop, funk, classica, techno, country e rock. Tra le voci italiane anche Francesca Michielin, Elodie e Stash.
d’autore, che si dichiara non in contrapposizione ma complementare alle sale. Si potrà acquistare un singolo film (anche senza abbonamento) che rimarrà a disposizione per 30 giorni e 48 ore dal primo play. Il costo del ‘biglietto’ è di 7 euro per le anteprime e fino a 3,90 euro per gli altri contenuti. La novità è questa: l’utente potrà scegliere la sala a cui destinare il 40% dell’importo fra quelle che il sistema proporrà in base alla vicinanza, rilevata tramite codice di avviamento postale. Un modo quindi per sostenere gli esercenti, che sono stati una delle categorie più colpite da questa crisi. Si parte il 18 maggio con I Miserabili di Lady Ly, premio della giuria al festival di Cannes 2019. Vedere un film sul divano è piacevole e comodo, ma l’emozione - condivisa e fisica - del buio in sala non ha surrogati. Aspettiamo quindi con fiducia anche il momento in cui si tornerà al cinema. Nel frattempo, però, persino l’Academy ha dovuto prendere atto del cambiamento epocale all’interno dell’industria cinematografica. Per la prima volta nella storia degli Oscar - e solo per la prossima edizione - saranno ammessi alla candidatura anche film passati solo sulle piattaforme digitali, purché avessero già programmata un’uscita al cinema poi cancellata a causa della pandemia.
Un figlio di nome Erasmus di Alberto Ferrari
(Sky, TIMvision, Chili, Google Play, You Tube, Rakuten, Huawei Video, Infinity) La commedia on the road che vede protagonisti Luca Bizzarri, Paolo Kessisoglu, Ricky Memphis e Daniele Liotti ha fatto da apripista in Italia al passaggio delle anteprime direttamente in streaming. Pietro, Enrico, Ascanio e Jacopo hanno condiviso in gioventù l’esperienza dell’Erasmus in Portogallo. Ormai quarantenni si mettono in viaggio per Lisbona per partecipare ai funerali di un’amica comune, una donna che tutti e quattro hanno amato. Non sanno ancora che da una di queste relazioni è nato un figlio di nome Erasmus.
Tornare a vincere (The Way Back) di Gavin O’Connor
(Sky Primafila, Chili, Infinity, Google Play, Rakuten TV, TIMvision) Passa direttamente in streaming anche questa storia di riscatto che segna il ritorno sullo schermo di Ben Affleck, dopo il recente outing dell’attore sui suoi problemi di dipendenza dall’alcool. Il ruolo del protagonista Jack Cunningham - un operaio navale, ex fuoriclasse del basket ed ex alcolista, che tenta di rimettersi in gioco allenando una squadra liceale di basket - sembra cucito su misura per lui, tanto da spingere la critica americana a definire questa esperienza la prova migliore della sua carriera.
Seberg
di Benedict Andrews
di Lillo&Greg
(Sky Primafila Premiere, TIMVision, Chili, Google Play, Infinity, Rakuten TV) Salta il passaggio al cinema l’esordio alla regia del duo comico Lillo&Greg, prodotto da Lucky Red e Vision Distribution. Due ex compagni di scuola elementare, molto diversi fra loro ma ugualmente insoddisfatti delle proprie vite, decidono di sottoporsi ad un esperimento scientifico che consiste nello scambio reciproco del codice genetico, con effetti alquanto nefasti per entrambi. Con loro nel cast anche Anna Foglietta. PROSSIMAMENTE
Bombshell
Artemis Fowl
di Jay Roach
(Amazon Prime Video) Tre candidature ma nessun Oscar per questo film molto atteso che, volendo mantenere un linguaggio cinematografico, è il prequel dello scandalo Weinstein. Il licenziamento del potente dirigente di Fox News Roger Ailes per molestie sessuali precede infatti di un anno le vicende che scuoteranno Hollywood nell’autunno del 2017, dando avvio al movimento #metoo. Tre grandi interpreti - Nicole Kidman, Charlize Theron, Margot Robbie - nel ruolo di altrettante donne coraggiose che osarono scagliarsi contro il sistema.
D.N.A. Decisamente Non Adatti
di Kenneth Branagh (Chili) Kristen Stewart nei panni di Jean Seaberg, attrice americana icona della Nouvelle Vague, si è guadagnata una standing ovation da parte del pubblico alla Mostra del Cinema di Venezia, dove il film è passato in anteprima la scorsa estate. La storia si concentra sugli anni in cui l’attrice finì nel mirino dell’FBI per il suo coinvolgimento politico e sentimentale con l’attivista per i diritti civili Hakim Jamal. È il periodo delle Pantere Nere (Black Panther Party), lo storico movimento rivoluzionario afro-americano dichiarato illegale e duramente avversato dal Bureau.
(Disney +) Doveva arrivare nelle sale italiane il 27 maggio, debutta invece in esclusiva sulla piattaforma di casa Disney il 12 giugno. Il film vede l’esordio di Ferdia Shaw nei panni di un geniale dodicenne alla ricerca del padre scomparso. Un’avventura fantastica e rocambolesca che porterà il giovane protagonista a scoprire l’esistenza di un’antica civiltà nascosta, governata da potentissime fate il cui reparto di polizia è capeggiato dal terribile Comandante Tubero (Judi Dench).
prosa, danza, cabaret drama, ballet, cabaret
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Lo spazio dell’attesa
Event di Merce Cunningham in Piazza San Marco a Venezia, Biennale Venezia 1972
Questo arresto fisico, questo
vuoto spazio-temporale che tutto ha congelato in questi lunghi mesi primaverili senza che nessuno allo stato abbia potuto minimamente prevedere modalità e tempi di un eventuale, agognatissimo scongelamento, questa incredibile e concretissima parentesi che ha messo all’angolo il mondo intero ha fatto sì che anche e soprattutto l’industria culturale, a cui il turismo è naturalmente
di Massimo Bran connesso a strettissimo filo, si sia trovata completamente nuda, spogliata di qualsiasi possibilità di esprimersi nei suoi canoni temporali e scenici a favore del pubblico. Le programmazioni sono saltate come una fila di birilli falciati dal buon Lebowski: in un amen tutto al vento, senza nemmeno uno straccio di certezza su eventualmente quando, come e dove riprogrammare il previsto. Un cataclisma, senza esagerazione alcuna. La Biennale,
da cui dipende l’articolazione della scansione degli eventi culturali della città, si è trovata, come tutti gli altri del resto, nella condizione di dover almeno proporre un ribaltamento dei calendari dei suoi festival e delle sue mostre posticipando al massimo il tutto, nella speranza che… Ne è venuta fuori una compressione nell’arco di un mese e mezzo dei 5 appuntamenti top dell’anno originariamente distribuiti in 6 mesi. Quindi tra settembre e ottobre in teoria dovrebbero ora succedersi in strettissima sequenza Architettura, Cinema, Musica, Teatro, Danza, in un potenziale tour de force in cui praticamente quasi tutti i linguaggi espressivi votati all’esibizione ed all’esposizione si troverebbero nel loro insieme a restituire, ciascuno con il proprio portato, una radiografia complessiva del contemporaneo nell’universo mondo oggi, nel pieno di una crisi mai vista prima e tuttora in atto. Naturalmente molti punti di domanda e di sospensione permangono sull’effettiva realizzabilità di tutta questa teoria di spettacoli ed esposizioni. Eppure anche solo
la speranza che tutto venga in qualche modo, in forme sicuramente altre rispetto a ieri, confermato permette di almeno immaginare un’immersione esperienziale nelle arti quasi irripetibile in questa strettissima sequenza e in questa amplissima gamma espressiva. Insomma, da una crisi potrebbe davvero uscire dal cilindro una luce nuova, con un’energia addirittura insperata ed inimmaginabile ancora oggi. Noi ci crediamo, dobbiamo e vogliamo crederci, e questo primo nostro numero post-coronavirus vuole esattamente restituire questa nostra tenace disposizione, cercando in ogni sezione di lanciare degli sprazzi “apripista” a questi festival attesissimi. In questa rubrica delle arti performative in scena, quindi, abbiamo voluto salutare questa conferma posticipata dei festival di Danza e Teatro della Biennale ripercorrendo senza finalità sistematiche tracce storiche ed ultime edizioni di queste nodali rassegne contemporanee, cercando di intuire ciò che verrà, in attesa che i contenuti vengano infine svelati. Buon primo viaggio, allora.
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Se si vuole andare alla ricerca
delle radici della Biennale Danza occorre forse tornare al 1975, quando Maurice Béjart invase le piazze e i campi veneziani con il suo programma Danza 1975. Memorabile e ovviamente osannato ed esecrato lo spettacolo The Legacy of Cain – L’eredità di Caino del Living Theatre in piazza San Marco.
di Loris Casadei Carolyn Carlson e il suo Groupe de Recherche Théâtrale de l’Opéra di Paris viene invitata a organizzare, nell’ambito della Biennale, il primo ciclo di eventi di danza. Resta in carica dal 1999 al 2002. È solo infatti nel 1998 che viene deciso di scorporare il settore Danza dal Teatro. Carolyn è una scelta naturale. Coreografa di grande prestigio, dalla scuola californiana di Alwin Nikolais era approdata presto in Europa e a Venezia, dove fonda e dirige lo storico gruppo Teatro Danza La Fenice dal 1980 all’1984. Nel 2003, le succede Frédéric Flamand ed è in quell’anno che la manifestazione diviene un vero e proprio Festival. Nel 2004 scalpore sollevò la nomina di Karole Armitage, la punk ballerina, che inserì nel programma alcune coreografie legate al Teatro Noh giapponese. Di Karole tutti ricordano alcuni suoi dissacranti videoclip della cantante Madonna. Con il brasiliano Ismael Ivo (2005-2012) entriamo nelle gestioni pluriennali, che hanno il pregio di permettere una più accurata programmazione. Inizia anche la fase degli assistenti italiani che affiancano il curatore. Silvia Gribaudi fece un ottimo lavoro legando la danza all’arte performativa e al rapporto con il pubblico. Ismael Ivo proveniva dalla danza classica, ma con fondamentali frequentazioni sia di teatro giapponese che di Tanztheater. Con profonde riflessioni sul sociale e in dialogo con ogni pratica artistica, mise tuttavia il corpo al centro delle sue edizioni del Festival, non a caso intitolati Under Skin, Body & Eros, Beauty e in ultimo Body in Progress. Nel 2013 viene nominato direttore Virgilio Sieni. Attento al gesto, non solo del corpo individuale, ma anche a quello collettivo e al paesaggio, al territorio, alla geografia urbana, indirizzò una parte del programma al rapporto tra Danza e Architettura, al rapporto tra i corpi dei danzatori – quella che in linguaggio teatrale si chiama prossemica – e tra i danzatori e l’ambiente circostante, pubblico compreso. Da poco ha lanciato il Manifesto 111, che cita all’Articolo 1: «Abbiamo bisogno di creare, curare e sviluppare spazi dedicati alle pratiche del gesto per percorrere le strade nella consapevolezza del corpo». Una ricerca finemente estetica finalizzata a costruire
comunità di persone e spazi nella bellezza. Marie Chouinard viene nominata direttrice dal CdA per il quadriennio 2017-2020. Si è sempre rifiutata di lavorare, nella sua scelta di spettacoli, lungo un filo rosso, un comune denominatore, così come regolamento e tradizione imporrebbero. Più di una volta si è espressa per una apertura multipla sul mondo con una sconcertante oscillazione tra l’arte come avvicinamento al divino di Plotino e della arte come urto e shock di Walter Benjamin. Le sue prime tre edizioni sono state First Chapter (2017), Respirare, strategia e sovversione 2018 e ON BEcOMING A SmArT God -dESS (2019). In occasione della presentazione dello spettacolo da lei creato Soft virtuosity, still humid, on the edge così aveva commentato: «Da quando ho iniziato a danzare osservo la gente camminare, faccio uno scanner di tutte le persone che mi circondano e credo di capire, guardandole muoversi nello spazio, come respirano, come stanno i loro organi [...] quando si è capito come è fatta una persona e di cosa potrebbe aver bisogno, allora si riesce ad offrirglielo, senza dirglielo naturalmente [...] Ci sono quindi migliaia di piccoli gesti che ognuno di noi fa inconsciamente con il proprio corpo e che tradiscono il passato, uno stato d’animo. Siamo questo corpo, questo involucro unico e complesso ed è un lavoro lunghissimo trasformarlo o rimodulare i movimenti. È il lavoro del danzatore quello di partecipare alla ricreazione delle cose, di rimettere il proprio corpo in gioco». Aspettiamo con trepidazione la nuova edizione del Festival Internazionale di Danza Contemporanea dal 13 al 25 ottobre che conclude il ciclo firmato dalla Chouinard. Nel frattempo ci godiamo l’apertura meritoria dell’Archivio storico sul palcoscenico virtuale di Biennale Channel, dal 18 maggio al 31 maggio con la visita, sempre virtuale, alla mostra L’idea del corpo. Merce Cunningham, Steve Paxton, Julian Beck, Meredith Monk e Simone Forti, un’immersione tra i materiali dell’Archivio dal 1960 al ‘76 con oltre 200 foto cui si aggiungono manifesti e bozzetti dei tempi in cui la danza era ‘ospite’ di altri settori, musica e teatro, che testimoniavano le ricerche più avanzate anche in questo campo. La mostra – che ripropone l’esposizione del 2014 presentata a Ca’ Giustinian – mette in luce quegli artisti, tutti pionieri dell’happening e della performance che hanno rivoluzionato la scena internazionale tra gli anni Sessanta e Settanta, che alla Biennale hanno realizzato avvenimenti con un forte richiamo al corpo fuori dai teatri, coinvolgendo gli spazi all’aperto di Venezia: Merce Cunningham, Julian Beck con il Living Theater, Simone Forti e Meredith Monk.
