IL TIBURIO FRA REALTÀ E FANTASIA
LA COSTRUZIONE DEL PAESAGGIO LOMBARDO NEGLI SFONDI PITTORICI RINASCIMENTALI
MARTINA MEULLI 830831 - RELATORE ISABELLA BALESTRERI SCUOLA DI ARCHITETTURA URBANISTICA INGEGNERIA DELLE COSTRUZIONI CORSO DI STUDI IN PROGETTAZIONE DELL’ARCHITETTURA POLITECNICO DI MILANO - 2016/2017
TIBURIO BETWEEN REALITY AND FANTASY THE CONSTRUCTION OF LOMBARD LANDSCAPE IN RENAISSANCE PICTORICAL BACKGROUNDS
a cura di Martina Meulli
MPÈRE
AULA A - #1
Comitato Scientifico della collana Ugo Foscolo, corrispondente London Magazine Athanasius Kircher, Collegium Romanum Societatis Jesu Roberto Longhi, Università degli Studi di Bologna Aldo Rossi, Eidgenössische Technische Hochschule Zürich Leonardo Da Vinci, Accademia Vinciana
© 2017 Ampère Editore, Milano Vietata la riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo.
Gaudenzio Ferrari (e Giovanni Battista della Cerva), Ultima Cena, 1541-42, Milano, Santa Maria della Passione.
Ampère Editore sede legale: via Ampère, 2 - 20133 Milano tel.: +39 02 29158828 e-mail: info@ampèreeditore.com www.ampèreeditore.com
ISBN: 978-12-34567-89-1
I N DI CE
Abstract
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Il tiburio fra realtĂ e fantasia. La costruzione del paesaggio lombardo negli sfondi pittorici rinascimentali
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Analisi
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Indice degli autori
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Bibliografia
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Sitografia
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A B S T R ACT
The origin of landscape in art coincides with the beginning of the Renaissance period. Views of natural spaces or cities can be seen inside pictorial backgrounds. This study examines the ability of Po valley’s painters to build a lombard landscape through symbolic and recognizable images. In addition to natural elements, such as the presence of water or the Prealpine highlands, local architecture plays an important role. By observing Renaissance paintings today, it is possible to spot cities and towers, bridges and walls, domes and tiburi. The relationship between the elements of the last couple is symptomatic of the aesthetic and constructive heated debate between the fiftheen and sixteenth centuries in Lombardy. Taking into account a dozen of paintings from that era which depict tiburi “alla lombarda”, the study focuses on the role of this architecture in shaping a local identity. Distinguishing between architectural objects that recall reality and elements of pure imagination, it is possible to discover complex issues about the circulation of ideas, projects, programs, and hence the relationship between different arts and cultural dimensions.
L’ origine del paesaggio nell’arte coincide con gli inizi del Rinascimento. All’interno degli sfondi pittorici si inseriscono vedute di spazi naturali o scorci di città. Lo studio si interroga sulla capacità degli artisti lombardi di costruire il paesaggio locale per mezzo di immagini simboliche e riconoscibili. Oltre agli elementi naturali, l’acqua o le alture prealpine, l’architettura del tempo ha svolto un ruolo determinante. Osservando i dipinti rinascimentali oggi è ancora possibile individuare città e torri, ponti e mura, cupole e tiburi. Il rapporto tra gli elementi di quest’ultima coppia è sintomatico del dibattito estetico e costruttivo accesosi fra Quattro e Cinquecento in Lombardia. Prendendo in analisi una dozzina di dipinti dell’epoca che recano rappresentazioni di tiburi “alla lombarda”, lo studio indaga il ruolo di questa architettura nella costruzione di un’identità territoriale. Distinguendo tra oggetti architettonici con richiamo alla realtà ed elementi di pura fantasia, si possono scoprire questioni complesse che parlano di circolazione di idee, progetti, programmi, e quindi di rapporti fra arti e dimensioni culturali diverse.
