I volti del primo marzo

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I volti del primo marzo

voci da un’altra Italia Testi Rosario Cauchi Massimiliano Perna Giorgio Ruta Fotografie Francesco Di Martino Giuseppe Portuesi

Prefazione Fabrizio Gatti

Marotta&Cafiero

editori


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Le foto a pagg.: foto di copertina - 4 - 20 - 22 - 26 - 31 (in basso) - 40 - 42 - 44 - 48 - 54 - 60 - 70 72 - 80 - 84 - 97, sono di Francesco Di Martino; 27 - 30 - 31 (in alto) - 52 - 59 - 79 - 83 - 146, sono di Giuseppe Portuesi; 38 - 39 sono di Ilaria Sesana; 92 - 93 - 101 - 108 (in basso) - 113 - 118 - 119, sono di Massimiliano Perna; 108 (in alto) - 125 - 128 - 132 - 135 - 138 - 139 - 143 - 144, sono di Andrea Scarfò.


“A Guadalupe, nella buona e nella cattiva sorte�


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Prefazione Fabrizio Gatti

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I miei compagni di classe, alla scuola materna, dicevano che non dovevo parlare con Elio. Eravamo bambini di quattro e cinque anni. Elio aveva un cognome lombardo, era discendente di una famiglia lombarda da generazioni. Ma aveva una colpa per la quale doveva essere escluso dai nostri giochi: Elio abitava con i terroni. Elio viveva in un caseggiato malmesso, affacciato su un cortile polveroso. E i suoi vicini di casa erano famiglie di calabresi, siciliani, campani che si ammassavano nei bilocali senza bagno, una porta e una sola finestra, in cambio di un lavoro come manovali, addetti alle pulizie, i più fortunati come operai nell’industria. Era il 1970 e Milano e la sua provincia avevano tre categorie di abi� tanti. C’erano i lombardi, baluardo dell’operosità e dell’onestà. C’era� no i terroni del Nord, veneti e friulani, bravi, onesti pure loro, ma non mancavano le suore e i parroci che mettevano in guardia i teenager del posto, mai fidanzarsi con venete e friulane che, si sa, sono ragazze di facili costumi. Poi c’erano i terroni terroni: quegli incoscienti che fanno figli come conigli, non sanno nemmeno parlare l’italiano, non si lavano, anzi puzzano, Dio santo come si fa a vivere così, tengono le galline in cuci� na, piangono miseria, affitti la casa a uno di loro e te la ritrovi piena di gente, in Comune hanno sempre la precedenza nelle liste per le case popolari, così come per i libri a scuola, non hanno voglia di lavorare e lo Stato li premia, sono mafiosi, rubano, violentano le donne, guarda le loro mogli, si vestono di nero e le vecchie sono obbligate a portare il velo, ma come si fa, sono così diversi da noi, mica possiamo acco� glierli tutti questi terroni, non siamo razzisti per carità, ma perché non 6


li aiutano a casa loro? Quei discorsi, respirati dai bambini, avevano condannato Elio all’esclusione. Perfino lui che era lombardo. Ma oggi, quarant’anni dopo, quell’insulto, terrone, almeno a Mi� lano è praticamente scomparso. Chi fa più caso all’origine geografica di un cognome o di un nome italiani? È bastata una generazione per cancellare gli effetti di questa segregazione. E grazie a quell’immigra� zione interna, dal 1970 l’Italia, la sua industria, la sua economia, la sua cultura, hanno potuto crescere. Adesso la sfida è la stessa: costruire una nuova unità, una nuova ricchezza del Paese. La sfida è mettere la generazione dei nostri figli nelle condizioni di considerare normale la differenza di pelle, di nome, di religione, al punto da non considerarla più una differenza. Ci vorrà tempo. Forse, come per il piccolo Elio e per tutti noi ex terroni, ci vor� rà un’intera generazione. Ma le fondamenta perché questo avvenga dipendono da quello che noi facciamo oggi. La segregazione tra italiani e stranieri è ancora feroce. Ma il sistema xenofobo che l’ha voluta si avvia alla decomposizione. Non ha futuro. Anche se resiste attraverso le leggi che il patto Lega-Pdl ci lascia in eredità. Il sistema di potere che l’ha prodotto è già morto, sta marcendo nel cancro delle tangenti, nelle complicità con la mafia, nei festini del bunga-bunga, nella parodia dell’onestà e della buona amministrazio� ne che dal 1994 in poi ha diviso l’Italia e l’ha ridotta al cadavere che è. Il capolinea di tutto questo si avvicina. Poi ci sarà il vuoto. E tutti noi, cittadini onesti, che non ci riconosciamo nel marciume della corruzione, abbiamo l’obbligo di riempirlo. Anche semplicemen� te con la nostra presenza, con le nostre piccole azioni quotidiane. Ecco perché le manifestazioni del Primo marzo 2010 sono state un’occasione importante per esserci, per pretendere un Paese diver� so, per rendere possibile una nuova unità nazionale dove la libertà di esistere non dipende dal passaporto del luogo dove ciascuno di noi è nato ma dallo Stato, dalla città, dal quartiere dove ora vive. E continuare a esserci, continuare a testimoniare come hanno fatto gli autori di questo libro, è un dovere civile. Prima di tutto nei confron� ti delle migliaia di lavoratori, uomini e donne, ai quali la legge sull’im� 7


migrazione e il cosiddetto “pacchetto sicurezza” hanno tolto la voce, hanno impedito il diritto-dovere di denunciare i torti e i reati subiti. Un lavoratore non in regola con i documenti rischia l’arresto imme� diato e, se non lascia l’Italia, fino a quattro anni di carcere. Eppure il caporale che sfrutta quel lavoratore non rischia nulla: perché in Italia il reato di caporalato non esiste. Nel 2006 una commissione governa� tiva suggeriva l’istituzione di questo reato per punire lo sfruttamento. Non se n’è fatto nulla. Esserci, leggere, informarsi e far sapere è anche un dovere per mantenere viva la memoria del presente. Per ricordare le tante storie che la cronaca e il senso comune hanno già archiviato. Come il sacrifi� cio di Ion Cazacu, ingenere e muratore romeno, marito e padre di due bimbe, bruciato vivo dal suo datore di lavoro nel ricco Nord. Come le ferite dei braccianti presi a fucilate a Rosarno. E i tanti che sicura� mente ancora soffriranno le conseguenze delle scelte che noi italiani, o almeno una parte di noi, con la presunzione e l’illusione di sentirci più sicuri, abbiamo loro imposto. Manca perfino un luogo dove ricordare le migliaia di vittime della nostra economia. A cominciare dai molti scomparsi in mare, nel de� serto e lungo il cammino, morti durante il viaggio verso la prospet� tiva di un lavoro in Europa. I nostri capi di Stato ogni anno portano fiori agli altari della patria. Si fanno fotografare in commosso silenzio davanti alla tomba del Milite ignoto. È un dovere generoso rendere omaggio ai caduti in battaglia. Ma la nostra Costituzione è fondata sul lavoro. Non sulla guerra. Eppure a queste migliaia di migranti ignoti morti alla ricerca di un lavoro, o agli schiavi uccisi perché un lavoro l’avevano trovato, la Patria non ha ancora dedicato un solo altare. Il ci� mitero di Lampedusa è pieno di tombe anonime. Un numero al posto del nome e della foto sulla lapide. Basterebbe sceglierne qualcuno. E portarne i resti a Roma, Bruxelles, Strasburgo, Parigi, Madrid, Berlino, Londra, Vienna, Berna. Le mete simboliche dell’altra faccia dell’Euro� pa. Sempre per non dimenticare. L’inaugurazione dell’altare al Migrante andrebbe affiancata da una legge, proposta per la prima volta in Italia già nel 2001, dopo l’enne� sima storia di sfruttamento di una famiglia albanese a Milano: com� battere l’economia sommersa e, quindi, lo sfruttamento in nero di 8


stranieri (e italiani), attraverso la possibilità di denunciare il proprio datore di lavoro e ottenere la regolarizzazione del permesso di sog� giorno. Una volta accertati i fatti, il datore di lavoro avrebbe due pos� sibilità: l’archiviazione del procedimento penale attraverso l’assun� zione regolare del lavoratore e il pagamento dei contributi sottratti, oppure l’arresto immediato e il rischio di condanne da uno a quattro anni di reclusione, come invece avviene ora per i lavoratori stranieri irregolari. Andrebbero cioè ribaltate le norme attuali. Il 23 per cento di economia sommersa ed esentasse che affligge (o arricchisce) l’Ita� lia verrebbe probabilmente ridimensionato. Inps e Sanità vedrebbero aumentare i contributi. Leggi xenofobe, illiberali e contro il progresso della società, come quelle fatte approvare in questi anni da Lega e Pdl, non avrebbero il consenso dei cartelli di imprenditori. Di fronte al ri� schio di finire in galera sfruttando il lavoro nero per mantenere alta la produttività, le imprese imporrebbero invece ai governi una maggiore flessibilità sulle regole di ingresso nel Paese. Forse la mia generazione, quella nata nel 1966 in pieno boom eco� nomico e demografico, non farà in tempo a vedere tutto questo realiz� zato. Ma certamente le ragazze e i ragazzi della seconda generazione non accetteranno in futuro quanto i genitori immigrati hanno subìto e sopportato in Italia. E loro stessi già subiscono. Ancora oggi si conti� nua a tramandare ai figli maggiorenni lo status precario di straniero, al punto da decretarne l’espulsione una volta conclusi gli studi con il diploma o la laurea. Soltanto uno Stato di imbecilli può far crescere un cittadino per poi cacciarlo, perché spesso la burocrazia non riesce a trasformare un permesso di soggiorno per studio in un permesso per lavoro in tempi ragionevoli. E questo è quanto accade ora. C’è poi la comunità di richiedenti asilo ai quali le commissioni territoriali hanno negato lo status di rifugiato: persone che non potranno mai torna� re indietro per evidenti pericoli, costrette a vivere senza documenti né diritti nel sottobosco dell’economia per riapparire stagionalmente nelle terre di dolore come Rosarno, Cassibile, Foggia, Castel Volturno o nei cantieri edili di tutta Italia. Il Primo marzo 2010 per la prima vol� ta ci ha reso consapevoli che, in questo nuovo mondo che dobbiamo costruire, non ci sono italiani e stranieri ma semplicemente cittadini. Il Primo marzo 2010 ci ha fatto capire, tutti insieme, che un’alternativa 9


alle fobie di Silvio Berlusconi, Umberto Bossi e Gianfranco Fini è pos� sibile. Ecco perché bisogna insistere. Esserci, ritrovarci, discutere, ricordare è anche l’unico, ultimo mez� zo che ci resta per far sapere che, in questa Italia in cui la criminalità organizzata siede perfino in Parlamento, noi cittadini onesti, oggi, sia� mo tutti stranieri.

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Presentazione

In tutta Italia volano palloncini gialli Massimiliano Perna

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Un popolo colorato di giallo, un sole che brucia di umanità e che ha cercato di squarciare l’oscurità che avvolge il nostro tempo e il tes� suto sociale di un Paese sempre più disumano, individualista, privo di qualsiasi memoria. Il Primo Marzo, a partire da quest’anno, non sarà più una data qualsiasi. I migranti sono scesi in piazza per manifestare, per protestare contro la discriminazione, contro lo sfruttamento e la negazione di diritti fondamentali che, in un contesto che si professa democratico e civile, dovrebbero essere garantiti ad ogni essere uma� no. Le catene che un sistema crudele getta sulla dignità degli uomini e delle donne migranti provocano dolore: un dolore insopportabile che si acuisce ancora di più di fronte alla xenofobia, alla meschinità e all’indifferenza del popolo italiano, all’ispirazione razzista di leggi che ci riportano indietro verso gli orrori del passato. L’oppressione violen� ta nei confronti di un popolo di “stranieri” non può durare a lungo. La stretta liberticida e disumana che l’asse di governo Pdl-Lega (con il famigerato pacchetto-sicurezza di Maroni) ha impresso sui migranti, ci ha fatto piombare nel buio di una situazione che si pone in contra� sto con quelli che dovrebbero essere i valori distintivi di una democra� zia compiuta. Come spesso accade nella storia, però, nei momenti più oscuri c’è sempre un fiore che germoglia, una luce che appare. Piccoli segni, ma tangibili, individuabili. In Sicilia, ad esempio, esiste un fiore che nasce durante l’inverno e che ha l’affascinante compito di annun� ciare la primavera, la stagione in cui ognuno potrà gustarne i frutti: è il fiore del mandorlo, che potremmo assurgere a simbolo di speranza. La stessa speranza che viene condivisa da chi, in molte città italiane, 12


ha dato vita al Comitato Primo Marzo. Un gruppo eterogeneo di per� sone, un insieme meticcio, pieno di culture e di colori diversi, di storie, di individui che nella diversità scoprono l’uguaglianza, si arricchiscono a vicenda, si confrontano, scoprono di avere in comune la cosa più importante, quella che, come diceva Ernesto Che Guevara, ci rende più che parenti, più che fratelli: la capacità di indignarsi di fronte a qualsiasi ingiustizia venga commessa nel mondo. E se quel mondo è in casa nostra, è visibile e ci riguarda tutti, allora diventa naturale, anche nell’Italia cloroformizzata di oggi, che, chi condivide l’indignazione, il senso di giustizia e di solidarietà, finisca per unirsi, per mettersi insie� me. Il Primo Marzo è stato tutto questo, lo è ancora e lo sarà. Il giornalista Fabrizio Gatti, nel 2008, in un’intervista rilasciata per il documentario U Stisso sangu, aveva lanciato l’idea di uno sciopero nazionale dei lavoratori immigrati. Due anni dopo, quell’auspicio è di� venuto realtà. E il Primo Marzo 2010 non è stato un punto di arrivo, bensì di partenza, nonostante le mille difficoltà, gli ostacoli, le invidie imbarazzanti di quelle organizzazioni sindacali che i lavoratori migran� ti (e non solo) li hanno troppo spesso ignorati o sacrificati all’altare del potere. Un movimento di 300mila persone, immigrati e italiani, comprese le seconde generazioni, i cui genitori hanno scelto l’Italia, lavorato duramente per rimanervi e per ottenere la cittadinanza. Una miscellanea di voci, accenti, sguardi, colori diversi, che, nel rumore civile dei cortei gialli, sono diventati un suono unico, un grido pacifico di ribellione ad un sistema politico ed economico che gioca con la vita degli esseri umani, mortificandone il sacrificio, umiliandone i sogni, attentando alle loro speranze. Ma non c’è regime che sia in grado di soffocare la speranza degli uomini. Chi ha la convinzione arrogante di fermare il mare con un dito, usando leggi e strategie della paura, maneggiando con disinvoltura lo strumento del ricatto e della repres� sione, spesso non tiene conto dell’effetto “perverso” (rispetto alle proprie intenzioni) che l’esasperazione di una strategia liberticida pro� duce. Tutto si ritorcerà contro chi ha scelto di usare il destino di una massa di persone come mezzo di propaganda politica e di conquista del potere. È accaduto negli Usa nei decenni passati, con le rivolte di Los Angeles (nel 1965 e nel 1992), o in Francia con l’insurrezione delle banlieues (nel 2005), ma anche in Italia. Proprio così, in realtà quella 13


del primo marzo 2010 non è la prima volta che gli immigrati scendono in piazza: era già accaduto il 7 ottobre 1989, a Roma, dove trecento� mila persone (italiani e stranieri) sfilarono per strada per manifestare i propri diritti. Fu il primo sciopero nazionale organizzato dai migranti, nonché la prima manifestazione antirazzista nella storia d’Italia. Tutto nacque dall’uccisione di Jerry Masslo a Villa Literno, in Campania, il 24 agosto dello stesso anno. Masslo era un rifugiato politico sudafricano, che lavorava nei campi di pomodoro e che morì sotto i colpi esplosi da quattro balordi del luogo, i quali irruppero di notte nel casolare nel quale Masslo viveva insieme ad una trentina di immigrati. L’obiettivo era quello di rapinarli, ma la reazione coraggiosa dei lavoratori indus� se i quattro delinquenti a sparare ferendo due persone e uccidendo il trentenne sudafricano. In poco tempo i migranti si organizzarono, proclamarono lo sciopero nazionale e diffusero un volantino, le cui parole, due decenni dopo, sono drammaticamente attuali: “La nostra condizione di clandestini permette a datori di lavoro disonesti e alla criminalità organizzata di usarci per mettere in pericolo i diritti che voi lavoratori italiani avete saputo conquistare sin dalla Resistenza…”. Parliamo di 21 anni fa, di un’epoca in cui il fenomeno migratorio era ancora poco presente nella società italiana, che stava iniziando il suo passaggio da terra di emigrazione a terra di immigrazione. Eppu� re c’era già la Lega, spalleggiata in certe manifestazioni xenofobe dal Pri di La Malfa e dall’Msi; c’erano già gli atti di razzismo e di violenza contro gli immigrati; e c’era già la prima manifestazione per i diritti dei lavoratori stranieri. Dopo un ventennio, ci si accorge come siamo ancora fermi lì. La violenza è maggiore, lo sfruttamento è identico. A Villa Literno è cambiato poco e gli stagionali dell’agricoltura vivo� no ancora in condizioni terribili. Il primo marzo di quest’anno, poi, è caduto a meno di due mesi dalla rivolta di Rosarno (la seconda dopo quella del dicembre 2008 di cui non si parla mai), una delle pagine più vergognose della nostra storia repubblicana. La caccia al nero, le violenze ripetute, gli agguati, le bastonate, i colpi di pistola, la ves� sazione sistematica e organizzata dei lavoratori stagionali, l’assoluto non rispetto dei diritti essenziali della persona: tutto ciò, dopo l’en� nesimo atto di violenza gratuito nei confronti di due giovani africani, ha prodotto la reazione di quella umanità dignitosa e disperata che 14


ogni anno si spinge fino alla piana di Gioia Tauro per guadagnarsi da vivere in mezzo all’umido paludoso degli agrumeti, senza diritti, sen� za protezioni, in condizioni precarie. Il Comitato Primo Marzo, che ha portato in piazza circa 350mila persone (particolarmente partecipata la manifestazione di Napoli), ha messo proprio Rosarno e la vicenda degli stagionali al centro dei propri pensieri e del proprio movimen� to, perché su di esse si è misurato il livello di razzismo dei cittadini, dell’opinione pubblica italiana, di alcuni mass media e, soprattutto, della politica, che invece di intervenire sullo sfruttamento ha parlato di “troppa tolleranza” e ha pensato subito di risolvere la questione “rimuovendo” da Rosarno le vittime e “distruggendo” i luoghi simbolo della vergogna: deportazioni in massa degli immigrati e distruzione degli alloggi di fortuna in cui si riparavano al ritorno dal lavoro. Questa la ricetta di Maroni e soci. Di fronte a tutto questo, chi è sceso in piazza lo ha fatto per urlare la propria rabbia, la rabbia di chi non si rassegna a questa cecità poli� tica e istituzionale, all’incapacità di guardare avanti, di immaginare un futuro di inclusione, con tutta la ricchezza che ciò comporta in termini culturali, sociali ed anche economici. Già, perché al di là di ogni aspet� to sociologico, c’è un particolare non trascurabile: gli immigrati porta� no ricchezza economica, lavorano, coprono settori ormai dimenticati dagli italiani e garantiscono la sopravvivenza dei nostri rapporti fami� liari. Non è certo questo l’elemento più importante per capire quanto è stolta la politica della “chiusura” e della “cittadella fortezza”, però purtroppo per far comprendere al popolo rozzo cosa significhi rispetto dell’altro si è costretti a banalizzare, puntando sull’aspetto economi� co, sul denaro, sull’“utilità” degli immigrati. È avvilente doversi ridurre a certi discorsi, consapevoli che ragionamenti alti che attengano alla cultura e alla solidarietà, alla mescolanza come propulsore di arric� chimento civile e culturale, siano lontani dal cervello e dalle capacità recettive della gente comune che popola gran parte del Paese. Ma se è l’unica maniera per attenuare razzismo e ignoranza, allora, almeno per adesso, non resta altra strada. Ed è questo lo spirito che ha animato gli organizzatori francesi della “Journée sans immigrés: 24h sans nous”, promossa in Francia per lo stesso giorno. Un’iniziativa che dalla Francia si è estesa in altre nazio� 15


ni, compresa appunto l’Italia. Nel nostro Paese ci si è fermati per far capire cosa potrebbe succedere se i 4 milioni e mezzo di migranti che vivono dentro i nostri confini si fermassero tutti insieme per un gior� no e con loro tutti gli italiani stanchi del razzismo. Cosa accadrebbe alla nostra economia? Quante produzioni, quante fabbriche e cam� pagne, quanti cantieri resterebbero fermi, bloccati? Quanti anziani e quante famiglie finirebbero nel più totale isolamento? È evidente che l’immigrato rappresenta una forza lavoro irrinunciabile, essenziale. Il risultato della giornata è stato soddisfacente, se si considera che il movimento non ha padroni politici, non ha ancora una struttura or� ganizzativa ben definita sul territorio (si sta provvedendo a definirla), non ha fondi propri e vive dell’attività volontaria degli aderenti. La partecipazione di 350mila persone dipinte dal giallo dei nastrini e dei palloncini, in un momento difficile come questo, in un ambito che, a causa della propaganda securitaria e della strategia della paura, non raccoglie molti consensi, rappresenta comunque un buon punto di partenza. Certo, si può e si deve fare di più. Soprattutto si deve com� prendere che il coinvolgimento effettivo dei lavoratori migranti non è facile, perché per molti di loro aderire ad uno sciopero non organiz� zato dai sindacati è davvero complicato. Assentarsi per un giorno in� tero, perdere la retribuzione giornaliera, specialmente per chi lavora in nero è praticamente impossibile. C’è il rischio di perdere il lavoro e questo è drammatico per chi con i soldi guadagnati deve sopravvivere in un Paese ostile e mettere da parte qualcosa per le proprie famiglie e per i parenti rimasti in patria. Questo è uno dei limiti che bisognerà superare, trovando soluzioni che permettano a tutti di partecipare. L’obiettivo di questa giornata, che speriamo si ripeta ogni anno, è quello di scuotere l’opinione pubblica, ma soprattutto deve essere quello di sostenere i migranti che vogliono far sentire la propria voce, camminare insieme ed organizzarsi, condividere l’impegno a diffon� dere una cultura sindacale e dei diritti tra tutti i lavoratori immigrati che sono incagliati tra le catene dello sfruttamento e della schiavitù. Sarà un percorso lungo e bisognerà avere pazienza, la pazienza di chi sa che questa è l’unica strada giusta. Finirà questo tempo oscuro, ma per far tornare la luce bisogna accendere le fiammelle e creare il vento che le possa far crescere. 16


Bisogna gettare i semi, guardare oltre l’inverno, convinti che i fiori ger� moglieranno, lentamente, dal basso, per poi far emergere i frutti, del cui succo tutti potranno usufruire, anche coloro che non hanno fatto nulla per rendere fertile il terreno. Quello del primo marzo, ogni anno, dovrà essere un momento intenso e ricco di contenuti e significati, da vivere insieme, con la gioia di chi guarda al mondo con la consa� pevolezza che ci sia molto da cambiare e che sia possibile farlo insie� me. Certo, ci saranno difficoltà enormi e sarà necessario mantenere la calma nell’affrontarle, ma non esistono rivoluzioni e lotte facili, so� prattutto quando contro non hai solo un sistema politico-economico alleato nel perpetuare situazioni di non-diritto, ma anche un clima culturale pesante, che distorce il pensiero e l’etica. In quest’ottica, un discorso particolare lo merita la vicenda del Co� mitato Primo Marzo di Siracusa, che ha vissuto un percorso tortuoso, complesso, con attimi di grande scoramento. Il suo fondatore è padre Carlo D’Antoni, parroco della chiesa di Bosco Minniti, un uomo cari� smatico, onesto, che vive la sua missione di fede nell’unica manie� ra giusta: accanto agli ultimi, ai disperati, ai diseredati, a tutti coloro che la storia attuale condanna a vivere nelle posizioni marginali. Ov� viamente, in questa fase storica, gli immigrati sono coloro che più di tutti si trovano indietro, privati di ogni cosa, senza niente in tasca se non il proprio vissuto, i propri valori e le irrinunciabili speranze. Padre Carlo ha aderito subito al movimento del Primo Marzo, si è buttato anima e corpo nell’organizzazione dell’iniziativa, ha coinvolto giovani e meno giovani, italiani e stranieri, ha messo sul piatto idee, proposte, mezzi. Ci credeva, ci crede ancora e ci ha creduto anche dopo essere stato investito da una vicenda giudiziaria assurda, che lo ha tenuto ingiustamente agli arresti domiciliari per 38 giorni, impedendogli di partecipare ad una giornata che riteneva fondamentale. Un’accusa risibile, strumentale, quella secondo cui costituirebbe reato dare at� testazioni di ospitalità presso i locali della parrocchia a migranti che poi, dopo qualche giorno o mese o anno, si spostano e dunque non risiedono più lì. Una prassi consolidata ovunque, in Italia, ed assoluta� mente legale; si pensi che è la stessa cosa che la Comunità Sant’Egidio (che spesso non ha nemmeno i posti letto) e il Centro Astalli fanno da anni. Una condotta legale riconosciuta dal Tribunale del Riesame di 17