Il Festival Internazionale di Prosa di Venezia nasce nel
1934. È una delle manifestazioni dedicate al teatro più antiche, battuta solo da Stratford-upon-Avon, che già dal 1879 aveva inaugurato per onorare Shakespeare. Tra i più attivi promotori il Presidente della Biennale Arte, il Conte Giuseppe Volpi di Misurata e l’eclettico Renato Simoni, il “nobiluomo Vidal” come talvolta si firmava sulle pagine del «Corriere delle Sera», che diverrà unico regista e motore del Festival. Gli spettacoli si tengono tutti all’aperto, come era d’uso per Stratford o ai Giardini di Boboli. L’intenzione iniziale era dar vita a una manifestazione fortemente italiana e diretta alle opere goldoniane, ma la lungimiranza degli organizzatori permise la partecipazione di Max Reinhardt, uno dei più grandi registi teatrali di tutti i tempi. Il suo Il mercante di Venezia in Campo San Trovaso ebbe un successo e un’eco internazionale tali da spiazzare i pur validi registi italiani. Giuseppe Rocca, che aveva messo in scena un’ottima La bottega del caffè scrisse polemicamente: «dobbiamo batterci per una regia moderata e non intesa come spiegamento di forze militari al servizio dell’arbitrio di un uomo che ha cura soltanto di mettere in valore il proprio genio inventivo». Da aggiungere che Reinhardt aveva sul palco due stelle del firmamento attoriale italiano, Marta Abba nei panni di Porzia e Memo Benassi a impersonare Shylock il mercante. Questa originaria capacità di coniugare scene italiane e avanguardie del mondo è rimasta una prerogativa di Venezia e a questo non sfugge Antonio Latella, direttore della sezione Teatro alla Biennale dal 2017. Il teatro lo conosce bene, nasce come attore alla scuola di Gassman, poi regista dividendosi tra Berlino e l’Italia. Coglie e valorizza la specificità veneziana: «è un luogo dove una volta all’anno spettatori, operatori, tutti gli addetti al settore si incontrano per vivere insieme alcune giornate di cultura teatrale e per osservare i tanti linguaggi del teatro e il loro continuo evolversi». Dedica il primo anno alle registe donna. Così sul palco Leone d’argento la polacca Maja Kleczewska con The Rage. Viene definita regista delle emozioni estreme. Video, corpo dell’attore, suono, illuminotecnica e regia concorrono a un “montaggio delle attrazioni” che racconta la ricerca di identità di una giovane donna. Nove le registe presentate tra cui spiccano i lavori di Anna Sophie Mahler e il duro Und Dann della regista bavarese Claudia Bauer. Il 2018 viene invece dedicato all’attore/performer, ricorrente tematica di questi anni sui confini tra le arti. Latella si chiede se sia possibile ancora marcare una differenza. Questo secondo atto è un tentativo di cercare di evidenziare se esista questa sottile distinzione, ma anche di esplorare come un’opera teatrale sia in continua evoluzione, cambiando con i gusti del regista, degli attori e del pubblico anche molto rapidamente, un tema affrontato anche da Denis Diderot nel suo Paradosso sull’attore del 1773. Nel 2019 il protagonista è invece il Dramaturg, figura che in Italia stenta a trovare un suo spazio, diffusissima invece nei Paesi di lingua tedesca. Dramaturg è colui che fa da tramite tra tutte le realtà che compongono il teatro, ma anche e soprattutto tra regista, scrittore e pubblico. Dice Latella in conferenza stampa: «dopo la rottura operata da Beckett con il suo Atto senza parole tutto diviene scrittura, il gesto dell’attore, l’oggetto scenico, la scenografia, il costume, la luce, il suono e ogni cosa che concorre alla realizzazione dell’evento teatrale». Il tema è stato trattato da Lorenzo Mango nel suo fortunato La scrittura scenica. Non poteva quindi mancare in questo terzo atto il Leone d’oro a Jens Hillje, drammaturgo per eccellenza allo Schaubühne di Berlino, con Es sagt mir nicht, das sogenannte Draussen e l’Hamletmaschine ambedue con la regia di Sebastian Nübling, ma esemplificativa è anche la presenza di Julian Hetzel con i suoi spettacoli, veri e propri testi visivi, danza, scultura, musica elettronica e gesto. A causa dell’emergenza sanitaria in corso dovremmo attendere settembre, dal 14 al 24, per poter auspicabilmente assistere al Festival Internazionale del Teatro, “quarto atto” firmato da Antonio Latella, un’attesa che sarà certamente ripagata. www.labiennale.org
VIAGGIO NEL TEATRO VENEZIANO Un’incursione nel teatro veneziano in dodici brevi filmati in forma di storytelling, con lo scrittore-narratore Alberto Toso Fei, che in questo periodo di isolamento ha spopolato sul web con Decamerone veneziano, in diretta sulla pagina Facebook Venezia in un Minuto, ogni mercoledì notte alle ore 23. Dal 12 maggio Toso Fei dà il via ad un nuovo appuntamento per raccontare storie di teatro e di teatranti via web . Dalla Commedia dell’Arte a Cesco Baseggio passando per Gozzi e Goldoni, Ruzante e Gallina e raccontando tanti divertenti aneddoti sulla vita teatrale veneziana, senza dimenticare il Teatro La Fenice e la sfera musicale. I video saranno postati ogni martedì e venerdì alle ore 14 sulla pagina Facebook del Teatro Toniolo, e rilanciati sui canali social di Cultura Venezia del Teatro Momo.
EMERGENZA GIULLARI Incursioni spericolate nel teatro di Dario Fo e Franca Rame Teatro Stabile del Veneto Dalla collaborazione tra il modello Te.S.eO. Veneto - Teatro, Scuola e Occupazione e il progetto MusALab nasce un corso di specializzazione online per giovani artisti interessati alle tecniche di affabulazione della celebre coppia del Mistero Buffo (iscrizioni fino al 27 maggio).
IL NORDEST IN TOURNÈE
Una stagione sul sofà va in tournée e anima tutto il Nordest. In attesa di ritornare “dal vivo”, il Teatro Stabile di Bolzano, il Rossetti, Stabile del Friuli Venezia Giulia, il Teatro Stabile Sloveno e il Teatro Stabile del Veneto hanno unito le forze inaugurando un’inedita tournée digitale per regalare weekend di intrattenimento a tutto il pubblico di amanti del teatro. Ogni venerdì, sabato e domenica alle ore 20.00, i quattro teatri trasmetteranno in streaming sui propri canali YouTube il video integrale di uno spettacolo teatrale.
E SERBI UN SASSO IL NOME (2018)
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Ideazione e cura di Francesca Busutti Drammaturgia di Paola Bigatto Regia di Stefano Pagin Teatro Ca’ Foscari - YouTube Le ricerche sul Sacrario dei Cafoscarini caduti nei conflitti del Novecento hanno permesso di ricostruire le vite di molti dei giovani e, a partire da queste vite ritrovate, di pensare a uno spettacolo teatrale agito da giovani di oggi che interpretino i giovani di allora. Il cortile-sacrario rievocato in scena potrà essere il palinsesto su cui leggere in trasparenza gli ideali, anche contraddittori, e i comportamenti quotidiani in tempo di guerra del mondo universitario di allora, misurandoli con quelli del presente.
LA COMMEDIA DEGLI ZANNI (2018)
Testo di Giovanni Poli Riallestimento di Stefano Poli Teatro Ca’ Foscari - YouTube La commedia degli Zanni è una storia antologica delle principali maschere italiane, giocata sui contrasti di sapore primitivo, talora a filastrocca popolaresca, sino alle forme più decadenti confluite in altri generi letterari del ‘600. Si compone di brani e singoli versi ricuciti pazientemente, capaci di delineare esattamente i tratti psicologici peculiari delle maschere e, nell’insieme, risultare un susseguirsi di avvenimenti fantastici.
FAMIGLIE CONNESSE Tre volte alla settimana, il martedì, il giovedì e la domenica alle ore 16 (in replica il giorno dopo alle 11 e on demand), su tutti i canali social del Teatro Stabile del Veneto vengono pubblicate divertenti fiabe “fatte in casa”, favole e brevi racconti per grandi e piccini, a cura di Matricola Zero, Stivalaccio Teatro e Susi Danesin.