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IL TIBURIO FRA REALTÀ E FANTASIA. LA COSTRUZIONE DEL PAESAGGIO LOMBARDO NEGLI SFONDI PITTORICI RINASCIMENTALI
Paesaggio e Rinascimento Il paesaggio è la scena della vita di un territorio. È influenzato dalle caratteristiche del terreno e dal clima, dalla vegetazione e dalle strutture insediative prodotte dall’uomo. È una quinta in continua mutazione, oggetto di complesse trasformazioni. Il paesaggio è un’entità molteplice, ricchissima di articolazioni, ma unica e ben individuabile. Storicità e paesaggio devono essere compresi in una sottile, dinamica relazione. Il paesaggio «non è legato alla storia soltanto perché nei paesaggi si imprime il segno della presenza dell’uomo e della sua attività, perché in esso si vanno a inserire monumenti o rovine [...]. Il paesaggio è storico anche perché è sempre visto attraverso gli occhi dell’osservatore, che non sono mai innocenti ma sempre condizionati da un gusto, una poetica, un’idea di ciò che il paesaggio deve essere»[1]. Lo spazio dedicato al paesaggio negli scritti di epoca rinascimentale non dimostra la ricerca estremamente profonda che traspare nei dipinti coevi, ma le problematiche quattro-cinquecentesche sul ruolo del disegno e della prospettiva nella creazione di una rinnovata immagine del paesaggio non sono state trascurate dagli storici dell’arte moderni. Ernst Gombrich, nell’analisi dell’origine del paesaggio nell’arte, sostiene che «il paesaggio così come ci è noto non si sarebbe mai potuto sviluppare al di fuori delle concezioni artistiche maturate in seno al Rinascimento italiano»[2]. Lo storico dell’arte Pierre Francastel afferma con convinzione che nel primo Rinascimento il paesaggio non poteva ancora esistere come vero soggetto pittorico. Esso si identificava con i “lontani”, intesi come ritagli all’interno della rappresentazione. Per organizzare queste aperture della scena verso uno spazio naturale o uno scorcio di città, gli artisti utilizzavano il sistema della “selezione dei piani” e la “veduta”. Essi riducevano l’immagine di ampie distese in una sezione, oppure trattavano le lontananze come vedute frammentarie, inserite tra elementi di primo piano, cercando di conferire un’unità visiva alle varie parti, ma senza sottoporre la scena ad alcun modulo dimensionale. La “veduta” serviva, in ogni caso, ad articolare la rappresentazione e
1. P. D’Angelo, Filosofia del paesaggio, Macerata, Quodlibet Studio, 2010, p. 30. 2. E. Gombrich, Norm and Form. Studies in the Art of the Renaissance, Phaidon, London, 1966, trad. it. Norma e Forma. Studi sull’arte del Rinascimento, Einaudi, Torino, 1973, il cap. La teoria dell’arte nel Rinascimento e l’origine del paesaggio, p. 117.
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3. P. Francastel, Peinture et Société. Naissance et destruction d’un espace plastique. De la Renaissance au Cubisme, Audin, Lyon, 1951, trad. it. Lo spazio figurativo dal Rinascimento al Cubismo, Einaudi, Torino, 1967, pp. 61-62. 4. R. Dubbini, Geografie dello sguardo. Visione e paesaggio in età moderna, Torino, Einaudi Editore, 1994, p. XV. 5. L. Patetta, Il rapporto tra pittura e architettura dal Rinascimento al Romanticismo, Milano, Civica Biblioteca d’Arte, 2000, p. 1.
non a introdurre nuovi soggetti[3]. Si può asserire che il paesaggio, nelle sue prime autorevoli manifestazioni artistiche, nasce indipendentemente dal soggetto, al quale è tuttavia necessariamente legato, e che la sua evoluzione avviene all’interno dei meccanismi della rappresentazione sulla base di modalità autonome, in virtù di specifici principi visuali. L’invenzione del paesaggio occidentale coincide quindi con l’elaborazione della “veduta”, spazio interno al quadro ma che lo apre verso l’esterno. Così, per provare ad indagare sulla volontà dei pittori del tempo di rappresentare la loro terra d’origine per mezzo di elementi simbolici forti, si è scelto di osservare la nascita di questo fenomeno da un punto di vista specifico, restringendo i limiti temporali e geografici alla sola Lombardia rinascimentale. L’incipit del volume di Renzo Dubbini sull’analisi dello sguardo sul paesaggio in età moderna è ispiratore del metodo da seguire. L’autore sostiene che «affrontare un grande tema da un’angolatura molto particolare può servire talvolta a ridefinire i confini di un campo di indagine e a rimettere in gioco oggetti e problemi poco esplorati, se non del tutto trascurati, permettendoci di lavorare con maggiore curiosità in un quadro storico apparentemente “immobile”, definitivo»[4]. Grazie alla scelta di una particolare chiave di lettura nell’approccio ai grandi capolavori pittorici del Rinascimento lombardo, è sembrato possibile far emergere una visione complessa ed organica della realtà storica, culturale e artistica del periodo. Ci si è rivolti al “secondo piano”, osservando tutto ciò che a prima vista non si coglie, per portare alla luce gli elementi essenziali per l’identificazione di un territorio. Negli sfondi pittorici, oltre al paesaggio naturale, sono rappresentati elementi architettonici: città, villaggi, edifici isolati, ponti. Il rapporto tra pittura e architettura dal Rinascimento in avanti è sicuramente complesso ma molto presente. L’intreccio, la convivenza tra i due mondi si sviluppa in modi molto differenti: da un’attenzione documentaria spiccatissima, che usando un termine moderno potremmo chiamare “realistica”, fino a un mondo d’invenzione, con architetture fantastiche ed inventate[5]. Nella nostra analisi lo sguardo si focalizzerà su un preciso oggetto architettonico: il tiburio “alla lombarda”. Si proverà a capire come e perchè gli artisti del tempo l’avessero eletto ad elemento identificativo per costruire il paesaggio della pianura Padana.
