La cittĂ raccontata 5
Salvatore Tofano
SCAMPIA: LA LAGGENDA DELLA VELA CHE NON VOLEVA MORIRE E ALTRE STORIE
Marotta & Cafiero editori
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©Marotta & Cafiero editori Via Andrea Pazienza 25 80144 Napoli www.marottaecafiero.it ISBN: 978-88-88234-95-3
Copertina di Gennaro Monforte Disegno in copertina di Stof
A Roberto Saviano.
Prefazione
In un suo lavoro di recente tradotto in Italia, Alain Finkielkraut1, intellettuale francese giustamente famoso, riflette sugli sforzi che la comprensione della complessità del reale ci impone. Una comprensione, beninteso, che per essere davvero efficace deve coniugare l’interpretazione razionale con la facoltà di afferrare le cose, ricorrendo ad una penetrazione emozionale del mondo. Egli scrive: “Se vogliamo ricevere risposta, non è a Lui (a Dio, N.d.A.) direttamente, né alla Storia, moderno avatar della teodicea, che dobbiamo rivolgere la nostra domanda, bensì alla letteratura, forma di mediazione che non offre garanzie, ma senza la quale ci sarebbe per sempre preclusa la grazia di un cuore intelligente 2. Senza letteratura, potremmo forse conoscere le leggi della vita, ma certo non la sua giurisprudenza”.3 In effetti, se ognuno di noi elabora e descrive ciò che gli succede nella vita quotidiana facendo ricorso a piccole narrazioni, a cronache più o meno strutturate o improvvisate (“l’altra volta mi è capitato che…”, “hai sentito che fine ha fatto…”), è perché la nostra esigenza di dare senso all’esperienza è meglio accolta nelle forme di storie significative. È in esse che fatti, persone, idee si amalgamano in una trama unitaria, densa di logica e con un corredo emozionale vivifico, profondo, capace in potenza di guardare il nocciolo delle cose. Quando poi la storia acquisisce una struttura più consapevole e articolata, prendendo le sembianze del romanzo o co9
munque del racconto più elaborato, allora lo sforzo conoscitivo diviene di sicuro più meditato, un corposo itinerario di indagine nei significati multiformi dell’esistenza. È in questo impegno di comprensione che si inscrive il lavoro di Salvatore Tofano, un’esplorazione immaginifica del quartiere di Scampia realizzata con l’ausilio di diverse brevi storie. In esse personaggi, contesti ed eventi reali, ma anche immaginari, verosimili, fantasmagorici, interagiscono senza sosta, costruendo una realtà ricca, complessa, finanche contraddittoria, spesso sfuggente, ma per questo piena di vita e di senso. Si tratta del microcosmo con cui l’autore si confronta nel suo quotidiano, ma che ora egli riscopre con il suo sguardo colmo dell’energia tipica dell’ingegno narrativo. Per afferrare gli spunti che il libro di Tofano fornisce, facciamo ancora ricorso a Finkielkraut. Quando ci accostiamo ad un prodotto artistico, suggerisce l’intellettuale transalpino, più che interrogarci su una sua qualche utilità strumentale, dovremmo provare a capire “da quale automatismo di pensiero possa liberarci”.4 Un racconto letterario, insomma, è una porta liberatoria, valida ed efficace nella misura in cui ci affranca da schemi di pensiero rigidi, irremovibili, paralizzati, incapaci di cogliere la molteplicità del mondo, incapaci di penetrare e sciogliere gli enigmi e le aporie dell’esistenza. Non vogliamo certo gravare Tofano del peso del confronto con mostri sacri della letteratura internazionale, ma suggerire come la sua fatica letteraria abbia proprio il merito di raccontare Scampia – nell’intreccio tra il reale e l’immaginario – andando molto al di là di luoghi comuni, letture incerte e approssimative, giudizi e interpretazioni semplicistiche. Ecco, a suo modo il nostro autore ci aiuta a liberarci da alcuni automatismi del pensiero e ci permette di scoprire e decifrare gli aspetti più nascosti e variegati di un mondo articolato, pieno di criticità, ma ricco di energia come di incoerenze. 10