Napoli che ne ha disposto la scarcerazione immediata dopo 38 gior� ni di arresti domiciliari. La vicenda di padre Carlo ha ovviamente se� gnato le attività del Comitato di Siracusa, che però non ha mollato, grazie anche al sostegno del Comitato nazionale. Il nucleo portante di questa iniziativa è stata proprio la comunità/parrocchia di Bosco Minniti che da anni vive accanto ai migranti. Questa comunità si è trasformata in una molla di impegno civile, ha svegliato anche coloro che erano più timidi, non fosse altro che per una questione di età. Nessuno si è risparmiato nel dare una mano ad organizzare questa iniziativa dal forte significato. La ragione non è stata solo quella di voler camminare con i migranti in corteo ed urlare insieme il diritto a veder rispettata la loro dignità, il rifiuto dello sfruttamento in una zona in cui, proprio tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo, si ripete il rito disumano del caporalato (nel borgo rurale di Cassibile); c’era anche la voglia di esserci per “sostituire” chi non poteva partecipare pur avendo fortemente voluto questa giornata a Siracusa. Il grande assente era padre Carlo, costretto a rimanere nella sua abitazione, dietro quella finestra che il primo marzo era nascosta da una nebbia insolita. Già, perché anche il tempo ha voluto dare un segnale: quella mattina Siracusa si è svegliata in mezzo alla nebbia fitta, ma al mo� mento del raduno e della partenza del corteo, il sole, richiamato dal giallo intenso dei manifestanti, è spuntato spazzando via il grigiore. Un altro segno di speranza che, però, non è bastato a nascondere l’as� senza pesante di un prete che ha dedicato la sua vita agli ultimi. Erano circa 350 i partecipanti, un buon risultato date le difficoltà sopracitate e la scarsa attitudine dei cittadini di Siracusa a riempire le strade per rivendicare diritti. Mancavano i lavoratori stagionali appena giunti a Cassibile, ma questo è da leggersi sempre nell’ambito di quei limi� ti che andranno verificati e superati. Nessun lavoratore sfruttato nei campi può permettersi il lusso di rifiutare una giornata di lavoro. Inu� tile nasconderselo. Ad ogni modo, le vie della città sono state solcate da tanti giovani di ogni provenienza. Tutti insieme, i ragazzi dell’U� nione degli Studenti, i collettivi, qualche associazione, e soprattutto i migranti, con lo sguardo fiero, con la voglia di far passare la propria voce attraverso il megafono. Baba, Ibrahim, Coulibaly, Adama, Daou� da, Eddie, Alì, John, Quincy, Moussa, un’ottantina circa, hanno sfilato, 18


hanno letto passi della Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo, hanno preso il microfono per parlare dei loro diritti negati, di ciò che subiscono, di razzismo, ma anche di speranza, di amicizia, di rispet� to dell’altro, chi in un italiano stentato ma chiarissimo nei contenuti, chi in francese, inglese, arabo. E quando Boubakar ha preso con forza il microfono per urlare “Libertà per padre Carlo” tutti i migranti con un’ovazione hanno intonato lo stesso coro con una convinzione e una forza che ha commosso tutti. È stato il momento in cui le tensioni, le difficoltà, le pressioni di 20 giorni di organizzazione si sono sciolte ed è nato un applauso lunghissimo. E da quel momento tutti gli immigra� ti che hanno preso il microfono o il megafono hanno voluto dare la propria solidarietà al prete degli ultimi. Ibrahim, ad esempio, con una certa emozione ha detto che “noi abbiamo lasciato tutto in Africa, io ho lasciato lì mio padre, e qui ho trovato padre Carlo che per me è stato come un padre, generoso e onesto”. Il Primo Marzo a Siracusa è stato anche questo. È stato il momento delle rivendicazioni, ma anche del dialogo, attraverso il cineforum e il dibattito successivo (con temi dominanti Cassibile e Rosarno), il momento in cui pranzare insieme, potersi esprimere ognuno a modo proprio, con la giocoleria, la danza, la musica, il canto. Tutto condiviso, tutto circondato da sorrisi e strette di mano, abbracci sinceri e colorati. Chi non aveva mai voluto o potuto avvicinarsi alla realtà dei mi� granti, al loro vissuto, ai loro sogni, all’allegria nonostante tutto, è riuscito a farlo portandosi dietro, al termine di questa giornata, un nuovo modo di vedere il mondo e i rapporti umani. Abbiamo avuto la prova che alcuni pregiudizi, nella testa di qualche giovane italiano, sono stati frantumati. Quella giornata non avrà risolto il dramma del� lo sfruttamento, però di sicuro ha cambiato qualche testa, ha abbat� tuto qualche steccato, ha prodotto amicizia e solidarietà, ha creato “condivisione”. E se anche una sola persona cambia idea in positivo, specialmente oggi, vorrà dire che ne è valsa la pena e che la fatica ha prodotto una piccola vittoria. E poiché è dalle piccole vittorie che si av� viano le rivoluzioni, possiamo certamente concludere che, in attesa di traguardi più ampi, il Primo Marzo ha centrato il suo obiettivo iniziale. Ora toccherà a tutti noi non sprecare tutto ciò, crescere insieme ed andare avanti in questa lunga e difficile battaglia di civiltà e giustizia. 19



Capitolo I

Storie, le strade del primo marzo Rosario Cauchi Giorgio Ruta Francesco Di Martino Giuseppe Portuesi

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Cassibile, Siracusa, Catania: una staffetta per i diritti di base Rosario Cauchi

Il lavoro migrante in Italia non può più descriversi alla stregua di un fenomeno sporadico: più di quattro milioni di presenze regolari; una costante attività in settori totalmente abbandonati dalla manodopera nostrana; apporti essenziali soprattutto in sostituzione di un welfare state defunto da decenni, qualora si fosse mai radicato nella penisola. Ma i lavoratori, come ovvio, non possono solo sottostare ad obbli� ghi e doveri di ogni genere, per non parlare delle vessazioni e delle offese schiaviste sofferte da migranti privi di permesso di soggiorno, dovendo, invece, agire allo scopo di migliorare condizioni esistenziali, troppo spesso precarie. Migranti e diritti di base; disvelamento di falsi ed ingenui luoghi comuni; rispetto e dignità. Pretese, o più semplicemente richieste, poste a fondamento di un’intera giornata dedicata al confronto, all’abbandono di una pe�


nombra troppo spesso soffocante, alla protesta ed alla progettualità di scenari, di vita e di coesistenza, altri rispetto all’esistente. Tutto questo è stato il primo Marzo italiano, al pari di quello sici� liano. Un tragitto, ideale e fisico, ha unito, nel corso di un lunedì assai diverso dagli altri, tre città, Cassibile, Siracusa e Catania, nel tentativo di far comprendere, anche a chi non se ne interessa o finge di non accorgersene, l’attuale affronto patito da lavoratori, uomini e donne, vessati da normative e consuetudini sociali tutt’altro che conformi alle modalità dell’accoglienza e della solidarietà. “Qua a Siracusa si sta bene, io gioco a calcio in Promozione con una squadra che si chiama Belvedere, mi pagano, ho una casa insieme ad un amico; il vero problema, però, è che i giovani, anche della mia età, sono proprio scemi, quando mi vedono insieme ad altri africani iniziano a prendermi in giro per via della pelle; io capisco molto bene la differenza tra una battuta ed un insulto”; questo mi dice, mentre il corteo si accinge ad accedere all’area di Ortigia, Hamad, nato in Gui� nea, e giunto in Italia da quasi due anni, perseguendo la medesima sorte di alcuni fratelli stabilitisi, però, in Francia e Belgio. “Quello che non riesco a capire da quando sono nel vostro paese è la differenza che ho notato con altre nazioni; in Francia e Belgio. “Quello che non riesco a capire da quando sono nel vostro paese è la differenza che ho notato con altre nazioni; in Francia e Belgio la presenza di un africano non produce la stessa sorpresa che noto ad


esempio a Siracusa: qui tutti si girano, o comunque mi osservano, quando passo per la strada, mi sento sempre con gli occhi degli altri addosso; comunque, speriamo che prima o poi capiscano”. “La principale difficoltà in Italia riguarda tutto il casino dei docu� menti; io prima di arrivare a Siracusa ho lavorato per cinque anni a Milano: tutto in regola, ma solo grazie a documenti che, quando sca� deva il mio permesso di soggiorno, mi facevo prestare da un amico, e per ricompensarlo una parte dello stipendio lo davo a lui; purtroppo, però, la gente del nord veramente non la capivo, sempre di fretta, poco capace di fare amicizia, così ho scelto la Sicilia, ma a Siracusa c’è poco lavoro e poi con la questione di padre Carlo tutto per noi è peggiorato”. Questa l’opinione di Edmond, natio del Camerun, ospite della co� munità di Bosco Minniti, attualmente sotto la luce di ingrandimento dei media nazionali non in relazione alla costante azione di supporto ed assistenza verso donne e uomini in difficoltà, compresi migranti provenienti da ogni Stato del globo, bensì a causa dei provvedimenti restrittivi che hanno colpito padre Carlo D’Antoni, responsabile della struttura, insieme ad altri collaboratori. L’addebito contestato agli stessi, stando ai cori e alle opinioni espresse dai manifestanti, non sarà mai quello di aver favorito l’immi� grazione clandestina, partecipando alla produzione di false certifica� zioni, ma, al contrario, quello sotteso ad nuova fattispecie “delittuo� sa”: il reato di accoglienza. La festa siracusana, fatta di tanta partecipazione, è proseguita in Piazza Stesicoro, a Catania. Interventi, musica tradizionale, e tante denunce: questi gli ingre� dienti di un pomeriggio di sensibilizzazione, reso possibile dalle mol� teplici entità, sociali e politiche, operanti in città, con in testa il fronte rappresentato dalla “Rete Antirazzista”. Nessuno ha voluto negare un contributo, seppur minimo: neanche i più esposti, i clandestini, definizione tanto famigerata ed al contem� po assurta al dizionario ufficiale della “nuova Italia”. “Non è più possibile accettare quello che ogni giorno subiamo; io ho difficoltà anche ad avere a disposizione un pasto caldo, oramai ho paura anche ad uscire da casa: sì, perché io non ho un permesso di 24


soggiorno, ma come faccio ad averlo se ogni volta che inizio a lavorare nessuno, e dico proprio nessuno, mi propone una regolarizzazione”; mentre parliamo Roman, ucraino, cerca di prendere informazioni sul� la cena popolare organizzata per la serata dal comitato catanese:non gli sembra vero che si possa accedere liberamente, almeno per oggi il suo pasto caldo non verrà meno. La manifestazione sta per volgere al termine e mentre si attende l’esito dell’incontro in prefettura, ove una delegazione di manifestanti è stata ricevuta, Nawel, tenace esponente dei collettivi universitari, di� mostrando una forza di resistenza poco conforme al suo gracile fisico, tiene ad informare i presenti, lanciando un preoccupante allarme: nien� te più antidepressivi svenduti ai senza dimora, soprattutto se migranti. Descrive pratiche invalse in alcune farmacie cittadine e alla locale Ca� ritas, abituate a “togliersi dai piedi” gente troppo incline alla continua lamentela e alla sofferenza, fornendogli, praticamente gratis, farmaci sottoposti, però, ad obbligo di prescrizione medica: tanto nessuno se ne accorgerà e questi “disgraziati” non penseranno, almeno per qual� che ora, a quello che li aspetterà al sorgere del sole. Questa è l’Italia, una volta patria di “eroi e navigatori”.

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Le strade del primo marzo corrono a Siracusa Giorgio Ruta

“Io non sono razzista, ma qui non c’è lavoro neanche per noi, che vengono a fare? Tutti a casa li devono mandare” spara con rabbia una commerciante, sulla sessantina, di Ortigia, Siracusa. “Signora, i lavori che fanno loro lei li farebbe?”. Silenzio. È il primo marzo e ad attraver� sare le strade di Siracusa ci sono i migranti. È il loro sciopero, anche a Siracusa, come in altre parti d’Italia. Si parte verso le 10, con un cielo torbido e una grande afa, ma con gli occhi pieni di giallo. Si, di giallo, perché questo è il colore della ma� nifestazione: palloncini, magliette, striscioni. Un colore che rappre� senta tutti, che non divide. Un colore che sta a significare: oggi non c’è né destra, né sinistra, oggi siamo migranti. Il corteo si incammina e la musica suona. Ritmi africani si mescolano alle casse del camioncino, e ne viene fuori una gradevole mescolanza di suoni. I volti sono vari: dal militante di partito al migrante. “Stiamo scioperando perché sia� mo senza futuro, senza lavoro, senza mangiare. Lavorare per noi rap� presenta la vita” ci spiega un manifestante proveniente dalla Costa D’Avorio. Non è l’unico a pensarla così, perché qui si chiede soltanto la vita, soltanto un futuro. E molte volte questo futuro fa rima con permesso di soggiorno. “Senza documento non si lavora, e così non si vive” dice Sirikipa, uno dei volti del primo marzo. Venuto per cercare un futuro. Venuto partendo dalla Costa D’Avorio, passando per il Burkina Faso, il Niger, l’Eritrea e infine la Libia. “In Libia non sono buoni con noi, ci picchia� vano ogni mattina”. Perché sei andato via? “Perché nel mio paese c’è la guerra e io non voglio fare male a nessuno”. Ora Sirikipa è costretto a sopravvivere, ha pagato un prezzo altissimo per la sua umanità. “Nel 28


mio paese lavoravo, facevo il tassista, qui non mi fanno lavorare” ci dice. “Non ho il documento, non ho la casa. Non posso regolarizzarmi”. Burkina Faso, Niger, Eritrea, Libia, Italia. Ricordatevi di questo viag� gio, aggiungendo il mare e il deserto. E intanto il corteo cammina, in� crociando le via delle città aretusea. Ci sono i ragazzi di Libera, che ri� cordano che la mafia ha interessi pure con l’immigrazione: dagli sbarchi al caporalato; poi c’è Emergency, l’Unione degli Studenti, la Rete degli Studenti. E ancora tanti palloncini gialli. “Senza immigrati cu e cogghi i patati?”, in perfetto dialetto siciliano domanda un migrante su un car� tello. Chi è disposto a lavorare a 25-30 euro per 12 ore sotto il sole in una campagna siciliana? “Sono sfruttati, lavorando per pochi euro e poi dopo una giornata di lavoro li puoi trovare, in piazza, a Cassibile sotto gli alberi a riposare” ci racconta Davide, dell’istituto industriale di Siracusa. “Mi dispiace che non ci siano molti studenti, molti dei miei compagni hanno preferito andare in una sala giochi. C’è indifferenza sul tema”. E intanto le casse sparano i 99 posse, i Tinturia e poi dal megafono si susseguono gli interventi: “ Dobbiamo fare rete, è l’unica soluzione” urla Massimiliano Perna, uno degli organizzatori, - e conti� nua rivolgendosi ai migranti - “fidatevi degli studenti, fidatevi di loro”. Sono le 11.30 ed entriamo nel salotto buono della città: Ortigia. Tra lo splendente barocco ed il mare ad un soffio, continuiamo ad im� batterci tra i volti del primo marzo: tra i migranti e chi per loro lotta. Come Pino Pizzuti, dell’Arci, che attacca le politiche del governo Berlu� sconi in materia di immigrazione e ci parla della vita di questi immigrati. “L’immigrazione è una risorsa” sostiene Pino, ma ci ricorda che molti ci mangiano sopra, “il centro d’identificazione, a Cassibile, è stato chiuso perché era malgestisto. C’era un politica dei soldi, il clientelismo e la truffa”. Anche la peggiore sofferenza diventa business. Sono le 12 e si entra ai mercati generali, luogo d’arrivo. Si mangia, si parla, ci si conosce. E poi si comincia con un pomeriggio ricco di atti� vità: ci sono i migranti che raccontano le loro storie, ci sono video che bucano lo stomaco e alla fine ci sono i suoni di giovani chitarre che rallegrano l’aria con un concerto che sembra rilassare un’aria che per molti è indigeribile per la sua durezza. Anche qui a Siracusa, nel sud est della Sicilia, essere un migrante è una colpa. Una colpa che si paga. Ma oggi, primo marzo, non si paga 29


niente, si invoca dignità. Anche qui , oggi, si è parte di una grande lotta di civiltà. Primo marzo, Siracusa, Terra.



Primo Marzo sotto il Duomo Stefania Ragusa

Il Primo Marzo è cominciato a Milano, una sera di novembre, “scaturito” dalla lettura di un trafiletto su un giornale e da un’intuizio� ne. Il trafiletto diceva che in Francia, attraverso internet e Facebook, una giornalista di origine marocchina aveva dato vita a un movimento che stava organizzando per quella data, il 1° marzo appunto, la journée sans immigres, un’astensione di massa dalla quotidianità, per far vedere al presidente Sarkozy e ai suoi sodali come sarebbe difficile da vivere una Francia senza persone immigrate o di origine immigra� ta. L’intuizione è stata che anche in Italia - l’Italia fresca di pacchetto sicurezza - era arrivato il tempo per una simile astensione, e che a portarla avanti dovessero essere tutti gli stranieri, dove il termine, più che il dato anagrafico, stava a sottolineare l’estraneità al clima di razzismo e intolleranza che serpeggiava per il Bel Paese. In pochi minuti, in una mano il telefonino, l’altra impegnata sulla tastiera del computer, la sottoscritta ha creato il gruppo FB e il blog e l’avventura è cominciata. Il nome, Primo Marzo, pure è stato scelto in una manciata di secondi, senza indagini di marketing e senza consu� lenze prezzolate. Le parole chiave, quelle che hanno consentito a questa idea di at� traversare l’etere e conquistare già in poche ore centinaia di persone, erano mixité e sciopero. Mixité �������������������������������������������������������� è una ������������������������������������������������������ parola evocativa e dal suono musicale. ����������� È���������� la condi� zione che accomuna migliaia delle persone che vivono in Italia e a Milano in particolare: immigrati che hanno ottenuto la cittadinanza o che comunque sentono di appartenere anche al Paese che li ha ac� colti, le coppie miste con i loro bambini e i loro amici, le seconde 32


generazioni... Ed è una condizione che rende sempre più artificioso e impraticabile il confine (tanto caro ai leghisti ma non solo) tra ospiti e padroni di casa, tra noi e loro. La parola sciopero invece ha un suono secco, ma è����������������� ������������������ altrettanto evo� cativa. Certo, la pratica corrente ne ha fatto il core business del sin� dacato, un’opzione per il lavoratore ma messa in mano d’altri, decisa dall’alto e da lì calata. Ma sciopero in realtà è un diritto individuale, sancito dalla Costituzione,������������������������������������������� e può essere articolato ������������������ in una molteplici� tà di modi. Può essere della fame e della sete, bianco, degli acquisti... Può durare molti giorni o pochi minuti, può essere generale o partico� lare. Può indiscutibilmente essere proposto e chiesto dal basso. E chi sta in alto, chi ha tecnicamente la facoltà di indirlo, dovrà assumersi la responsabilità di accordarlo o di negarlo. Nominare lo sciopero, senza perifrasi, è stata la nostra scelta più azzeccata. Giuseppe Cassibba, un amico artista e conterroneo, ragusano come me, ci regala le immagini per comporre il logo che in poche settimane diventerà familiare a tutta l’Italia. Il Primo Marzo comincia subito a co� lorarsi di giallo: un colore neutrale, spesso associato al cambiamento, usato già in altre manifestazioni antirazziste e per i diritti umani. Le adesioni al gruppo FB crescono velocemente, nell’indifferenza però dei media che contano e circondate dallo scetticismo di molti pro� fessionisti dell’antirazzismo. “Chi sono queste? Cosa si sono messe in testa? Chi le manovra?”. Poi arriva Rosarno, con le scene da guerriglia urbana, la depor� tazione degli schiavi e la scoperta (tardiva) che le olive e i mandarini che trionfano sulle tavole italiane non cadono dal cielo. Sono raccolti faticosamente da mani nude e spesso nere: mani senza diritti. I giornali scoprono la storia delle quattro donne, due bianche e due nere, che da FB hanno dichiarato guerra al razzismo e si accorgono che, da nord a sud, in tutta la penisola, si sono già formati spontaneamente comitati e gruppi territoriali che lavorano per il Primo Marzo, per lo sciopero o per quello che sarà. Noi, le quattro donne, passate da un trafiletto e da un’intuizione alla ribalta mediatica, ci troviamo alle prese con la necessità di orga� nizzare, dare una forma a questo incredibile fermento. Ma presto ci rendiamo conto che il fermento, per fortuna, si organizza da solo. La 33


situazione italiana è di merda. Gli organismi internazionali non fanno che ricordarcelo ed elencare le violazioni dei diritti umani compiute in nome delle leggi e assolutamente contro la Legge. Ma le persone normali, comuni, quelle che non partecipano ai processi decisionali, non sono ingessate dalle preoccupazioni elettorali e dal presunto bon ton delle organizzazioni politiche, quelle che vivono l’abominio del razzismo e della discriminazione sulla propria pelle (anche se magari ce l’hanno bianca questa pelle) e non si limitano a sentirne parlare ai convegni o a praticare le statistiche, quelle persone hanno mille volte più forza e coraggio di chi ha la pretesa di rappresentarle. Le persone normali, comuni si mettono in gioco senza regie. La cosa veramente importante è ripararsi dagli appetiti opportunisti e voraci che l’intui� zione trasformata in successo comincia a suscitare. Nelle realtà più industrializzate, Brescia, il Nord-Est, l’Emilia, si parla esplicitamente di sciopero e in quesa direzione si procede. A Milano no. Nella capitale economica, nella città della moda e del de� sign, la città da mangiare e da bere, c’è molto timore a pronunciare questa parola. Eppure qui di situazioni critiche ce ne sono a iosa. Ci sono almeno 150mila immigrati senza permesso di soggiorno che però lavorano regolarmente ed in nero. C’è l’esercito degli edili che, con la benedizione della ‘ndrangheta, sta costruendo l’Expo 2015 a 3 euro l’ora e c’è quello degli scaricatori di casse, che per meno ancora, ogni notte, scavalca il recinto dell’Ortomercato e offre le proprie brac� cia a cooperative più o meno legali. Ci sono gli uomini della security, gli eleganti senegalesi in giacca e cravatta a cui sempre più spesso si chiede una partita IVA per presidiare i supermercati e i grandi magaz� zini. Poi ai convegni ci viene raccontato che l’imprenditoria migrante è in crescita, ma non ci parlano delle partite IVA imposte per sfruttare meglio e senza complicazioni… Milano ha tutte le carte in regola per essere annoverata tra le Rosarno d’Italia, le polveriere, le realtà in cui lo sfruttamento e il cinismo si sono intrecciati al parossismo. Non è un caso che, a poche settimane dal Primo Marzo 2010, il primo, la guerriglia urbana esploda anche qui. Rosarno a Milano succede il 13 febbraio, sulla pelle di Ahmed Aziz El Sayed, morto a 19 anni in via Padova – una delle strade più etniche della città, una delle più vituperate, ma in realtà anche una delle più 34


vive e più belle - per una coltellata al cuore. Succede sulla pelle di tutte le persone che lungo quella arteria (4 chilometri per 14 fermate della 56, l’ultima delle quali lascia davanti al campo rom) gravitano, esistono e vivono. Anche sulla mia, dunque. Il 13 febbraio è sabato. Aziz è con due amici, uno egiziano come lui e l’altro ivoriano. Sul bus 56 ha un diverbio con cinque giovani latino� americani. Alla fermata la discussione si trasforma in rissa. Aziz viene colpito mortalmente da una coltellata, l’amico ivoriano è ferito. In un attimo la strada si riempie di gente. Ci sono amici e connazionali di Aziz che vorrebbero portare al più presto il corpo in moschea, per pro� cedere al rito funebre. Gli agenti, è chiaro, non possono permetterlo. Non si possono spostare i morti ammazzati a discrezione degli amici. Non si tratta però della fermezza di Ismene contro le ragioni di Antigo� ne. Ismene e Antigone, in via Padova, si scrutano rabbiosamente senza parlarsi. C’è troppo muro. Troppa diffidenza. Gli agenti impediscono il trasporto. Gli amici di Aziz vivono la cosa come un affronto. La rabbia monta, deborda, affoga la razionalità e il buon senso: gli egiziani ribal� tano auto e moto, infrangono le vetrine di negozi e ristoranti, fanno partire la “caccia al sudamericano”, la guerriglia urbana. Mentre tutto questo accade, quel giorno, io sono in treno e sto tornando da Bologna, da un’assemblea dei comitati territoriali Primo Marzo. E lì si è����������������������������������������������������������� parlato ��������������������������������������������������������� a lungo e con passione della necessità di supera� re la famosa contrapposizione tra noi e loro, tra italiani e stranieri e di riscoprirci insieme, “uniti in una stessa battaglia di civiltà”, per la difesa dei diritti fondamentali, che sono per tutti o non sono per nessuno. I diritti fondamentali: vacillanti in via Padova, a Milano e in tutto il Pae� se. Un amico mi chiama al cellulare e, protetto dalle persiane del suo appartamento, mi racconta quel che passa sotto i suoi occhi. Il civico 80, avvolto dall’impalcatura che nasconde alla vista il corpo di Aziz, è vicinissimo all’alimentari bengalese dove acquisto regolarmente riso, salsa di arachidi e okra. È a ridosso di un parco in cui amo passeggiare. È un pezzo della mia quotidianità. Quando arrivo in via Padova la battaglia è finita. I giovani egiziani e nordafricani che riesco ad avvicinare sono inferociti e avviliti. La loro rabbia si incanala lungo la via dei cliché. Ce l’hanno con i sudamericani ubriachi e violenti e con la polizia che a dir loro li protegge, perché sono 35