Il paesaggio nella pittura rinascimentale lombarda Il paesaggio lombardo del Rinascimento è il luogo dei grandi laghi e delle pianure di origine alluvionale. È la patria dei corsi d’acqua
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moltiplicati in una fitta rete di canali irrigatori dall’ingegno idraulico dei monaci del luogo. È la regione delle montagne della fascia prealpina. È l’area delle città fortificate del Ducato di Milano, dei Visconti prima e degli Sforza poi. È anche la culla dei cosiddetti tiburi “alla lombarda”. È questo il paesaggio che viene rappresentato negli sfondi dei dipinti rinascimentali realizzati dai pittori della vasta area padana. Montagna e pianura si alternano negli sfondi pittorici lombardi. I fiumi e i laghi incidono profondamente e la presenza dell’acqua è caratteristica quasi simbolica nella rappresentazione della piana irrigua. Figura fondamentale nella transizione fra Tardogotico e incipiente Rinascimento è quella di Vincenzo Foppa (1427-1515). Nel superbo ciclo steso in onore di San Pietro martire nella cappella Portinari presso Sant’Eustorgio si intreccia il canto più genuino dell’anima lombarda, in un paesaggio quale più vero non si saprebbe immaginare[6]. Non si tratta di surrogati esornativi o di abbellimenti di maniera: il maestro bresciano rimanda sempre le sue invenzioni ad una precisa contingenza storica e ambientale, che è quella tipica e inconfondibile delle valli prealpine. È fuor di dubbio che lo squarcio paesaggistico di stupefacente verità che commenta il Martirio di San Pietro da Verona è da considerarsi fra le invenzioni più moderne, attuali, che la pittura quattrocentesca ci abbia tramandato, in Italia e fuori[7]. I più importanti pittori tardo-quattrocenteschi sono tutt’altro che insensibili alle nuove ondate di cultura rinascimentale, con particolare riguardo all’intima strutturalità di Donato Bramante (1444-1514) e alla panteistica vitalità di Leonardo da Vinci (14521519)[8]. Così, la cultura figurativa lombarda entra in rapporto con la razionalità “moderna”, di matrice toscana, nella persona di due dei suoi massimi protagonisti. L’arrivo del toscano Leonardo presso la corte sforzesca nel 1492 e la sua interpretazione originale del paesaggio influenzano la pittura lombarda del Cinquecento. Leonardo rimane affascinato dalla labilità e indeterminatezza dell’orizzonte lombardo, dalla sua atmosfera cangiante, che diventano elementi fondanti del suo stile inconfondibile. Emblematica è la celebre Vergine delle Rocce, prima opera pittorica di Leonardo a Milano, testimonianza dell’affermarsi e dello svilupparsi della sua maniera, simbolo del percorso pittorico, intellettuale e poetico che Leonardo compie in contatto con l’ambiente lombardo. In realtà, anche se non mancano affatto episodi di piena adesione ai modi introdotti da Leonardo, larga parte dell’arte figurativa cinquecentesca lombarda opera una sorta di “resistenza”. L’accostamento dei nomi di Foppa e Leonardo non ha solo valore cronologico, ma individua due poetiche alterne, a volte risolte in
6. C. Pirovano, La pittura in Lombardia, Milano, Electa Editrice, 1973, p. 64. 7. C. Pirovano, Ambiente e paesaggio nella pittura preleonardesca, in C. Pirovano (a cura di), Lombardia. Il territorio, l’ambiente, il paesaggio. Dalle incisioni rupestri alla sintesi leonardesca, Milano, Electa, 1981, pp. 212-221. 8. ivi, p.221.
Vincenzo Foppa, Martirio di San Pietro da Verona, 1464-1468, Milano, Sant’Eustorgio.
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9. C. Pirovano, Ambiente e paesaggio..., p. 221. 10. ivi, p. 234. 11. M. T. Fiorio, Ambiente e paesaggio nella pittura lombarda del Cinquecento: convenzioni, immaginazione, realtà, in C. Pirovano (a cura di), Lombardia. Il territorio, l’ambiente, il paesaggio. Dalle incisioni rupestri alla sintesi leonardesca, Milano, Electa, 1981, p. 180. 12. ivi, p. 182. 13. ivi, pp. 204-209. 14. ivi, p. 196.