E Tofano non fa sconti, il suo sguardo si estende in ogni dove e illumina, senza barriere o remore, il bene e il male, il bianco e il nero, yin e yang. Trovano spazio, nelle sue illustrazioni, la droga come il Caffè Letterario, fervida attività culturale; il malaffare come il fecondo mondo dell’associazionismo, il giornale del quartiere o il periodico on line “fuoricentroscampia”; i disagi della vita quotidiana come la tensione utopica dell’arte di Felice Pignataro. Il tutto in un’atmosfera che spesso assume i toni di narrazioni oniriche, piene tra l’altro di quell’ironia che è il grimaldello di ogni desiderio di miglioramento. Prendono così corpo, tra le pagine scritte, le difficoltà, le speranze, le inquietudini, i timori, le aspirazioni che connotano l’esperienza nello spazio vissuto da Tofano e dai suoi concittadini. L’autore mette soprattutto in scena un processo di identificazione molto forte: egli ricostruisce e dà sostanza a quell’apparato simbolico, positivo o negativo che sia, con cui gli abitanti del quartiere possono definire l’appartenenza al proprio territorio. Sono i simboli (sganciati da semplici stereotipi o pregiudizi) con cui ci si può riappropriare, direi consapevolmente, dell’identità personale e collettiva, in pratica del più fecondo senso del sé. Ecco allora, ad esempio, le vele, ma anche il verde dei parchi, l’impegno, la cultura espressa nel territorio e quant’altro. Questa rivincita identitaria ha un portato poderoso, perché suggella una sincera e vivace autocoscienza. E tra i simboli del quartiere che Tofano riscopre ci sono i “fantasmi”, in qualche misura una rappresentazione metaforica dei cosiddetti “penultimi”: ovvero, non tanto gli appartenenti al cosiddetto sottoproletariato urbano, ma tutti coloro che vedono il loro potenziale intellettivo, culturale, relazionale svilito da un contesto avaro di opportunità socioeconomiche. Magari persone con un titolo di studio, competenze certificate, abilità interessanti, valori indiscutibili, che si confrontano, però, con un mondo inospitale che li costringe ad una vita di “silenziosa di11
sperazione” (tanto per citare Henry David Thoreau). Un’esistenza, detto per inciso, che può anche prendere traiettorie nocive, a volte irreversibili. Ad ogni modo, sono costoro, non di rado, i sotterranei protagonisti del libro. Protagonisti, una volta tanto! In definitiva, i penultimi sono gli abitanti idealtipici della periferia esemplare, quella che la letteratura sociologica spesso contrappone al centro urbano individuando la sproporzione tra le due zone della città in termini di occasioni e prosperità differenti. Un divario dovuto il più delle volte al concentrarsi nelle aree marginali di più fenomeni: un eccesso di abitanti con scarse risorse economiche, carenze infrastrutturali, ridotte opportunità occupazionali e di carriera, presenza inadeguata di agenzie e stimoli culturali, condanna sociale e scarso prestigio dei residenti.5 Parliamo quindi di una forte disuguaglianza della qualità della vita – a tutti gli effetti una forma di esclusione sociale – che reclama l’urgenza di piani di riqualificazione, per una ripresa socioeconomica ed una rinascita culturale (come peraltro emerge in un ricco dibattito che coinvolge gli stessi cittadini di Scampia).6 Ma è da questa stessa realtà avvilita che spesso emergono un vigore e una vitalità inaspettate, del tutto resistenziali. Quelle che la sensibilità letteraria di Tofano ci porta per mano a conoscere, donando anche al lettore la prospettiva di un “cuore intelligente”. Luca Bifulco