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Balla con me
Debutta online Lo spettacolo più bello del mondo È dal 18 marzo che l’intera programmazione del Teatro Stabile del Veneto si è trasferita online (YouTube, Facebook e Instagram) alzando virtualmente il sipario ogni giorno su spettacoli, fiabe fatte in casa, video-letture, laboratori e poesie, trasferendo a livello digitale la volontà di parlare con molteplici linguaggi al pubblico di ogni età, attraverso la voce, le parole e i gesti di artisti e compagnie, affermati o emergenti. Ad aggiungersi a questo ricco palinsesto che compone Una stagione sul sofà arriva la danza, con Lo spettacolo più bello del mondo, un workshop di creazione coreografica e video-performance via WhatsApp, ideato e condotto dagli artisti Marco D’Agostin e Jacopo Jenna e a cura di Susanne
Franco. Dal 5 all’11 maggio i partecipanti (età minima 14 anni) al progetto hanno ricevuto ogni mattina via WhatsApp uno score coreografico, una serie cioè di istruzioni e consegne in formati differenti (testi, video, immagini, disegni), che ognuno ha potuto interpretare a proprio modo, per realizzare la propria azione performativa originale. Ad ogni score D’Agostin e Jenna hanno abbinato un dono – suggerimenti per visioni, letture, ascolti e sorprese – utile a sviluppare le tappe della creazione coreografica, dialogando, a turno, con i singoli partecipanti, che alla fine di ogni giornata hanno inviato ai coreografi un breve video della loro azione. Nessuna abilità tecnica richiesta, solo propensione alla creatività,
alla condivisione e a lasciarsi guidare in un percorso al tempo stesso individuale e collettivo, una riflessione sulla trasmissione a distanza dei principi coreografici, sui processi creativi e sulle azioni performative. Le restituzioni giornaliere rappresentano il materiale da cui ciascuno dei due artisti è partito per creare la propria versione della video-performance Lo spettacolo più bello del mondo, trasmesso in prima assoluta su tutti i canali social del Teatro Stabile del Veneto sabato 16 maggio. Livia Sartori di Borgoricco www.teatrostabileveneto.it
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Mio caro diario… In attesa di ‘voltare pagina’ al Teatro Ca’ Foscari «Le avversità possono essere formidabili occasioni», scriveva Thomas Mann, e forse questa è l’unica chiave di lettura che ci rimane per poter trarre qualcosa di positivo da questo momento storico così complesso e inedito. L’occasione, in questo caso, è data dal superamento dei confini, delle barriere, dell’isolamento, sì, ma anche della routine quotidiana, e riunirsi in quello che è ormai a tutti gli effetti un mondo virtuale, più essenziale che mai. In questo mondo virtuale, seppur mantenendo la “giusta distanza”, siamo tornati al cinema, ai concerti, nei musei, alle chiacchiere tra amici all’ora dell’aperitivo, e soprattutto a teatro. Siamo tornati al Teatro Ca’ Fosca-
ri, che ha spalancato virtualmente le proprie porte su un programma di laboratori online aperti al pubblico, arricchendo la propria offerta con suggestioni, ricordi e momenti di confronto. A conferma della vocazione alla formazione e alla ricerca, punti cardine del lavoro condotto in questi anni, il Teatro universitario ha avviato tra aprile e maggio due laboratori di drammaturgia online coinvolgendo registi e drammaturghi, in particolare Teatrino Giullare, che si appresta ad inaugurare una seconda edizione del workshop La ricerca della felicità per soddisfare le moltissime richieste pervenute, e Luciano Colavero che conduce il laboratorio Le mie parole saranno pugnali, prosecuzione del
Photo Giovanni Tomassetti
workshop sull’Amleto di Shakespeare tenutosi lo scorso febbraio. La stagione 2019/20 celebra i 10 anni del Teatro Ca’ Foscari e, nonostante la sua interruzione forzata, il Diario al tempo dell’emergenza offre a tutti l’occasione di rivivere alcuni momenti salienti di questo percorso attraverso contributi fotografici, video e spettacoli integrali disponibili gratuitamente sul sito del Teatro. www.unive.it
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The show must go on… line!
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a cura di Marisa Santin
F
ra le espressioni artistiche di cui è più difficile immaginare un’esistenza distanziata c’è sicuramente il teatro, che vive proprio della presenza simultanea e dello scambio immediato, non mediato e umorale tra attori in scena e pubblico in platea. Nel teatro non ci sono filtri, non c’è montaggio né postproduzione: tutto succede in quel momento. Il virus ha interrotto temporaneamente questa specificità, ma è possibile anche in quarantena godere dell’altro aspetto del teatro, quello della narrazione. Di seguito qualche esempio in un giro virtuale attraverso forme di resistenza in due città ad alta densità teatrale: Londra e New York.
LONDRA Shakespeare & Co.
NEW YORK Broadway goes streaming
È possibile rimanere connessi con il wooden O – e con Shakespeare – in diversi modi. Completamente rivestito in legno al suo interno (da qui il nomignolo wooden O), il Globe Theatre è una ricostruzione moderna, inaugurata nel 1999, del teatro a sud del Tamigi dove la compagnia di Shakespeare si esibiva. L’edificio originale costruito nel 1599 fu distrutto da un incendio nel 1613. Il successivo ripristino del 1614 venne definitivamente chiuso appena trent’anni dopo in seguito ad un’ordinanza. La programmazione del Globe Theatre, un permanente e devoto omaggio al più grande poeta e drammaturgo inglese, continua ora con un’offerta di spettacoli registrati, resi disponibili gratuitamente sul canale YouTube del teatro: The Two Noble Kinsmen (fino al 17 maggio); Macbeth (dall’11 maggio per tutto il mese); The Winter’s Tale (dal 18 maggio per tutto il mese); The Merry Wives of Windsor (dall’1 al 14 giugno); A Midsummer Night’s Dream (dal 15 al 28 giugno). Fra gli altri teatri londinesi che mettono gratuitamente a disposizione spettacoli integrali via Youtube segnaliamo il National Theatre, che nell’ambito del progetto NationalTheATreHOME propone per tutto il mese un calendario settimanale a partire da ogni giovedì, fra cui Antony & Cleopatra, una rivisitazione contemporanea dell’opera di Shakespeare con Ralph Fiennes e Sophie Okonedo (7-14 maggio), e A Streetcar Named Desire – Un tram chiamato desiderio (21-28 maggio) di Tenessee Williams, con Gillian Anderson.
L’ultima indicazione del sindaco de Blasio è che i teatri dovranno rimanere chiusi fino al 7 giugno. Le luci si sono abbassate anche sulla luminosa Broadway, il tempio degli spettacoli e dei musical live che vive inseguendo il motto “the show must go on”. Chiunque l’abbia visitata sa quanto connessi con il tessuto culturale e sociale siano a New York i luoghi – grandi, piccoli, minuscoli o giganteschi – adibiti alle performance dal vivo: migliaia tra teatri, club, locali, aree verdi, parchi urbani in tutta Manhattan, ma non solo. Persino un parcheggio o un campetto all’aperto di basket a Brooklyn o a Harlem può diventare un palco, e molto spesso lo show è la città stessa. Aspettando che le luci di Broadway si riaccendano di nuove produzioni è possibile collegarsi alla piattaforma on demand www.broadwayhd.com, che offre un ampio catalogo di spettacoli di vario genere, dai classici (Oklahoma!, An American in Paris) alle produzioni più recenti (Brokeback Mountain, Present Laughter), fino ai musical per i più piccoli (Peter Pan, Alice’s Adventures in Wonderland). Chi ama le maratone sul divano può anche approfittare del periodo gratuito di 7 giorni. E se il musical per voi è proprio un’ossessione, vale la pena tenere d’occhio anche The Shows Must Go On!, il canale YouTube attivato dal celebre compositore britannico Andrew Lloyd Webber, creatore di opere che hanno segnato la storia del genere: da Jesus Christ Superstar a Cats, da Evita a Sunset Boulevard. Ogni settimana a partire dai venerdì sera, Webber mette a disposizione gratuitamente per 48 ore la versione integrale di uno spettacolo oltre a video parziali delle opere. Per un’immersione nella meravigliosa atmosfera un po’ kitsch delle voci cristalline in outfit cotonati, consiglio la performance di Elaine Paige in Don’t Cry for Me Argentina (che qualcuno ha già parodiato in Don’t cry for me Quarantina, We’re at home always, we’ll keep our distance…) e il duetto di Antonio Banderas e Sarah Brightman tratto da The Phantom of the Opera.
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Il cielo in una stanza
Giusto
un anno fa una collega che organizza cicli di conferenze tematiche mi ha chiesto, come in altri anni, di partecipare a una nuova serie di tali incontri dedicati per il secondo anno consecutivo al tema del viaggio. Le ho proposto di parlare di un viaggio del tutto particolare, quello narrato dallo scrittore francese Xavier de Maistre nel suo piccolo libro Voyage autour de ma chambre.
di Giandomenico Romanelli Poi non se ne fece nulla perché, lei diceva, il suo pubblico si aspetta da me un soggetto storico-artistico. Avevo parlato una prima volta del viaggio di Sant’Orsola nell’arte e, per la seconda, mi assestai sul viaggio dei Re Magi (anzi, dei due viaggi: da vivi e, poi, da morti come ricercatissime e veneratissime reliquie) e sempre, come mi si chiedeva, nei cicli pittorici. Mai avrei immaginato, poi, che la generale condizione di vita provocata dal coronavirus alla popolazione del mondo intero si sarebbe avvicinata e avrebbe reso attuale quello che Xavier de Maistre narra nel suo originalissimo e geniale piccolo libro, tanto che più d’uno, ho visto, ne ha evocato l’atmosfera e interpretato il ben oliato meccanismo. Un momento: non è che de Maistre sia l’unico a raccontare viaggi straordinari dall’interno del proprio studiolo, anzi. Pensiamo a Dante e al suo itinerario tra inferi, terra e cielo; ma anche a quanti hanno viaggiato sugli atlanti più che sulle strade, in mare, sulle rotaie, in cielo o sottoterra, da Salgari a Verne fino, magari, a Borges o a Eco, in un elenco che si potrebbe estendere quasi all’infinito. La particolarità del Voyage di de Maistre sta nel fatto che il suo è un viaggio reale ma reso straordinario dalla sua dimensione minuscola, indagato con la lente d’ingrandimento invece che con il binocolo da paesaggi o, meglio ancora, osservato con il cannocchiale rovesciato, oppure visto in moviola al rallentatore, per cui ogni frammento diviene una tappa del più generale percorso compiuto sur place. Il libro di de Maistre mi aveva sempre affascinato, fin da quando, in ginnasio, me ne ero ritrovato un frammento riportato nell’antologia di francese. Avevo avuto la percezione, seppur approssimativa, della potenza della parola e della sua capacità di straniamento (ma non utilizzavo di certo questo termine allora) quanto più spericolato e creativo fosse l’uso che se ne poteva fare. Ecco, in poche parole, il contenuto del libro di Xavier de Maistre (che, avrei appreso dopo, assieme al fratello Joseph è uno dei rappresentanti più originali del pensiero conservatore, se non addirittura reazionario, della letteratura francese a cavallo della Rivoluzione): egli è un giovanissimo ufficiale savoiardo che si oppone all’invasione francese negli anni dell’Armée d’Italie, quella accozzaglia, quella banda di straccioni, come lo stesso Napoleone definirà poi con orgoglio la truppa al suo comando che scenderà le Alpi, che senza mezzi né attrezzature adeguate conquisterà il nord Italia in quella che sarà la prima e gloriosa campagna che spalancherà le porte alla carriera fulminante di Bonaparte. Bene: il giovanissimo tenente de
Maistre ha piena consapevolezza dei suoi quarti di antica nobiltà e vuol farli valere in un diverbio, sorto a motivo di un duello, con il suo capitano in quel di Aosta. Ma la gerarchia, ovviamente, prevale sul sangue, anche se blu, e il giovane focoso ufficiale viene messo per una quarantina di giorni ai domiciliari. È lì che per passare il tempo interminabile (ne sappiamo qualche cosa noi oggi e lui non disponeva certo di televisione né poteva collegarsi ad alcuna rete) del suo soggiorno forzato si inventa questo che apparentemente potrebbe sembrare un gioco, ma che risulterà, invece, una originalissima avventura culturale, ossia redigere l’inventario del suo spazio concentrazionario e della universitas rerum che ne riempie e ne definisce inconfondibilmente forma e caratteri. Potremmo vederlo addirittura come un autoritratto metafisico alla De Chirico o alla Savinio.