Andrea Solario, Assunzione, 1464-1468, Certosa di Pavia.
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modo complementare e sinergetico dai pittori coevi, più spesso mutuamente escluse[9]. Alla naturalezza dell’ambiente foppesco si attiene, sviluppandone analiticamente ogni potenzialità, la pittura di Ambrogio da Fossano detto il Bergognone (1453-1523). La connotazione minuziosa degli elementi del paesaggio non è mai imprevista, impressionistica o frammentaria incidenza ottica, ma opera nel senso di connotazione emblematica, di entità inconfondibilmente caratterizzata[10]. La percezione dell’ambiente in termini di approccio realistico, di descrizione fedele dei luoghi, è il contributo più nuovo di questi artisti. Ad essi si ricollega la visione di Bernardino Luini (14811532), forse l’interprete più fedele dei caratteri genuini della terra lombarda. I paesaggi del Luini solo raramente accettano l’impostazione leonardesca del frammento luminoso visto al di là delle quinte in ombra delle rocce, più spesso si dispiegano come un “continuo” in cui le scene avvengono in successioni dolcemente naturali[11]. Autore di alcune tra le descrizioni dell’ambiente padano più veritiere del tempo, negli sfondi del Luini sono facilmente riconoscibili le campagne lombarde ai piedi delle Prealpi. Una tale sincera commozione di fronte ai luoghi familiari e simili accenti di verità descrittiva si ritrovano forse solo nelle opere bergamasche nel decennio tra il 1515 e il 1525 di Lorenzo Lotto, anche se sensibile al paesismo düreriano[12]. La circolazione delle stampe di Albrecht Dürer (1471-1528) influenza la visione del paesaggio nell’area della piana irrigua. Sono ambienti di una vastità nuova, sottilmente indagati nei dettagli morfologici, nel ripetersi degli arbusti tondeggianti e minuti sui profili dei colli, nei cirri gonfi che annuvolano il cielo calati in una luminosità tersa. Questi modi trovano momenti di parallelismo con l’indagine leonardesca, che toccano direttamente la ricerca figurativa di Andrea Solario (1470-1524)[13]. Nella sua ultima opera, l’Assunzione della Certosa di Pavia, si apre un paesaggio grandioso, con un senso di immensa distanza, che, se pure si vale di dettagli reali, resta nel suo insieme del tutto fantastico, nato non dall’osservazione diretta ma dalla riflessione su diversi modelli culturali[14]. Fino agli inizi del Seicento, la lettura dell’ambiente lombardo assumerà declinazioni diverse, alternando descrizioni veritiere dell’ambiente a reinvenzioni e rivisitazioni di paesaggi reali. Così, i “lontani” raffigurati negli sfondi delle immagini sacre quattro-cinquecentesche divengono il luogo di sperimentazione per alcuni dei maggiori artisti del Rinascimento italiano, capostipiti di un nuovo genere artistico. Le numerose “vedute”, inoltre, costruiscono un’immagine comune, codificata del paesaggio lombardo, un testamento storico della vita del suo territorio.
La rappresentazione delle città e dell’architettura lombarde nella pittura di paesaggio Il paesaggio lombardo rinascimentale oltre ad essere verde, leggermente sfumato da un tipico velo di nebbia, è anche un paesaggio notevolmente antropizzato, in cui si legge distintamente l’intervento dell’uomo. È inevitabile raffigurarne le città, i castelli arroccati o i borghi di campagna. «Il paesaggio urbano è la scena di vita economica e sociale degli uomini. Una vita che si modifica nel tempo, come la sua scena, oggetto di trasformazioni per addizioni o elisioni»[15]. È un paesaggio fatto di uomini e dagli uomini. È un paesaggio costruito, fortificato, abitato. Nei dipinti quattro-cinquecenteschi le città sono rappresentate per mezzo di simboli: le mura, le torri, le cattedrali, le cupole. La presenza dell’uomo è quasi solamente evocata dall’idea della città. Nella già citata Cappella Portinari, Vincenzo Foppa non si limita alla sola raffigurazione degli ambienti naturali lombardi ma costruisce sfondi architettonici e scene di vita urbana. Lo sfondo de Il miracolo della nube è l’immagine di una città che a metà del XV secolo non poteva esistere poiché squisitamente classica. Si tratta di un programma architettonico, urbanistico ed estetico di raffinata propaganda rinascimentale. Qui è ritratta l’idea di città classica ma moderna propria dell’artista e sicuramente del suo committente[16]. Della generazione successiva al Foppa, e probabilmente allievo di questo, il Bergognone elimina totalmente