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Nota dell’autore
I diciotto racconti, più prologo, che seguono, vanno a comporre una breve raccolta di “short stories”, sospese tra cronaca ed invenzione letteraria, che, attingendo al genere gotico e fantastico, e senza disdegnare una sottile vena di umorismo, vogliono narrare di una Scampia poco presente nei mass media e che pure esiste: la Scampia del volontariato, delle associazioni, della gente per bene; la Scampia dei “penultimi”. Eventuali riferimenti a persone e fatti devono ritenersi puramente casuali. Laddove si è voluto raccontare o partire da realtà effettive di cronaca, le persone coinvolte sono state citate esplicitamente con nome e cognome. Da sottolineare che, anche in questo caso, spesso i racconti per esigenze narrative si sono discostati dallo effettivo svolgersi degli eventi per dare spazio all’immaginazione, consapevoli che il più delle volte l’inverosimile è più vero del vero. Un grazie, pertanto, alle persone fisiche reali coinvolte nella narrazione e a quanti hanno reso possibile il progetto di questo libro dedicato a Scampia, concorrendo, tramite la prenotazione di una o più copie, al reperimento dei finanziamenti necessari alla realizzazione dello stesso. E a quanti lo hanno pubblicizzato, tramite siti web, facebook e pubblicazioni cartacee. In particolare, si ringraziano: Martina Pignataro e Aldo Bifulco, che hanno seguito sin dall’inizio tutto il progetto, e Rosario Esposito La Rossa, l’editore, che ci ha creduto e mi ha incoraggiato. 13
Salvatore Tofano
Prologo (Fantasmi a Scampia)
Fantasmi / che non hanno voce / si trascinano nel deserto / tra mostri di cemento / che hanno mille occhi / e strade / che non hanno piazze / né vetrine / …strade vuote. / Fantasmi / che nessuno vede / perché il rosso del sangue / e il bianco / della polvere di neve / assorbono lo sguardo / e gli altri colori negano / a chi ha fretta / …e non ha sete. / Fantasmi di gente viva / che deve morire per lasciare agli altri / lo spettacolo dei morti / che si credono più vivi di chi è vivo. / Il silenzio come un tuono / copre ogni altro suono / e la voce di chi grida / gli si smorza in gola. / Fantasmi / che non hanno voce / e che nessuno vede / si trascinano / nel canto di chi ancora / non si arrende / e cerca / sguardi un po’ più attenti / …orecchie meno distratte.
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Bruno e Chiara
Quel cimitero a dirupo, digradante verso il mare, a ridosso del villaggio turistico, gli sembrò d’acchito di buon auspicio. Tutto ciò, che agli altri fa temere avverse conseguenze, a Bruno schiudeva fausti scenari. Non disdegnava, ad esempio, di partire di martedì o di venerdì, al gioco puntava sempre sul tredici o sul diciassette, amava passare sotto scale poggiate di traverso e sorrideva se un gatto nero gli passava davanti. A tavola, per divertirsi e irritare chi ci credeva, spesso urtava di proposito il contenitore del sale per farne cadere un pò a terra. Era solito ripetere che la superstizione è una puttana, perché ogni tempo e cultura ne ha una, e di conseguenza lei si adegua di volta in volta al padrone di turno. Negli anni aveva sviluppato come una superstizione a rovescio. “Tutto ciò, che agli altri porta male” diceva “a me porta bene!” Il posto era bellissimo. Tornava alla mente il Lucio Battisti di “acqua azzurra, acqua chiara…” e di “colline e praterie, dove corrono dolcissime le mie malinconie”. Di certo, Battisti doveva essere passato di lì insieme a Mogol. Il villaggio, immerso in un parco di ulivi direttamente sul mare, era a due passi dal Parco Nazionale del Cilento e a pochi chilometri da Scario e Policastro. 15