cattolici, accanendosi invece contro i musulmani. Ma è tutto falso, gri� da un ragazzo, i latini non sono cattolici! Non credono in niente, sono atei, idolatri. Un altro mi fa notare il paradosso: il morto è egiziano, l’unico arrestato (fino a quel momento, i domenicani saranno fermati infatti nei giorni successivi) è egiziano pure lui: è un testimone chiave ma è stato portato nel Cie di via Corelli perché non aveva i documenti. C’è un ragazzo morto per terra ma quello che conta sono i documen� ti. Meno male che Aziz li aveva ‘sti documenti del cazzo, altrimenti avrebbero portato in via Corelli anche lui. I latini, dal canto loro, sono spaventati e preoccupati. Non ci en� triamo, dicono. È stato quello stronzo a usare il coltello. È lui che deve pagare. Cosa c’entra questa caccia indiscriminata? Ma anche loro camminano sulla via dei cliché. Ci vorrebbero più controlli, più polizia: contro i nordafricani, che sono terroristi islamici e spacciatori. Luis, un amico peruviano che ritrovo in quella bolgia mi bisbiglia all’orecchio: «Non ha senso tutto questo. È la fine se diventiamo razzisti anche noi. Perché è proprio quello che vogliono: che incominciamo a farci a pezzi tra noi immigrati. Così ci eliminiamo da soli e loro possono continuare a fare come vogliono». Noi e loro. Autoctoni e immigrati. Italiani e stranieri. Cattolici e musulmani. Luis non vuole le contrappo� sizioni ma la lingua che ha, che abbiamo a disposizione porta a con� trapporre. I principi aristotelici di identità, non-contraddizione e ter� zo escluso spingono nella stessa direzione. A Bologna abbiamo detto che bisogna andare oltre queste parole e questi concetti, acquisirne nuovi. Ma tra il dire e il sapere come fare ci sono di mezzo gli oceani. Il Primo Marzo vorrebbe servire anche a questo: ad aiutarci a capire come fare, a far sapere a chi governa e amministra che il tempo delle parole e dei pensieri nuovi è arrivato. Sono pensieri e parole nuove, sorprendenti, scritti in italiano, in arabo, in spagnolo, quelli che insieme ai fiori appaiono il giorno dopo, nel posto in cui è caduto Aziz. “Il mio dolore per un ragazzo morto a 19 anni, un’abitante di via Padova italiana”; “Cari ragazzi in questo triste giorno dobbiamo fare una riflessione: se amore porta amore, violenza porta violenza”; “Non si può morire così”. L’eurodeputato Matteo Salvini con ogni probabilità di questi messaggi non sa nul� la e si affretta ad esternare secondo il suo tradizionale canovaccio: 36


si erge a rappresentante dei sentimenti del milanese medio e invoca misure forti. Parla, nell’occasione, di «rastrellamenti casa per casa», per stanare gli ormai mitici clandestini, quelli che, secondo la vulgata leghista, attraverserebbero il mare e i continenti stipati nelle barche o nei containers, dopo avere pagato migliaia di euro agli scafisti o ai traffi� canti, solo per togliersi lo sfizio di venire in Italia a delinquere. La gente di via Padova lo ignora. Immediata arriva la smentita dei suoi capi. La Lega, da sola o in compagnia, comanda a Milano da quasi vent’anni. Politiche securitarie e tolleranza zero sono da tempo i vanti dell’attuale vicesindaco. In via Padova, all’angolo con via Arquà, è fissa o quasi una camionetta di militari. Non si possono invocare più controlli, più rigo� re, più pugno di ferro senza esporsi alle pernacchie della cittadinanza. Immediata arriva la smentita e qualcuno, tra i padani, si avventura a parlare di integrazione e dialogo. Ma è solo una parentesi tattica. A po� che settimane di distanza il sindaco, infatti, scodellerà la sua soluzione securitaria: coprifuoco per i negozi e i locali del quartiere, luci spente e tutti chiusi in casa. A Milano il Primo Marzo non si è scioperato ma la città è stata co� munque mobilitata in toto, dal centro alle periferie, per tutto il giorno, con iniziative, presidi, cortei, momenti di festa, di formazione e di ag� gregazione. Vuol dire che doveva andare così. Che in una città senza fabbriche, che straripa di precari e irregolari non poteva essere fatto diversamente. Ogni città, lo avevamo detto mille volte, si organizzerà in base alle proprie possibilità. Così è stato anche all’ombra della Ma� donnina. Verso sera la gente ha cominciato ad affluire in piazza Duomo. Persone di tutti i colori, di tutte le età. L’incarnazione della mixitè. Alle 18 centinaia di palloncini gialli si sono liberati in un cielo violetto e già primaverile. Pensare che le previsioni nei giorni precedenti avevano parlato di pioggia e freddo. Ma Dio, come mi aveva confidato solo po� che ore prima un amico sacerdote, è antirazzista e se ne infischia della metereologia. Dopo i palloncini, lentamente ma in un fragore di suoni, slogan e musica, ha incominciato ad avanzare il corteo. Davanti lo stri� scione con il nostro logo, i faccioni migranti usciti dal genio e dall’arte di Cassibba. Dietro,trentamila persone, straniere perchè estranee al razzismo. 37






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Capitolo II

I volti del primo marzo Rosario Cauchi Giorgio Ruta Francesco Di Martino

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MOUSSA Un lavoro e un tetto

Moussa è alto, fisico da atleta coperto da jeans e polo blu. Moussa significa Mosè. E lui va fiero di questo nome. Viene dalla Costa D’Avo� rio, migliaia di chilometri distante da noi. È arrivato in Italia dopo un viaggio interminabile. Faceva l’autista ma un giorno decide di lasciare tutto. Una situazione politica insostenibile e una voglia di futuro. E per Moussa, come per tanti altri giovani, arriva il momento di tentare la fortuna: direzione Italia. Parte, ma il suo cammino dure tre anni. Tre lunghi ed interminabili anni a combattere contro parassiti che gli sottraevano denaro ma non la forza di fare ancora un passo verso la terra promessa. “Non avevo soldi e quindi mi dovevo fermare molto. Ci sono voluti tre anni prima di arrivare qui”. Ogni passo una conquista e un sogno sempre più vicino. Ogni passo ha, però, davanti a se mille ostacoli. “Non tutti ce la fanno a superare il deserto. Io ho camminato per quattro giorni e poi mi hanno arrestato i libici”. Sembra un maca� bro gioco dell’oca dove si rischia di ricominciare dal via o sostare in carcere. Un gioco dell’oca che ha come pedine uomini in carne e ossa. Uomini che rischiano tutto pur di sperare. Moussa ricorda bene le carceri libiche: non riesce a scordare quei luoghi dove la parola diritto non entra tra le mura grigie. “Io sono sta� to un mese in carcere. È stato orribile. Ci picchiavano ogni mattina.” – si ferma e ricomincia con un tono fermo – “Io ero malato. È stato difficile”. Ma dopo un mese Moussa esce e ricomincia ad avvicinarsi a quel mare che lo divide da una nuova vita. Moussa sa che un amico lo aspetta in Italia, ma non trova nessuno. Deve fare tutto da solo; si ritrova a Milano ma non sta bene e allora via verso Sud. “Qui sto molto meglio. A Milano non mi sono trovato bene”. 45


Moussa ha una storia simile a quella di tanti altri migranti. Una sto� ria di sogni e soprusi. Ma la sua storia ha un presente raro, molto raro: ha un tetto e un lavoro: vive tra il barocco di Ortiga, a Siracusa. Divide una casa con un suo amico, pagandola 300 euro al mese. “Adesso pago tutto io, il mio amico non ha lavoro”. Moussa però è soddisfatto, ha una casa e pure un impiego. Lavora in un negozio e quando parla del suo datore di lavoro gli si illuminano gli occhi: “E’ una bravissima persona. Io devo tanto a lui. Adesso lavoro e sono felice”. Moussa ce l’ha fatta. Ha dovuto sudare tre anni di viaggio e di violenze per trova� re un lavoro. Adesso si stenderà a casa soddisfatto, dopo una giornata a faticare, e manderà qualche soldo a casa. Con la speranza di poter rimettere piede presto nella sua Costa D’Avorio.

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SIRIKIPA. “Ho rifiutato di imbracciare un fucile ed ora mi trovo senza una casa e un lavoro”

Sirikipa è un omone alto, dalla faccia rassicurante; parla molto ac� compagnando la parola con gesti rapidi. Sirikipa viene dalla Costa d’A� vorio. È arrivato in Italia nel 2009, sbarcando a Porto Palo, dopo aver attraversato il Burkina Faso, il Niger, l’Eritrea, la Libia e infine il mare. È stato tre giorni e tre notti in balia delle onde del Mediterraneo. Tre giorni e tre notti con un sole accecante e la bocca asciutta. “Il mare non è buono e neanche il deserto” - dice Sirikipa - “e neanche la Libia. Mi picchiavano”. Anche Sirikipa ha vissuto la tragedia di Aladin e Alpha e di chissà quanti migranti: viaggi interminabili accompagnati da sangue, fame e sete. Faceva il taxista nel suo paese ma è dovuto scappare inseguito da una guerra che stritola ogni giorno l’umanità. Ma Sirikipa l’umanità la tiene forte dentro di se. Lui ha preferito vagare un mese per mezza Africa, rischiare la vita e lasciare tutto quello che aveva pur di non imbracciare un fucile, “Io non voglio fare male a nessuno”. Un gesto estremo il suo, che sta pagando con una vita che non vede futuro. Sirikipa cerca solo un lavoro: “Io sono venuto qui per lavorare, ma non ne trovo. Prendono solo i marocchini”. Sirikipa non trova lavoro perché non ha un documento. Tutta una vita appesa ad un foglio di carta: “non mi vogliono dare il documento. Io ho chiesto asilo politico ma niente”. Il lavoro per molti di loro è tutto. Vengono qui, sfuggendo da mille barbarie, per poter lavorare e mandare qualcosa a casa. Qua� si sempre questo non gli è permesso e la loro vita sprofonda ancora di più. Non cercano tanto, cercano solo un lavoro. Non vengono per “rubare”, vengono solo per vivere. Sirikipa, nessuna voglia di sparare e nessun lavoro. 47



ALADIN, 22 ANNI “Lasciare tutto per una vita”

“Sono venuto nel maggio dello scorso anno. Vengo dal Gambia”. Aladin è seduto su uno scalino, sguardo basso che spiega in un istan� te i suoi sogni, le sue speranze ma soprattutto il suo dolore e le sue paure. Aladin ha solo 22 anni, ma si trincera in un’apparenza molto più adulta. Cambia faccia soltanto quando parla della sua passione: il cal� cio. “Io tifo per il Barcellona”, racconta soddisfatto. Il suo sorriso si perde ancora quando racconta il lungo tragitto che lo ha portato in Sicilia, a Siracusa. “Per arrivare qui ho dovuto attraversare il deserto” – si ferma e poi continua – “lì non c’è acqua, è stato bruttissimo”. Ma oltre il deserto non c’è il paradiso. Giorni e giorni sotto il sole, nel nien� te, per arrivare in Libia. Oltre il deserto non c’è il paradiso: c’è l’infer� no. Nessun diritto li accoglie ma solo umiliazioni e violenza. All’inferno non c’è fine, perché una volta arrivato in Italia, Aladin, finisce a Rosar� no. La sua voce si fa insicura, lo sguardo ancora più basso. Il ragazzo fiero e forte di prima lascia spazio alla commozione: “a Rosarno io la� voravo, ma gli abitanti sono cattivi”. Aladin non riesce più a parlare. A Rosarno, in quelle tristi giornate in cui gli occhi dei media si accorgono di loro, ad Aladin hanno ucciso un amico. Due occhi chiusi per sempre senza riuscire più a vedere il sogno per cui si è lasciato tutto. Anche Aladin ha lasciato tutto dietro. “Io studiavo. Mi piaceva l’in� glese. Adesso non posso studiare”. La nostalgia lo segna quando ri� pensa a quello che era. I ricordi lo inteneriscono quando pensa al suo amore. Ad attenderlo al suo paese c’è una giovane ragazza. “Non ci sentiamo perché io non lavoro. Questo è un problema”. Aladin, 22 anni, ha lasciato il Gambia perché nel suo paese c’è una 49


dittatura. Sogna soltanto di trovare lavoro e di poter tornare al suo paese, magari quando la situazione sarĂ migliore. Aladin ha lasciato la sua terra, gli studi, il suo amore e ha trovato nostalgia e pallottole. Aladin, 22 anni e il sogno di una vita migliore.

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BALLA Un altare come mensa

Balla sbarca in Italia nel luglio 2008, dopo 3 giorni tremendi in mez� zo alle onde del Mediterraneo: dove il gigante di acqua decide chi deve vivere e chi strapiombare negli abissi. Balla è sopravissuto, molti altri no. Questo lui lo sa e gli si legge in volto. Balla ha lavorato nelle campagne di Rosarno ed ora è in cerca di un lavoro a Cassibile, la Ro� sarno siciliana. “Adesso non c’è lavoro a Cassibile, spero di trovarlo”. Cassibile, una polveriera che rischia di esplodere. Immigrati co� stretti a vivere in situazioni di estrema inumanità: tra i carrubi delle terre del marchese o in piazza tra una panchina e un po’ di ombra. Balla, per fortuna, adesso ha un tetto sopra la testa: vive nella comu� nità di Bosco Minniti. Vive con Padre Carlo, un prete di periferia che accoglie tutti senza far distinzione di pelle. La chiesa come un luogo di incontro fra mondi e culture lontane. Un centro del mondo dove nessuno è diverso o forse si ha la consapevolezza che la diversità è ricchezza. Padre Carlo è stato arrestato con accuse infamanti, per poi essere più tardi rilasciato. Alle accuse non ci credeva nessuno: tutti sanno che Padre Carlo è innocente. Anche Balla non crede alle accuse infamanti; sa che è solo fango quello gettato addosso alla Comunità di Bosco Minniti: “Padre Carlo ci aiuta. È una brava persona che ci acco� glie. Quello che hanno detto non è vero”. Non c’è un migrante passato da Padre Carlo che dica il contrario. Nessuno. Ma neanche la gente per strada crede alle accuse. Dall’attivista all’edicolante la risposta è univoca: “E’ innocente. La cosa più brutta che può aver fatto è stata, forse, fidarsi troppo”. Balla è venuto qui ed è stato accolto. Ha trovato la sua casa in una chiesa, ha trovato un amico in un prete. Un prete che qualcuno non ama, ma a cui Balla e tanti suoi amici devono tanto. 51





ALPHA, 30 ANNI “La Libia è peggio dell’inferno”

Dal Gambia si attraversa il deserto per poi passare dalla Libia, pren� dere qualche carretta del mare, sfidando la forza del Mediterraneo, e approdare sulla costa siciliana. Questo è il viaggio di molti migranti. Un viaggio lungo dove fortuna fa rima con vita; dove la meta è anneb� biata per giorni, mesi, anni, dalla fame, dalla sete e dalle mazzate di qualche poliziotto libanese. Questa è pure la storia di Alpha, occhiali scuri e cappello in testa, sbarcato in Sicilia quasi due anni fa. Adesso fa un mestiere che molti altri migranti fanno: lo sfruttato. Non ingannia� moci, come si può definire un ragazzo che passa tutto il giorno chino in un campo, con il sole che gli scava la testa, per una manciata di sol� di? Sfruttato e dimenticato da una società che si scorda i diritti di chi ha una pelle diversa. “Lavoro 7 ore al giorno per 30 euro” ci racconta Alpha. Lui si sente anche un po’ fortunato perché molti suoi amici non hanno neanche questo. Ma Alpha non è contento dei siciliani: “Siete molto razzisti. Dovete venire da noi per capire perché siamo qua”. E come dargli torto. Alpha ha abbandonato la sua terra, il Gambia, per problemi poli� tici. Faceva il pescatore ma è dovuto scappare. “Io sono fuggito. Un mio amico è stato arrestato”. E da questa fuga che comincia l’odissea: Gambia, deserto, Libia, mare, Sicilia. Alpha ha pagato moltissimo per un viaggio che è durato 3 mesi. Tre mesi alla ricerca di un sogno o di un’illusione. Tre mesi accompagnati dalla fame e dalla violenza. Alpha ha visto la morte nel deserto; ha lasciato molti cadaveri dietro di lui. Dal deserto alla Libia. “La Libia è peggio dell’inferno” ci dice con un espressione di rabbia. “Sono stato 14 giorni chiuso in una cella piena di gente, dormendo a terra. Ci picchiavano sempre”. 14 giorni di terro� 55


re e umiliazione per poi ripartire. Davanti ad Alpha c’è il Mediterraneo e una barca. E vedrà soltanto questo per 3 giorni, fin quando davanti a se troverà la sabbia di qualche spiaggia del sud est siciliano. Questo è il viaggio di un uomo: Alpha, 30 anni, e una passione per il calcio e il reggae.

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ADAM Un fucile puntato come paga

Le storie si sovrappongono, si intrecciano l’une alle altre ma sono percettibilmente diverse. Sfumature che da volto a volto rivelano il peso di ogni storia, di ogni viaggio o di ogni umiliazione. Un tratto in comune: la difesa, strenua, della propria dignità. Adam è un ragazzo africano. Lui la dignità l’ha difesa raccontando la storia sua e quella di tanti altri. Parla forte, con sdegno. “A noi ci sfruttano” dice. Lo dice con la durezza di chi ha calato la schiena per giorni e giorni in cambio di una manciata di soldi. Si tira avanti per inerzia e domani si ricomin� cia con la fotocopia del giorno prima. Sole, stanchezza e una manciata di soldi. “Ci pagano poco. Ci danno solo 15-20 euro al giorno”. Questo è il prezzo dei nuovi schiavi: 15-20 euro e tanti saluti. Adam non riesce ad accettare il comportamento dei suoi sfruttato� ri, non riesce ad accettare il silenzio dei tanti. Ancora una volta le sto� rie si sovrappongono ed infatti Adam come Aladin, e tantissimi altri, è stato a Rosarno. Una pagina nera, più nera del colore della pelle di Aladin e di Adam. Una pagina che non scorre veloce; una pagina da portare dentro ancora per tanto con il suo peso abnorme. “A Rosarno non si sta bene. Si vive in condizioni intollerabili. Ti pagano una mise� ria. Se ti va male non ti pagano e se ti ribelli ti puntano il fucile”. Una canna di fucile davanti a te a dirti chi comanda. Ad Adam questo non va bene: “Queste condizioni noi non li vogliamo. Sono inaccettabili”. E si sa che la violenza genera una reazione: Rosarno docet. “Abbiamo reagito perché ci hanno attaccato”. Ad Adam potrebbe venire mol� to più facile incazzarsi e maledire gli italiani, ma invece no, Adam la pensa diversamente, “La gente di Rosarno è stata cattiva con noi. Ma se vogliamo un avvenire dobbiamo collaborare. Questo è il futuro”. 57


Questo dovrebbe essere pure il presente, perchĂŠ, come ci dice Adam, “bianchi e neri abbiamo lo stesso sangueâ€?. Ma ancora non gli stessi diritti. Adam, una storia di ordinario sfruttamento, 15 euro al giorno e una speranza.

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RAMZI Un tunisino dall’accento siciliano

“Ramzi, da dove vieni?” “Da Siracusa”. Ramzi in realtà viene dalla Tunisia ma si sente siciliano, anzi si sente, come ci spiega, cittadino del pianeta Terra: “Per me la terra è di Dio”. Ramzi vive con Elisabeth, una giovane ragazza inglese, e con un cane. La sua storia è quella di una giovane promessa del calcio che arriva in Sicilia per sbarcare il luna� rio, o forse solamente per tirare quattro calci ad un pallone. “Giocavo come punta” ma poi un problema con il visto interrompe il sogno. Ma Ramzi si integra bene. Espressione schietta da vero siciliano e ironica parlantina in dialetto: possiamo fare una foto? “ci mancassi”. Ramzi, cittadino della terra, non crede al problema immigrazione e pacatamente ci spiega che “l’immigrato è uno status sociale: il non vedente, il siciliano, il tunisino, il veneto e il tedesco. Solo che uno di questi viene snobbato e di solito è quello più nero. L’immigrato nero sta più sulle palle all’italiano”. Gesticola portando la mano in alto men� tre parla con passione. Alla domanda se trova il nostro paese razzista ci stupisce per il suo punto di visto lucido, distaccato, impeccabile: “Razzismo è banale. Il fatto è che l’Italia non vuole avere a che fare con la povertà estetica, perché la criminalità non è solo dei cinesi o dei tunisini, anche gli italiani sono criminali.” – e con un intercalare sici� liano – “L’emarginazione deriva da “minchiate”, come dite voi. In Italia non ci sono molti immigrati. Gli Italiani hanno migrato e questa è una ferita ancora aperta”. Fa riflettere per come Ramzi è riuscito a scovare gli angoli più remoti della nostra anima. Angoli che sovente copriamo forse per paura, forse per stupidità. “Gli Italiani non vogliono vedere. Ma basta andare alla stazione per vedere che molti giovani siciliani emigrano verso il nord”. Qual è la differenza tra uno studente, un mu� 61


ratore, un disoccupato siciliano, campano, calabrese che lascia la sua terra, i suoi luoghi, i suoi vizi e i suoi affetti per andare in qualche fredda città del nord e un tunisino? Forse è soltanto una questione di distanza fisica, culturale, religiosa, ma niente più. “L’immigrazione c’è da quando il mondo esiste, ma oggi va più di moda sui media”. Ramzi si chiede il perché di questa attenzione, si chiede perché viene considerato tutto così strano: “Camminare con la pelliccia non è strano, camminare “scausu” nel duomo di Roma è strano. Parcheggiare dove cazzo ti pare non è strano, un immigrato che piscia per strada perché non ha dove andare è strano. Lo fa so� lamente perché non si sente nessuno e quindi si sente autorizzato a farlo, quindi pensa “sucatummillu””. Ancora una volta chiarezza im� peccabile e dialetto da far invidia ad un siciliano datato. Tutto questo è Ramzi, tunisino, ma cittadino della terra; ben inte� grato, una compagna, un cane e la passione per la musica.

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EDMOND Camerun

Un copricapo di quelli che vanno per la maggiore negli ultimi anni, un tamburo che vibra sotto le sue possenti mani, un’allegria, talvolta coperta dal pensiero dell’immediato, “io in campagna non voglio lavo� rarci, la raccolta è troppo dura, la paga bassa, voglio svolgere un’attivi� tà che sia diversa, a Milano, ad esempio, mi occupavo di carico e sca� rico merci, di trasporto”, è serio Edmond quando descrive la sua vita siciliana: quell’isola climaticamente più vicina al Camerun, dal quale proviene, e decisamente estranea all’aria fredda di Milano. “Da quando Padre Carlo qua a Siracusa ha avuto tutti i problemi che voi conoscete, per noi ospiti della comunità è diventato tutto più difficile, io dovevo essere contatto da un’azienda della città, ma, fino ad adesso, niente di niente”. La delusione è chiara nei suoi occhi, tradotta, successivamente, in una gestualità continua, sembra che ti voglia trasmettere tutto e su� bito. “L’Italia è un paese bellissimo, però il problema riguarda tutto il casino dei documenti, quando ero in Lombardia, appena mi scadeva il permesso di soggiorno ero costretto a farmi prestare i documenti da un amico, altrimenti avrei avuto difficoltà per lavorare, e poi a lui davo una parte della paga mensile per ricompensarlo del piacere”. “I documenti scadono in continuazione, non te li restituiscono su� bito, possono passare dei mesi, e io cosa avrei dovuto fare nel frat� tempo”. Il suo italiano è fluente, le parole decollano continuamente dalla bocca, a Edmond tutto questo non piace, “in Sicilia siete gentili, vi fermate a parlare, però nella vostra regione manca il lavoro, non c’è 63


niente, al contrario a Milano, la gente andando di fretta quasi quasi ti viene addosso e non se ne accorge, però è possibile lavorare, anche in nero, almeno è sempre qualcosa”. Yaoundè gli manca, come del resto la famiglia rimasta in Africa, viaggia da quando aveva vent’anni: tra documenti, rinnovi, lavori mal pagati e difficilmente tutelati, Edmond rimane, aldilà di una tristezza che ne vela certe espressioni, ottimista, “spero di potermi sistemare, comunque, entro l’estate”.