la tensione propagandistica dai suoi sfondi. I suoi paesaggi urbani sono estremamente verosimili, rappresentati come una descrizione statica[17]. Un terzo del dipinto Sant’Ambrogio e l’imperatore Teodosio è dedicato alla raffigurazione di una scena cittadina milanese. Sul fondo è chiaramente riconoscibile la chiesa di Santa Maria Maggiore, dietro la quale emerge il campanile di San Gottardo. Nella Madonna del latte, oggi all’Accademia Carrara, si apre uno scorcio di contadinesco cascinale lombardo, illuminato dolcemente[18]. Il più delle volte però le sue “vedute” sono riquadrate, non si fondono con il resto della rappresentazione, occupano uno spazio geometrico ben preciso. Sembrano incisi di pura contestualizzazione, parentesi per caratterizzare i luoghi in cui si svolgono le scene. In linea con le opere d’arte di “resistenza”, che si oppongono alle innovazioni paesaggistiche leonardesche, si impone anche, nei primi anni del secolo, il gran ciclo degli Arazzi Trivulzio di Bartolomeo Suardi detto il Bramantino (1465-1530). Lo scenario dei Mesi, che vanta una nutrita tradizione medievale, trova qui una delle sue interpretazioni più originali. Difatti «la monumentalità dell’impianto spaziale, la preponderanza di architetture e
15. V. Vercelloni, Atlante storico di Milano, città di Lombardia, Milano, L’Archivolto, 1987, p. 5. 16. ivi, p.16. 17. ivi, p.17. 18. C. Pirovano, La pittura in Lombardia, p. 80.
Vincenzo Foppa, Il miracolo della Nube, 1464-1468, Milano, Sant’Eustorgio.
Ambrogio da Fossano detto il Bergognone, Madonna del latte, 1488-1490 , Bergamo, Accademia Carrara.
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19. M. T. Fiorio, Ambiente e paesaggio..., p. 169. 20. ivi, pp. 169-176. 21. ivi, pp. 181. 22. V. Vercelloni, Atlante storico di Milano..., p. 15.
Bernardino Luini, Compianto di Cristo, 1510, Milano, Santa Maria della Passione.
Bernardino Luini, Venere, 1520-1532, Washington, National Gallery of Art.
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d’interni in uno svolgimento tematico che, per sua stessa natura, postulerebbe piuttosto una predilezione per gli spazi aperti della campagna, denunciano la particolare posizione dell’artista, attratto verso un’organizzazione spaziale di carattere architettonico anziché verso le posizioni naturalistiche tipiche»[19]. La posizione del Bramantino nei confronti del paesaggio urbano è di relativa indifferenza verso la rappresentazione di luoghi reali, preferendo utilizzarlo come semplice quinta scenica che costruisce lo spazio e ne aumenta il valore strutturale. Tale visione paesistica è evidente nella città che delimita lo sfondo della Crocefissione di Brera. Muta, spopolata, compatta, la città, carica di significati simbolici, si impone come riflessione sull’idea di città, su un modello irrealizzabile, sogno utopistico di un architetto-pittore[20]. Gli esordi di Bernardino Luini si riallacciano al Bramantino. Nel fondo del Compianto di Cristo della chiesa di Santa Maria della Passione compare una città ispirata alle architetture bramantiniane, geometrica e monumentale, in forte contrasto con l’affettuosa osservazione dei personaggi e con i molti spunti naturalistici. È questo però un monumento isolato e irripetuto, un puro omaggio ad un artista con cui ebbe occasioni di collaborare, ma la cui visione, fatta eccezione per gli impianti spaziali, è radicalmente diversa[21]. Difatti le sue “vedute” di città sono immerse nel paesaggio naturale, con il quale sembrano fondersi. Nella sua Venere, le arroccate cittadelle sullo sfondo si mimetizzano con l’ambiente, ne imitano i colori, i materiali, le forme. «Sono le fonti iconografiche che esprimono forse il senso più profondo di una città, sia quando la raffigurano simbolicamente, sinteticamente, sincronicamente, come un manufatto unitario, sia quando colgono un monumento e il suo contesto nella forma del paesaggio urbano»[22]. Le “vedute” urbane rinascimentali rappresentano scene della città reale e della città immaginata, tra loro amalgamate, in cui si intrecciano le presenze di improbabili edifici antichi, perfettamente conservati o fascinosamente in rovina, di monumenti architettonici o di edilizia comune, esistenti o solo possibili, con riferimenti diretti alla cultura classica. Così, dietro le spalle di ieratici santi e delicate Madonne, si costruisce l’identità dell’architettura lombarda, l’immagine del paesaggio urbano della valle del Po.