Sotto c’era il mare e sopra le montagne e tanto verde. Le camere erano dotate di ogni confort: aria condizionata e tv satellitare, safe box e fon, e soprattutto un preziosissimo minifrigo, dove Bruno avrebbe potuto conservare intatte le medicine, che, d’estate, portava sempre dietro per paura di eventuali intossicazioni da frutti di mare, che contro ogni ragionevole input continuava a divorare crudi e in grandi quantità. Nel pacchetto turistico c’era anche l’uso gratuito di barconi guidati da pescatori per accedere alle tante insenature e spiaggette naturali, raggiungibili solo via mare, che insistevano nelle vicinanze. Fu durante una di queste escursioni che Bruno conobbe Chiara, “galeotti” i delfini, che giocavano facendo gare di tuffi nell’acqua. Non era la prima volta che vedeva i delfini. Li aveva già visti al largo delle isole Tremiti, anche se non così da vicino. “Eccoli!… Eccoli!” gridò il pescatore, indicandoli col braccio teso. “Fanno i tuffi!” disse, sorridendo, la ragazzina lentigginosa dai capelli rossi, che gli si era avvicinata per veder meglio i due cetacei dal corpo affusolato, neri sul dorso, grigi sui fianchi, bianchi sul ventre, che si esibivano incuranti dei loro sguardi. “Non li vedo più” le disse Bruno dopo un po’. “No, si vedono ancora: sono laggiù!” corresse lei, indicandoli. “Sì, è vero, si vedono le loro caratteristiche pinne a mezzaluna.” “Che belli!” “Come ti chiami?” chiese Bruno. “Chiara” disse lei, tornando al suo posto, all’altro lato del barcone, accanto ai genitori. Si rividero la sera durante lo spettacolo degli animatori e poi la mattina dopo sulla spiaggia; e tutte le sere che seguirono. 16
Passarono i giorni, come avrebbe detto De Andrè, a chiedersi “un bacio e a volerne altri cento”. Bruno ne era convinto: si trattava di “un piccolo grande amore”. Perché allora quella domanda? Perché rovinare tutto per un sciocca domanda? Che le importava di sapere dove abitasse? Facile per lei, che abitava a Posillipo, uno dei quartieri più “in” della città, chiedergli: “Dove abiti?”. Poteva risponderle: “Abito a Scampia, nel megamercato dello spaccio di droga, dove c’è la hit dei morti ammazzati”? Cosa avrebbe pensato? Che era anche lui uno spacciatore? O, peggio, un drogato? In passato, gli era già capitato di rispondere che abitava a Scampia, ma ogni volta si era dovuto giustificare, assicurando che a Scampia non tutti si drogano, rubano o spacciano, che la maggior parte di chi ci abita è gente per bene. Nell’interlocutore restava il sospetto. Così gli era venuta quella che lui chiamava la sindrome Troisi. Massimo in “Ricomincio da tre”, stanco di ripetere a tutti che era un turista e non un emigrante, alla fine si era arreso e, anche se non era vero, aveva ammesso: “Sì, sono un emigrante!” Similmente, Bruno aveva realizzato che bastava rispondere che abitava da un’altra parte per evitare un inutile effluvio di banalità. Del resto, perché sprecarsi con chi è convinto del contrario e non vuole cambiare idea? Non la considerava una bugia, ma una strategia contestuale di igiene mentale. “Che hai?” chiese Chiara. “Perché?” “D’improvviso, ti sei rabbuiato e non mi hai nemmeno risposto.” 17
“Ah, già… mi hai chiesto dove abito.” “É un segreto?” “Conosci Scampia?” “Ne ho sentito parlare, ho letto e visto Gomorra.” “Ma ci sei mai stata?” “Sei matto!?!” disse lei. “Io ci abito.” Chiara lo guardò, arretrando, visibilmente scossa. “Dimmi che stai scherzando.” “No, non sto scherzando. Abito a Scampia!” E fu la fine di un amore.