Qualche anno dopo la mia prima infatuazione per il nostro Voyage mi capitò un fatto singolare. Ero a casa con mia figlia bambina. Aveva uno dei malanni tipici dell’età: febbre, tosse, malessere generale e, soprattutto, il desiderio e il bisogno di essere accudita e intrattenuta da racconti, ragionamenti, discorsi, giochi di parole. Spossato dalla tenacia e insistenza della piccola ed esaurita la scorta di racconti d’intrattenimento, mi venne l’idea di sperimentare il metodo de Maistre, ma con una variante non da poco. Così per lei descrissi a parole il giro trasformato in viaggio – voyage – attorno allo studio-soggiorno in cui ci trovavamo, ma dando una veste di fiabesca e ampollosa fantasia agli oggetti in cui via via mi imbattevo: tutto vero, insomma, ma celato «sotto ‘l velame de li versi strani» (Inf IX 63). La forma vagamente attorcigliata di una maniglia di porta veniva presentata come un serpente; uno specchio come un lago d’argento (capirai che fatica! c’era già l’argento vivo e l’acqua che balla), una sedia impagliata come un trono intrecciato di fili d’oro e via dicendo. Il gioco divertiva lei che fu catturata dalla seduzione del racconto e me che me la cavavo a buon prezzo sfoggiando immagini mirabolanti e creando similitudini che mi
parevano degne delle Metamorfosi. Ogni matita, vaso, abat-jour, libro, finestra, calorifero, ventilatore diventava sfera magica, stella luminosa, varco all’ignoto, otre dei venti, roccia che cammina, fuoco imprigionato e così via. Particolare successo ebbe la descrizione dissimulata della scatola magica che raccoglieva le voci da tutto il mondo: il nostro vecchio apparecchio radio Telefunken! Imprevedibile fu la reazione della bimba quando, dopo grande insistenza per vincere i miei dinieghi su dove fosse il luogo magico in cui l’avevo guidata (volevo tenermi in serbo l’esclusiva del metodo, certo pensando di usarlo ancora per placare le sue crisi d’astinenza di narrazioni), le svelai che la caverna di Aladino in cui era stata introdotta null’altro era che il nostro soggiorno. La delusione fu tale che scoppiò in un pianto irrefrenabile rimproverandomi aspramente e con insistenza che non avrei dovuto rompere l’incantesimo: dovevo tacere senza lasciarmi convincere. Era inconsolabile. Tornando alle nostre reclusioni non volute né forse meritate e all’immagine della città (di tutte le città) in questi giorni di quarantena, non ho potuto sottrarmi a un’altra suggestione letteraria, vale a dire quella che prova il sopravvissuto nel mondo deserto e allucinato che si presenta agli occhi del protagonista del romanzo avveniristico La nube purpurea di Matthew Phipps Shiel, pubblicato la prima volta nel 1901. Un libro a suo modo inquietante che ha fatto forse da moderno apripista a un rigoglioso filone apocalittico, rinverdendo un genere caro ai novellatori antichi e medievali e introducendo anche al filone dei sopravvissuti assai caro al cinema d’oggi e già prima agli autori di storie disegnate. Il protagonista si risveglia in un mondo desertificato da una misteriosa forza impalpabile, un veleno, un fluido annunciato da un profumo come di pesca e si ritrova a girare per mari e monti in città deserte, in strade spazzate dal vento, in un silenzio vischioso dal profumo che diventa rivoltante. Non rivelerò il finale in cui si scioglie la storia (o ricomincia l’avventura del genere umano) per non rovinare la sorpresa a chi non avesse ancora letto il libro, ma l’immutabilità degli skyline, la visionaria ostilità del vuoto d’anime e corpi, le scene di esseri come surgelati o sommersi in eterno nei loro gesti quotidiani (gli scavi di Pompei, con i suoi abitanti pietrificati sotto la coltre di cenere devono aver suggestionato Shiel): tutto questo può essere paragonato alle strade delle nostre città oggi così repentinamente divenute scenari da teatro dell’assurdo e, invece, tanto reali e concrete da apparire paradossali e metafisiche. Se la vita, una vita costretta e reclusa nelle case e che tuttavia si fa intendere come una sorta di respiro che traspare anche all’esterno, se la vita, quindi, non continuasse in forme e modi fino a ieri impensabili, potremmo esser certi che la natura (in questo caso quella prevalentemente vegetale) si ri-approprierebbe assai presto di ogni luogo e di ogni spazio, come la città nel cuore del parco di Virunga nel famoso Congo di Michael Crichton o come, più concretamente e pervasivamente, nel complesso dei templi cambogiani di Angkor.
a cura di Renato Jona
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Lustri illustri
Dieci anni di Fondazione Ca’ Foscari
«In un decennio - spiega il Rettore di Ca’ Foscari, nonché Presidente della Fondazione, Michele Bugliesi - la Fondazione del nostro Ateneo ha saputo ritagliarsi un ruolo di primo piano nel territorio produttivo regionale come partner di importanti progetti di trasferimento tecnologico e public engagement. Oggi la Fondazione costituisce un sistema complementare all’Università nella gestione di progetti complessi. Il suo approccio integrato e interdisciplinare coinvolge in un’unica offerta le competenze e i servizi delle diverse strutture, centri e dipartimenti dell’Ateneo». L’ente strumentale di Ca’ Foscari ha chiuso il bilancio di esercizio 2019 consolidando una crescita nel triennio di circa il 50% del volume delle attività, attestandosi a circa 11 milioni di euro, con un margine della gestione cresciuto del 17% rispetto al 2018. La Fondazione conta ad oggi un organico, tra personale dipendente e collaboratori, di 103 unità. La Fondazione eroga progetti e attività per 6 milioni di euro a soggetti privati (istituzioni, imprese e individui), riceve erogazioni liberali e sponsorizzazioni per oltre 1 milione di euro, contribuiti da enti pubblici per circa 800 mila euro, oltre alle risorse di Ateneo per euro 2,3 milioni a copertura delle attività commissionate, generando una produttività del valore investito pari a 2,6 volte. L’esperienza pluriennale maturata nella promozione di iniziative e servizi, sviluppata con un approccio strutturato e integrato, e la costante attenzione dedicata agli stakeholder contribuiscono alla diffusione del brand Ca’ Foscari verso il territorio e le comunità anche attraverso Ca’ Foscari Alumni, associazione degli ex-studenti dell’Università e di Challenge School con un network costituito da oltre 100.000 persone e presente in 85 Paesi del mondo per promuovere l’identità dei laureati e dei detentori di master cafoscarini. www.unive.it
La parola di questo mese? C’è soltanto l’imbarazzo della scelta. Si è semplicemente fermato il Mondo! Se avessi pensato a questa eventualità appena il mese scorso, qualcuno avrebbe potuto facilmente darmi del matto. E quando mai il Mondo si ferma? Dalla sua creazione è tranquillamente (si fa per dire) vissuto, con tutti i suoi problemi grandi e piccoli, ma la terra ha continuato a girare “da Ovest verso Est, passando per il Sud” (come ci insegnavano alle scuole medie). Questa volta, però, deve aver trovato un sassolino… materiale o morale. La cosa è cominciata in Cina, si dice, paese lontano per quasi tutti i nostri lettori. La distanza ha la sua influenza sulle percezioni, affievolisce l’importanza delle notizie. Perciò quello che capita laggiù è sì importante, ma emotivamente ci arriva già attutito e il nostro meccanismo di difesa automatico provvede a sbiadirlo ulteriormente. Lo tsunami, ad esempio, ci ha fatto impressione, ma è capitato “laggiù” e lo abbiamo presto dimenticato. Le numerose guerre in atto, scoppiate qua e là nel mondo, per fortuna sono distanti (almeno speriamo) e quindi non turbano più che tanto l’andamento della nostra vita: ci limitiamo a riflettere, a ragionare e spesso, dentro di noi, qualche volta anche a… dare consigli. I fenomeni naturali altrui, come terremoti, eruzioni, siccità non vengono recepiti a fondo dalla nostra sensibilità come veramente preoccupanti, non ci coinvolgono al punto da toglierci il sonno. Ma questa volta le cose sono differenti. Gli eventi tragici si sono incredibilmente globalizzati, ci hanno raggiunto prima che potessimo rendercene conto, con la velocità con cui siamo soliti, oggi, ricevere soltanto notizie, foto o immagini di qualsiasi tipo; ce li siamo trovati dentro l’uscio di casa senza aver quasi avuto neppure il tempo di aprirlo. Per prima cosa abbiamo reagito in modo tradizionale, incredulo, superficiale, comodo e tremendamente dannoso. Subito dopo abbiamo dovuto prendere atto della realtà, di uno stato di cose che non ci ha consentito neppure di dare la colpa agli altri (com’è nostro costume fare); ci siamo limitati inizialmente ad aver affannosamente cercato il colpevole, reale o immaginario, su cui scaricare la responsabilità del nostro disagio, del pericolo grave che ci stava rincorrendo e che ci ha colto, diciamolo sinceramente, increduli, impreparati e anche comodamente, perché no?, negazionisti. Frutto, tutto ciò, soltanto della velocità con cui ci ha raggiunto? Adesso la Televisione ci invade di statistiche, numeri, diagrammi, tendenze, consigli, ordini allarmanti relativi a malati, ricoverati, “tamponati”, guariti, comportamenti obbligatori e, purtroppo, anche di quantità di defunti. Ma chi è il nemico che improvvisamente ha cambiato la nostra vita, la nostra organizzazione, la nostra Nazione e quella delle nazioni vicine, di tutto il mondo che di solito frequentiamo? I tecnici che fino a ieri erano dei buoni medici, specialisti in malattie infettive, i virologi gentilmente adesso ci danno lezioni per corsi accelerati di comportamento prudente, ammettendo onestamente che si muovono sulla base del buon senso più che dell’esperienza, quest’ultima diventata d’improvviso meno utile e rassicurante («in tanti anni di esercizio professionale non mi è mai capitato nulla del genere», il che significa, in pratica: usate il buon senso e… la prudenza non è mai troppa!). C’era una volta un buon avvocato (non è l’inizio di una favola), allievo del famoso Prof. Alpa, che si è lasciato coinvolgere in un’esperienza politica. Credo che se ne sia pentito amaramente e si sia reso conto che il momento scelto era sconveniente e assolutamente sbagliato. Ma ormai quel professionista, essendo coscienzioso, ha dovuto dedicarsi al compito assunto h24 (come si usa dire adesso),
anche perché per motivi tecnici non potrebbe dedicarsi h25, che gli sarebbero molto utili. Anziché dedicarsi, come s’aspettava, a migliorare l’andamento della sua Nazione, tra l’altro trovata in condizioni non proprio floride e oltre a tutto popolata ai suoi più alti livelli anche da persone con il profilo furbo, litigioso, poco affidabile e non sempre educato, se non addirittura volgarotto, s’è trovato costretto a mettere tutta la popolazione urgentemente agli arresti domiciliari per motivi sanitari. Provvedimento peraltro che, nel corso della storia, non aveva precedenti e perciò non era mai stato sperimentato e quindi presentava un ricco ventaglio di problematiche inusuali, inaspettate, incredibili a livello materiale e psicologico. Ricorrendo a disposizioni cogenti nei modi di ordini perentori si sono in parte evitati contrasti politici, logici, e sotterfugi sottili o ingenui. Ma poi la maggioranza di persone non ha potuto che ammettere che l’inosservanza avrebbe portato a dannosi autogoal e perciò è stata costretta a bere il calice amaro (non la medicina scomoda, perché, purtroppo, ancora inesistente). Da questa situazione, più adatta a un romanzo di fantascienza che a una realtà romanzesca, sono emersi inaspettate necessità e interessanti fenomeni. Lezioni effettuate dai professori di scuola via web, abolita la tradizionale e in fin dei conti poco apprezzata (finché c’era) libertà di movimento, uso disperato di cyclette per non atrofizzare gli arti inferiori, uso smodato (ma talvolta anche terapeutico) del cellulare, mail raddoppiate, WhatsApp continui molti dei quali fortunatamente contenenti wits, battute comiche, quiz dall’effetto incoraggiante, indubbiamente terapeutico, finalizzato a sollevare il morale dei ‘carcerati’, esibizioni sonore o luminose dalle finestre o sui balconi, per compiacersi di appartenere ad analoghi ‘gruppi’ di altri carcerati. Campane a festa, inni, validi come pacche sulle spalle per dare la sensazione che dopo, passato il pericolo, la popolazione potrà ancora sorridere e sarà in grado di sentirsi forse orgogliosa di aver attraversato indenne “quel” periodo. Quando cioè ciascuno, senza mascherina protettiva, a meno di un metro di distanza da un suo simile, senza comprometterne l’esistenza, guardandolo negli occhi, potrà dire: io c’ero! Ora sembra un sogno, ma certamente accadrà. Sarà il momento in cui si sarà compreso fino in fondo, veramente, il significato del termine “resilienza”, vale a dire, detto in soldoni, capacità di assorbire un urto senza rompersi. In psicologia ha un senso un po’ più raffinato: si tratta infatti della capacità di un individuo di affrontare e superare eventi traumatici in maniera positiva. Ecco, dopo, e soltanto dopo, quando tutto sarà passato, con somma soddisfazione, potremo dire: tra le nostre qualità vi è anche la resilienza. Ne avremo la prova. Oggi possiamo, dobbiamo soltanto crederci, seriamente, profondamente, senza tentennamenti. Questo atto di fiducia, necessario per crescere, mi ricorda il profondo contenuto di una poesia di Rudyard Kipling intitolata If, “se”, nella quale un padre spiega al figlio come diventare uomo. La parte centrale, per noi molto significativa, recita così:
:parole
:etcc...