Tiburi “alla lombarda” e cupole estradossate come soggetti privilegiati Ma quali sono gli oggetti architettonici con cui si può identificare una veduta? Quali sono i punti nevralgici per la costruzione di un paesaggio lombardo? Ci sono dei simboli, delle icone, elementi
elevati e rappresentativi. Tra questi le torri, i campanili, le fortezze arroccate, ma soprattutto le cupole. Parlare di cupole in Lombardia è questione complessa. Difatti la cultura architettonica locale preferisce fin dall’antichità la soluzione intradossata, nascosta dai cosiddetti tiburi “alla lombarda”. Una soluzione così tradizionale da prendere il nome dalla sua terra e che comporterà una crisi profonda con l’influenza tardo-cinquecentesca delle cupole estradossate romane. Non si conosce l’origine etimologica esatta della parola tiburio. Secondo alcuni deriva dal latino medievale tiburium, che potrebbe provenire dal latino tigurium che significa grotta oppure da tugurium che identifica un’edicola sacra. Spesso è collegato al vocabolo ciborium, elemento architettonico costituito da un baldacchino a pianta quadrata la cui copertura è sostenuta da quattro montanti angolari, sotto cui si posiziona l’altare. Forse il termine più utile è il verbo tego che significa coprire, nascondere, celare. Il tiburio è del tutto assente nella trattatistica classica; Filarete ne parla genericamente, riferendosi ad esso solo come «tribuna». Nel Medioevo viene spesso impropriamente chiamato caelum nel significato di cupola. Nei trattati rinascimentali il tiburio viene erroneamente definito tholo o ecuba. La storiografia dell’Otto-Novecento è piuttosto confusa nel definire l’elemento architettonico nelle sue caratteristiche strutturali e si riferisce ad esso semplicemente come cupola. Il disorientamento si protrae anche in manuali e dizionari architettonici moderni, seppur se con sottili raffinatezze: nel noto libro Lombard Architecture[23], Artur Kingsley Porter chiama il tiburio «cupola lombarda». «Il tiburio consiste nella stretta connessione di due parti, la volta o cupola lombarda (per lo più a padiglione) e il tetto, connessione strutturalmente realizzata da una trave o cerchionatura ottogonale alla base e dagli speroni negli spigoli, per una migliore ripartizione dei carichi. Gli speroni o sproni (che rimandano alla lontana a quelli brunelleschiani nella cupola di Firenze) permettono al tiburio, insieme ad altri collegamenti, di comportarsi in parte come una doppia calotta»[24]. Il tiburio è un elemento strutturale, di costruzione. Negli anni in cui non vi erano certezze universalmente accettate sulle leggi della statica, questo sistema permise la risoluzione di uno dei problemi strutturali più importanti in architettura: la costruzione di cupole. Il tiburio in Lombardia compare già nel IV-V secolo per coprire battisteri, sacelli, mausolei. Numerosissimi sono i tiburi romanici, tredici solamente a Milano e dintorni, primo fra tutti quello di Sant’Ambrogio. La Lombardia è il più fervido centro di riflessione sugli organismi cupolati del secondo Quattrocento. «Alla tradizione locale,
23. A. K. Porter, Lombard Architecture, New Haven, Yale University Press, 1915. 24. L. Patetta, Permanenze ed evoluzione del tiburio lombardo, in M. C. Loi, L. Patetta (a cura di), Tradizioni e regionalismi nel primo Rinascimento italiano, Milano, Unicopli, 2005, p. 35.
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25. F. Bellini, Bramante milanese e il tema dell’organismo cupolato, in F. Bellini, Arte Lombarda. Bramante a Milano e l’architettura fra Quattro e Cinquecento, Milano, Vita e Pensiero, 2016, p. 125. 26. L. Patetta, Permanenze ed evoluzione..., p.36. 27. ivi, p. 40.