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Aldo e i colori di Scampia
Scampia nell’immaginario mediatico è la metafora del degrado, essendo il quartiere immediatamente associato a spaccio, droga e omicidi vari. Eppure, a conoscerlo, è altro. O meglio, anche altro. C’è tanto verde, tanta vita associata e, soprattutto, ci sono tante persone alle quali non si può non voler bene. Una di queste è Aldo. La prima volta che Emilio lo vide era una domenica d’autunno e l’impressione più immediata fu che si trattasse di un folle: era lì fermo davanti a un corbezzolo e sembrava che stesse parlandogli. Emilio si fermò a guardarlo e dopo un po’ ebbe la sensazione che l’albero gli rispondesse, che l’uomo e l’albero fossero immersi in una tenera conversazione. “Il sole ottobrino deve avermi fatto un brutto scherzo” pensò Emilio “Mi sa che il folle, se c’è un folle, sono io”. Aldo era uscito di buon’ora per adempiere al suo rituale “viaggio” a bordo di quel che considerava il “più meraviglioso e sconosciuto” dei mezzi di trasporto: i piedi. Era convinto che passeggiare a piedi fosse l’unico modo per stare “con” e “tra” la gente, anche se, a dire il vero, a Scampia di gente per le strade non è che ce ne fosse molta: c’erano più cani randagi che persone. Del resto, dove e perché la gente dovrebbe passeggiare? 19
Più che a un quartiere, Scampia fa pensare a un deserto, popolato di giganteschi e fallici mostri di cemento pronti a ghermirti coi loro artigli; e le sue strade, più che a strade, fanno pensare a minacciose “lingue” di asfalto dalle quali fuggire, pigiando l’acceleratore a più non posso. Mancano del tutto piazze, negozi, vetrine, cinema, teatri, librerie e, soprattutto, un riparo dal sole e dalla pioggia. Aldo tutto questo lo sapeva, ma “sentiva” come una missione dentro, che nasceva da un innato amore per “l’altro”: “vivere” i luoghi, per quanto marginali o periferici, “creando” relazioni. Di conseguenza, tutto entrava in relazione con il suo sé più profondo, dal verde agli uccelli, dall’uomo al mistero del nostro transitare nel mondo. E i luoghi d’incontro, dove si concretizzavano le relazioni, erano i “crocicchi”. La parrocchia era un crocicchio, la sede del suo circolo ambientalista era un crocicchio, il centro socio-culturale era un crocicchio. Ogni luogo, dove poteva mettersi in relazione con “l’altro”, era un crocicchio. Giunto all’edicola, altro crocicchio, fu attratto da un branco di cani randagi, diversi l’uno dall’altro per razza, taglia e colore. Pensò che le “bestie” non hanno le nostre remore nell’accogliere “l’altro”, ma dovette subito ricredersi, perché, proprio mentre realizzava tale convincimento, quello che doveva essere il capo del branco ringhiò e si avventò al collo di un nuovo venuto, che aveva cercato di aggregarsi al gruppo. Poi, come accadeva nell’era paleolitica, quando branchi di sciacalli seguivano le orme dei cacciatori nomadi per rimediare qualche striminzito avanzo, il branco si mise a seguire un operatore ecologico, che si trascinava con scopa e carrello. Al passaggio di un’auto, alcuni randagi si misero ad abbaiare contro le ruote del veicolo. Aldo si chiese perché i cani avversassero tutto ciò che rotola e, senza darsi risposta, proseguì il suo “viaggio”. 20
Emilio, a distanza, continuava a seguirlo e ad osservarlo. Era autunno inoltrato e una cospicua pioggia di foglie ingiallite era andata a formare sui marciapiedi a lato del lungo vialone un soffice tappeto, che sollecitava una sensazione di quiete, che invitava al riposo. Aldo si fermò davanti ad uno dei tanti bagolari, da cui erano cadute le foglie, e gli sorrise per ringraziarlo di quella “pace”. Amava così tanto le piante che si soffermava come incantato a rimirarle: le conosceva ad una ad una e gli piaceva chiamarle per nome. Lo addolorava l’indifferenza dei residenti, non si capacitava della loro scarsa sensibilità. “Il verde è vita!” diceva. “Come si fa” si chiedeva “a non distinguere una pianta dall’altra? A