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HAMAD Guinea Conakry

“Io tifo per l’Inter, però Muntari non mi piace proprio, è troppo scarso con i piedi, quello veramente bravo, secondo me, è Sissoko della Juventus, spero, un giorno, di poter arrivare almeno tra i profes� sionisti, la serie B”. Hamad arriva dalla Guinea, dalla capitale Conakry, vive, almeno fino ad oggi, di calcio, non può fare a meno di parlarne, “sono titolare del Belvedere, una squadra di Promozione, gioco centrocampista, mi hanno dato una casa, mi pagano, spero di poter fare un provino con una squadra più importante uno di questi giorni”. “Mi alleno tre volte alla settimana, e poi la domenica c’è la partita, non mi posso lamentare, insomma”. Mentre, seguendo evidentemente un istinto insopprimibile, mi mostra qualche palleggio con uno dei tanti palloncini gialli in circo� lazione per l’intero corteo del primo marzo migrante, mi spiega che “molti miei fratelli vivono in Belgio e Francia, anche io ogni tanto li vado a trovare, anche loro giocano a calcio, però, non so, qui in Sicilia spesso mi trovo in imbarazzo, appena mi fermo per strada a parlare con compagni di squadra o altri amici, tutti mi guardano, sembra che non siano abituati a vedere un ragazzo di colore, in altre nazioni, inve� ce, è tutto diverso”. “Io sono giovane, però mi accorgo che soprattutto i più piccoli sono spesso scemi, non posso neanche andare in discoteca a divertirmi, mi dicono parolacce, anche brutte, questo mi dà fastidio, per evitare problemi evito di frequentarle anche se mi piacerebbe, però è così”. “Speriamo che anche la gente che manifesta oggi ci possa aiutare a cambiare questo clima, è un peccato perché la Sicilia è come l’Africa, 65


tutti dobbiamo stare insieme”. Hamad si defila dal corteo, mi saluta, purtroppo si è fatto tardi, “devo andare ad allenarmi, altrimenti l’allenatore non mi fa giocare domenica”.

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MOHAMOUD Somalia

Mi avvicino ad un uomo, mi attira la sua presenza perché diversa dalle altre del corteo, mentre molti, fra i migranti intervenuti, si agi� tano, partecipano, lanciano cori ed ottengono altrettante, accorate, risposte, lui si limita a guardare, sembra quasi che non voglia distur� bare l’altrui allegria. Gli chiedo il suo nome, lui non mi risponde, dice di non capire, alla fine in un misto di anglo-italiano, riesco ad ottenere alcune informa� zioni, si chiama Mohamoud, è nato in Somalia, vive in Italia da cinque anni. Gli chiedo cosa faccia in Sicilia, lui, perentorio, mi risponde “lavoro e basta, tutto il giorno, in campagna, nei supermercati, lavo le scale dei palazzi, dove capita”. La sua scelta è stata obbligata, forse più di quelle di altri, “in Soma� lia non è possibile vivere, si combatte ogni giorno, la gente muore, non c’è lavoro, non c’è economia, se non uccidi non hai rispetto, a me non interessa la politica, né la religione, come a quelli di Al-Shabab, io non sono un integralista, a me basta sfamare la famiglia”. “Purtroppo, ancora oggi, nonostante i problemi del mio Paese ho molte difficoltà a ricevere l’asilo politico, ma stai sicuro che io in Soma� lia non ci ritorno, non voglio morire”. Per Mohamoud l’Italia è stata, da subito, la Sicilia, non si è mai al� lontanato dall’isola, “però, prima o poi, dovrò farlo, alcuni amici che vivono al nord mi hanno chiesto di raggiungerli, loro lavorano molto e non hanno particolari problemi”. Il suo vero pensiero, in ogni caso, è la Somalia, “mio padre è stato ucciso due anni fa, durante scontri a Mogadiscio, passava per strada 67


ed è stato colpito da un colpo di fucile, è rimasta mia madre che vive con la sorella ed il marito, spero che almeno loro possano resistere, per le donne la Somalia è sempre più dura, soprattutto con gli obbli� ghi previsti dalle Corti Islamiche”. Ecco perché Mohamoud non riesce proprio a farsi prendere dall’a� drenalina che ha, invece, catturato diversi migranti in corteo, solo un palloncino giallo lo avvicina ai suoi fratelli.

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RACHIDA Palestina

Rachida è di passaggio in Sicilia, lei vive e studia in Toscana, parteci� pa al corteo catanese perché venuta a trovare alcuni amici: è conscia delle difficoltà dei migranti in Italia, anche lei, del resto, deve affron� tare insidie quotidiane, tra documenti da aggiornare costantemente e notizie che giungono da una patria che in molti stentano a ricono� scere. “Io sono praticamente italiana, ma vaglielo a fare capire agli altri, anche i miei colleghi di università spesso si confondono, rispetto ad altri, veramente disperati, privi di un lavoro e di qualsiasi sicurezza, io ho una famiglia solida alle spalle, studio, ogni tanto riesco ad arroton� dare con qualche lavoretto”. Mentre parliamo viene catturata dalle parole pronunciate da un’a� derente ai collettivi studenteschi, scesi in piazza a sostegno della cau� sa migrante, Nawel, anche lei di origine palestinese, che, in maniera dura e dettagliata, denuncia “la vendita da parte di alcune farmacie locali di psicofarmaci a prezzo stracciato in favore di molti extracomu� nitari, di modo da toglierseli dai piedi ed indurli a lunghi e disperati sonni, pratica condotta dalla stessa Croce Rossa”. Questa può essere l’Italia per molti: dal sogno all’incubo, dalla spe� ranza del miglioramento al totale isolamento sociale, dal lavoro alle mense dei poveri, fino ai capannoni abbandonati e alle panchine dei parchi. Rachida appare scossa, non avrebbe immaginato, lei fortunata, di dover ascoltare resoconti così deprimenti e terribili, allora mi dice “a questo punto solo scendendo in piazza si può cercare di risolvere qualcosa, quando sento parlare politici di ogni schieramento di diritto 69


al voto per gli immigrati, mi sorge il dubbio che tutto sia finalizzato ad acquisire consensi da un nuovo target, senza, però, garantire i diritti di base alla sussistenza, personalmente ritengo che il diritto di voto non accompagnato da un diritto al reddito, alla casa, alla dignitĂ , sia solo fumo negli occhiâ€?.


Intanto una delle sue amiche catanesi la chiama a sĂŠ per farle conoďż˝ scere un altro ragazzo sceso in piazza, un ghanese, Micheal: si fissano tutti i particolari per partecipare alla cena popolare programmata per la sera.



I VOLTI DELL’ASSOCIAZIONISMO FABIO La medicina come mescolanza di culture Fabio, 25 anni, occhi chiari e capelli biondi. Studente e volontario di Emergency, l’organizzazione umanitaria fondata da Gino Strada. Fabio ha cominciato il suo impegno sei anni fa. Liceo terminato e davanti a se la scelta degli studi da intraprendere. È in questo momento che la sua passione civile si incontra con l’impegno di Emergency. Sceglie la facoltà di medicina e comincia il suo attivismo con l’organizzazione di Gino Strada. Fabio è di Siracusa, città dal salotto barocco e dalla storia greca. Città che convive ogni giorno con il fenomeno migrazione. In� fatti, c’ è Cassibile a due passi, luogo dove i migranti si ritrovano chini a raccogliere patate, in condizioni si sfruttamento inumano. Lavorano tutto il giorno per 15-20 euro e neanche un tetto per dormire. Molte volte il loro letto è un campo arido e il loro tetto un albero. Ma qual è il nesso migrazione-Emergency? “Il nesso immigrazioneEmergency è molto stretto. Perché la nostra organizzazione dà cure sanitarie in zone di guerra e oggi, le guerre, hanno creato una mi� grazione nei paesi occidentali. Il nesso con il fenomeno migranti si è saldato nel 2006, perché Emergency ha dato una risposta al proble� ma migrazione in Italia, aprendo un poliambulatorio a Palermo con la collaborazione dell’Asl. Dà cure agli immigrati e anche ai palermi� tani. Servizi di alto livello e gratuiti. Sono state curate 8000 persone, la maggior parte irregolari. Questi hanno paura di andare negli ospe� dali italiani, soprattutto dopo gli ultimi provvedimenti del governo. Il poliambulatorio è una grande conquista. È un luogo in cui i migranti vengono e ritornano, dove si mescolano culture diverse e si respira 73


l’integrazione. Questi sono risultati concreti”. Gli ospedali di Emergency sono sparsi per il mondo: Afganistan, Sierra Leone, Sudan. E fa riflettere che pure a Palermo, periferia del mondo occidentale, è necessario un centro. La paura per il diverso sta creando mostri difficili da sfidare. Ma Emergency lo fa ogni giorno e Fabio lo fa a Siracusa: “Qui il fenomeno migranti è differente da altri posti d’Italia. Qui non c’è una Via Padova ma c’è la realtà nascosta di Cassibile. I migranti si spostano qui per due tre settimane e dormo� no nei campi. Negli anni passati c’è stato un campo di Medici senza frontiere ad accoglierli. Noi, invece, cerchiamo di fare informazione nelle scuole, cerchiamo di sensibilizzare, raccogliere fondi”. Un lavoro quotidiano che si scontra con il silenzio dei molti, con l’indifferenza di chi non vuol vedere. Forse - come dice Ramzi - perché è una ferita che ancora brucia. A Fabio questo silenzio non piace e non si dà pace pensando che “potrebbero essere molto di più i giovani impegnati. I ragazzi non pensano molto ai temi sociali. Nelle scuole, ce ne ac� corgiamo quando ci andiamo, c’è un calo di interesse ai temi sociali. Forse è questione di cultura, di educazione. L’apatia domina”. A Fabio, un futuro da medico, e la convinzione che la “dignità non ha colore di pelle”, l’apatia non lo ha colpito.


DAVIDE “L’indifferenza ci ucciderà”

Anche Davide, come Fabio, pensa che non si possa restar con le mani in mano e voltarsi dall’altro lato. Davide, fisico asciutto, capelli scuri tirati all’indietro con una fascia, frequenta l’istituto industriale ed è un boy scout. Davide va spesso, assieme ai suoi amici, a Cassibile per essere cosciente dello stato delle cose e poter dare una mano in questa terra di confine. Ma ci va anche per informare, per parlare, per discutere delle condizioni dei migranti. Davide, con voce ferma, ci fa il quadro della situazione in maniera semplice ma con conoscenza: “è un sistema che non funziona. Perché non può funzionare un meccanismo che porta a pagare i migranti soltanto 30 euro per una giornata sotto il sole a lavorare. Non può esistere un sistema che fa dormire in piazza i migranti, che non riesce a dare un minimo di accoglienza”. Non può esistere ma invece c’è ed è all’ordine del giorno. Ed è un sistema con cui ci mangiano in molti. “Io non posso accettare una cosa: c’è molto razzismo a Cassibile. Davvero tanto”. Rosarno non è affatto lontano da qui, estremo sud della fortezza Europa. Quando chiediamo se c’è attenzione sul tema nelle scuole, Davide ci fa un sorriso che spiega già tutto. Un gran sorriso amaro. “C’è indifferenza, la maggior parte dei miei compagni se ne frega. Sai quanti siamo oggi del mio istituto? Quattro - cinque, gli altri hanno preferito andare a giocare in qual� che sala giochi. Il problema è che c’è molta disinformazione. Sembra che il tema sia lontano anni luce da noi, invece lo possiamo toccare con mano ogni giorno, basta visitare Cassibile per rendersi conto che Rosarno non è così lontana”. Il mondo dei media ha le sue colpe. Un interesse che è solo emergenziale e spesso retorico; piegato a certe logiche che non concorrono ad una sana e onestà informazione. Davi� 75


de, oltre a dare una mano a Cassibile con gli altri scout, cerca di fare questo: parlare delle condizioni dei migranti, far capire che trattare il problema come qualcosa di lontano è miope ed egoista. Davide tutto ciò l’ha capito e anche lui è tra i volti della schiera di chi non si volta.

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GIUSY APRILE “Salviamo i migranti dalla mafia”

In Sicilia, ma non solo, il fenomeno migrazione non poteva non fi� nire, almeno parzialmente, nella rete della criminalità organizzata. I migranti una volta sbarcati nelle nostre coste non trovano un futuro migliore; molte volte finiscono tra le braccia di qualche criminale. Ad occuparsi di questa tematica è soprattutto Libera, la rete che riuni� sce le varie anime dell’antimafia, che a Siracusa si esprime con Giusy Aprile. Giusy, piccola stazza, capelli chiari, e una grandissima energia. Parla decisa, s’infuoca quando ricorda lo sfruttamento dei migranti e il di� sonore delle mafie. Giusy, con Libera, sta dedicando grande attenzio� ne alla realizzazione di un percorso di legalità che comprenda e tuteli i migranti. “Libera fa parte del progetto Solare: solidarietà, lavoro e rete. Messo a punto dall’Arcidiocesi di Siracusa, con il contributo della Camera di commercio, la Confagricoltura, e una serie di organizzazio� ni economiche, il progetto ha l’obiettivo di creare un centro di acco� glienza in cui i migranti abbiano un posto per dormire ed incontrarsi.” – Giusy ostinatamente spiega il valore di questo obiettivo che non si riduce all’accoglienza, infatti continua – “Vogliamo fare corsi di lin� gua, ma anche d’informatica e legalità. L’Arcidiocesi si fa garante, con questo progetto, della dignità dei migranti. Importante è l’impegno del mondo del lavoro che con la presenza in questo progetto vuole puntare su una lotta al caporalato”. Caporalato, una realtà disumana. Migrazione e mafia molte volte si intrecciano proprio nella crudeltà di qualche sfruttatore che puntualmente ogni mattina va a caccia di braccia da spremere fino al dolore. “Il problema di Siracusa è lega� to alla situazione di Cassibile, allo sfruttamento dei migranti che non 77


vengono regolarizzati. Stiamo parlando del fenomeno del caporalato. I caporali non hanno scrupoli e hanno vantaggio a tenere i migranti in nero per sfruttare e guadagnare”. Sfruttano e guadagno dicendo addio ogni giorno alla dignità, alla loro dignità. Ma le istituzioni come difendono i diritti dei migranti? “La legge Bossi-Fini fa acqua da tutte le parti e le istituzioni locali, chiamate ad applicare la legge, sono in difficoltà. Oltre a ciò, c’è pure una mancanza di risorse. La soluzione sta nel maggiore impegno degli enti locali attraverso le associazioni che ogni giorno si sporcano le mani. Il progetto Solare indica questa strada”. Fra mafia e migrazione il nesso è stretto e Giusy questo lo dice ogni giorno: “La criminalità organizzata intercetta le sofferenze dei migran� ti”. Si monetizzano il dolore, i sogni, la vita di tanti ragazzi venuti a cercare un futuro nelle nostre terre. Per molti queste sono parole da non sentire, da cui guardarsene bene, ma Giusy continua ogni giorno a gridarle. Giusy, piccola stazza, grande energia e la quotidianità dell’antima� fia.

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ANDREA Grilli Aretusei

L’ultimo volto è quello di Andrea, che assieme ai ragazzi dei Grilli Aretusei , è impegnato nella sensibilizzazione sulla tematica mafia. Anche lui, come Giusy, ha capito, in questa terra bella e martoriata, la centralità del nesso migranti – mafia. Andrea, golfino a righe e camicia, e un diploma in flauto si ritrova nella folta schiera dei delusi della po� litica (“se così si può chiamare”). Con i Grilli Aretusei ha cominciato ad occuparsi di immigrazione quasi per caso. Ogni settimana si ritrovava� no (e si ritrovano) nella parrocchia di Bosco Minniti per il progetto del Gruppo di acquisto solidale (Gas). Si sono confrontati con le difficoltà della comunità e, vedendo le condizioni dei migranti ospitati da Padre Carlo, si sono chiesti “come li possiamo aiutare?”. “Abbiamo pensato che ogni settimana potevamo aiutarli, sfruttando il GAS, raccogliendo mangiare, e altro, da donare alla comunità. Così è cominciato il nostro impegno”. Ma la loro lotta a fianco dei migranti non finisce qui, infatti si appassionano e continuano insieme alla comunità a dare una mano: “Una cosa mia ha colpito molto. Per i documenti i migranti andavano all’ufficio immigrazione il giorno prima. Erano costretti ad aspettare giorni e notti prima di avere qualche risposta e allora si arrangiava� no portandosi coperte e materassi: dormivano lì. Era indecente. Al� lora abbiamo pensato, nell’ottobre 2009, di mettere un italiano per ogni migrante, senza dirlo alla stampa, senza fare spettacolo. La cosa è cambiata, infatti dall’indomani l’ufficio immigrazione stabilisce una nuova procedura: si accolgono i migranti per appuntamento. Era una cosa inaudita far aspettare i ragazzi sotto gli alberi”. Per Andrea, il vero snodo di tutto è il cambiamento di una classe politica ormai obsoleta, passata e arrugginita. “Io penso che il divider� 81


si sull’ideologia non fa bene, vista la situazione. In Italia mancano le basi e quindi ci sono cose in cui possono coinvolgere ragazzi di destra e sinistra. L’importante è l’impegno dei giovani perché abbiamo una classe dirigente troppo vecchia per capire le nuove problematica”. Si potrebbe finire in argomentazioni retoriche e puerili ma questo An� drea lo sa, come lo sanno i Grilli Aretusei. Infatti, Andrea non è un affe� zionato della retorica, delle parole prive dei fatti. “Dobbiamo lavorare in modo concreto, le parole non servono a lungo. Gli immigrati hanno paura di fare manifestazioni. Questo è una sconfitta per noi italiani; è un calpestare i diritti. Gli immigrati vengono considerati documen� ti, carte e non persone. Chi pensa alle loro problematiche da esseri umani?” – prende aria e rilancia – “La legge risolverà il fenomeno solo con l’integrazione, non con i rastrellamenti”. La soluzione è ovvia ma non gradita da tutti. È più facile reprimere rispetto a dialogare. Andrea è pure attento alle logiche che si nascondo dietro l’appa� rente tranquillità della sua città: Siracusa. “Ci sono pericoli di crimi� nalità per i migranti, ma nessuno fa niente. C’è un organizzazione im� ponente che tiene sotto scacco le prostitute rumene, per esempio. Mi hanno spiegato che toccare certi nervi può creare problemi alle ragazze nei loro paesi. C’è una vendetta nel paese d’origine, ma que� sto non deve rappresentare un freno”. Andrea è indignato dell’assur� dità delle retate contro poveri cristi e all’immunità di pericolose reti criminali. Ma qualche risultato a volte viene fuori , come lui stesso ci dice: “Con l’operazione Maremonti 2, nel 2009, ci sono stati molti arresti e si è scoperto che i clan locali hanno fatto un sodalizio econo� mico per avere più potere e non scannarsi tra di loro. Uno dei punti di questo accordo era lo sfruttamento dell’immigrazione. Gli introiti della prostituzione, soprattutto, venivano reinvestiti nella droga: con la cocaina che arrivava da Palermo e l’hashish dalla Germania. C’è un giro economico non visibile ma enorme”. Andrea non smette di indi� gnarsi e continua a parlare raccontando le ingiustizie di ogni giorno. Ingiustizie fatte anche da silenzi, da un’informazione complice: “E’ imbarazzante la stampa”. Molto imbarazzante, ma nel piccolo Andrea e i suoi amici fanno quello che dovrebbero fare altri: informano. Tutto ciò è un altro tassello della società viva e umana. Andrea, grillo ed estremamente indignato ne fa parte a pieno titolo. 82




Capitolo III

I migranti sul territorio Rosario Cauchi Massimiliano Perna Giorgio Ruta

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I nuovi schiavi Giorgio Ruta

15 euro al giorno e nessun diritto. Queste sono le condizione lavo� rative di molti migranti in provincia di Ragusa. Il comune capofila di questa classifica del nuovo schiavismo è Vittoria. Città rossa e ricca; città che ha saputo trasformare le terre sabbiose in oro, costruen� doci le serre. Adesso a lavorare nell’agroindustria sono soprattut� to i migranti. Ragazzi provenienti dal Nord Africa e dall’Est Europa. Quest’anno la comunità rumena ha superato quella tunisina, stori� camente impegnata nel comparto agricolo a Vittoria e ben integrata nella vita della città. Questo è il possibile risultato di un mutamento dei flussi dovuto a cause geopolitiche, ma anche, più semplicemente, a fattori economici: i romeni, tutto sommato, “costano” meno.C’è un’inversione di tendenza nel livello salariale. La crisi colpisce anche questo settore e si abbatte soprattutto sui migranti, meno protetti e più ricattabili. “La giornata di lavoro a Ragusa costa 50 euro lordi” – dice Peppe Scifo, segretario della Camera del lavoro di Vittoria – “e fino a qual� che anno fa anche i magrebini venivano pagati tanto. Con l’arrivo dei romeni la situazione è cambiata. Lavorano anche dieci ore, per tutta la settimana, domenica inclusa, e vengono pagati una miseria: 15-20 euro al giorno”. I romeni sono più ricattabili, vengono da villaggi mol� to poveri . Inoltre, incombe un’altra preoccupazione: c’è il rischio che ci sia un sistema di intermediazione tra la Romania e l’Italia. Una sorta di caporalato internazionale. È probabile che la criminalità rumena si possa trovare in sintonia con la criminalità locale per far arrivare e sfruttare lavoratori romeni. “È chiaro che l’inquinamento della crimi� nalità organizzata c’è” – continua Peppe Scifo – “Abbiamo visto recen� 86


temente l’infiltrazione nel mercato di Vittoria e nella filiera. Ci viene difficile pensare che non ci sia influenza anche su questo”. Uno scenario inquietante quello che viene fuori; c’è il rischio di una vera e propria tratta di nuovi schiavi. Modalità che si legano anche alle condizioni in cui questi migranti sono costretti a vivere: abitano molte volte in campagna, sotto tetti sfondati e in condizioni igieni� che indecenti. Ammassati come bestie senza un posto dignitoso in cui dormire, arrivano sani e se ne vanno dall’Italia malati. E inoltre, molte volte, il posto in cui dormire viene pagato caro: con il proprio corpo. Sami, della Cgil di Scoglitti, ci racconta come “ci sono molte donne rumene sfruttate sessualmente in cambio di una casa”. Un’abitazione o 10 euro in più nella paga in cambio di una prestazione sessuale. Questo fenomeno può forse essere collegato all’aumento di aborti a Vittoria: 15 aborti di straniere in soli tre mesi. Ma non sono solo le donne ad essere private della loro libertà. C’è la storia di un ragazzo straniero che dopo aver gettato sudore e chinato la schiena in campa� gna ha chiesto la sua legittima paga. In cambio ha ricevuto violenza. Così tanta da essere inserito in un circuito di protezione. È facile non pagare un extracomunitario. Non può denunciare: rischia un decreto di espulsione, se non il carcere. La giustizia rovesciata al contrario. Spostandoci da Vittoria verso il versante orientale della provincia ragusana il quadro cambia, ma non di molto. C’è una presenza molto forte degli immigrati nel settore edilizio: sono i romeni e gli albanesi i più impegnati in questo settore. Nella fascia costiera, invece, preval� gono i tunisini, occupati nella pesca. Tutti questi soggetti sono succubi della crisi. Soprattutto nell’edilizia sono i primi ad essere licenziati. La crisi falcia gli ultimi e aumenta le tensioni sociali.