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che andava dal paleocristiano al tardogotico, i maestri fiorentini avevano aggiunto i tipi dell’avanguardia brunelleschiana, in particolare quello della Sagrestia Vecchia, dando luogo a tentativi sincretici faticati ma vividi»[25]. È questo il panorama eterogeneo che Donato Bramante si trova di fronte per oltre vent’anni, confrontandosi con otto organismi cupolati ai quali contribuisce in varia misura. Tra questi non manca la soluzione “alla lombarda”, come nella tribuna di Santa Maria delle Grazie o nel progetto elaborato per il Duomo di Milano. «Il tiburio è uno degli esempi più perfetti di elemento tipologico, che mai si riduce ad un vero e proprio modello. Infatti, c’è una coerente e precisa funzione, ma non c’è un tiburio uguale all’altro, né di forma né di struttura: è dunque una tipologia formale e costruttiva»[26]. Le variazioni del tema sono infinite. Il tiburio non è una tipologia ma una grande famiglia composta da tanti organismi diversi ma simili. Va interpretato come un elemento autonomo rispetto all’organismo architettonico. Ciò è evidente nelle due produzioni più importanti, quella dei tiburi romanici, che vengono aggiunti nell’XI e nel XII secolo alle basiliche paleocristiane che ne erano prive, e quella dei tiburi rinascimentali, che con poche eccezioni permangono come elementi architettonici legati alla tradizione rispetto alle tipologie e alle concezioni spaziali del tutto nuove di chiese e cappelle. «Per gli architetti lombardi del primo Rinascimento e per i forestieri attivi a Milano e in Lombardia il tiburio ha costituito la soluzione costruttiva più naturale per coprire lo spazio all’incrocio tra navata centrale e transetto sopra l’altare o per concludere il volume di una pianta centrale»[27]. È normale però che la conferma dell’elemento strutturale coincida con un rinnovamento del linguaggio architettonico e degli elementi decorativi, pur conservando quasi sempre i materiali costruttivi. La principale novità rinascimentale è la lanterna, collocata alla sommità della volta e presente in tutte le realizzazioni. Ma il tiburio ha un’immagine simbolica talmente forte da essere utilizzato anche in modo autonomo dalla struttura. Gli architetti quattrocenteschi avevano osservato i tiburi romanici di Milano, Como, Pavia e tutti i più importanti cantieri lombardi, avevano imparato le loro leggi strutturali, avevano compreso la loro importanza e li avevano ripensati in maniera moderna, con un nuovo linguaggio architettonico e decorativo. Se si considera solo il Quattrocento e i primissimi anni del Cinquecento vengono costruiti in Lombardia trentacinque tiburi, di cui dodici solo a Milano. Alle realizzazioni vanno aggiunti i progetti e i modelli di Filarete, Leonardo e Bramante. I numeri sono impressionanti e dimostrano la valenza simbolica di questo elemento.
Solo negli anni Sessanta del XVI secolo la tradizione del tiburio “alla lombarda” incontra una crisi, una rottura. L’influenza dell’architettura romana dà origine alla prima apertura nei confronti di tradizioni “straniere”, che introduce nella cultura architettonica locale una profonda dicotomia tra tradizione e cambiamento. La novità è duplice, quella delle cupole parzialmente estradossate, connesse al modello del Pantheon e dello studio di Bramante per San Pietro, e quella della cupola interamente estradossata, con riferimento al progetto di Michelangelo per San Pietro[28]. I primi a diffondere nell’Italia settentrionale la cupola estradossata sormontata da lanterna ed imposta su un tamburo finestrato sono Galeazzo Alessi (1512-1572) a Genova e Pellegrino Tibaldi detto il Pellegrini (1527-1596) a Milano, anche se non si rinnega totalmente il tiburio “alla lombarda”. Al contrario Francesco Maria Ricchino (1584-1658) sceglie sempre la soluzione tradizionale anche se con alcune eccezioni per organismi cupolati però mai realizzati[29]. L’incapacità di scegliere una direzione privilegiata non è dovuta solo a questioni estetiche ma soprattutto ai grandi problemi strutturali derivati dalle nuove tipologie di cupole. Gli architetti e i costruttori lombardi non erano affatto familiari alle nuove strutture e alla loro costruzione, mentre si sentivano sicuri e certi delle leggi statiche relative ai tiburi. L’immagine simbolica del tiburio in Lombardia è strettamente legata alla tradizione costruttiva lombarda e al suo largo impiego come soluzione di natura statica.
28. I. Giustina, On the art and the culture of domes. Construction in Milan and Lombardy in the late sixteenth and in the first half of the seventeenth century, in Proceedings of the First International Congress on Construction History, Madrid, S. Huerta, 2003, pp. 1034-1035. 29. ivi, p. 1035. 30. M. Jakob, Le paysage, Gollion, Infolio, 2008, trad. it. Il paesaggio, Bologna, Il Mulino, 2009, pp. 30-31.