dire che una pianta vale l’altra? Sono forse gli uomini uno uguale all’altro? Lo sono i cani?” Lo inorgogliva il dato che indicava Scampia come il quartiere più “verde” della città, anche se qualche amico, scherzando, gli chiedeva se il dato, invece che alla flora, si riferisse alle tasche dei residenti. Eccolo dunque fermo ad osservare la “tuta mimetica” disegnata dalle foglie, parte color ruggine e parte color verde smorto dei platani di via Baku e poi ad inspirare gli odori ed apprezzare i fruscii e i colori dei tamerici abbruniti di un parco poco distante. E ancora a godere dei siliquastri dalle foglie cuoriforme, chiazzate di giallo e impreziosite dal rosso dei fiori, o dei ginkgo biloba, degli eucalipti, dei lecci e delle magnolie, dei cedri, dei pini e delle palme. L’agrifoglio presentava già le caratteristiche bacche e lui, accarezzandole, si rammentò che di lì a poco sarebbe stato di nuovo Natale. “Più avanzano gli anni” notò “e più il tempo scorre veloce. La vita il più delle volte sembra contraddire i nostri desideri!” 21
Il corbezzolo, che in autunno vede un’esplosione di colori, col bianco dei fiori, il rosso dei frutti e il verde delle foglie, gli ricordò la nostra bandiera. “Non per niente il corbezzolo è conosciuto come l’albero risorgimentale!” disse fra sé. “Quanti colori!” esclamò Emilio, avvicinandosi. “Già…” rispose Aldo “peccato che nessuno se ne accorga!” “Quando si pensa alle periferie, il solo colore che viene in mente è il grigio.” “Perché siamo soliti annegare nel luogo comune.” “Permetta che mi presenti… Emilio!” “Diamoci del tu! Io sono Aldo!” Presentatisi, i due ripresero a camminare e si diressero verso la villa comunale di Scampia, dove Aldo voleva far “vivere” al “nuovo” amico l’esperienza per l’altro mai esperita del birdwatching, dell’osservazione degli uccelli nel loro ambiente naturale. Appostatisi, poterono ammirare il ticchettio caratteristico che accompagna il richiamo del pettirosso, e lo tzi tzi delle pispole, uccelli terricoli molto simili alle allodole, come pure il volo simile a quello della farfalla del verzellino. All’apparire di un occhiocotto, Emilio lo scambiò per una capinera, ma Aldo subito lo corresse: “Si tratta di un occhiocotto. Sia l’occhiocotto che la capinera hanno il capo nero ed un piumaggio che va dal grigio cenere al grigio scuro, ma il primo presenta un caratteristico anello orbitale rosso attorno agli occhi. Ambedue sono insettivori, si cibano di insetti”. Un saltipalo volò dal palo della luce, dove si era acquattato, e puntò come un falco sulla preda, che aveva adocchiato, divorandola. “É un saltipalo” spiegò Aldo “e si ciba anche lui di insetti”. Ogni volta che passava un uccello, Aldo lo indicava e ne ripeteva il nome. 22
E di uccelli ne passarono tanti: tardi, storni, verdoni, passeri, merli, perfino un codirosso spazzacamino dalla livrea nero fuliggine con strisce bianche sulle ali e coda rosso mattone. Aldo evidenziò che le strisce indicavano la sua appartenenza al genere maschile. “Scampia ha innegabili problemi di vivibilità, ma la ricchezza di flora e fauna è la spia evidente che l’unico responsabile del degrado, qui nel quartiere, è l’uomo!” Emilio lo guardò e, dopo un attimo di pausa, assentì con un cenno. “Nel quartiere” aggiunse Aldo “non c’è solo la sofferenza di quelli che non hanno studiato, non hanno casa nè lavoro, ma, anche e soprattutto, la sofferenza di quelli che io chiamo i penultimi, di quei giovani che pur avendo acquisito cultura, competenze, valori, titoli, non trovano dove spendere la propria sensibilità relazionale, finendo spesso vittime della droga.” “Vuoi dire che essi sono più fragili degli altri?” “Purtroppo, è così!” “A me sembra un paradosso.” “Perché?” “Sarebbe come dire che è meglio essere ultimi che penultimi.” “Lascia perdere: gli ultimi sono sempre ultimi!…” “…un giorno però saranno primi” aggiunse Emilio, ridendo. “Già!… Speriamo solo, però, che quel giorno i penultimi saranno almeno secondi!”