SE…
«[...] Se riuscirai a non perdere la testa Quando tutti la perdono intorno a te Dandone a te la colpa. Se riuscirai ad avere fede in te Quando tutti dubitano Mettendo in conto anche il loro dubitare…»
Abbiamo visto che è intitolata SE! E forse questo semplice “se” è la piccola congiunzione ipotetica che coglie appieno il momento che attualmente stiamo vivendo (o sognando?).
: lettida...
EPICURO, SENECA Lettera sulla felicità – La vita felice (Demetra) Per Epicuro come per Seneca la felicità nasce dal togliere, non dall’accumulare. Si eliminano uno a uno gli strati che ci avvolgono finché si arriva al cuore dell’umano, e diventa allora chiaro cosa serve per essere felici e per diventare, allo stesso tempo, delle persone migliori. La prima parte della Vita felice contiene una critica programmatica alla concezione epicurea del piacere, che, dice Seneca, può esistere anche fra gli uomini malvagi, mentre la virtù non si trova se non tra gli spiriti migliori. Per Seneca invece legare la virtù al piacere significa minare alla base il principio dell’autosufficienza del saggio. Mauro GAROFALO Ballata per le nostre anime (Mondadori) Questa è la storia di Simone Pianetti, uomo tranquillo, padre di otto figli, onesto lavoratore, che un giorno imbracciò il fucile e uccise cinque uomini e due donne. Raccontano che fosse un visionario, uno spirito dei tempi di là da venire; ma anche che fosse cocciuto, che per un niente si incendiasse. Di Pianetti raccontano molte cose, ma una è certa: la mattina del 13 luglio 1914, dopo aver dato un bacio alla figlia più piccola, prese il fucile da caccia e ammazzò a sangue freddo sette persone, tra cui il medico, il giudice e il parroco del paese, responsabili di una congiura che aveva portato al fallimento della sua locanda e di un mulino che aveva preso in gestione… Claudio STRINATI Il giardino dell’arte (Salani) David è un dottorando in Storia dell’arte all’Università di Halifax, in Canada. Affascinato dalle bellezze del nostro Paese, riceve in dono dalla nonna un viaggio in Italia e parte così alla scoperta di tutti i tesori che sono stati oggetto dei suoi studi. A seguirlo da lontano c’è il suo mentore, lo straordinario professore che lo ha scelto come pupillo, con il quale mantiene un continuo scambio epistolare. Percorrendo in prima persona quel Grand Tour che è anche un viaggio alla scoperta di sé, David stringe amicizie, incontra studiosi e appassionati e, forse, anche l’amore... Ortensia VISCONTI Malalai (Rizzoli) Al largo delle coste italiane, su un barcone c’è Malalai, una ragazza di diciassette anni. È coraggiosa, uno spirito libero. Il suo nome è quello di un’eroina leggendaria e, anche se è nata sotto la guerra civile, nel suo cuore è ancora vivo il ricordo di un Afghanistan diverso, un posto magico in cui il silenzio degli umani lascia spazio all’ombra allungata dei melograni in fiore, al canto degli uccelli nel mercato di Ka Faroshi, alle distese di pistacchi e di asfodeli gialli, alle cime innevate che si intravedono in lontananza. A Roma c’è un vecchio amico del padre, tutti lo chiamano “il maestro”. È l’ultimo legame con il passato, l’ultimo custode della memoria di Bibi. E Malalai deve andare, per sopravvivere... Julie MURPHY Consigli e disastri di Mirtilla (Mondadori) Dividersi in due è il miglior modo per non andare in pezzi, o almeno questo è ciò che accade a Mirtilla quando i suoi genitori divorziano e vanno a vivere in due case diverse. Solo un’altra abitazione le separa, quella della signora Flora Mae, l’eccentrica vicina che trascorre le giornate alla macchina da scrivere e vive in compagnia del suo adorato gatto imbalsamato sul caminetto. La sua rubrica di consigli è un appuntamento amatissimo dai lettori della «Gazzetta di Valentine», che le scrivono per confidarle i più intimi segreti. Flora Mae ha la risposta perfetta per tutti, tanto che anche Mirtilla le ha aperto il suo cuore dopo la delusione con Kiera, la sua ex migliore amica, che si è inspiegabilmente allontanata.
:etcc...
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La pagina successiva
La Fondazione Querini Stampalia riapre al pubblico la Biblioteca La Biblioteca della Fondazione Querini Stampalia, con i suoi 375.000 volumi tra opere antiche e moderne, manoscritti, incunaboli, cinquecentine, atlanti e carte geografiche, è uno di quei luoghi magici di Venezia in cui è facile sentirsi a casa, cosa di cui ora più che mai, usciti dall’isolamento forzato, avvertiamo il bisogno. L’intento della Querini è dunque quello di “girare pagina”, riattivando per ora alcuni dei servizi rivolti al pubblico. Dal 5 maggio è infatti possibile iscriversi online e prenotare il prestito di libri e la fornitura di documenti in copia digitale. Le richieste giunte via mail all’indirizzo biblioteca@querinistampalia.org entro le ore 13, verranno rese disponibili dal giorno succes-
sivo o il lunedì successivo per le prenotazioni giunte di venerdì. Il ritiro dei volumi, come la riconsegna, è possibile dal lunedì al venerdì, dalle 10 alle 17, in un momento concordato, in modo da salvaguardare le norme della distanza sociale. Per gli iscritti alla Biblioteca sarà garantita gratuitamente la fornitura di documenti in copia digitale, da considerare sostitutiva della consultazione in sede, con una particolare attenzione verso le esigenze di laureandi e ricercatori. Per le richieste provenienti da utenti non iscritti in precedenza alla Biblioteca e per i materiali rari e antichi il servizio continua invece con tariffe e modalità consuete. Prosegue senza soste in mo-
dalità digitale Di libro in libro, il gruppo di lettura che si ‘riunisce’ virtualmente ogni martedì alle 17. Appuntamento fisso, ogni settimana protagonista è un libro, scelto in comune, letto in privato e poi condiviso, che diventa il motivo dell’incontro e del confronto, momento di scoperta e di approfondimento di un autore e di altri ad esso collegati. La partecipazione è libera, gratuita e aperta a tutti, scrivendo a c.celegon@querinistampalia.org. www.querinistampalia.org
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Venezia in premio Una nuova iniziativa del Centro Tedesco di Studi Veneziani Sostenuto dal Ministero per la Cultura e i Media del Governo Federale di Germania, il Centro Tedesco di Studi Veneziani, ospitato a palazzo Barbarigo della Terrazza, è un’istituzione interdisciplinare che promuove ricerche scientifiche e artistiche sulla storia e la cultura di Venezia e il suo territorio. All’interno del magnifico edificio affacciato sul Canal Grande si svolge una febbrile attività di ricerca e la valenza degli studi non si esaurisce solo in ambito accademico, ma ha il pregevole vanto di essere propagato a favore della collettività veneziana e non solo, grazie a un radicamento sociale ben esercitato nel territorio. Ne è un esempio la nuova
iniziativa messa in campo per il 2021 dagli amici e sostenitori del Centro Tedesco di Studi Veneziani: il “Premio Palazzo Barbarigo” per il riconoscimento di lavori di ricerca particolarmente meritevoli nell’ambito della storia, cultura, architettura, arte, letteratura e musica di Venezia e dei suoi domini. L’associazione degli amici e sostenitori del Centro Tedesco di Studi Veneziani è nata nel 2000 per sostenere idealmente ed economicamente il Centro Tedesco. Gli interventi mirati dell’associazione contribuiscono a migliorare le condizioni di lavoro dei borsisti e ricercatori. La dotazione della biblioteca, il miglioramento dell’attrezzatura tecnica e il mantenimento dei preziosi arredi
di Palazzo Barbarigo sono solo alcuni esempi di questo impegno. Il senso dell’iniziativa è riassunto da Marita Liebermann, direttrice del Centro: «Con questo premio vogliamo tenere viva la ricerca sulla città lagunare, oggi più che mai i giovani ricercatori di tutto il mondo hanno bisogno di segnali positivi di un rinnovato interesse per la storia, il presente e il futuro di Venezia». Le candidature al premio andranno presentate entro il 15 dicembre 2020. www.dszv.it
Dall’inizio della quarantena gli allievi della Scuola Teatrale d’Eccellenza, guidati da Paola Bigatto, ci tengono compagnia all’ora dell’aperitivo con la lettura de L’amore ai tempi del colera di Gabriel Garcìa Marquez in pillole podcast di 10 minuti ogni lunedì, mercoledì e venerdì alle ore 19 sui canali social del Teatro Stabile del Veneto e on demand sul sito.
A TU PER TU CON…
Dall’arte all’economia, passando per la sociologia, l’economia, la formazione e l’educazione al tempo del Coronavirus. #FDVONAIR offre agli utenti connessi pillole audio contenenti interventi e interviste, curati da M9 – Museo del ‘900 e da Fondazione di Venezia su temi sociologici, economici, politologici, del mondo del lavoro e della formazione strettamente collegati all’attualità di questi giorni.
Ne parla Michela Ponzani, storica, scrittrice, autrice e conduttrice di programmi di divulgazione per Rai Cultura e Rai Storia.
VANESSA ROGHI Lezioni di Fanstastica. Storia di Gianni Rodari 15 maggio
I cento anni dalla nascita di Gianni Rodari sono l’occasione per ricordarne la vita e le opere. Nel giorno dell’uscita in libreria del suo libro Lezioni di Fanstastica. Storia di Gianni Rodari, l’autrice e storica Vanessa Roghi ci offre un’occasione per rivivere l’eredità di questo “meraviglioso intellettuale”.