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Bosco Minniti, un altare come mensa Giorgio Ruta

Appena arrivati a Siracusa, splendida città ricca di storia, si legge su un cartello: “Siracusa, città dei diritti umani”. Una scritta che si con� torna di senso soltanto quando ci si spinge fino a Bosco Minniti. Un quartiere difficile, con le sue storie, con la sua dura quotidianità. Qui c’è una parrocchia che del rispetto dei diritti e della dignità umana ha fatto il principale comandamento. A Bosco Minniti ci sono padre Carlo e i suoi collaboratori. Non chiamatelo prete di frontiera, però: lui non ama simili descri� zioni, è un prete normale in un mondo retto dall’anormalità. Padre Carlo applica solo il Vangelo. Tutto inizia nel 1992, quando egli arriva a Bosco Minniti. L’acco� glienza era già una caratteristica essenziale di questa comunità, per i tossicodipendenti e i poveri, ma l’arrivo di Padre Carlo coincise con la grande ondata di sbarchi in Sicilia. Don Carlo non chiuse gli occhi e aprì la propria comunità anche a loro. Un portone spalancato a qual� siasi uomo di qualsiasi credo: buddisti, musulmani, atei. Chiunque viene accolto. Nella parrocchia di Bosco Minniti si dà una possibilità all’ultimo. Il sacerdote siracusano trasforma la sua casa, accanto alla chiesa, in un luogo di riparo, incontro ed accoglienza. Egli tiene per sé solo la sua stanza e il suo bagno e divide gli altri spazi con gli ultimi: con i migranti, con i tossicodipendenti, con le ragazze madri. Per tutti c’è un posto in cui dormire. Ma migranti ne arrivano sempre di più e quan� do la casa è stracolma si passa la notte anche tra i banchi della chiesa, attorno all’altare, e l’indomani si tolgono brandine e l’immondizia e si fa messa. Nella parrocchia di Bosco Minniti c’è da mangiare per tutti. 88


L’altare diventa una grande tavolata che, al momento della cena, uni� sce tutte le religioni, tutte le nazioni, tutte le diversità. Per padre Carlo siamo tutti fratelli. La sua attività è priva di qualsiasi formalismo o rituale: non è la chiesa fatta di processioni e sfarzo, ma è la chiesa di chi si sporca le mani e ci mette la faccia. A Bosco Minniti si organizzano corsi d’Italiano, feste multietniche (a volte interrotte dalla polizia, prima ancora della mezzanotte, a seguito della chiamata di qualche ostile abitante del quartiere), si festeggia un natale multietnico cercando di ritrovare il vero senso della festa cristiana. “La mia formazione è stata quella degli anni ’70, un periodo in cui certi valori, tipo il bisogno di estendere la libertà e la liberazione a tutti i popoli, erano molto vivi – racconta il prete a Massimiliano Perna, nel suo libro La società aperta e lo straniero (Bonanno editore)-. Io ho avuto autori di riferimento come Herbert Marcuse in campo fi� losofico, Bloch in campo teologico, oppure tutti gli autori legati alle esperienze dell’America Latina, alla Teologia della liberazione. Ma c’è anche la figura di Che Guevara, a cui aggancio il nome di un cardinale, Hedel Camara, oppure di sacerdoti come Ernesto Cardenal, Camillo Torres, dopo anche don Romero, ecc”. Il quartiere non ha visto di buon occhio l’opera di padre Carlo. Non ha capito il bisogno di aiuto dei migranti sbarcati sulle nostre coste dopo un calvario interminabile. Per ogni immigrato entrato in chiesa, due fedeli sono andati via. “Secondo me -racconta padre Carlo- non li sopportano, ma poiché sono tutelati da una istituzione come la Chie� sa, hanno paura a mettervisi contro. Se potessero, li butterebbero fuo� ri. Sono visti solo come forza lavoro a basso costo di cui approfittare”. Molte volte, anche le gerarchie ecclesiastiche non hanno saputo raccogliere le voci di aiuto che arrivavano da Bosco Minniti ed hanno ostacolato padre Carlo. Ma intorno a lui c’è un mondo fatto di volontari che assicurano sempre una mano a chi ha bisogno. C’è chi si occupa di diritto, chi di economia, chi si confronta con le istituzioni o chi fa da mangiare e lava la biancheria. La parrocchia aiuta i nuovi arrivati, soprattutto per l’espletamento 89


delle pratiche legate ai permessi di soggiorno o per la richiesta di asilo politico. Ci sono volontari che curano i rapporti con la Questura, con l’Asp, con la Prefettura. Una lotta continua per i diritti dei migranti, troppo spesso, in questa città, umiliati e maltrattati dalle istituzioni e dall’ufficio immigrazione della Questura. Le istituzioni hanno reagito a fasi alterne. Per esempio, tra il 2004 ed il 2005, lo sportello immigrazione della Questura è stato attivato in sintonia con la chiesa. C’era un clima di collaborazione, di reciproco aiuto. Poi c’è stato il cambio di comando in Questura e la situazione è precipitata: i rapporti si inclinano. L’ufficio immigrazione si mette di traverso alla solidarietà di Bosco Minniti. Nel febbraio del 2010, si arriva alle estreme conseguenze: Padre Carlo presenta un esposto contro l’ufficio immigrazione. Due giorni dopo, il sacerdote ed alcuni suoi collaboratori vengono arrestati. Questa è un’altra storia: la solidarietà uccisa a colpi di arresti. Ripercorriamola. Padre Carlo, uno dei volontari, Antonio De Carlo, e l’avvocato Aldo Valtimora, furono coinvolti in un’inchiesta terminata con gli arresti del 9 febbraio 2010. Il Gip di Catania, Luigi Barone, sostenendo la tesi accusatoria dei pubblici ministeri, emette l’ordinanza di custodia cau� telare, disponendo gli arresti domiciliari. Le accuse che piovono sugli imputati sono gravissime: associazione a delinquere, favoreggiamen� to dell’illecita permanenza di stranieri nel territorio dello Stato ita� liano, false dichiarazioni a pubblico ufficiale e falso ideologico in atto pubblico. Reato, quest’ultimo, contestato proprio a padre D’Antoni. Il Gip di Napoli conferma l’ordinanza una volta che la procura di Catania trasferisce la competenza del caso, perché nelle indagini sono coin� volti due nigeriani arrestati in Campania per sfruttamento della pro� stituzione. Il collegamento con Bosco Minniti è esclusivamente dovu� to al ritrovamento, addosso ai due nigeriani, di certificati di domicilio presso la parrocchia. Erano stati, in passato, ospiti della parrocchia, da cui sono stati poi allontanati da don Carlo proprio per il compor� tamento poco rispettoso nei confronti delle donne. Tant’è che que� 90


sto possesso dei certificati è considerato sufficiente per coinvolgere il prete in un’inchiesta in cui non sarebbe mai dovuto essere coinvolto. L’unica “colpa” di Padre Carlo, infatti, è quella di aver firmato certi� ficati di domicilio nella parrocchia per i migranti. Lo arrestano, perché sostengono che chi aveva quel certificato doveva dormire nel domi� cilio eletto, mentre invece ciò spesso non avveniva. Peccato che sia tutto legale, perché la legge sui richiedenti asilo lo prevede. Nessun obbligo di ospitare fisicamente, perché il certificato ha solo funzione di indicare un indirizzo a cui far pervenire tutte le comunicazioni. Dav� vero i dirigenti dell’Ufficio Immigrazione non sanno questo? O Forse la colpa di padre Carlo è semplicemente quella di essersi messo contro le istituzioni? Il sacerdote viene costretto agli arresti domiciliari, al pari di De Car� lo e Valtimora. La solidarietà arriva da tutta Italia: dalla gente della parrocchia, dal quartiere, dalle personalità del mondo della cultura e dello spettacolo come Bebo Storti, Renato Sarti, Vincenzo Consolo, Giuseppe Casarubbea, Moni Ovadia, o preti come Alex Zanotelli, Ales� sandro Santoro, Felice Scalia, Paolo Farinella, don Gallo. Una solidarietà che giunge a padre Carlo e che gli fa superare giorni terribili, momenti duri. Il tempo passa, anche se troppo lentamente. Ma intanto, giorno dopo giorno, la situazione diventa più limpida. È il 17 marzo, giorno del suo compleanno, 38 giorni dopo l’arresto, quando il prete si vede consegnare da due agenti della polizia peni� tenziaria la notifica dell’immediata scarcerazione e dell’annullamento della precedente ordinanza. Padre Carlo scende in chiesa e scoppia la gioia. Un lungo applauso dei migranti lo accoglie. Sorrisi, abbracci, commozione: è festa a Bosco Minniti. “La cosa che mi ha colpito – dice Padre Carlo a Massimiliano Perna, dopo pochi minuti dalla notifica – è stata proprio la reazione degli immigrati, i loro sorrisi, l’applauso. Ho capito che per loro la notizia è stata una liberazione, come uscire da un incubo. Anche loro l’hanno vissuta così”. Un incubo finito. Ora Padre Carlo vuole diventare parroco di strada. Vuole incontrare le anime, i cuori, gli occhi di chi ha bisogno. Vuole fare ancora di più. 91


Vuole continuare a fare tutto ciò che ha sempre fatto e per cui ha sempre lottato e vissuto.

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Mercato e sfruttamento Rosario Cauchi

“Credimi, a Gela per noi commercianti c’è sempre la possibilità di guadagnare qualcosa in più rispetto ad altre città; anche in un perio� do di crisi il mercato del martedì è sempre molto frequentato, e per noi avere una licenza è indispensabile”. Questa confessione, ottenuta nel corso di un breve scambio di vedute condotto insieme ad uno dei tanti ambulanti “forestieri” operanti all’interno del vasto mercato settimanale, non nasconde in alcun modo l’affare che si cela all’om� bra delle migliaia di bancarelle settimanalmente allestite in contrada Giardinelli. Siamo a Gela. Quello che da decenni si svolge ogni martedì nella cittadina nissena non costituisce solo un appuntamento imperdibile per gli appartenenti ad ogni categoria sociale, dalla metodica mas� saia, sempre attenta a non sforare il modesto budget a disposizione, alla signora “bene”, incuriosita dalla possibilità di strappare un qualsi� asi capo firmato ad un prezzo ridotto rispetto a quello ufficiale, ma si rafforza, anno dopo anno, assumendo la qualifica di vitale sfogo della locale economia, più di sussistenza che di vero sviluppo. Alle spalle dell’industria pesante, infatti, può ben collocarsi il rumo� roso ed “anarchico” budello commerciale che ogni martedì attraver� sa, per alcuni chilometri, una delle arterie periferiche più importanti per una città di quasi ottantamila abitanti: un’imprescindibile risorsa, dunque, tale da far passare in secondo piano le perenni lamentele esternate, anche nel corso di plateali dimostrazioni, dai residenti del� le zone urbane divenute, per brevi o lunghi periodi, dimore di un in� gombrante ma ricco “ospite”. “Ma guarda, io non conosco di preciso le cifre, però, posso garan� 94


tirti, per esperienza personale, che qui ogni martedì si incassano com� plessivamente alcuni milioni di euro, e non tutti vanno in direzione di quelli con le carte in regola; i residenti possono protestare quando vogliono ma devono capire che Gela, e di conseguenza l’istituzione comunale, non può mettersi contro gli interessi degli ambulanti, locali e non”. L’abusivismo evocato da questo operatore del settore, presente da oltre un decennio all’interno del locale suk, è uno degli atavici dilem� mi generati dallo sviluppo, spesso incontrollato, di una simile “mac� china” commerciale, tra le più potenti dell’intero meridione. Attraversare, durante un normale martedì post-festivo, questa gal� leria commerciale, però, consente l’accertamento di molteplici criti� cità. Da sempre le bancarelle ufficiali sono affiancate da postazioni “ufficiose”, che in questo particolare settore devono inevitabilmente dichiararsi abusive; “ma secondo te io che non sono mai riuscito ad avere un “pezzo” di licenza per la rivendita di frutta, prima, ed ab� bigliamento, dopo, posso evitare di presentarmi il martedì, io devo anche garantire alla mia famiglia un minimo di reddito: il mercato del martedì è troppo importante”. A quelle degli “irregolari” si affiancano, perlomeno da un quinquen� nio, voci particolari, totalmente differenti dalle inflessioni dialettali si� ciliane, eterogeneamente rappresentate tra le postazioni mercatali: quelle degli esercenti cinesi e di molti lavoratori migranti. Mi avvicino, fingendo interesse per alcune felpe in esposizione, ad un’ampia riven� dita di abbigliamento tipicamente giovanile, a dirigerla è un esperto operatore, ma a rapportarsi con i possibili acquirenti sono due “di� pendenti” stranieri; “che cosa ti serve, felpe 10, pantaloni 20”, dopo aver risposto a quest’indicazione con un gesto uno dei due decide di venirmi incontro, e sfruttando l’occasione gli chiedo se sia alle di� pendenze del gestore dello spazio commerciale, “no dipendenze, solo lavoro ogni tanto non solo con questo principale, ma sempre con al� tri, io e il mio amico veniamo ogni martedì presto e cerchiamo chi ha bisogno: serviamo, pieghiamo la merce, mettiamo gli ombrelloni e alla fine “‘u principale” ci dà venti-venticinque euro”, il loro “ingag� gio” è ovviamente irregolare, anche se il mio interlocutore non vuole proprio confessarmelo, stupendosi delle mie domande, differenti da 95


semplici informazioni su qualità dei capi, misure e costi: l’ulteriore informazione che riesco ad ottenere riguarda la loro origine, rom, e la provenienza, romena. Notando che il “principale” inizia a spazientirsi a causa dell’inatti� vità di Ilian, così lo identifica nel suo richiamo, lo ringrazio, comuni� candogli che la misura della felpa non è adeguata alle mie esigenze e lo lascio alla routine di un martedì di mercato. A circa cento metri di distanza dalla bancarella di Ilian, nei pressi della spira del serpen� tone che si adagia sull’ampio muro portante dello stadio comunale “Vincenzo Presti”, un’estesa bancarella, in grado di occupare, solo in lunghezza, almeno una decina di metri, totalmente occupata da jeans e pantaloni, di ogni colore e modello, attira la mia attenzione. Anche in questo caso l’organizzazione dell’attività appare chiara� mente verticale: la grossa cassa in legno, destinata ad accogliere le somme di denaro versate dagli acquirenti, è costantemente sotto il controllo del titolare della licenza commerciale, il quale, quasi a voler ribadire il suo personale ruolo, si erge sui pioli di una piccola scala, normalmente utilizzata allo scopo di raggiungere la merce posiziona� ta alla massima estremità della bancarella, e, al pari della precedente, tre giovani percorrono in lungo e in largo l’intero perimetro occupato dalla struttura in metallo per servire chiunque vi si avvicini. Perseverando nello stratagemma in precedenza utilizzato, mi av� vicino ad uno di questi, e compiendo un’osservazione concernente il colore di un paio di pantaloni cerco di capire chi sia effettivamente questo “commesso ambulante”: si tratta di un romeno di diciannove anni, da almeno due anni inseritosi in questo settore, senza aver mai potuto disporre di una qualsiasi forma di contratto, “la giornata viene anche trenta euro, più una porzione di pasta, il principale ci porta anche a Catania e negli altri paesi dove c’è mercato; è faticoso, però, meglio di niente, solo una volta mi sono fatto male, mentre caricavo la merce sul furgone mi sono tagliato un dito della mano, e me ne sono dovuto andare da solo all’ospedale, proprio a Gela, ho detto che mi ero procurato la ferita accidentalmente, i dottori non hanno voluto sapere altro”. Salutandolo lo ringrazio per la disponibilità mostrata; il proseguo del lungo cammino è tratteggiato da spezzoni di frenetica attività, in� 96


tessuti da lavoratori, impensabili da incontrare solo agli inizi degli anni novanta, quando l’ambulante straniero veniva esclusivamente iden� tificato con la figura del magrebino attivo nella vendita di tappeti ed altri prodotti per le abitazioni e gli autoveicoli o del giovane africano sempre pronto a piazzare una qualsiasi copia dei più ricercati generi hi-tech. Gli operai del commercio, oggi, anche a Gela, parlano una lingua differente dal classico dialetto, sospesa tra quella d’origine e quella, popolare, del luogo che li ospita. Purtroppo, rispecchiando in questo senso la precarietà diffusa tra i propri colleghi italiani, agiscono al di fuori di ogni tutela, a causa di scelte assunte da alcuni datori di lavo� ro, impavidi di fronte al rischio di eventuali controlli: “lo scorso anno mentre mi trovavo qua al mercato due vigili, mi pare, si avvicinarono alla bancarella e mi chiesero se i ragazzi che mi aiutavano erano miei dipendenti, ma quali lavoratori questi sono giovani, amici miei che mi vengono a dare ogni tanto una mano, qual è il problema?”


Immigrazione e nuove forme di sfruttamento Rosario Cauchi

“Il mio nome è N.V. ho venticinque anni, sono natio di Dragalina, un piccolo comune di circa ottomila abitanti, situato nel distretto di Calarasi in Romania; giunsi in Italia quattro anni fa grazie ad un visto turistico, dapprima venni ospitato presso Comiso da un mio parente, già in Italia come lavoratore agricolo, e successivamente, a seguito della scadenza del visto, mi spostai a Gela, ove vi era notevole richie� sta di manodopera per la coltivazione dei campi”. Inizia con queste parole l’incontro con uno dei tanti lavoratori origi� nari della Romania presenti attualmente sul territorio gelese: tutte le loro storie sembrano assomigliarsi, si differenziano solo per qualche sfumatura, ma di certo convergono sui punti del bisogno economico e delle difficoltà patite in patria, cause scatenanti delle loro partenze verso altri paesi europei (Italia, Francia, Germania, Spagna). N.V. (vengono indicate solo le iniziali per motivi di cautela) vuole raccontare interamente la sua esperienza, intrisa di patimenti e rim� pianti. L’arrivo a Gela e la repentina chiamata da parte di un piccolo im� prenditore agricolo locale lo fecero sperare di poter acquisire una certa tranquillità economica, assente in patria per sé e per la sua fa� miglia. Il suo principale obiettivo, fin dall’origine, era infatti quello di provvedere al mantenimento del padre e della madre rimasti a Dra� galina, e con la parte restante del futuro stipendio cercare di costru� irsi una nuova vita all’interno di una nazione diversa ma al contempo affascinante. L’occasione “propizia” si concretizzò a seguito dell’intercessione di alcuni connazionali, i quali, conoscendo la sua natura di grande fati� 98


catore, lo misero in contatto con un imprenditore locale (del quale N.V. non intende comunicare il nome) alla ricerca di manodopera da utilizzare presso i terreni della propria azienda. La prima impressio� ne del giovane lavoratore fu tutto sommato positiva: il nuovo datore di lavoro gli proponeva un regolare contratto oltre alla possibilità di usufruire, insieme ad altri, di una piccola villetta, attigua al luogo di lavoro, nella quale vivere durante i periodi lavorativi. L’attività da svolgere, consistente prevalentemente nella raccolta di carciofi, era molto impegnativa, non solo da un punto di vista fisico (i turni diventavano sempre più frequenti) ma anche a livello mentale (a causa di alcuni collaboratori dell’azienda sempre solerti nel sollecitare un maggiore impegno). Il peggio, però, doveva ancora manifestarsi in tutta la sua drammaticità: a conclusione del primo periodo di attività, infatti, N.V. comprese ben presto che il contratto promessogli in realtà non era mai esistito, ed in assenza di questo svaniva anche il sogno del permesso di soggiorno; la paga pattuita originariamente venne drasticamente ridotta, dietro la minaccia di una denuncia alle forze dell’ordine, per attestarsi a 15 euro per giornata. Nonostante ciò egli decise di accettare tali condizioni vessatorie, proseguendo il suo rapporto con l’azienda, per la quale, almeno for� malmente, non esisteva. Il giovane bracciante migrante, dopo alcuni mesi caratterizzati da un lavoro quotidiano e sfiancante, venne tra� sferito, insieme ad altri compagni, presso un altro appezzamento di proprietà dell’azienda, ubicato nella zona di contrada Mautana. Le condizioni lavorative impostigli peggiorarono ulteriormente, aggrava� te da una torrida stagione estiva: lui e gli altri lavoratori dovevano provvedere alla raccolta dei pomodori, all’interno di un vasto terreno, servendosi esclusivamente della propria forza fisica, sotto l’attenta sorveglianza dei soliti e zelanti responsabili dell’azienda. Si trattava di un’attività continuativa, generatrice di significative conseguenze fisiche, difficilmente sanabili, a causa dell’assenza di ido� nee strutture ove potersi rifocillare e riposare; a differenza dei campi nei quali era stata svolta la raccolta dei carciofi, il nuovo luogo di la� voro offriva esclusivamente una vecchia casa rurale, priva di servizi igienici e di corrente elettrica, da dividere tra più individui, costretti, al fine di poter esplicare i minimi adempimenti igienici (legati anche 99


alla cura del proprio corpo), ad utilizzare alcuni pozzi artificiali per la raccolta dell’acqua piovana. N.V. ricorda che in quello stesso periodo, per ragioni derivanti dalle alte temperature e dai ritmi ossessivi di lavoro, almeno tre suoi com� pagni subirono gravi ripercussioni fisiche, sottoposte all’attenzione di un uomo (molto probabilmente un medico compiacente), il quale li invitò ad evitare un’eccessiva esposizione al sole, senza minimamen� te interessarsi alle condizioni lavorative alle quali questi dovevano soggiacere. La misera paga rimaneva invariata, costituendo fonte di evidente insofferenza da parte dei braccianti agricoli nordafricani, co� stretti a rinunciare a preziose giornate lavorative a causa di richieste salariali “eccessive” (30-35 euro per giornata) rispetto a quelle (in ve� rità imposte) dei lavoratori romeni. Il giovane, stufo di subire continue imposizioni, al termine del pe� riodo dedicato alla raccolta del pomodoro, decise di abbandonare quei luoghi, ma anche una condizione di semi-schiavitù, che non gli fu possibile vincere, anche a causa dell’assenza di entità in grado di informarlo correttamente dei propri diritti e degli obblighi imposti al datore di lavoro (il sindacato è praticamente assente all’interno di una dimensione quasi medievale rispetto alla gestione dei rapporti di lavoro). Del resto, tutto ciò non deve stupire: la crisi economica globale, estesa anche al settore agricolo, ha prodotto tutti i suoi preoccupanti sintomi, determinando una sorta di placida giustificazione nei con� fronti di imprenditori (specialmente agricoli) pronti, nel perseguire l’obiettivo della riduzione dei costi, ad usufruire di manodopera (or� mai prevalentemente straniera) a bassissimo costo e priva di ogni ba� silare diritto. Un bracciante agricolo italiano, nella maggior parte dei casi, consegue una paga base di circa 50 euro per giornata, contro i 30 euro di un lavoratore nordafricano ed i 10-15 euro di un lavorato� re dell’est Europa; le recenti statistiche pubblicate ad opera dall’Inps parlano chiaro, individuando un picco, pari all’82%, di aziende del set� tore privato risultate non in regola durante specifici controlli. Lo stesso ex commissario della Polizia di Stato di Gela, Giovanni Giudice, circa due anni addietro, rilasciando alcune dichiarazioni ad organi di stampa, sollevò chiaramente il problema, citando diversi 100


casi di sfruttamento di braccianti polacchi e romeni da parte di im� prenditori locali, fino ad ammettere episodi di violenza sessuale ai danni delle lavoratrici straniere. Quando si elogiano le innumerevoli conquiste ottenute dai lavora� tori, grazie al prezioso impegno profuso dalle organizzazioni sindacali, si dovrebbero, inoltre, e con maggior vigore, citare le attuali lacune, produttrici di sofferenze e privazioni ingiustificabili. N.V., dopo una si� mile esperienza, non isolata ma comune a molti lavoratori migranti, costretti al silenzio per timore di perdere l’unica fonte di sostenta� mento, ha deciso di lasciare la Sicilia: la sua prossima destinazione non sarà però la natia Romania, priva di qualsiasi opportunità lavora� tiva, bensì l’Italia centrale, permanendo, al contempo, in una condi� zione di assoluta invisibilità.


La famiglia Falsone e gli interessi nel “mercato” dei migranti Rosario Cauchi

Gli inquirenti che si sono occupati dell’indagine relativa all’ex lati� tante agrigentino, Giuseppe Falsone, catturato a Marsiglia, ritengono plausibile la pista che conduce all’interessamento della famiglia nel traffico illegale di migranti. L’anello di congiunzione tra il gruppo, leader di cosa nostra nell’a� grigentino, ed il vasto mondo dei “viaggi della speranza”, sarebbe sta� ta la moglie del fratello del boss catturato in Francia, ovvero Ganat Tewelde Barhe. Madame Gennet, come viene soprannominata nell’ambiente, è, infatti, la consorte di Calogero Gioacchino Falsone, fratello di Giusep� pe, già interessato dall’indagine antimafia “Ghost” del 2003. I due si sono conosciuti nel 2006, grazie all’intermediazione di Ma� ria Rita Carmela Falsone, sorella di Calogero e Giuseppe, compagna di detenzione di Ganat all’interno del carcere di Agrigento. Ganat Tewelde Barhe, di nazionalità eritrea, infatti, venne condan� nata a quattro anni di reclusione nel 2004, con l’accusa di favoreggia� mento dell’immigrazione clandestina: ma approfittando dell’indulto, lasciò il penitenziario di Agrigento con due anni e otto mesi d’antici� po, nel 2006. La donna, inoltre, riuscì ad evitare l’espulsione dall’Italia proprio grazie al matrimonio con Calogero Gioacchino Falsone, che le consen� tì di stabilirsi nel feudo della famiglia, Campobello di Licata, lasciato pochi mesi addietro in direzione della Toscana. Madame Gennet, grazie agli appoggi dei gruppi criminali tunisini di Sfax e Capo Bon, era riuscita a strutturare un lauto commercio, fatto di viaggi dalle coste libiche a quelle siciliane. 102


A pagare erano uomini e donne, dai 750 fino ai 1.200 dollari per traversata: la partenza avveniva dal porto libico di Al Zuwarah. Era proprio lei a gestire l’intera trafila, grazie ad una sorta di infor� male ufficio ubicato all’interno di un bar adiacente al porto. Adesso, alla luce degli “interessanti materiali rivenuti nei compu� ters a disposizione di Giuseppe Falsone”, gli investigatori intendono approfondire gli eventuali interessi della famiglia all’interno della di� mensione del traffico internazionale di esseri umani. Il punto di partenza, peraltro, è un’area, quella della provincia di Agrigento controllata da Giuseppe Falsone, divenuta nel corso degli anni meta essenziale, attraverso l’isola di Lampedusa, delle tratte di� segnate dai trafficanti di esseri umani.