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Lo strano caso di San Ghetto Martire
Non mi piace raccontare fatti di cui non si hanno notizie certe e di cui non si conoscono le fonti: avrei preferito tenere per me questa storia. Ma come si fa?!? É una storia così pazzesca che sembra nata dalla fantasia di Edgar Allan Poe o di Ambroce Bierce e, di contro, così verosimile per luoghi, persone, dettagli, che non mi sento di respingerla tout court. Quel 26 febbraio 2006 c’ero anch’io al Carnevale del Gridas, lì a Scampia. Come l’anno precedente e quello prima, come tutti gli anni. Il carnevale del Gridas l’avevo visto nascere e Felice, il suo creatore, mi aveva sempre incuriosito, affascinato. Non ne condividevo a pieno le idee, l’utopia non era e non è merce per me. Di quell’uomo, però, ne respiravo l’autenticità, le convinzioni forti e radicate, la militante coerenza tra il dire e il fare, tra pensiero e azione. Ora Felice non c’è più, se ne è andato. Il carnevale però c’è ancora. Gli uomini muoiono, disse il giudice Falcone, ma le loro idee restano, sopravvivono alla morte dell’autore. Una fiumana di persone da via Monte Rosa si riversava in piazza della Libertà e già imboccava via del Gran Sasso. Sfilavano le maschere in cartapesta, cartone da imballaggio e gomma piuma, costruite utilizzando prevalentemente materiali di risulta. Alludevano agli spazi negati, ai luoghi di aggregazione che mancano nel quartiere, alle piazze sognate, ai soggetti istituzio24
nali che fingono di ascoltare e poi si perdono nei meandri del palazzo. C’era la “Macchina dell’Acqua” che vedeva contrapposte le opzioni pubblico/privato, la “Mongolfiera”, che tentava di liberarsi delle varie zavorre, la fantomatica e inaccessibile “Piazza Telematica”, fiore all’occhiello delle Istituzioni, il “ponte di Messina”, che supportava un bel po’ di camion carichi di denaro mentre la Sicilia se ne cadeva a pezzi, la “Banca Etica”, che invitava a un commercio equo e solidale, e lui “San Ghetto Martire”, protettore delle periferie, beatificato l’anno precedente in occasione del 1° Maggio a Scampia con i suoi ex voto, per grazia ricevuta e per grazia da ricevere. I detrattori di questo carnevale, spontaneo e marcatamente proletario, non nel senso di plebe quanto di popolo, erano e restano una sparuta minoranza, che sin dalle origini ne hanno sempre stigmatizzato il carattere politico. Qualcuno, specie in passato, alludendo alla partecipazione di alunni delle scuole elementari e medie, aveva parlato di “manipolazione”. La verità è che Felice parlava di “libertà” e libertà, come cantava Gaber, è partecipazione. Se ci fosse stata “manipolazione”, la manifestazione non avrebbe avuto decenni di vita, divenendo una delle poche tradizioni, se non l’unica, di un quartiere senza storia. Pare che Tonino Esposito quella domenica fosse andato anche lui al carnevale. Lo chiamavano ’o filosofo, non perché insegnasse e scrivesse libri di filosofia, ma perché amava dire la sua su tutto, pervenendo a volte a ipotesi di soluzione accettabilmente originali. In ottima salute, niente lasciava presagire che, giunto all’altezza della parrocchia della Resurrezione, sarebbe svenuto. Subito, come accade in questi casi, si era formato un pannello di persone. Qualcuno tentò di rianimarlo. I più si accalcavano, quasi a soffocarlo: si chiedevano cosa e come fosse successo. 25