PAOLO BORIONI I Paesi nordici e la pandemia 22 maggio
7 maggio
Come i diversi governi hanno affrontato l’emergenza? Quali le differenze di approccio tra Svezia, Norvegia, Danimarca e Finlandia? Quanto le diverse scelte politiche e sanitarie possono essere spiegate da ragioni storico-istituzionali? Ne parla Paolo Borioni, storico scandinavista e professore associato all’Università “La Sapienza” di Roma.
Pier Virgilio Dastoli
SOGNI D’ORO Fiabe e favole della tradizione
Adolfo Scotto Di Luzio
La scuola e l’Università italiane di fronte al lockdown e alle pratiche di e-learning. Come stanno rispondendo all’emergenza in corso? Qual è il futuro della didattica a distanza? Livio Karrer, curatore di M9, intervista Adolfo Scotto di Luzio, docente di Storia contemporanea presso l’Università degli Studi di Bergamo. 9 maggio
In occasione della Festa dell’Europa 2020, Pier Virgilio Dastoli, Presidente del Consiglio italiano del Movimento Europeo, ripercorre i passaggi politici più importanti che hanno portato alla formazione dell’Unione Europea, partendo dalla Dichiarazione di Schuman di settant’anni fa.
Alberto Abbruzzese 14 maggio
Esiste una grammatica della pandemia? Il linguaggio, la comunicazione e i suoi strumenti come hanno fatto fronte al lockdown di questi mesi? La tecnologia ha aiutato o alienato le nostre relazioni? Quanto sono cambiate e cambieranno le nostre abitudini sociali? E ancora, quali i rapporti tra scienza e politica durante l’emergenza?
Alessandro Santagata 21 maggio
Spiritualità e riti mancati. Chiese chiuse e sacramenti negati. Come cambia la fede ai tempi del Coronavirus? Che ne è del rapporto tra Chiesa e fedeli nei giorni sospesi della pandemia? Di come l’emergenza sanitaria abbia stravolto le tradizioni e i rituali più consolidati della storia discutono Livio Karrer, curatore di M9, e Alessandro Santagata, ricercatore presso l’Università di Roma Tor Vergata e l’Università degli Studi di Padova.
PILLOLE DI STORIA
Ogni venerdì pomeriggio, le #PillolediStoria portano sui social di M9 e della Fondazione di Venezia per #FDVONAIR, la rassegna analogica #Capireil900 per raccontare, con il contributo di esperti, storici, giornalisti e divulgatori, aspetti o fatti del Novecento attinenti all’attualità. Tra questi le pandemie e il welfare state nel ‘900, il rapporto tra stato centrale e autonomie locali nei momenti di emergenza, i periodi in cui lo sport si è fermato nella storia del secolo scorso, gli stati di eccezione democratica nel Novecento e poi, ancora, recessione e crisi economica, patria, italianità e senso di appartenenza che si sono risvegliati in momenti particolari del Secolo breve.
MICHELA PONZANI Donne Guerra Resistenza ai tempi del coronavirus 8 maggio
Le italiane di oggi e le partigiane di ieri: quanto sono simili le loro battaglie? L’emergenza sanitaria ed economica sta diventando (anche) un problema di genere?
12 maggio-19 giugno
Ogni sera, prima di andare a dormire, il Teatro Stabile del Veneto offre a mamme e papà idee per la buonanotte con i podcast di fiabe e favole della tradizione raccontate da lettori d’eccezione, tra cui lo scrittore Tiziano Scarpa che ha ideato una favola ad hoc per questa occasione, Il bambino che non riusciva a dormire, disponibile on demand in cinque podcast, con le illustrazioni del designer Massimo Giacon da scaricare e colorare.
del festival, ma maggio è femminista anche e soprattutto quest’anno. Libreria MarcoPolo di Venezia e Lìbrati, Libreria delle donne di Padova, tra le prime ad aver restituito uno spazio alla comunità delle lettrici e dei lettori, uniscono le forze mettendo al centro di questo #FBF i libri femministi e due azioni concrete di solidarietà: dal 5 al 31 maggio, acquistando una selezione di titoli a tema femminismi/futuro, nelle librerie oppure online, il 10% sarà destinato a sostegno del Campo Politico Femminista di Agape e Agape Centro Ecumenico di Prali (MarcoPolo) e del Centro Veneto Progetti Donna (Lìbrati).
ARCHIVE ONLINE ACADEMY 18-21 maggio h. 15-17
Il corso, organizzato nell’ambito dell’ ARCHiVe Online Academy, mira a fornire le coordinate dei principali problemi giuridici e delle relative possibili soluzioni concernenti la digitalizzazione del patrimonio culturale. L’attività formativa, suddivisa in quattro giornate, si concentrerà sul diritto d’autore (copyright) e sui i diritti della personalità (immagine, riservatezza, protezione dei dati personali, oblio ecc.). Il diritto deve da una parte tutelare i diritti della proprietà intellettuale e della personalità, dall’altra favorire l’Open Access al patrimonio culturale per rafforzare lo sviluppo della cultura e il progresso della conoscenza. L’attuale emergenza sanitaria rafforza l’esigenza di accedere tramite Internet al patrimonio culturale. Ma il panorama normativo e giurisprudenziale si presenta complesso e per certi versi inadeguato. Le quattro lezioni on-line, organizzate in modo da favorire l’interazione tra docenti e corsisti, avranno luogo sulla piattaforma Zoom, previa iscrizione sul sito www.cini.it
NUOVE FREQUENZE Leggere Giovani Festival Letterario Internazionale 20-22 maggio
STORYTELLING RACCONTI VENEZIANI
Continua il dialogo a distanza tra l’Ateneo Veneto e il suo pubblico in questo periodo di chiusura forzata dell’istituto. Sul canale YouTube dell’Ateneo Veneto, la rassegna Storytelling propone filmati e videoracconti sui temi della nostra città che possano stimolare la vostra attenzione e al tempo stesso essere una base di riflessione per il post-emergenza, quando finalmente ci ritroveremo.
Paolo Puppa 14 maggio h. 9
Tratto dalla raccolta Venire, a Venezia (Bompiani nel 2002) il monologo Stefano il geometra, interpretato dallo stesso Puppa, professore performer, commediografo, socio dell’Ateneo Veneto. Nel suo ansioso soliloquio, il geometra protagonista sproloquia e insieme confessa a un intervistatore – venuto dagli Stati Uniti a girare in laguna un corto sul tema dell’acqua alta – le fonti della sua ansia. Questo, come altri monologhi della serie, è stato portato in scena per la prima volta nel 2004, a Venezia, al Teatro Goldoni, e poi riproposto in giro per il mondo, affidato anche ad interpreti famosi.
UNO SGUARDO FEMMINISTA SUL PRESENTE E SUL FUTURO 14 maggio h. 18
Incontro con l’epidemiologa milanese Sara Gandini e della filosofa napoletana Tristana Dini, moderato da Ilaria Durigon. L’incontro si terrà sulla piattaforma Zoom (posti limitati, per iscrizioni scrivere a: libreriadelledonnepadova@gmail.com) e in diretta streaming sulla pagina Facebook di Lìbrati. A causa dell’emergenza sanitaria, la nuova edizione del Feminist Book Fortnight – le due settimane di incontri dedicati al libro femminista – non potrà avere luogo nella formula
Organizzato da Biblioteca Civica VEZ e Rete Biblioteche Venezia e curato in collaborazione con Hamelin Associazione Culturale Bologna, Il Festival Letterario Virtuale, Nuove Frequenze nasce con l’intento di fornire al pubblico ‘anticorpi’ di storie via web parlando di scritture, romanzi, racconti e fumetti con ospiti di fama internazionale. Protagonisti della prima edizione del festival, quattro grandi autori di fama internazionale: Frances Hardinge, David Almond, Néjib e Marino Neri, che si racconteranno in video, mostrando i luoghi in cui vivono, gli studi dove scrivono e disegnano e parlando delle loro opere. Il festival sarà anticipato da alcune tappe d’accompagnamento verso gli autori di Nuove Frequenze, con i booktrailer dei libri più amati dai giovani lettori che hanno partecipato al progetto Xanadu.
Ri/PARTIRE 20 maggio h. 21
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APERITIVI LETTERARI
In diretta su Zoom dall’auditorium di Fabrica, la conferenza/spettacolo RI/PARTIRE tratta dall’ultimo libro di Stefano Allievi, La spirale del sottosviluppo. Perché (così) l’Italia non ha futuro, in uscita il 14 maggio con Laterza. Un viaggio in parole, materiali audiovisivi e opere d’arte, a cura di Fabrica, attraverso le debolezze strutturali dell’Italia che sono analizzate in cinque capitoli principali: demografia, immigrazione, emigrazione, istruzione e lavoro. Tali ambiti sono di solito indagati separatamente, ma se correlati mostrano enormi sbilanciamenti, aggravatisi a seguito dell’epidemia di Covid-19. La conferenza-spettacolo propone alcune vie d’uscita basate sulla costruzione di un nuovo patto sociale e una diversa idea del ri/partire, inteso come ricominciare, iniziare di nuovo, ma anche fare le parti, suddividere, in maniera diversa da come si è fatto fino ad oggi. Evento gratuito su prenotazione entro il 19 maggio. www.fabrica.it
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La cena delle beffe
There’s no way around it: the hospitality industry has arguably been the hardest hit by the
www.bordforen.com
Impossibile non iniziare l’ennesima rubrica parlando delle conseguenze nefaste di Covid-19 anche nel settore degli esercizi pubblici e della ristorazione in particolare. Durante queste settimane sospese in una dimensione del tutto innaturale ci sono state moltissime esercitazioni domestiche di virtù culinaria, deriva o conseguenza inevitabile del profluvio di fornelli televisivi che da anni imperversano nei vari canali, ma abbiamo anche assistito all’ingegnarsi da parte di molti ristoratori nel creare un servizio ad hoc di delivery per poter gustare in casa ingredienti e lavorazioni di qualità tipiche dei migliori ristoranti. Non è facile adattare le complessità dei piatti alle esigenze del trasporto e della resa finale da parte di non professionisti, ma, e parlo per esperienza personale, ho trovato alcuni servizi offerti di livello eccellente, pur senza il piacere della tavola al ristorante, con quelle attenzioni e raffinatezze che la dimensione domestica inevitabilmente non può offrire. Tuttavia non può bastare il delivery a colmare una situazione drammatica in termini di fatturato in picchiata e di posti di lavoro persi. Serve una politica chiara, che permetta a chi lavora nelle cucine, nelle sale e ai clienti di poter ritornare in condizioni di sicurezza nei ristoranti, nelle trattorie e nelle pizzerie; al momento con le misure prospettate saranno quasi l’80% dei locali a non poter riaprire e basta questo dato a gelare ogni barlume di ottimismo. In queste settimane molti esperti sono al lavoro per poter offrire delle soluzioni al problema dell’organizzazione del lavoro nel rispetto della distanza sociale e della sicurezza sanitaria, anche se il tema è complesso, soprattutto considerando la dimensione ridotta di moltissimi locali, specie nei centri storici delle città e Venezia
Crazy suppers
da questo punto versa in condizioni terribili, con gli spazi ridotti di cucine e sale di moltissimi locali. Ci sono risposte date da alcuni architetti, che pur nella loro logica di base rappresentano la certificazione della morte di moltissime attività, leggete queste parole e se dovesse uscire un “grazie al ca...” non sentitevi in torto! «Noi architetti, in questo momento, abbiamo come obiettivo quello di ampliare gli spazi, ma nei locali dei centri cittadini o dei borghi gli chef devono prepararsi a vedere di molto ridotti i posti a sedere. Ma potrebbe anche essere un bene: ospitando meno persone lo chef può costruire un dialogo e offrire un’esperienza unica. Ci saranno più momenti per andare a mangiare fuori nell’arco della giornata, ma sarebbe necessario un accordo tra gli chef per un piano condiviso, e seguire tutti le stesse linee guida, ma differenziando l’offerta e rendendola il più chiara possibile, a partire proprio dalla capienza [...]». C’è poi il tema della sicurezza di ciò che viene portato a tavola e su questo punto gli chef stanno mettendo a punto alcune strategie. La prima potrebbe essere data da un utilizzo intelligente delle luci, che potrebbe aiutare, un po’ come in certi percorsi museali, a mantenere le distanze. Aspetto che di certo rivoluzionerà le visite in cantina e i percorsi degustativi, oltre che l’esperienza della ristorazione, dove nessuno prende in considerazione di separare i tavoli e i commensali con un vetro. C’è inoltre un aspetto che riguarda l’individuo/cliente, che dovrà in qualche modo autocertificarsi e questo ha molto a che fare con la fiducia reciproca, un tema nuovo e importante, perché non è possibile essere troppo rigidi, ma neppure peccare di eccesso di fiducia mal riposta. A mangiare pipistrelli e pangolini...