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Gela, chi bada alle badanti? Rosario Cauchi

Che l’economia gelese non brilli per agilità ed alti livelli di sviluppo è risaputo, quasi monotono ripeterlo in continuazione: ma, in real� tà, alcuni settori non cessano di far muovere denari, non parliamo di somme eclatanti, ma comunque sufficienti alla costituzione di un circuito in continua evoluzione. Nessuno oramai, pur all’interno di una città costituita in prevalenza da immigrati interni, si meraviglia della presenza di uomini e donne, provenienti, nella maggior parte dei casi, dall’est europeo. Per romeni, polacchi, moldavi, Gela è di� venuta, soprattutto nel decennio appena trascorso, una delle tante mete, in realtà solo transitoria, da raggiungere per conquistare una tranquillità economica sempre più associata all’Italia. Ma in quali settori si colloca questa nuova mano d’opera calata entro un contesto, economico e sociale, tutt’altro che facile? Nean� che questa risposta appare troppo complessa da fornire: un terziario dai confini sempre più ampi ed indefiniti, ovvero un calderone fatto di rapporti informali e taciti accordi. In pochi, tra i gelesi, ignorano la diffusione di una figura lavorativa, assurta a presenza decisamente “non occasionale” entro nuclei familiari dalle molteplici caratteristi� che: la tanto citata, ed al pari ricercata, badante. Anziani in difficoltà, portatori di disabilità fisiche, spesso soli o con parenti non in grado di occuparsi di loro per l’intera giornata: ostacoli, oggi, facilmente sca� valcabili, basta trovare una badante, ed il problema trova una logi� ca soluzione. Ma come ottenere un simile servizio? Questo mondo, spesso sotterraneo e difficilmente penetrabile dall’esterno, si conno� ta di riti, rapporti, meccanismi, strutturatisi nel corso del tempo. Allo stato attuale, però, tali consuetudini appaiono pienamente recepite 104


dal sistema, al punto da essere attuate alla luce del sole. In città, in� fatti, iniziano ad agire alcune, atipiche, agenzie, capaci di svolgere un ruolo d’intermediazione tra il possibile datore di lavoro e la badante di turno: romena, ma anche, eventualmente, italiana. Un volantino, alcune tariffe, un numero di telefono, il primo contatto; “salve, mi in� teressava capire come fosse possibile avere una badante che si pren� da cura di mio nonno per l’intera giornata, sa, ha appena subito un intervento chirurgico ed ha grandi difficoltà a muoversi”, “nessun pro� blema, abbiamo attualmente parecchie signore libere, se le occorre giorno e notte, ci sono le romene, per mezza giornata, invece, anche le italiane”. I costi sono già preventivati: cinquanta euro per il possibile datore di lavoro ed altre cinquanta per la badante, un totale di cento euro versati direttamente all’agenzia-associazione che si occupa di “far in� contrare” domanda ed offerta, ed alla quale bisogna necessariamente aderire con l’elargizione di una quota; “purtroppo, nella maggior parte dei casi, le signore non hanno molta disponibilità economica, quindi è il richiedente che deve versare i cento euro per intero, ovviamente la metà di questi verranno decurtati dal primo stipendio della lavora� trice di modo da coprire l’esborso iniziale sopportato”. L’associazione, in questo modo, termina il compito prefissatosi, spetterà successiva� mente a badante e badato concordare le pattuizioni. Per una donna romena destinata ad occuparsi, giorno e notte, di un uomo anziano non si potrà scendere al di sotto dei 550 euro mensili, se si tratta, invece, di una donna da accudire allora il prezzo scende a 450 euro. E per quanto riguarda il contratto ed il versamento dei contributi? “Non si preoccupi, nessuno dei nostri clienti decide di stipulare un contratto con la badante, anche perché non conviene proprio a nessuno, normalmente le signore non svolgono il loro compito per un lungo periodo, al massimo un paio di mesi; comunque, appena quella che le mandiamo si stanca, ci avverta e gliene troviamo subito un’al� tra”. Un ricambio continuo e costante, come a dire, morto un papa se ne fa un altro: alimentato dallo stretto rapporto intercorrente fra i gestori di tali “associazioni” ed i responsabili della società di trasporto che opera sulla tratta Romania-Sicilia: basta sedersi proprio su una panchina di Piazza Municipio per accorgersi della vicinanza, non cer� 105


to occasionale, fra la sede di una di queste entità d’intermediazione e quella della monopolista della tratta già citata. Neanche a dirlo, ovviamente, la nuova arrivata dovrà a sua volta versare la necessaria quota associativa di cinquanta euro. Nessun contratto, poco spazio ai diritti, anche se nei volantini spar� si per l’intera città si stabilisce, utilizzando un carattere di scrittura sottolineato, di modo da garantirne l’evidenza, che “la badante deve dormire otto ore consecutive”, ed un via vai difficilmente arrestabile. Sorge spontaneo un dubbio, sintetizzabile con un elementare gioco di parole: ma chi baderà alle badanti?

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Capitolo IV

Rosarno - Cassibile Rosario Cauchi Massimiliano Perna Andrea Scarfò

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Cassibile e le terre del marchese Massimiliano Perna

Cassibile è un quartiere di Siracusa, un borgo rurale distante circa 14 km dalla città. La sua storia è strettamente connessa con quella della stirpe del marchese Loffredo Silvestro da Messina, che fondò il borgo tra il 1850 e il 1870. Ma è soltanto nella prima metà del secolo scorso che Cassibile comincia a popolarsi, grazie all’arrivo di numero� se famiglie di contadini, venuti da varie parti della Sicilia per lavorare la terra. È stata dunque l’immigrazione, quella interna all’isola, a far crescere il borgo dei marchesi, che oggi conta 5800 abitanti. Un pae� sino, che soffre la lontananza da Siracusa e che, al suo interno, vede crescere piccoli movimenti che da anni chiedono l’autonomia e la tra� sformazione in Comune. Una follia, un’idea che ha il solo scopo di consentire ad un consolidato gruppetto di notabili, che si diletta nella gestione politica del feudo rurale, di mantenere il proprio consenso elettorale e, dunque, le proprie poltrone in Consiglio comunale o in quello di quartiere. Non c’è distinzione tra maggioranza ed opposizio� ne, in quel di Cassibile, quel che conta è solo mantenere vivi i rigurgiti di pancia della popolazione e trasformarli in voto. Ma l’autonomia è un sogno irrealizzabile oggi e quindi non basta per portare a compi� mento una tale strategia. E allora, poiché in Italia i furbi si moltipli� cano a vista d’occhio, ecco che subito si annusa il tema principale, il collante che unisce il popolo, specialmente in un contesto chiuso ed isolato come Cassibile, nell’Italia di oggi: la questione immigrazione, affrontata in termini di sicurezza e di separazione Noi-Loro. Nel borgo che si sviluppò grazie ai lavoratori siciliani delle campa� gne, stagionali poi divenuti stanziali, i discendenti di quegli immigrati siciliani si uniscono e fanno muro contro i nuovi migranti, quelle po� 110


che centinaia di nordafricani e centroafricani che giungono da ogni parte d’Italia per impiegarsi, da febbraio a giugno, nella raccolta delle lattughe, delle patate e delle fragole. Il punto di frattura culturale è sempre quello: l’assenza di memoria, il black-out di ogni sentimento di apertura, comprensione, la rinuncia preventiva a qualsiasi tentativo di incontro, di condivisione. Nel bel mezzo di tutto ciò, ovviamente, galleggia il malaffare, lo sfruttamento più becero, che fuoriesce dalla terra molle e allunga i suoi tentacoli, come catene pronte ad incollarsi sulle caviglie, sui polsi, sul collo di un esercito di nuovi schiavi, vessati, umiliati, feriti, costretti al silenzio per potersi guadagnare da vivere, obbligati, come se non bastasse, a sopportare gli insulti e il razzismo della gente del posto, la stessa sulle cui tavole fanno bella mostra pro� dotti della terra la cui polpa e il cui succo si mischiano con il sudore ed il sangue dello sfruttamento. Come Rosarno, anche Cassibile è luogo di lavoro nero, di negazione dei diritti, di un modello di neoschiavismo che si nutre, famelico, dell’indifferenza dei cittadini e delle istituzioni politiche e non solo. Le campagne sono piene di braccia a basso costo, la cui selezione è affidata quotidianamente ad una nutrita schiera di caporali che, nelle primissime ore del mattino, fanno comparsa lungo la via Nazionale, il rettilineo che attraversa il borgo tagliandolo in due, con la loro sfacciata flotta di automobili, furgoni e camioncini. Ad at� tenderli qualche centinaio di lavoratori, nordafricani o dell’Africa sub sahariana, per la gran parte giovani, giunti a Cassibile da altre zone della Sicilia, dalla Campania o dalla piana di Gioia Tauro. Arrivano a flussi sparsi, raggiungendo un totale che varia ogni anno dalle 300 alle 450 persone. Sono ragazzi stanchi nei pensieri e nel fisico, ma determinati a resistere, consapevoli di avere poche scelte. Devono la� vorare, è l’unica maniera per vivere e per non rendere vana una vita di sacrifici, propri e delle proprie famiglie. Da fine febbraio a fine giugno, dunque, sono loro la manovalanza delle imprese agricole, sia di quelle grosse che di quelle più piccole. Migranti in cerca di lavoro, condannati ad un esodo perpetuo, in quel periodo giungono tra gli alberi e la terra di Cassibile, scompaiono nella notte e riappaiono la mattina all’alba, come fantasmi puntuali costret� ti a farsi vedere per poche ore da un esercito di aguzzini in attesa. Il fatto, però, è che non si tratta di fantasmi, ma esseri umani in carne 111


ed ossa, obbligati dalla Storia e dalla vita a presentarsi di fronte a chi si auto conferisce il potere di decidere del loro destino. Così, nella via principale, sotto gli occhi addormentati ed annebbiati della città e delle istituzioni, si ripete quotidianamente il rito della “selezione”, della scelta di braccia buone per la raccolta, di schiene forti e capaci di stare piegate per ore ed ore, al prezzo di 30-35 euro, al netto delle “trattenute” dei caporali (15-20 euro). Nessuna misura di sicurezza, nessun equipaggiamento, nessun riparo dalle malattie da lavoro che colpiscono le articolazioni, le ossa, le vie respiratorie e gli occhi (a causa del contatto con i fertilizzanti). Questo il prezzo da pagare se vuoi lavorare, se vuoi guadagnare qualcosa per vivere o da mandare a casa, in Africa, dove le famiglie aspettano in mezzo a mille difficoltà. Guai a ribellarsi, a denunciare, perché i caporali, se non ti pestano, di sicuro non ti scelgono più e allora addio lavoro, addio denaro, addio tutto. Non importa che tu sia regolare o irregolare, il sistema è que� sto, soprattutto per quel che riguarda le piccole imprese agricole, dal momento che, generalmente, i grossi produttori ormai assumono e fanno contratti. Rimangono aperti però due problemi su cui c’è poca vigilanza da parte di chi dovrebbe controllare e garantire il rispetto della legalità, e che, invece, troppo spesso, agisce colpendo le vittime (cioè i lavorato� ri) e non i carnefici (i caporali e soprattutto i datori di lavoro): il primo problema riguarda le piccole imprese, le quali, con la solita stucche� vole motivazione dell’elevato costo del lavoro e della crisi dell’agricol� tura, si sentono legittimate a sottopagare i braccianti stranieri sfrut� tando il loro bisogno e servendosi del caporalato; il secondo consiste nel fatto che le grosse aziende spesso danno in subaffitto i terreni ad aziende piccole, a cui viene chiesto di realizzare un certo totale di prodotto, senza controllare se per far ciò questi piccoli produttori calpestano le regole e i diritti del lavoratore. La questione di fondo è sempre la stessa: i problemi dell’agricoltura, che ci sono e sono di varia natura (il prezzo dell’intermediazione, il monopolio illegale dei mercati ortofrutticoli da parte di alcuni gruppi, l’eccessiva pressione fiscale e contributiva, l’entrata in scena di nuovi competitors a seguito dei cambiamenti climatici), vengono scaricati sempre sulla manodo� pera, pagata poco o sfruttata. La manodopera è l’anello debole su cui 112


ricaricare le brame di profitto di alcuni imprenditori senza scrupoli; se sei migrante, poi, sei spacciato, perché vieni pagato miseramente e, spesso, accade anche che, con qualche stratagemma legato alla tua situazione burocratica, la paga non la vedi mai e ti rodi il fegato per aver lavorato gratis per qualche schiavista moderno, che mira ad ottenere il massimo risparmio ed il maggiore profitto, facendo leva, come detto, sulla scarsa attività ispettiva e di controllo. “Non defini� rei – afferma Massimo Franco, attuale presidente di Confagricoltura Siracusa – imprenditori o agricoltori coloro che sfruttano i lavoratori e che si avvalgono del caporalato. Sono dei delinquenti che vanno puniti severamente”. In questo ambito, dunque, diventa assordante il silenzio di chi dovrebbe intervenire sia sul piano della prevenzione che su quello dell’azione. Ogni anno, da quasi dieci anni, si ripete lo stesso scenario. Eppure, le istituzioni locali continuano a parlare di “emergenza”, adot� tando misure che non risolvono nulla, come quella dell’istituzione di una tendopoli, esperienza che è miseramente fallita negli anni passati (2007 e 2009, mentre nel 2008 non si è nemmeno fatta) e che nel

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2010 si è rivelata, come previsto, assolutamente inadeguata, dato che poteva accogliere appena 120 persone e solo regolari, lasciando fuori oltre 200 migranti che dovevano arrangiarsi nei casolari diroccati o sotto gli alberi, subendo ritorsioni, denunce per occupazione abusiva del suolo e, quest’anno, su ordine di Maroni, il controllo asfissiante dei carabinieri. Tra l’altro non c’era la minima considerazione per gli irregolari, a cui lo Stato non garantisce servizi o assistenza, ignoran� do vergognosamente il fatto che questa gente lavora e, soprattutto, che ci sia qualcuno che li sfrutta. Ma, d’altra parte, finché lavorano va bene a tutti, se poi però hanno bisogno di assistenza medica o di cibo o di un rifugio, allora gli si ricorda subito, con le buone o con le catti� ve, che sono “clandestini”, che non “hanno alcun diritto”, nemmeno quelli che la Costituzione e le convenzioni internazionali riconoscono ad ogni essere umano, indipendentemente dalla sua situazione bu� rocratica. Così la stretta viene impressa sempre e soltanto su quelle che sono le vittime di questo sistema perverso. Ai loro sfruttatori, che girano indisturbati per le vie centrali del borgo, nessuno contesta al� cunché. Si potrebbe pensare a denunciare chi sfrutta i lavoratori, ma in questo caso servirebbe il sostegno di quel mondo sindacale che, in questa provincia, è colpevolmente assente. La Cgil, quest’anno, ha aperto uno sportello a Cassibile, proprio per cercare di far fronte al problema, ma è davvero arduo pensare di risolvere tutto con un uf� ficio se poi la mattina non si presenzia al rito della “selezione”, delle auto e dei furgoncini che caricano i lavoratori dopo una breve e impa� ri contrattazione, come bestie al mercato. Nessuna attività di denun� cia, nessuna presa di posizione forte, nessuna capacità di informare e mobilitare, di organizzare uno sciopero sul modello del Primo Marzo. Niente di tutto ciò. Come se la tradizione di lotta bracciantile, con� dotta in questi stessi luoghi negli anni ’60 e ’70, fosse solo un lontano ricordo sbiadito e, chissà, forse anche imbarazzante, come il senso di impotenza che traspare e che non dovrebbe esserci. Ed ogni anno è in atto una querelle tra istituzioni ed associazioni di categoria, special� mente dopo la firma di un protocollo in Prefettura, che impegnava i datori di lavoro a fornire contratto e alloggio al lavoratore stagionale assunto. Cosa che purtroppo non avviene. Nel 2010, poi, il raccolto ha avuto un calo e in tanti hanno trovato 114


scarse opportunità di impiego. Così, molti migranti, alcuni dei quali scappati dall’inferno di Rosarno e dalla “caccia al nero” organizzata da una parte dei cittadini rosarnesi, si sono trovati senza lavoro e senza riparo, per di più esposti alla continua ostilità della gente del luogo, ostilità che è sfociata anche in un pestaggio ai danni di un rifugiato eritreo da parte di un giovane balordo del posto. Una violenza annun� ciata, considerato che esiste chi pompa odio e tensione, come alcuni rappresentanti delle sezioni locali di alcuni partiti di vario colore (pur� troppo il razzismo è trasversale), e c’è chi si sente per questo legitti� mato a far capire, con metodi sbrigativi, che a Cassibile i migranti non li vogliono, che non servono. Invece servono, eccome. E lo sanno tutti. Il problema è che, fino a quando i migranti stanno nascosti, in mezzo ai campi a lavorare, a dormire in baracche di fortuna, senza acqua né cibo, al freddo, allora sono accettati, perché non vederli lava e copre la sporca coscienza degli ipocriti; ma se per caso “osano” farsi vedere in piazza, tenere alto lo sguardo, sedersi a chiacchierare davanti al bar, allora inizia il fastidio, l’irritazione. Se toccano la fontana dell’acqua per lavarsi dopo una giornata in mezzo al fango, ecco che scatta l’in� dignazione generale. Tutti a gracchiare, a strepitare, nessuno a chie� dersi perché quell’uomo ha bisogno di quell’acqua, dove vive, come vive, quali sono le sue necessità. Niente. È niuru (nero), marucchinu (marocchino, termine con cui vengono sbrigativamente accomunati tutti gli africani, indipendentemente dalla loro provenienza geogra� fica), extracomunitario (altra etichetta usata solo per chi proviene da paesi più poveri, e mai per statunitensi, svizzeri, giapponesi, che pur lo sono): insomma un “selvaggio” abituato a vivere in mezzo alla spor� cizia, agli stenti, alla fame, al degrado, allo sfruttamento. Una visione distorta dell’Africa, del suo popolo, della sua ricchezza culturale, della sua immensa complessità. A questi figli d’Africa che hanno lasciato tutto e che girano l’Italia per lavorare, Cassibile (e non solo) riserva un’accoglienza fatta di indifferenza e ostilità. Sembra un paradosso ed invece è la realtà. Una realtà che percuote la pelle e l’anima di giovani lavoratori trattati come fantasmi, come esseri invisibili, masse di invi� sibili che scompaiono per un intero giorno dietro gli alberi, in mezzo ai campi, per poi riapparire la sera, ai bordi della strada, sfiancati, avvili� ti, ma pronti a ricominciare, perché domani è un’altra giornata e non 115


ci si può fermare, e bisognerà ripresentarsi alla “selezione” condotta dai caporali, che molto spesso sono connazionali e che addirittura, come ha scoperto ad aprile scorso la Procura di Palmi in un’inchie� sta sullo sfruttamento dei braccianti immigrati a Rosarno (inchiesta che ha toccato anche Cassibile), seguono il cammino delle proprie vittime, spostandosi con loro lungo le rotte del moderno schiavismo italiano, da Rosarno a Palagonia, da Villa Literno a Cassibile. Caporali nomadi, aguzzini che fanno sentire a lungo il loro fiato sul collo degli sfruttati, che danno vita, in ogni dove, al solito rituale: “Tu oggi lavori, tu no, tu sì, tu no”. Una parola, una decisione inappellabile (se non a rischio di beccarti ceffoni e pugni) che stabilisce se oggi guadagni da schiavo oppure stai fermo, sempre da schiavo, in una frazione di 5800 abitanti dove, durante il giorno o alla sera, ti guardano male quando, da straniero, ti decidi ad attraversare le vie attorno alla piazza, quella stessa piazza in cui la notte ti usano per il loro profitto. Questa è Cassibile, nota anche per un Cpt, che è finito sotto in� chiesta e che una delegazione parlamentare guidata dall’on. Rita Ber� nardini ha definito “lager moderno”. Una struttura fatiscente, fatta di sbarre alte e verdi, in condizioni igieniche terribili, sovraffollata, con gli esseri umani trattati da numeri, semplici numeri a cui non veni� va spiegato nulla, a cominciare dai propri diritti, ed a cui non veniva dato nemmeno ciò che spettava per legge. Una galera dentro cui i sogni marcivano e la dignità si incancreniva, con la complicità dello Stato. Esattamente come avviene da anni nella frazione siracusana su cui sorgeva tale struttura e che oggi ne ospita il fantasma, ancora lì, sempre lì, minaccioso. Cassibile è anche questo, è un luogo in cui la bandiera della sicurezza viene sventolata maldestramente per creare terrore e raccogliere voti, per rendere nemico chi lavora e costringer� lo a nascondersi, in modo che non gli passi mai per la mente di alzare la voce, di reclamare diritti. Tutto è funzionale allo sfruttamento, ma lo è ancor di più la logica del capro espiatorio. Un bersaglio da col� pire, da tenere in bilico, da sfruttare, sperando che non abbia mai il coraggio di reagire, in ciò facendo leva sull’assenza dei sindacati, sul silenzio delle istituzioni, sull’inerzia e sull’inadeguatezza degli orga� ni di controllo, sulla debolezza delle associazioni, sulla latitanza della chiesa locale e sulla sottocultura della gente. L’immigrato è il coacer� 116


vo di tutti i mali, è l’incivile, il violento, il rozzo, l’ignorante, il poten� ziale delinquente, il sicuro criminale. In realtà è solo uno che spende poco, che non consuma molto, perché non può permetterselo, e che magari mangia alla mensa della tendopoli, solo una volta al giorno (la sera), che non compra nei negozi, che dorme nei campi perché non può permettersi un affitto a cifre usurarie: insomma è uno alla cui pre� senza non corrisponde un introito considerevole. Le sue tasche non si possono svuotare pienamente, non le si può spremere fino all’ultimo centesimo. E allora giù la maschera: il razzismo è un paravento perico� loso, che fomenta idee discriminatorie e violente nascendo dal pozzo stagnante del profitto, dell’avidità, del denaro, del conformismo, tutti elementi che ben sostengono l’impalcatura profondamente ingiusta e squilibrata della globalizzazione e del capitalismo. Si scontrano due mondi: quello di chi conosce il benessere e mira ad aumentarlo costi quel che costi e quello di chi sopporta tutto per poter sopravvivere, per avere le briciole, per avere un minimo di quelle risorse che la so� cietà occidentale spreca senza ritegno. Nella minuscola trincea di Cassibile, su un piano strettamente lo� cale, si scaricano problemi che hanno portata globale: gli effetti delle guerre per il controllo del potere economico e politico mondiale, gli effetti dello sfruttamento dei paesi più poveri, della desertificazione, dell’assenza di prospettive, della povertà di un intero continente; tut� to ciò che deriva da fenomeni mondiali, di cui l’immigrazione è il risul� tato più immediatamente percepibile, si presenta davanti agli occhi di chi non ha gli strumenti culturali e i mezzi adeguati per entrarvi in contatto. E il senso di umanità e di solidarietà, che in certi contesti rie� sce a sopperire all’incapacità di chi governa, non è presente ovunque, quantomeno non sempre allo stesso modo e non sempre in misura considerevole. Così, a Cassibile, i migranti sono da soli. Soli a lavorare, a subire, a combattere per la sopravvivenza, nella speranza che l’Italia, di cui proprio Cassibile è specchio, possa trovare, nel tempo e in un quadro di auspicato cambiamento, una dimensione più coerente con il suo passato di emigrazione.