Covid-19 epidemic. Over the last several weeks, many of us tried our hand at culinary virtues, what with the extra time some had or the factual impossibility to patronize local businesses. Professionals, in turn, now operate in take-away or delivery-only modes. It’s not easy to adapt what can be complex preparations to a delivery box to be schlepped for miles, pothole after pothole, but believe me, I tried a few and they did an excellent job. Alas, the pleasure of a restaurant service can rarely be replicated in the domestic environment, and a delivered meal, however good, can do little against a tragic situation in terms of greatly diminished turnouts and thousands jobs disappearing. We need clear pathways laid down by our administrations that will allow hospitality workers to go back safely to their jobs – there is voice of up to 80% of businesses not being able to conform to purported new guidelines, and that’s enough to kill off any optimism. Experts are working at solutions to work organization under the imperative of social distancing and perfect hygiene – a complex topic, especially in cities such as Venice, where eateries are often very small, and revenue per square foot is not looking up any. Restaurateurs are thinking of redoing their lighting to encourage social distancing, since nobody’s ever taken seriously the idea of setting up polycarbonate barriers. There’s a human aspect in everything we do that we cannot cancel out under a bureaucratic directive. In fact, the most essential players in the future of business are the customers, the individuals, who will be asked to self-certify and live up to the expectations of the social contract and to make an extra leap of trust. Absolute rigidity is unattainable, but, God willing, there should be plenty pinches of salt to evaluate every situation.
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Stato di necessità
A MOSAIC OF STYLES & ARTS
L’orto domestico, realtà possibile Quella che poteva sembrare una moda molto hipster dell’orto sul balcone, potrebbe diventare una necessità dettata non solo da motivi ecologici, ma anche e soprattutto economici, considerato il periodo non esaltante (viva gli eufemismi!) che stiamo attraversando. Ci sono poche, semplici regole che vanno rispettate e il raccolto sarà assicurato. Se ci si avvicina per la prima volta alla coltivazione di un orto si prediligano ortaggi a ciclo breve, come lattuga, spinaci, rucola e bieta o erbe aromatiche. Se invece si amano anche i fiori, si scelgano ortaggi e frutta che fioriscono e con una valenza anche decorativa, come peperoncini, fragole o pomodorini. Un altro aspetto importante è la
scelta della giusta dimensione dei vasi, proporzionata alla dimensione dell’ortaggio prescelto. Le zucchine, ad esempio, hanno bisogno di vasi più grandi rispetto a lattuga, sedano, cicoria e alla maggior parte delle erbe aromatiche. La qualità del terriccio farà la differenza. Può essere tradizionale, già fertilizzato, oppure bio già concimato. Per renderlo ancora più efficace vanno preparati dei vasi con argilla espansa o un po’ di ghiaia sul fondo. Aggiungendo successivamente della sabbia a grana grossa al terriccio l’acqua verrà drenata con maggiore facilità. Se il balcone è inondato di luce durante tutto il giorno è possibile piantare qualunque varietà di ortaggio, diversamente ci si deve limitare a valeriana, cicoria, cavoli,
bietola, prezzemolo e alte piante che non necessitano di irradiazione costante di luce, come basilico, salvia, rosmarino, indivia e ravanelli. Infine l’annaffiatura, una volta trapiantate le piantine vanno bagnate bene e serve aspettare che la terra sia asciutta prima di annaffiare nuovamente. Nei giorni successivi andrebbero bagnati sovente i bordi dei vasi durante la giornata, annaffiando solo al tramonto per permettere alle piantine di notte di assorbire l’acqua evitando che evapori nelle ore diurne. Buon raccolto!
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Sfumature geografiche
ACH OF THE TEN ROOMS IS CHARACTERIZED BY A PRECISE IDENTITY. DURING THE RESTORATION, THE HISTORY AND TRADITIONS OF VENICE WERE CAREFULLY PRESERVED, AND ARE NOW ENHANCED BY THE MODERN DESIGN OF THE SELECTED FURNISHINGS AND FABRICS.
Storia della crema, catalana e non Non ho alcuna competenza per dare ricette di sorta, posso solo proporre qualche pillola di storia legata a due dolci simili. La storia racconta e non ingrassa, e di questi tempi non è cosa di poco conto! L’argomento è la crema catalana e crème brûlée: due dessert a base d’uovo da assaporare rigorosamente al cucchiaio. Due dolci legati da una parentela così stretta da rendere difficile distinguerli al primo sguardo. Anzi, il modo in cui si presentano è praticamente identico: una pellicola di caramello abbrustolito in superficie, che lascia intravedere il giallo della crema sottostante. Solo la prova dell’assaggio può rivelare le differenze tra crema catalana e crème brûlée.
Specialità facilmente associabile alla regione spagnola della Catalogna la prima, francese sin dal nome la seconda, ci sono versioni discordanti riguardo le origini di entrambe. C’è chi sostiene che derivino, in realtà, dalla burnt cream inglese, letteralmente “crema bruciata”, che sul finire dell’Ottocento veniva servita presso il Trinity College di Cambridge, con il logo della prestigiosa scuola britannica impresso a ferro caldo in superficie. È in particolare della crème brûlée che la burnt cream sembra essere antenata. Le prime tracce di quello che è ormai un consolidato dolce della cucina francese risalgono, infatti, a un ricettario del Seicento, dove viene descritto col
nome di crème anglaise. Riguardo la crema catalana, invece, esiste una leggenda secondo la quale sarebbe nata in modo casuale da alcune monache catalane. In occasione della visita del vescovo presso il convento, le monache avrebbero preparato un budino, risultato però troppo liquido. Per tamponare l’errore avrebbero dunque cosparso la superficie con dello zucchero caramellato a caldo. Da qui, il nome crema cremada, ossia “bruciata”, anche se, nel tempo, si è diffusa l’abitudine di prepararla in occasione del 19 marzo, ricorrenza di San Giuseppe, per cui è oggi nota anche come crema de Sant Josep.
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ricette dedicate di Pierangelo Federici
i consumi culturali mediante smartphone, laptop e tablet. Cosa ne pensi? Credo non sia possibile accontentarsi di vedere un artista esibirsi sui social o su Youtube; certo può essere una modalità, possibile ma non esauriente e non soddisfacente quanto la dimensione live, sia per chi un concerto lo vede sia per chi lo fa. Il pubblico fisicamente presente fa parte dello spettacolo, lo arricchisce e lo rende unico, contribuendo concretamente alle emozioni che si sprigionano dal palco.
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© Diego Landi
ANGELA MILANESE Veneziana, inizia molto giovane come autrice e cantante del gruppo rock funky Missing in Action, per poi studiare jazz con musicisti di caratura mondiale. Proseguendo gli studi (si laurea nel ‘94) lavora professionalmente come corista di Paola Turci, Donatella Rettore, Francesco Baccini, Sabrina Salerno e Umberto Tozzi. Collabora inoltre con Pino Donaggio nella realizzazione di varie sigle televisive e insegna canto moderno nelle scuole di musica. Nel 1999 grazie a una borsa di studio partecipa a corsi diretti da Mogol per interpreti e compositori, poi nel 2000 per un paio d’anni lavora alle produzioni televisive con Ivana Spagna, Paolo Belli, Elisa, Al Bano, Renato Zero, Massimo Ranieri, Paola Turci e altri. In seguito continua la sua attività, sia discografica (4 cd a suo nome e come solista in dischi altrui) che di partecipazione a festival e con centinaia di concerti live.
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L’intervista Ciao Angela, avrei preferito intervistarti come faccio di solito per la mia rubrica, magari seduti al tavolo di un bar, al sole, davanti a uno spritz. Ma tant’è, facciamocene una ragione, rimandiamo l’incontro diretto al dopo pandemia. In questo periodo non si può evitare di parlare di quanto il coronavirus abbia colpito pesantemente, oltre che il singolo artista, la struttura stessa del settore dei concerti e degli eventi. Vuoi parlarci del tuo isolamento forzato? Come tutti, sono chiusa in casa con la mia famiglia dai primi di marzo, uscendo soltanto per le spese e poche altre necessità. Il lavoro si è notevolmente ridotto: qualche lezione di canto online, mentre per quanto riguarda l’attività concertistica, se già prima della pandemia le occasioni di esibirsi con i propri progetti musicali si erano diradate, ora si prospetta un periodo ancora più difficile. L’emergenza sanitaria odierna non ha fatto altro che accentuare una crisi già in atto. In questo momento approfitto quindi per scrivere, pensare ai nuovi progetti e studiare: sto portando avanti gli studi al Conservatorio per ottenere la laurea di II livello in Canto jazz. In casa c’è tanto da fare e non ci si annoia, tra una lezione, lo studio e la vita quotidiana. Inoltre sono stata invitata a realizzare qualche diretta sui social in occasione della Festa del 25 Aprile e per Emergency, con un sentimento confuso tra il groppo in gola e il desiderio comunque di dire qualcosa. Questa pandemia e la conseguente sospensione di tutte le attività ci impone di riflettere sul senso di quello che facciamo, ci costringe a una maggiore consapevolezza: nel mio caso che senso abbia oggi il mio fare e insegnare musica. E mi rispondo che oggi, forse... ha ancora più senso! È stato perfino coniato una specie di neologismo, la cosiddetta “lockdown economy” per definire dinamiche e nuovi scenari che, secondo alcuni, rimarranno nel futuro. In sintesi, praticamente tutti
Leggo sul tuo sito: «Dare una veste nuova, che sappia parlare un linguaggio moderno pur rispettando anzi rivelando con esso l’ispirazione dell’originale. Prendere un canto nella sua forma rudimentale come fosse lo standard della tradizione americana e reinterpretarlo nel linguaggio che ci appartiene». Raccontaci le tue Peregrinazioni Lagunari . Il cd-book Peregrinazioni lagunari, pubblicato nel 2009 dall’etichetta La Nota, è stato un lavoro coraggioso, che continua a produrre i suoi frutti tutt’oggi: un lavoro al di là delle mode, senza tempo. Mai avrei pensato di dedicare un progetto alla tradizione veneziana, affascinata com’ero dalla produzione di canzoni mie o di repertori attraenti. Poi arrivò la borsa di studio al CET di Mogol. Parecchi anni fa mia mamma lesse sul giornale di questo concorso e me lo sottopose, fui selezionata insieme a una decina di talenti veneti e lombardi per partecipare a un corso sulla musica popolare veneta e lombarda, che si sarebbe tenuto presso il Centro Tuscolano di Mogol. Fui inizialmente perplessa di fronte alla proposta, poi cominciarono a riecheggiare nella mia mente le melodie popolari che mio padre e mia nonna mi cantavano fin da piccola. Così accettai la sfida e quando per la prima volta ascoltai la voce di Luisa Ronchini, un mondo sommerso di canti e parole è venuto a galla, si è fatto spazio e ha cominciato a generare in me il desiderio di dedicare un intero lavoro a quelle melodie: erano già parte di me, gli ho soltanto dato un vestito e un’interpretazione che le allontanassero dalle restituzioni meramente folk e le avvicinassero a un pubblico musicalmente più esigente. Tutto ciò grazie ovviamente anche ai musicisti che insieme a me hanno lavorato a questo progetto. Da poco passato il periodo che apre le porte alla stagione più bella della nostra città, mi viene in mente la produzione di successo Bocciolo di rosa che hai curato con Alberto Toso Fei il 25 aprile di qualche anno fa… Proprio il 25 aprile io, mio marito (il contrabbassista Maurizio Nizzetto) e Alberto Toso Fei abbiamo realizzato una diretta Facebook e Instagram riproponendo la leggenda del Bocolo e le canzoni nate per questo progetto. È stata un’occasione per farci seguire da centinaia di persone. Si tratta della fase 2 del mio contributo alla venezianità. Per la prima volta mi sono cimentata nella scrittura di un brano in dialetto veneziano, La dona nera tratta da una storia vera, di cui abbiamo realizzato anche il video, e di una canzone che riassume la storia del Bocolo così come viene raccontata da Alberto. Nel cd-book Bocciolo di rosa, pubblicato per Azzurra Music nel 2015, ci sono anche grandi ospiti, rappresentanti eccellenti della venezianità: Skardy che duetta con me nella versione reggae di Impiraresse vs Anguelanti e la meravigliosa canzone di Gualtiero Bertelli Barche de carta in una raffinata versione per contrabbasso e voce. Cosa tieni e cosa butti via della cosiddetta “venezianità”? Come in cucina, non si butta via niente, anche gli aspetti che possono risultare più fastidiosi del carattere veneziano, possono entrare a far parte di un buon piatto, basta saperlo abbinare! Mi riferisco forse a quell’abitudine tutta veneziana dello sfottò che può a volte risultare al limite del fastidioso, ma che più spesso, soprattutto se autoironico, infonde sempre grande ilarità. Sicuramente tengo e sottolineo con grande ammirazione
la forza con cui i veneziani hanno saputo far fronte ancora una volta alla terribile ondata di aqua granda qualche mese fa: “Oh issa eh!” recita la canzone dei Battipali per darsi forza: i Veneziani l’hanno saputo fare ancora. Cambiamo argomento, questa è pur sempre una rubrica di cucina. Non so come te la cavi ai fornelli, ma visto lo strano periodo che stiamo vivendo, se adesso aprissi il tuo frigorifero cosa ci troverei dentro? In famiglia siamo in quattro, io, mio marito e due figli ormai grandi, quindi il mio frigorifero è sempre abbastanza pieno! Dentro troveresti i fondamentali: tanta verdura fresca di stagione di tutti i tipi, latte, yogurt, formaggi, qualche affettato, pasta fresca, carne, pesce, gelato e altro. Niente piatti pronti. Cucino molto, mi piace farlo, la trovo un’attività molto creativa e che mi fa ‘staccare’ la testa. L’ultima e tolgo il disturbo, una domanda che pongo spesso agli amici artisti e che mi aiuta molto nella creazione della ricetta personalizzata: c’è un colore o un tema musicale che ritieni particolarmente invitante e appetibile? In questo periodo sono attratta dal colore blu, lo associo alla musica che per lo più sto ascoltando anche per motivi di studio: sto approfondendo il linguaggio modale a partire dai primi passi compiuti da Miles Davis fino agli esempi più contemporanei (Kenny Wheeler e altri). Se devo fare il nome di un brano, direi Both Sides Now di Joni Mitchell nella versione con orchestra del 2000. Un colore e un tema molto spirituale. Comunque avanzo uno spritz in tua compagnia! La ricetta Il lockdown finirà e allora... Le telline o arselle, approfittando della bassa marea, quando si formano le secche davanti alla spiaggia diventa un gioco da ragazzi raccoglierle scavando con le mani. Gustare due spaghi alle telline con un’ombra di buon bianco fresco e farlo ascoltando Joni Mitchell è una gioia impagabile. DO SPAGHI A LE TELLINE Lascia le telline a spurgare in acqua leggermente salata per tutta la notte, quindi sciacquale e falle aprire a fuoco vivace con aglio in una padella coperta, un filo d’olio e mezzo bicchiere di vino bianco secco. Aggiungi una dadolata di pomodoro del Cavallino (tondo liscio insalataro, che viene coltivato nell’area del litorale Nord di Venezia, dalla foce del Fiume Sile fino a Punta Sabbioni) e, se gradisci, peperoncino piccante. Cuoci gli spaghetti al dente e falli mantecare in padella col liquido filtrato della cottura delle telline, quindi completa il piatto con le telline (a me piace lasciarle con le conchiglie, vedi tu se toglierle), il pomodoro e una presa generosa di prezzemolo fresco tritato. Per accompagnare, un calice di Soave che è un grande vino prodotto da uve Garganega sulle colline a est di Verona, dove il terroir vulcanico fa miracoli.
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Mensile di cultura, spettacolo e tempo libero Numero 243-244* - Anno XXIV Venezia, 1 Maggio 2020 Con il Patrocinio del Comune di Venezia Autorizzazione del Tribunale di Venezia n. 1245 del 4/12/1996 Direzione editoriale Massimo Bran Hanno collaborato a questo numero Maria Laura Bidorini Loris Casadei Sergio Collavini Fabio Di Spirito Pierangelo Federici Renato Jona Julija Kajurov Franca Lugato Daniela Paties Montagner Laura Piccinetti Giandomenico Romanelli Marisa Santin Livia Sartori di Borgoricco Riccardo Triolo Delphine Trouillard Massimo Zuin Si ringraziano Melania G. Mazzucco Fabrizio Plessi Paolo Lucchetta Giuseppe Mormile Silvia Rinaldi Valentina Secco
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Quella irriducibile materia casa delle idee
In Italia, come acutamente si rileva spesso, vi
è più gente che pubblica libri di quanta ne legga. Ho sempre ammirato chi si è sempre posto in modo religiosamente laico verso la sacralità della pubblicazione, mai riuscendo a banalizzare un atto che è in qualche modo definitivo e per sempre. Quando decidi di violare lo spazio bianco della carta con un tuo scritto sai che, senza voler enfatizzare troppo ma pur detto con assoluta convinzione, in qualche modo ti assumi una tua precisa responsabilità, ossia quella di aggiungere a miliardi di parole precedenti la tua, imprimendola in un oggetto pubblico, per quanto diffuso sia e sarà. Quindi ho sempre apprezzato chi vive con pudore e insicurezza intellettuale e di animo questa pulsione ad aprire agli altri con la scrittura il proprio universo intimo, la propria fantasia, le proprie presunte qualità speculative. Mi riferisco in particolare qui non tanto alla carta stampata, che comunque sia anch’essa, un tempo certamente più di oggi, pretende, o dovrebbe perlomeno pretendere, un certo rigore da parte di chi scrive nell’esposizione delle cronache, delle idee, delle riflessioni, quanto alla pubblicazione di testi, in particolare di romanzi, di raccolte di poesie, insomma, quel terreno in cui ci si misura con la fantasia e l’intimità proprie. Per quanto mi riguarda ho sempre, forse sin troppo (ma non è mai abbastanza!), viaggiato in questa direzione con la presa salda sul freno a mano, poiché ho sempre banalmente ma convintamente pensato che prima di pubblicare uno scritto, in prosa o in versi che sia, avrei dovuto essere convinto che innanzitutto fosse di una qualità minimamente decente, il che comunque non spetta mai a se stessi dire, ma soprattutto avrei dovuto davvero in qualche modo concludere che ciò che avrei deciso infine di pubblicare aggiungesse, per quanto poco, un briciolo di emozionalità in più in chi per ventura si fosse imbattuto su quanto da me pubblicato. Una conclusione a cui non sono mai giunto, consapevole che scrivere romanzi, poesie è duro scavo, serissimo lavoro sulla struttura, sulle idee, sulla conoscenza, su se stessi. Soprattutto sulla lingua. Quindi fortunatamente, per chi mi conosce e anche per chi no, ho sempre tenuto per me impressioni, scritti di finzione, insomma, velleità letterarie che in quanto tali così dovevano e devono rimanere. Velleità. Tutto questo sermone per pudicamente introdurre questa sorta, vogliamo chiamarla così, di scritto in versi che trovate qui a fianco. In questi mesi a un certo punto mi è
venuta una stretta forte allo stomaco, alla gola, alla fine al cuore, diciamola questa parolona, per la nostra amata e per noi insostituibile Carta. Sì, quei fogli che da millenni costituiscono l’edificio della nostra memoria, della nostra cultura, quella carta che da cinque secoli ha permesso di raggiungere miliardi di persone grazie all’invenzione di Gutenberg e alla sua industrializzazione in chiave editoriale da parte di Manuzio. Quella materia che fino a due, tre lustri fa sembrava insostituibile per informare, per diffondere il sapere, alto o popolare che fosse, e che oggi invece sembra, o sembrava, dover essere giunta infine al suo crepuscolo. Noi che stampiamo giornali da decenni ormai respiriamo la carta come aria che cammina; ci piace toccarla, accarezzarla, talvolta distruggerla anche. È la farina del nostro lavoro. In questi giorni di clausura, dove ancor di più il web l’ha fatta da padrona mostrando più di sempre anche la sua faccia migliore, insostituibile, quella della capacità di informare arrivando davvero a tutti, la nostra amata carta pareva davvero essere arrivata al suo dunque finale. Eppure, eppure, l’idea di trovare i nostri momenti vissuti fermi, impressi, senza possibilità di montare e rimontare il tempo, obbligandoci quindi a confrontarci con la responsabilità di dire senza poter cancellare, smarcarsi, divagare, la certezza quindi di incontrare la parola nel suo dirsi e imprimersi senza scampo in un foglio bianco, per acquistare il quale ci si doveva muovere recandosi in quei chioschetti di apparente, anacronistica sembianza, le edicole, beh, questa forma di pulsione a una sorta di ancoraggio alla sana lettura progressiva, di pagina in pagina, giorno dopo giorno ha sorprendentemente ritrovato un suo senso vivo presente al di là del suo mero dato testimoniale, destino che pareva più che…scritto. Insomma, e la chiudo davvero qui, questa cartaccia zeppa di parole e di immagini composte una volta e per sempre ha mostrato il volto più duro e resistente di sé, dimostrando che in questo mare magnum di parole in libertà, stampare a caldo ciò che si pensa e si elabora ha ancora una sua funzione civica condivisa, assai più di quanto tutti noi ormai sconsolatamente ritenessimo.
Ecco, in uno di quei lunghi giorni sospesi mi si è quindi riacceso il desiderio di dire: “grazie di esserci, amica Carta”. Niente più che un personalissimo omaggio alla materia che più ho amato e amo. È un numero speciale, abbiate quindi pazienza…: la fase 3 è vicina!!
Su Carta Fermi le notti Ti si imprime qui e ora L’esserci senza appello Di giorno Col tempo che ci vuole Racconti e non riscrivi In diretta, un attimo è per sempre Detto, inciso, finito Imperfetto e deciso Sei materia che rimane Resiliente oltre ogni illusione Indifferente a verbose rincorse Il rumore, poi, il fragore Del procedere a sapere Tra le mani quell’odore Se ti entra è per sempre Pelle, fibra, piombo vivo Oggi a capire chi eri. Ieri. Massimo Bran
The Post, Steven Spielberg (2017)
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