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Rosarno Antonello Mangano

Gli africani e il calore del Sud Secondo un persistente luogo comune, i migranti cercherebbero nel Meridione italiano il calore e l’ospitalità dei loro paesi d’origine. In realtà, la maggior parte di essi vuole raggiungere un “sogno europeo” fatto di modernità e lavoro. Al Sud, negli ultimi anni, sono finiti gli espulsi dalla crisi e dal clima di feroce persecuzione razzista imposto dalla Lega. Sono sempre meno quelli che vivono per scelta nelle re� gioni meridionali, dove non c’è solo Rosarno. In tutte le campagne del Mezzogiorno si osserva il paradosso tutto italiano della raccolta delle patate (o dei pomodori, o delle arance) che diventa emergenza uma� nitaria. E che si affronta con gli strumenti di solito riservati ai territori in guerra. Tendopoli, Croce Rossa, mense, ONG, schedature, soccorsi, ambulanze, kit di prima necessità, raccolte di cibi e coperte. Nelle campagne meridionali abbiamo mille e più africani che si concentrano alla fine dell’estate a Palazzo San Gervasio, in un centro che ogni estate scoppia (finché, nel 2010, è rimasto chiuso per scelta politica); le situazioni estreme di Castel Volturno e San Nicola Varco; i vendemmiatori di Alcamo che dormivano in strada; la tendopoli di Cassibile circondata da tensioni e razzismo; i fenomeni di prostitu� zione della zona di Vittoria. Tanti piccoli drammi che si ripropongono annualmente rispettando il carattere stagionale delle raccolte. E poi Rosarno... Quel dubbio lo ricordo molto bene. Mi giro o faccio finta di niente? Camminare a piedi lungo le strade di Rosarno significava farsi identifi� 120


care come migrante o come uno di fuori. Cioè un potenziale bersaglio. Solo questione di tempo, prima o poi arrivano, in due su un motorino senza casco mentre tu cammini ai bordi della striscia di asfalto sen� za marciapiede. Quando li senti arrivare, speri che passeranno dritto. Cerchi di fare finta di niente. Loro ti guardano, vogliono capire se sei bianco. I neri camminano con la felpa del cappuccio alzato per evitare l’identificazione e masticando rabbia silenziosa. In tutto il Sud c’è lo sfruttamento, il dramma delle condizioni di al� loggio e il caporalato. Ma a Rosarno c’era qualcosa in più. Per venti anni gli africani hanno avuto paura di loro. Ragazzini violenti, balordi senza cultura, di buona famiglia o manovalanza degli ‘ndranghetisti cresciuti guardando Scarface e ascoltando i canti di mafia (“L’onorata società, “Cu sgarra paga”, ...). Hanno avuto paura dei sassi lanciati dal cavalcavia, delle bastonate dal motorino, dei pestaggi senza miseri� cordia. “Giovani, ignoranti ed armati”, li definivano i senegalesi in una drammatica e lucida lettera scritta nell’inverno del 1999 al sindaco Giuseppe Lavorato. Questi sono stati gli episodi nascosti, normali, la quotidianità di due decenni. Poi sono arrivati i proiettili e le rapine, come quella del dicembre 2008 e i noti ferimenti di gennaio 2010. E le due rivolte. Perché ti possono sfruttare e offendere, ma non ferire a morte senza uno straccio di motivo. We will we be remembered: pri� ma di andare via hanno scritto su un muro rosarnese la loro profezia. E infatti siamo ancora qui a parlare di loro. A più di un anno di distanza, e solo grazie alla rivolta, Rosarno è diventato un posto più sicuro, almeno per i migranti. Dopo la cam� pagna securitaria promossa dalla Lega e dal suo ministro dell’Interno che riempiva l’Italia di telecamere a circuito chiuso, fredda diffidenza e accuse ingiustificate all’Islam e ai tratti somatici differenti dai nostri. Da allora la ‘ndrangheta è più debole. I Bellocco e i Pesce sono stati decimati dalle retate, ed è spuntata pure una collaboratrice di giusti� zia, per di più una stretta parente del clan più forte. Tanti i sequestri di beni e gli arresti. Il momento di svolta è l’8 gennaio 2010, e sta tutto negli occhi stupiti del giovane Antonio Bellocco, che vede la propria auto di lusso presa a bastonate dai neri, senza riguardo, democratica� mente. Si rivolge ai tutori dell’ordine, forse per la prima volta nella sua vita, e non riceve soddisfazione. Decide di fare da solo aggredendo 121


insieme neri e carabinieri. Finirà dentro, e sarà solo il primo. Il valore della rivolta antimafiosa degli africani – così come la loro consapevolezza politica – non è stato riconosciuto. Per molti la ‘ndrangheta è onnipotente, controlla tutto e tutto determina. Voleva cacciare gli africani per sostituirli con i bulgari, secondo una curiosa tesi piuttosto diffusa. Peccato che a gennaio 2011 ci siano neri come lavoratori dell’Est: di sera il paesino di San Ferdinando, vicinissimo a Rosarno, sembra una città della Bulgaria. E i mafiosi stanno a leccar� si le ferite, pur mantenendo buona parte del loro potere. La rivol� ta ha portato a un controllo del territorio mai visto (da parte dello Stato, ovviamente), a una inchiesta su caporalato e sfruttamento che si somma ad altre due avviate in precedenza, a una attenzione me� diatica costante e sgradita, a una ripresa dell’attività politica e della società civile. Gli stranieri, quando sono stati chiamati in causa dagli inquirenti, non si sono mai tirati indietro. Giuseppe Lavorato ha pro� posto di ripristinare il premio Valarioti e di assegnarlo alla comunità africana, ma l’idea è caduta nel vuoto. Gli africani sono stati soggetto politico e motore del cambiamento. E la rivolta non è stata solo re� azione meccanica a disagio economico e condizioni di degrado, che sono presenti in tutto il Sud delle raccolte. L’elemento in più del 2010 è stato la coscienza. Rispetto agli anni passati, quando a Rosarno si trovavano in gran parte migranti appena arrivati in Italia dal percorso Lampedusa-Crotone, negli ultimi tempi le presenze più significative erano di due tipi: 1. lavoratori da lungo tempo in Italia, insediati nelle città del Nord, impiegati nel lavoro di fabbrica, consapevoli dei propri diritti. 2. In secondo luogo, i membri della comunità ghanese di Castel Volturno, politicamente preparata, abituata al confronto con la ca� morra e la violenza mafiosa, “frutto” del lungo percorso degli africanicampani che parte da Jerry Masslo e arriva allo sciopero delle roton� de dell’ottobre 2010 (“Non lavoro per meno di 50 euro”, uno dei punti di maggior rilievo della storia sindacale in Italia). La rivolta, infine, ha anche innescato un processo di cambiamen� to. Una donna è diventata sindaco, dopo due scioglimenti consecutivi per mafia, nello stesso paese dove veniva uccisa a fucilate, nel ca� podanno 2007, Cornelia Deana, rumena ma soprattutto colpevole di 122


voler lasciare il fidanzato. Per la stessa colpa, un rampollo dei Pesce era arrivato a sequestrare l’ex fidanzata. Un paese dove essere don� na è ancora difficile, verrebbe da dire. Ma anche dove può diventare sindaco. Sono le contraddizioni del Sud estremo, luoghi duri ma dove tutto è possibile. Anche nella stagione agrumicola 2011 i migranti africani hanno gua� dagnato la solita miserabile cifra, vivendo in condizione drammatiche e lottando per il possesso o il rinnovo dei documenti. Ma questi sono problemi italiani. Perché nessuno parla dei bulgari di San Ferdinando? Sono tantissimi e non guadagnano di più. Le differenza è nel pezzo di carta che qualche anno li riconosce come cittadini dell’Unione Euro� pea. Sono liberi di far riconoscere i propri diritti e possono tornare a casa o spostarsi se non trovano lavoro. Con i diritti di cittadinanza e sindacali si risolve il problema degli africani. Progetti, tendopoli e corsi servono solo ad affrontare l’emergenza (ma la raccolta delle arance può essere un’emergenza umanitaria?) o trasferire reddito degli ita� liani. Con una mano Ma la questione dell’agricoltura è più ampia di Rosarno: si tratta di un mondo marginalizzato, dominato dalla filiera lunga, caratterizza� to dalla mancanza di informazioni sulle etichette, stretto dalla GDO (Grande distribuzione organizzata), penalizzato dalla distruzione dei mercati locali ad opera delle organizzazioni criminali. Già a Palazzo San Gervasio, provincia di Potenza ma al confine con la Puglia, era stata inaugurata la linea ufficiale del ministero dell’In� terno sulla questione dei braccianti stranieri. La rivolta di Rosarno è nata dall’assembramento di persone; dunque, da ora in poi, sgomberi e repressione. Il problema è di ordine pubblico. Ed ecco in Basilicata i lavoratori costretti ad arrangiarsi nei casolari, e il centro di accoglienza che rimane chiuso e inutilizzato. Era l’estate del 2010. Qualche mese dopo, in Calabria, ancora migranti nascosti nei casolari e pattuglia� menti. E sgomberi. Con la differenza che siamo in inverno, e i volonta� ri devono per l’ennesima volta impegnarsi nella solita generosissima raccolta di beni di prima necessità. 123


Con una mano, lo Stato vuole integrare e formare, con l’altra nega i documenti e mantiene invisibili i lavoratori stranieri anche tramite una durissima azione repressiva. La contraddizione è solo apparen� te: Maroni vuole soggetti sfruttabili. I progetti PON per l’integrazione sono “sostegno alla domanda interna”, ancora una volta reddito tra� sferito agli italiani. Dunque, Rosarno cambierà quando cambieranno le leggi promulgate a Roma. E il clima politico nato a Varese. Intanto, aleggiano sulle regioni del Sud altri progetti milionari, quelli del PON Sicurezza, a cui si sommano le altre iniziative, dalle onnipresenti tendopoli ai “corsi di formazione”, dagli info point agli sportelli legali, fino ai “centri di aggregazione” non solo costituiscono spesso uno spreco di denaro pubblico (gli interventi non sono mai risolutori) e discriminatori (in genere sono rivolti solo ai regolari) ma rovesciano i termini del problema: i migranti non possono alloggiare in maniera dignitosa perché le leggi attuali negano loro la possibilità di regolarizzarsi e perché sfruttamento, caporalato e lavoro nero la� sciano loro in tasca pochi spiccioli. Contro questi ultimi fenomeni non si fa praticamente nulla, da nessuna parte. Il dibattito pubblico sulla regolarizzazione è inesistente. E sulla nostra tavola continuano ad ar� rivare i prodotti – sporchi di sangue - di questo sistema.

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Rosarno, impossibile dimenticare Rosario Cauchi

Una coppia di lavoratori, dei molteplici che nel corso di almeno un ventennio hanno piegato le schiene e mutato la consistenza delle mani all’interno dei campi calabresi, si muove ai bordi di una strada provinciale, tanto anonima quanto battuta da automezzi di ogni tipo, all’alba di una lunga giornata di lavoro, da condurre nel freddo inver� nale, mentre dal lato opposto della carreggiata un branco di cani, for� se a loro volta intontiti dall’improvviso arrivo della tersa luce mattu� tina, si sposta seguendo un ordine gerarchico impossibile da violare: “a volte mi sembra di essere come loro, mi sento un cane bastonato”, questa la confessione che uno dei due uomini, già provato ancor pri� ma che l’intensità bruta della raccolta gli si scarichi fin dentro le mem� bra, destina al suo compagno di ventura. Era l’inverno del 1993, quelle ombre che si aggiravano sul selciato di una strada, tutta contornata da terreni agricoli, appartenevano a raccoglitori africani, in procinto di raggiungere la fermata giusta, ov� vero la migliore piazzola di sosta presso la quale attendere, infreddo� liti e doloranti a causa delle fatiche accumulate il giorno precedente, il “passaggio” di un intermediario, di un caporale, in grado di condurli in direzione di venti o venticinque mila lire: a tanto, infatti, poteva ambire, e continua a farlo, un lavoratore migrante a Rosarno. Uno degli esseri umani, passato, alla stregua di moltissimi altri, dal� le campagne rosarnesi, e presente quella fredda mattina di diciasset� te anni fa, quando ad incrociarlo era solo uno sparuto gruppo di cani randagi, vive oggi a Gela, città alla quale ha dedicato sedici anni della sua vita. Messaoud Kabachi, nato ad Algeri, ha abbandonato definitivamen� 126


te l’attività legata ai campi, riuscendo ad avviare una piccola, ma assai frequentata, bottega artigiana: perline, coralli, oro, hanno sostituito il ruvido sentore provocato dal continuo sfregare delle proprie mani intorno a piante, generatrici di ogni sorta di frutto o materia prima. Messaoud, per quanto tempo hai lavorato a Rosarno e come sei riuscito ad arrivarci in quel lontano 1993? Io, per la verità, proprio in quel periodo ero dipendente di un’azien� da metalmeccanica di Bologna sottoposta, però, ad una sospensio� ne dell’attività: in presenza di una simile situazione decisi di cercare una qualche temporanea alternativa che mi potesse impegnare fino a quando il mio datore di lavoro originario non mi avesse richiamato. A Rosarno, comunque, sono rimasto alcune settimane. Possiamo affermare che l’area della Piana di Gioia Tauro è stata la tappa conclusiva di una tua personale “missione” lavorativa? Sì, in effetti si è verificato proprio questo; il mio primo ingaggio lo ottenni nelle campagne perugine, cercavano raccoglitori di tabacco, una delle più diffuse produzioni di quel territorio; successivamente mi sono spostato molto più a sud, in Puglia, in provincia di Foggia, lì ho raccolto pomodori, sotto un sole fortissimo ed un caldo simile a quel� lo africano; da quella regione, a conclusione della fase del raccolto, mi sono trasferito in Calabria, raggiungendo Rosarno, paese che mi era stato indicato da amici più esperti: il mio obiettivo, in realtà, era quello di acquisire un gruzzolo sufficiente affinché potessi comprare il biglietto ferroviario di ritorno in direzione Bologna, purtroppo i soldi messi da parte erano finiti, arrivai in Calabria, infatti, senza aver paga� to il tagliando, praticamente nascosto per evitare che il controllore mi potesse scoprire. Quali sono state le tue sensazioni appena arrivato: pensi che le violenze documentate durante gli ultimi giorni si sarebbero potute manifestare anche diciassette anni fa? Mi dispiace dirlo ma le immagini che oggi hanno fatto il giro del mondo sono solo il culmine di continue ed incomprensibili intimida� zioni; ti faccio solo un esempio, nel 1993 appena arrivai a Rosarno la prima cosa che mi venne detta da chi lavorava insieme a me riguar� dava l’impossibilità di uscire tranquillamente la sera: mi consigliaro� no, infatti, di non muovermi da solo la sera, per nessun motivo mi 127


sarei dovuto azzardare, le strade che collegavano la zona dei campi al centro cittadino erano insicure, c’era il rischio che gruppi di ragazzi, spesso minorenni, ti aggredissero portandoti via i soldi della giornata. Gli insulti erano la normalità. In che condizioni vivevi? Ti riconosci nelle immagini trasmesse dalle emittenti nazionali? Io mi ero stabilito all’interno di un grande casolare abbandona� to, lo dividevo con molti altri africani e qualche raccoglitore dell’est europeo: appena raggiunsi Rosarno mi fu indicato questo posto, la maggior degli occupanti dormiva sopra materassi, alcuni sopporta� bili, altri, invece, a mala pena accettabili; purtroppo nessuno aveva un contratto, tutti quelli che ho conosciuto lavoravano alla giornata, c’era un accordo con i caporali che prendevano dalle cinque alle dieci mila lire per singola persona: le intimidazioni, fisiche e psichiche, non mancavano neanche durante lo svolgimento dell’attività. La sorpresa e l’indignazione dimostrate in queste settimane sono allora del tutto fuori luogo?


Io posso solo dirti, in base alla mia esperienza personale, che quelli di oggi sono tutti commenti veramente ipocriti: il lavoro nero, lo sfrut� tamento della manodopera, gli insulti, gli agguati, erano evenienze conclamate già nel 1993, senza che nessun giornale di rilievo naziona� le ne parlasse; solo oggi, quale risposta al coraggio dimostrato da mol� ti lavoratori, gli “inconvenienti” di Rosarno sono noti a tutti: gli unici ad averne avuto da sempre consapevolezza sono stati i raccoglitori stranieri, arrivati fino in Calabria solo ed esclusivamente per lavorare; le arance della Piana di Gioia Tauro sono solo un mezzo per poter gua� dagnare qualche soldo, e nulla più: la reazione avuta dagli aggrediti è la normale conseguenza di un destino in bilico tra una manciata di euro e settimane intere a nutrirsi di agrumi. La dignità umana deve sempre avere la precedenza, così è nell’islam e così è per il cristiane� simo. Un uomo non può mai essere degradato allo stato di animale da bastonare in continuazione: arriverà, prima o poi, il momento nel quale il cane inizierà a ringhiare contro il suo padrone.


Rosarno, la rabbia e la verità Massimiliano Perna

Quest’Italia bacchettona e razzista ha scoperto finalmente, come svegliata da un sonno profondo, che i migranti sono uomini, mol� to più uomini di tanti italiani vigliacchi e servili. Lo hanno scoperto all’improvviso, solo perché la tv ha deciso di dare spazio alla noti� zia della ribellione dei lavoratori immigrati di Rosarno. Una ribellione non nuova. La terza ribellione in Italia dopo quella di Castel Volturno, in Campania, nel settembre del 2008, e quella successiva, sempre a Rosarno, nel dicembre dello stesso anno. Se quello campano è stato il caso più eclatante, seguito al barbaro assassinio di sei onesti lavo� ratori africani da parte della camorra, le due rivolte di Rosarno sono la risposta fiera e coraggiosa agli atti di violenza subiti dagli immigrati, rei di lavo� rare e di essere visibili, di chiedere i loro diritti. Conosco molti ragazzi africani che vivono e lavorano nelle campagne rosarnesi, alcuni han� no potuto affittare una casa, altri dormono all’addiaccio nei campi o nei casolari o dentro il famoso capannone abbandonato. Ho parlato con alcuni di loro, in questi anni e mesi, mi hanno descritto l’inferno in cui vivono, l’ambiente ostile, violento, irrimediabilmente marchia� to dalla presenza capillare della ‘ndrangheta. Ho ascoltato le stesse parole che è possibile leggere nel bel libro curato dal mio amico An� tonello Mangano (Gli africani salveranno Rosarno e probabilmente anche l’Italia). Non mi sono mai stupito, perché ormai so bene a quale inferno vanno incontro questi ragazzi d’Africa quando arrivano in Ita� lia. E so bene, anche se fa male sentirglielo dire, che per molti di loro anche questo schifo è sempre meglio che la morte certa o l’assenza di opportunità a cui erano condannati nelle loro terre di origine. Molti 130


di loro sono rifugiati politici, gente che aveva solo una scelta: scappare o morire. E l’Italia, gli italiani, quelli con l’immagine di “brava gente” esportata in ogni dove, sembravano l’appiglio migliore, l’approdo in cui trovare diritti, solidarietà, comprensione, se non altro per il recen� te passato di emigrazione che ancora pulsa nelle vene degli italiani. O almeno dovrebbe, visto che la realtà ci racconta di un passato di cui non si ha memoria. Questi ragazzi vengono qui e ricominciano tutto, lontani da casa, affetti, dal profumo di una terra incantevole che sono stati costretti ad accantonare. Si rimboccano le maniche e si mettono al lavoro, mentre i nostri giovani tengono le chiappe bene al caldo e frignano per un telefonino nuovo, per un amore incrinato o per una festa non riuscita. Non è una predica, una paternale, ma di fronte a questi ragazzi africani dovremmo provare vergogna. Vergo� gna per il silenzio a cui li costringiamo, per l’assenza di solidarietà, per l’incapacità di percepire la grandezza, la ricchezza, il privilegio di incontrare storie di vita vera, culture, linguaggi, sensibilità diverse, nuove, incantevoli. A Rosarno, e non solo lì, questa gente lavora 14 ore al giorno, duramente, senza pause e senza diritti; poi accade che chiedono la cosa più semplice e normale in un mondo civile: la paga, una paga misera ma pur sempre il prezzo del proprio lavoro, soldi utili per vivere e per far vivere i propri familiari in Africa. Un immigrato non può restare senza soldi, non può aspettare, accettare ritardi, perché per lui è una continua lotta per la sopravvivenza. A Rosarno non ci sono ritardi, c’è la ‘ndrangheta, ci sono i “padroni” delle campagne che usano il caporalato per le “assunzioni” e poi spesso, a fine lavoro, al momento di pagare, decidono di non pagare, si rifiutano. E se il lavoratore immigrato protesta ecco che spuntano le armi, le pistole ed i fucili impugnati dagli scagnozzi del capo e dal capo stesso, che cir� condano il lavoratore e lo “invitano” ad andarsene. Se qualcuno non obbedisce allora sparano. Oppure ci sarà qualche balordo che andrà a sparargli in serata, magari mentre il ragazzo immigrato si trova in strada e cammina verso il campo in cui dorme. A Rosarno è roba quo� tidiana. Molti miei amici migranti me lo hanno raccontato più volte, continuano a raccontarmelo. Stamattina, uno di loro, mi ha spiegato cosa accade, mi ha raccontato dell’atmosfera mafiosa che opprime Rosarno. Mi ha detto che l’anno scorso anche lui ha lavorato per una 131


settimana e non è stato pagato. E quando ha protestato sono spun� tate le armi. È stato allora che ha capito una cosa che nelle zone di mafia tanti di noi sanno e in troppi accettano: “Se sei intelligente – mi spiega – e capisci la situazione, ingoi il rospo, dici che non c’è nessun problema e te ne vai, se non sei intelligente ti prenderai le pallottole addosso. Io capì la situazione e me ne andai. Adesso andrò via, qui a Rosar� no non voglio stare più. Troppo brutto questo posto”. Non sempre però si decide di star zitti, di subire. C’è chi ha capito un’altra cosa: è intelligente in quel momento risparmiare la pelle, ma è ancor più in�

telligente, subito dopo, organizzarsi e scendere in piazza, sfidare tutti insieme l’arroganza vigliacca di questi criminali senza palle, di questi vermi mafiosi, maleodoranti e rozzi, forti con le armi in mano ma pa� lesemente codardi quando si trovano a mani nude di fronte a chiunque, a maggior ragione di fronte a un popolo che si incazza e li sfida aperta� mente, nelle piazze, nelle strade, in quel territorio che i boss pensano sia loro, o almeno lo fanno credere ad una cittadinanza che accetta tutto e si chiude in casa con i calzoni sporchi di urina, marchiati da 132


una paura illogica e incivile. I migranti, invece, non hanno paura. Tutti insieme sanno di essere più forti, possono dimostrare che il territorio è di chi lo sa difendere, di chi sa occuparlo senza timori, invadendo le vie, guardando in faccia quei mezzi uomini che pensano di comandare il mondo. Hanno avuto il coraggio di sfidare la ‘ndrangheta, da soli, senza perdere tempo con i discorsi, con le tecniche organizzative. Un moto spontaneo, rabbioso, che ha sfogato tutta la propria rabbia per strada, che ha gridato un basta che parte da lontano, dall’omicidio del rifugiato politico sudafricano Jerry Masslo, ucciso a colpi di pistola da quattro balordi nel 1989 a Villa Literno, in Campania, passando per i morti di Castel Volturno, fino a Rosarno. Un urlo di protesta che porta con sé la voce di tutti quei migranti uccisi dall’indifferenza, dalla vio� lenza, dal lavoro senza sicurezza, nelle campagne, nei cantieri edili, nelle baracche di fortuna, da nord a sud. Una rabbia giusta, la rabbia di esseri umani veri, che hanno vissuto un’Odissea, che hanno affrontato mille ostacoli, attraversato l’inferno, si sono aggrappati alla vita, e che ora non hanno intenzione di sven� derla o sottometterla al ridicolo potere mafioso. I migranti non hanno paura delle mafie, non ne avranno mai, non possono averne. E forse saranno davvero loro, come dice il mio amico Antonello, a salvare l’I� talia, a svegliare gli italiani, a far capire loro che non si può vivere nel torpore di un silenzio vigliacco, di una rassegnazione insensata, di una società che accetta tutto purché non si tocchi la propria sfera indivi� duale e quel piccolo mondo, ricco di false certezze e di valori artificiali, che ognuno di noi si costruisce per poi rinchiudersi dentro. Quella di Rosarno è la rivolta fisica di un’Italia che non accetta le leggi disumane di un governo xenofobo, chinatosi al volere rozzo e putrido della Lega, di quel manipolo di beoni padani che vogliono assassinare la demo� crazia e il diritto, violentando l’umanità e la solidarietà, il rispetto per la vita umana. Il ministro dell’Interno, Roberto “Eichmann” Maroni, ha commentato la situazione di Rosarno con la sua consueta arrogan� za, facendo ricadere la responsabilità non sulla ‘ndrangheta, bensì sui “clandestini”, colpevoli del degrado e dell’aumento della criminalità. La stessa logica becera di quegli schifosi maschilisti che, davanti allo stupro di una donna, dicono che è la vittima che se l’è andata a cerca� re. Ma cosa aspettarsi da un uomo di infimo valore e spessore umano, 133


un ex comunista che oggi si muove e opera alla stessa stregua di un gerarca nazista, drogandosi con il suo stesso potere? Parla di trop� pa tolleranza? È vero, troppa tolleranza c’è stata nei confronti di una classe politica inetta, violenta, razzista. È anche su uomini come Ma� roni, che gli italiani hanno messo su una bella poltrona, gli immigrati cercano di farci aprire gli occhi, di farci comprendere quanto siamo lontani, nei fatti, da quella parola che in maniera indebita appicci� chiamo con troppa superficialità alla nostra storia e alla nostra società “occidentale”: quella parola è “civiltà”. I telegiornali, compreso il Tg3, parlano dei “poveri cittadini” di Ro� sarno, sempre buoni con i migranti, increduli davanti alla rabbia dei manifestanti, che hanno divelto cassonetti e distrutto auto e vetrine. Adesso chiedono al Commissario del governo, che guida il Comune calabrese, di cacciare via dalla città tutti gli immigrati. E dobbiamo pure definirli buoni, questi rosarnesi, perché in cuor loro la “soluzio� ne” desiderata sarebbe di certo più truculenta. Parlano i rosarnesi, protestano, si lamentano, c’è chi addirittura ha sparato dal balcone per allontanare i manifestanti, dicono che non capiscono la reazione dei migranti in una città che li ha sempre aiutati e accolti…Sono quegli stessi cittadini che abbassano la schiena davanti alla ‘ndrangheta, che tacciono, omertosi, che amano vedere le proprie campagne ricche di schiavi a basso costo e che poi si incazzano quando li vedono cam� minare per strada, perché danno fastidio, perché non è accettabile che questi nuovi schiavi mostrino ai rosarnesi “civili” il fetore marcio della propria coscienza. Questa gente qui, che i media appoggiano e la politica si coccola, è il problema di questo Paese, è un problema che bisognerebbe estirpare, cacciando via loro dai posti di lavoro che occupano grazie alla mano amica di qualche boss o di qualche politico colluso. Da loro mi auguro che questa Italia si salvi e mi auguro che i migranti possano aiutarci ridandoci il senso di quello che è il mon� do, sputando fuori il dolore e la sofferenza, spezzando quelle catene schiaviste, sanguinose e laceranti, che la società italiana ha attaccato ai loro polsi, alle caviglie e al futuro. Per questo, esprimo totale solida� rietà ai migranti di Rosarno e a quelli di tutta Italia, che con coraggio civile stanno cercando di salvare la nostra democrazia. 8 gennaio 2010 134



La dignità è andata via da Rosarno. Parlano gli immigrati costretti a fuggire dal paese Massimiliano Perna

Sudore e sangue, polvere e stanchezza, i segni di una ferita pro� fonda solcano l’anima di chi da Rosarno è dovuto scappare, lasciando tutto, compresi i soldi guadagnati con fatica, con sacrificio, soppor� tando qualsiasi dolore, resistendo ai morsi sferrati da una dignità mai smarrita. È tutto ciò che gli immigrati fuggiti dal linciaggio di Rosarno si portano addosso, trascinando la propria delusione insieme al loro povero carico di valige, borsoni, zaini, buste di plastica. In tv passa la notizia che sono stati interamente trasferiti in vari centri di accoglien� za, primo fra tutti quello di Crotone, ma non è vero. Solo una parte è stata trasferita, gli altri, la maggioranza, sono andati via, sono partiti in treno per raggiungere altre mete, in cui ricominciare tutto, trovare un tetto, un lavoro a qualsiasi condizione, perché lavoro significa denaro e il denaro, per chi non ha nulla e si trova da solo in un Paese straniero e per giunta ostile, vuol dire vivere o sopravvivere. Brescia, Milano, Livorno, Napoli, Foggia, Siracusa, queste sono alcune delle nuove destinazioni in cui i treni conducono queste masse stanche di lavoratori, dopo l’incubo vissuto in Calabria. A Siracusa ne sono arri� vati una trentina: alcuni perché, a breve, hanno l’appuntamento, fis� sato da tempo, con l’ufficio immigrazione della questura, altri perché a Siracusa conoscono un luogo che li ha già aiutati e gli ha dato ristoro in passato, vale a dire la parrocchia di Bosco Minniti, una “chiesa che è un portone aperto sulla strada, in cui chiunque può entrare e trova� re riparo e accoglienza”, come sottolinea da sempre il parroco, padre Carlo D’Antoni. Arrivano a piccoli gruppi di dieci e, nel giro di una notte e di una mattina, si trovano insieme dentro il cortile della parrocchia, con i visi 136


stravolti, con l’incertezza negli occhi, spaventati, silenziosi, ma sempre pronti a sorriderti. Rosarno per loro era un incubo, ma era anche un luogo in cui lavorare e guadagnare qualcosa, in questo eterno viag� gio attraverso gli inferni del mondo, dalla loro città di partenza fino ai paesini di questa Italia meschina e buia, sfiancata da un razzismo strisciante e umido, da una classe politica rozza, da pseudointellettuali che hanno imparato un altro termine insignificante per negare ciò che tanti denunciano: “propaganda terzomondista”. Non vuol dir nulla, ma è il modo scelto, da chi non ha argomenti, per delegittimare chi mostra al Paese la verità. I ragazzi che incontro hanno l’aria di chi ha lasciato tutto, non solo in Africa, ma anche a Rosarno. Hanno lasciato i soldi che i nuovi schiavisti dovevano ancora dargli e che, dopo la rivol� ta, è stato impossibile recuperare; hanno lasciato un lavoro durissimo, svolto in condizioni terribili; hanno lasciato dimore improvvisate, pri� ve di tutto; hanno lasciato, per fortuna, una Rosarno che ha mostrato la sua faccia più truce, sporca, vigliacca e che, oggi, rifiuta l’etichetta di “razzista”. Una Rosarno dominata dalle ‘ndrine, in cui la parte più civi� le è scomparsa, è rimasta ferma, silenziosa, colpevolmente immobile. Oggi, dopo la cacciata degli immigrati, cerca di riabilitarsi agli occhi del mondo, organizzando manifestazioni tardive, le quali alimentano il sospetto che si tratti di un tentativo per riportare nelle campagne quegli “schiavi” che hanno avuto il coraggio, forse inatteso per qualcu� no, di andarsene, di lasciare i campi senza manodopera, con le arance e i mandarini orfani di mani pronte a raccoglierli, a rischio di marcire a causa dell’assenza di italiani disposti a lavorare duramente, a rinuncia� re all’idea di fare soldi facili e immediati. Gli africani lo dicono in coro: “A Rosarno non torneremo mai più”. Eppure c’è chi prova a convincer� li: sono gli stessi che hanno inscenato la protesta antistraniero, che hanno appoggiato e condotto la caccia all’uomo. In piazza vomitano il loro razzismo, poi in privato continuano a chiamare i ragazzi e li invi� tano a tornare nelle campagne. Lo racconta un giovane del Mali, che parla un francese perfetto, elegante: “Abbiamo sentito che la gente di Rosarno non ci vuole, però continuano a chiamare me e i miei amici per tornare lì a lavorare in campagna. Prima ci fanno la guerra e ci feriscono, poi ci chiedono di tornare per lavorare, perché gli italiani non vogliono lavorare nei campi. Noi, però, siamo andati via e non 137


vogliamo più tornare lì”. Ma cosa accadeva a Rosarno? Qual è la verità rispetto alla presunta bontà dei rosarnesi? È chiaro che le brave persone sono ovunque, ma quel che stranisce è accorgersi che, accanto ai migranti che pro� testavano, non c’era nessun bianco, nessun italiano. Parlando con i ragazzi separatamente, tutti ti dicono la stessa cosa, ti parlano di una realtà invivibile, ostile, violenta con gli africani. Un giovane ivoria� no, ad esempio, mi mostra la grossa ferita che ha in testa, all’altezza delle tempie, e mi racconta la sua brutta esperienza: “Io ero arrivato a Rosarno da 4 giorni. Venivo da Foggia. Mentre andavo al lavoro, per strada si è affiancato un ciclomotore, ho sentito che qualcuno mi chiamava “Nero”, mi sono girato e uno mi ha colpito con una pietra. Erano in due, quello davanti guidava e quello dietro mi ha colpito”. Mi dice anche di essere stato testimone oculare della sparatoria contro gli immigrati da cui è scaturita la rivolta: “Ho visto due persone con una macchina bianca che hanno tirato fuori la pistola e sparato verso gli africani, ferendo un giovane. Ero presente ed ho visto tutto con i miei occhi”. Violenza, ognuno narra la violenza della gente, l’impossibilità per gli africani di camminare per strada senza essere aggrediti. Mi dicono


che, ormai da qualche anno, cercano di uscire “a gruppi di 4 o 5 per� sone, perché se esci da solo o in due è sicuro, quasi automatico, che si viene aggrediti”. Ibrahim, un giovane del Gambia, molto timido e pa� cato, ricorda la sua esperienza più brutta, che lo ha spaventato molto: “Una volta stavo camminando con i miei amici per strada, sul ciglio, quando una macchina che arrivava alle nostre spalle, con dentro due persone, ci ha visto e ha cercato di investirci. Uno dei miei amici è caduto in un fosso”. Ma non c’è solo Rosarno. Alfa, ripercorre, ad esempio, la terribile vicenda vissuta a Corigliano Calabro: “Eravamo un gruppo di 15 africa� ni, abbiamo lavorato per 4 o 5 giorni. Ci dovevano dare in tutto 1500 euro. Abbiamo chiesto i nostri soldi per il lavoro svolto, ma il capo è venuto con 300 euro in tutto. Troppo pochi. Noi non conosceva� mo nessuno lì, non potevamo vivere senza soldi. Abbiamo rifiutato e chiesto che ci pagasse quanto ci spettava. Allora lui ci ha invitato ad aspettare a casa nostra che sarebbe venuto a portarci il resto dei soldi. Lo abbiamo atteso. Lui è tornato con un gruppo di dieci italiani armati di forbici, bastoni e pistole. Hanno sfondato la porta, noi siamo scap� pati. Un nostro amico, però, dormiva, era a letto. Lo hanno trovato e picchiato. Era notte, abbiamo chiamato la polizia ma non rispondeva.


Abbiamo preso tutta la nostra roba per andare alla stazione del treno. Durante il tragitto siamo andati a dormire nel garage di una fabbrica. Di mattina siamo andati alla stazione ferroviaria, abbiamo lasciato la nostra roba lì con qualcuno di noi. Gli altri siamo andati alla centrale di polizia”. Ma la polizia (e non solo essa) non ha fatto nulla, come narra an� cora Alfa: “Ci hanno detto che non potevano fare niente perché il no� stro lavoro era senza contratto. Eppure noi abbiamo raccontato tutto, anche il fatto che il ragazzo ferito, che era stato trasportato di notte in ospedale con l’ambulanza, non è stato visitato da nessuno. È ri� masto lì in barella. Nemmeno il poliziotto di guardia lo ha avvicinato per sapere cosa fosse successo. La mattina qualcuno di noi è andato a trovarlo e ha saputo che nessuno lo aveva visitato. Abbiamo deciso allora di andarcene e di portarlo con noi. Poi, siamo partiti per Rosar� no e lì MSF lo ha visitato e curato”. Medici Senza Frontiere è l’unico aiuto, l’unica presenza accanto ai migranti a Rosarno e in altre zone del Paese. Visitano, curano, assistono gli immigrati. Dopo la rivolta hanno chiesto ai migranti chi fosse pronto ad andarsene e hanno ac� compagnato in auto tutti coloro che volevano raggiungere le stazioni o i porti da cui partire. Un’altra presenza amica a Rosarno è una signo� ra italiana, che tutti gli africani chiamano Mama Africa, la quale ogni domenica, con un gruppo ristretto di volontari, va in paese (la signora vive vicino Rosarno) e cucina per tutti gli immigrati. Per il resto, non c’è nulla, né sindacati, né associazioni, né preti che danno una mano ai migranti. Questo è quanto dicono tutti, pur ribadendo che qualche singola persona che dà un po’ di cibo o ve� stiti c’è anche lì. Ma è poca cosa rispetto all’ostilità dei più, rispetto alla cieca indifferenza, agli occhi chiusi di chi finge di ignorare da anni l’esistenza di una situazione diffusa di schiavismo e di oltraggio alla persona umana nelle campagne e nei casolari o nelle vecchie fabbri� che della città. Ibrahim mi parla di un casolare in cui viveva insieme ai suoi connazionali: “Eravamo 29 persone, vivevamo in un casolare di campagna, una baracca abbandonata, due stanze piccole, senza por� te e finestre. Quando siamo arrivati la casa era tutta sporca dentro. Così l’abbiamo pulita e abbiamo messo i materassi o i cartoni a terra. C’era freddo e per scaldarci accendevamo un braciere”. 140


E la situazione nella vecchia fabbrica abbandonata non era miglio� re, come spiegano alcuni ragazzi: “Eravamo tantissimi - mi dice un gio� vane maliano - più di 300 persone. Quando siamo arrivati abbiamo trovato sporcizia e topi, così ci siamo messi a pulire il posto in cui dor� mivamo. Dormivamo su qualche materasso o sui cartoni, o su alcune brandine che quelli di Medici Senza Frontiere ci hanno dato insieme alle coperte”. “La vita dentro la fabbrica - afferma un ragazzo ivoriano - era molto difficile. Senza acqua, senza luce. L’acqua l’andavamo a prendere in una fontana lì vicino, dove c’era un rubinetto. Era l’unico modo per lavarsi. Poi lì dentro c’era un altro problema. Quando pio� veva, la pioggia entrava dentro dal tetto e cadeva sulla nostra testa. Io dormivo per terra, come la maggior parte di noi, sui cartoni. Il freddo era insopportabile. Molta gente si è ammalata per questo ed è finita in ospedale”. E le condizioni di lavoro non erano certo migliori. L’ora� rio andava dalle 9 alle 11 ore e anche più, a seconda del “padrone”, la paga sempre uguale e misera: 25 euro. Spesso il lavoro non veniva pagato, con vari stratagemmi il “padrone” scompariva: “Può capitare - mi spiega Ibrahim - che lavori con qualcuno che ti dice che ti paga l’indomani e poi non lo vedi più e così non prendi i soldi e non hai nemmeno con chi protestare”. Il reclutamento, come capita in altri posti, avviene la mattina pre� stissimo, attorno alle 5, in alcune piazze, una dentro Rosarno, una sulla strada per Rosarno, “vicino a un grande ponte”. I caporali sono italiani, qualcosa di nuovo rispetto ad esempio a zone come Cassibile (Sr), dove il caporalato è principalmente nordafricano. A Rosarno, ter� ra marchiata dalla ‘ndrangheta, controllano tutto gli italiani. I caporali scelgono e non chiamano sempre gli stessi. Un giorno lavori, un altro no. Nelle campagne, le condizioni di lavoro sono agghiaccianti. Me lo spiega Lamine, un ragazzo giovanissimo: “Durante la giornata di lavo� ro, se hai da mangiare puoi fermarti per consumare il pasto. Non tutti, però, possono mangiare. A volte capita che ti danno qualcosa, altre volte capita che non ti danno niente. Non tutte le persone hanno il cibo con sé, così c’è chi lavora tutto il giorno senza sosta e senza cibo fino alla sera, bevendo solo acqua. È un lavoro pesantissimo. Soprat� tutto c’è molto freddo. Sotto i mandarini è tutto pieno d’acqua. Stai in mezzo all’acqua”. 141


E gli equipaggiamenti, ovviamente, il datore di lavoro non li for� nisce. Lamine e Alfa me lo confermano: “Nessuno ti dà niente, né guanti, né tute, né mascherine, né stivali. Gli stivali li compravamo noi, cinque euro. Anche i guanti li compravamo noi, con i nostri sol� di. C’erano tanti che, però, non potevano comprarseli e così stavano con le scarpe normali, vecchie e basse, e senza guanti, a mani nude, in mezzo all’acqua e al freddo. Erano la maggior parte”. Ovviamente nessuno sapeva a Rosarno, nemmeno la polizia, che “è passata tante volte la mattina dalla piazza dove i caporali ci reclutavano”, si è accor� ta di questo sfruttamento alla luce del giorno. E ancora c’è chi parla di tolleranza zero e di qualche vetrina o macchina rotta o di qualche cassonetto divelto. Ma davvero qualcuno pensa che un essere umano possa accettare a lungo questo schiavismo moderno, l’anacronismo di una “incoscienza civile” che è morta tra la polvere e la terra degli aranceti di Rosarno, in una città violenta, con un comune sciolto per mafia, con bande di balordi che pestano, bastonano, sparano e ucci� dono dei lavoratori che hanno la “colpa” di essere stranieri? Il governo parla di task force, di espulsioni, di presenza dello Stato: ma dov’era lo Stato tutte le volte che dei migranti senza volto sono stati uccisi senza che nessuno se ne occupasse? È accaduto a Rosar� no, ce lo raccontano gli immigrati, quelli che hanno dovuto e saputo scendere in piazza per costringere l’Italia a guardare negli occhi la sua reale meschinità e la sua disumanità, a rendersi conto del suo pro� fondo razzismo, del suo ridicolo cedimento al potere di quattro ma� fiosi, uomini ignoranti e villani che si sentono forti perché il popolino li rispetta e li teme. Gli immigrati ci stanno insegnando cosa significa essere popolo. Chissà se sapremo imparare e ringraziarli. 13 gennaio 2010

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Autori

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parte della redazione di Siciliantago� nista.org. Alcuni suoi testi sono apparsi sui saggi inchiesta “Migranti e Mafie”, “Ombre nella nebbia” e “Le mafie nel pallone”.

Rosario Cauchi Nato a Gela, in provincia di Caltanis� setta, ha conseguito la laurea in Giu� risprudenza presso l’Università degli Studi di Catania. Svolge diverse colla� borazioni giornalistiche. Tra le testate che si avvalgono dei suoi scritti, Sici� liainformazioni.com e Liberainforma� zione.org. Svolge attività, inoltre, anche per conto dell’emittente locale Video 1 Gela e della stazione radiofonica Radio Gela Express. Ha collaborato, inoltre, con il settimanale Il Corriere di Gela e si occupa di una rubrica di storia sociale per conto del mensile Vision. E’ tra i collaboratori del mensile Il Clandestino – con permesso di sog� giorno. Ha pubblicato propri contributi an� che sul mensile Carta e sul portale d’informazione Mafie Holding, fa 148


Massimiliano Perna nato a Siracusa nel 1979. Laureato presso la Facoltà di Scienze Politiche di Catania, lavora come giornalista free-lance. Nel corso della sua attività di inchiesta si è occupato di legalità, ambiente e, soprattutto, di immi� grazione, tematica a cui ha dedicato e dedica particolare attenzione. A partire dal 2004 ha svolto numerose inchieste sul caporalato e sullo sfrut� tamento della manodopera straniera nell’agricoltura. Ha pubblicato con diverse testate nazionali, tra cui l’U� nità e Micromega.net, oltre ad aver collaborato con la trasmissione di Radio Rai Uno “La bellezza contro le mafie”. È autore del saggio “La socie� tà aperta e lo straniero – Migranti tra demonizzazione e integrazione” (Bo� nanno editore, 2008) ed è uno degli autori dello spettacolo teatrale “La giusta parte”, reading contro le mafie

del regista napoletano Mario Gelardi, andato in scena a Napoli nel dicem� bre 2010. Attualmente vive a Milano, dove collabora con il quotidiano online Vivere Club3 e con i mensili Terre di Mezzo ed Altreconomia. Dirige il sito web di informazione e dibattito, www.ilmegafono.org, che ha fondato nel 2006.

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internzionali presso l’Università degli studi di Siena con una tesi su I Sici� liani di Pippo Fava e i giornali che se� guirono.

Giorgio Ruta Vive a Modica, in provincia di Ragusa, ed è nato nell’aprile del 1988. Ideato� re e redattore del mensile modicano Il Clandestino – con permesso di sog� giorno -. Giornale, fondato nel 2006, formato da una redazione giovanis� sima che ha portato avanti inchieste importanti su molti fatti avvenuti nel ragusano. Collabora con Liberainfor� mazione.org, Siciliantagonista.org, Ucuntu.org e con l’emittente telvisiva locale Telenova di Ragusa. Ha scritto pure per il mensile L’Isola Possibile, allegato siciliano del settimanale Left Avvenimenti. Interessato al giorna� lismo d’inchiesta e alle tematiche dell’antimafia e dei migranti. Tra gli organizzatori del festival del giornali� smo di Modica, promosso da Il Clan� destino in collaborzione con Libera, nomi e numeri contro le mafie. Lau� reato in Scienze Politiche e relazioni 150


Francesco Di Martino Fotografo freelance, nasce a Noto (SR), un piccolo paese della Sicilia sud-est, nel 1982. Nel 2000 comincia l’attività di foto� giornalista, collaborando con il quo� tidiano “La Sicilia”, e periodicamente con “Il Giornale di Sicilia” e “La Gaz� zetta del Sud”. Le collaborazioni come freelance si allargano negli anni a testate nazionali: “Il Manifesto”, “Il Corriere della Sera”, “Ansa Sicilia” e il quotidiano “Carta”. Dal 2004 lavora inoltre come fotografo per il portale di eventi “Siciliantagonista.org”. Nel 2007 è ideatore e artista del progetto “Impressioni Siciliane (scomposte)”, una mostra di foto, video e poesie sulla Sicilia sudorientale. Nel luglio 2006 ha lavorato come fotografo di scena del film-inchiesta “13 variazio� ni su un tema barocco. Ballata ai pe� trolieri del val di Noto” realizzato dal�

la Malastrada.film. E’ proprio dopo questa esperienza che si avvicina al mondo del video, collaborando con diversi registi locali e videomaker per la produzione di video clip e film do� cumentari. Nel febbraio 2008 intraprende la rea� lizzazione di un suo lavoro personale, il film documentario “U Stisso Sangu – storie più a sud di Tunisi”, in qualità di autore, operatore e regista, conce� pito per essere prodotto e distribuito dal basso. Nel 2010 è ideatore e autore del li� bro “Sulle Tracce di Felice Pignataro, (Marotta&Cafiero Editori) un tributo fotografico a Felice Pignataro, mura� lista e fondatore del GRIDAS (gruppo risveglio dal sonno) di Scampìa, pro� getto entrato in produzione grazie a 528 quote prenotate attraverso la piattaforma produzionedalbasso. com da 220 co-produttori.

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Giuseppe Portuesi Nasce a Noto (SR) nel 1982 e vive ad Avola (SR). Sin da piccolo è stato attratto dalle immagini. Verso la fine del percorso universitario, l’interesse per l’immagine diventa sempre più forte; infatti terminati gli studi per la laurea di primo livello in scienze del� la comunicazione presso la facoltà di lettere e filosofia di Catania nel 2008, decide di approfondire la sua passio� ne iscrivendosi al biennio specialisti� co di fotografia presso l’Accademia di belle arti di Catania. Inizia un nuovo percorso effettuando una serie di ri� cerche personali sul paesaggio con� temporaneo e su temi che affrontano l’uomo e il rapporto con la società di oggi e viene invitato a partecipare a varie mostre tra cui l’Artefiera di Agri� gento nell’estate del 2009. Sempre nello stesso anno il suo lavoro “As� senze e presenze” viene selezionato

come miglior porfolio 2009 dal grup� po fotografico “Le gru” di Valverde a cui seguirà una pubblicazione sulla rivista Fotoit con un articolo a cura del critico Giorgio Rigon. Contem� poraneamente si mette in gioco col� laborando con riviste varie locali e diventa anche fotografo di eventi di vario tipo. Nel 2010 continua ad ap� profondire le sue ricerche personali e tra queste, il lavoro “Paesaggio di passaggio” viene selezionato per il Premio Nazionale delle Arti ed espo� sto a Napoli nel Giugno dello stesso anno e ad ottobre presso il festival della creatività a Firenze. Sempre nel 2010 si avvicina al documentario e dall’estate ha intrapreso, insieme ad altri, un lavoro antropologico su una comunità siciliana che vedrà la rea� lizzazione di un film documentario e un lavoro fotografico. Nel Febbraio del 2011 inizia a tenere il suo primo workshop di fotografia, occupandosi della parte storica e teorica. Ad Apri� le si laurea in Fotografia con una tesi in cui analizza il territorio della Sici� lia Sud-orientale, ma sotto un nuovo punto di vista, lontano dall’immagine tipica di questa parte dell’isola. 152


Grazie a Gli autori in modo particolare ringraziano: Fabrizio Gatti, Andrea Scarfò, Ilaria Sesana, Stefania Ragusa, Antonello Mangano e Santina Giannone per aver contribuito alla realizzazione di questo libro. Tutti i Migranti che hanno collaborato a questo lavoro raccontandoci la propria storia. Gli autori ringraziano per il supporto: Giovanni Galizia, Salvatore Puma e Francesco Ruta di Chi Vi Service, Nomadica, Terrelibere.org, Il Clandestino, Siciliantagonista.org, Libe� rainformazione, VodiSca, Circolo Di Vittorio di Modica, Coordinamen� to del Primo Marzo, Riccardo Orioles e Ucuntu, Piero Gugliotta e Una nuova Prospettiva, Gianluca Floridia, Modica (RG) e “i scacci”, Asso� ciazione Sciami di Noto, Padre Carlo D’Antoni, Martina Pignataro e il Gridas, Mirella La Magna, Patricia Vinci, Francesco Valvo, Giuseppina Bruno, Giuseppe Spina, Giulia Mazzone, Ilaria Mollica, Mariavittoria Trovato, Antonella Giurdanella, Angela Allegria, Enrica Frasca, Alessio, Nino e Ausilia Ruta.

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INDICE PREFAZIONE

5

PRESENTAZIONE In tutta Italia volano palloncini gialli

11

1° CAPITOLO Storie, le strade del 1° Marzo

21

Cassibile, Siracusa, Catania: una staffetta per i diritti di base

22

Le strade del 1° Marzo corrono a Siracusa

28

Primo marzo sotto il duomo

32

2 CAPITOLO I volti del 1° Marzo

43

Moussa - Un lavoro e un tetto

45

di Fabrizio Gatti, giornalista de L’espresso

di Massimiliano Perna

di Rosario Cauchi - Francesco Di Martino - Giuseppe Portuesi

di Giorgio Ruta - Francesco Di Martino - Giuseppe Portuesi

di Stefania Ragusa - Ilaria Sesana

di Giorgio Ruta - Francesco Di Martino

155


Sirikipa - “Ho rifiutato di imbracciare un fucile e ora mi trovo senza una casa e un lavoro” di Giorgio Ruta

47

Aladin, 22 anni - Lasciare tutto per una vita

49

Balla - Un altare come mensa

51

Alpha, 30 anni - “La Libia è peggio dell’inferno”

55

Adam - Un fucile puntato come paga

57

Ramzi - Un tunisino dall’accento siciliano

61

Edmond - Camerun

63

Hamad - Guinea Conakry

65

Mohamoud - Somalia

67

Rachida - Palestina

69

di Giorgio Ruta - Francesco Di Martino

di Giorgio Ruta - Giuseppe Portuesi

di Giorgio Ruta - Francesco Di Martino

di Giorgio Ruta - Giuseppe Portuesi

di Giorgio Ruta - Francesco Di Martino

di Rosario Cauchi

di Rosario Cauchi

di Rosario Cauchi

di Rosario Cauchi

156


I volti dell’associazionismo

73

Fabio - La medicina come mescolanza di culture

73

Davide - “L’indifferenza ci ucciderà”

75

Giusy Aprile - “Salviamo gli immigrati dalla mafia”

77

Andrea - Grilli aretusei

81

3 CAPITOLO I migranti sul territorio

85

I nuovi schiavi

86

Bosco Minniti, un altare come mensa

88

Mercato e sfruttamento

94

Immigrazione e nuove forme di sfruttamento

98

di Giorgio Ruta

di Giorgio Ruta - Francesco Di Martino

di Giorgio Ruta - Giuseppe Portuesi

di Giorgio Ruta - Francesco Di Martino - Giuseppe Portuesi

di Giorgio Ruta

di Giorgio Ruta

di Rosario Cauchi

di Rosario Cauchi

157


La famiglia Falsone e gli interessi nel “mercato” di migranti

102

Gela, chi bada alle badanti?

104

4 CAPITOLO “Rosarno – Cassibile”

109

Cassibile e le terre del marchese

110

Rosarno

120

Rosarno, impossibile dimenticare

126

Rosarno, la rabbia e la verità

130

La dignità è andata via da Rosarno. Parlano gli immigrati costretti a fuggire dal paese

136

AUTORI

147

RINGRAZIAMENTI

153

di Rosario Cauchi

di Rosario Cauchi

di Massimiliano Perna

di Antonello Mangano - Andrea Scarfò

di Rosario Cauchi - Andrea Scarfò

di Massimiliano Perna - Andrea Scarfò

di Massimiliano Perna - Andrea Scarfò

158



Progetto grafico e copertina di Chiviservice e Giovanni Galizia Finito di stampare nel mese di Aprile 2011 da Arti Grafiche Zaccaria


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