La costruzione del paesaggio: circolazione delle idee e rapporti tra le arti È interessante analizzare la questione anche dal punto di vista dei pittori attivi in Lombardia a quel tempo. I tiburi vengono riconosciuti per la loro importanza e diventano soggetti privilegiati per la rappresentazione del paesaggio lombardo. Si tratta di un paesaggio scelto, creato attraverso la dominazione dell’arte. Si rappresenta un modo di vedere, di pensare, di costruire. Si raffigurano la cultura e la tradizione di un luogo. Se per gli architetti e i costruttori si tratta di un problema prettamente statico, per i pittori riguarda solo la costruzione di un paesaggio. La domanda sorge spontanea: come si costruisce un paesaggio pittorico? Possiamo banalmente affermare che il paesaggio è un brano di territorio che si coglie in un solo colpo d’occhio. Nella pittura rinascimentale è costituito da una relazione, un legame tra soggetto e natura. Non c’è paesaggio senza natura ma soprattutto non c’è paesaggio senza soggetto[30]. In alcuni casi però c’è un ulteriore elemento costitutivo: l’architettura. Insieme ai soggetti
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31. M. Jakob, Le paysage, p. 57. 32. E. Norgate, in M. Hardie (a cura di), Miniature or the Art of Limning, Oxford, Oxford University Press, 1919, p. 49.
Bartolomeo Suardi detto il Bramantino, Madonna in trono col Bambino, due angeli e i Santi Ambrogio e Michele (Madonna delle torri), 1505-1519, Milano, Pinacoteca Ambrosiana.
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religiosi, mitici o politici, gli oggetti architettonici costruiscono l’identità di un luogo. I personaggi e le architetture sono facilmente identificabili e la loro presenza permette di far acquisire un senso a ciò che li circonda, ovvero la natura, il paesaggio. Questo spiega la profonda teatralità del genere: il quadro è come una scena sulla quale il significato del piano di sfondo, così importante, si rivela attraverso i messaggi inviati dalle figure umane e le informazioni suggerite da quelle architettoniche presenti sulla scena[31]. Il genere prevede quindi la presenza obbligatoria di queste figure nella natura, riducendo il paesaggio «al servizio degli altri elementi, al fine di illustrare o di fornire un quadro per le pitture storiche»[32]. Emblematica è la sublime Madonna delle torri di Bramantino, dove addirittura la natura è superata e il fondale è costituito da architetture immaginarie. Alcuni personaggi sono facilmente riconoscibili grazie ai colori dei loro abiti o agli oggetti che portano in mano, altri sono suggestioni allegoriche, primo fra tutti il singolare rospo rovesciato che simboleggia il demonio sconfitto. Sullo sfondo una città metafisica, surreale, ma al centro della quale si erge un’enorme edificio a pianta centrale coperto da un tetto a falde e sormontato da un lanternino. Un dipinto suggestivo, ideale, databile tra il 1505 e il 1519, nel quale sono chiaramente espressi i caratteri del paesaggio urbano lombardo, costruito attraverso le tecniche pittoriche rinascimentali. Sappiamo con certezza che gli architetti visitavano le città e i cantieri più importanti per trarvi insegnamento e ispirazione. Allo stesso modo i pittori rinascimentali, spinti da curiosità e sete di conoscenza, si spostavano, viaggiavano ed entravano in contatto fra di loro. In questo modo si favoriva la circolazione delle idee. Abbiamo visto l’impatto rivoluzionario che ebbe la permanenza di Leonardo a Milano. L’arrivo di forestieri dalla Toscana, da Venezia o da Urbino comporta cambiamenti ed innovazioni. Il mondo toscano feconda l’arte lombarda, permettendo il passaggio dalla tradizione tardo-gotica alle nuove idee rinascimentali. Masolino arriva in Lombardia negli anni Venti del Quattrocento e determina un’immediata influenza di novità. Sarà poi Foppa ad apprendere per primo la lezione rinascimentale, recandosi nella centrale di rivoluzione artistica che è la bottega di Francesco Squarcione ed Andrea Mantegna a Padova. Qui accorrono pittori da ogni dove, attratti dalla nuova visione del mondo e affascinati dalle meraviglie dell’età antica rinata, che lo stesso Mantegna aveva appreso da Donatello a Firenze. Mantegna sarà il motore che dal Veneto darà energia e movimento a tutti i grandi pittori. Quando poi si entra nel pieno del Rinascimento lombardo non si possono trascurare le figura di Donato Bramante, architetto e pittore urbinate ma attivo a Milano, e di Leonardo da Vinci, diviso tra
Toscana e Lombardia. Entrambi influiscono in maniera decisiva sia in architettura che in ambito pittorico, costituendo due diverse scuole di pensiero. Il “leonardismo” lombardo influenza numerose figure, tra cui Cesare da Sesto, Solario, Marco d’Oggiono o Luini, che raccoglieranno l’eredità del grande maestro toscano. Bramantino invece elabora in forme lombarde la monumentalità del Bramante, prendendo il suo nome già in vita. Possiamo suppore poi che i pittori, o almeno alcuni di essi, viaggiassero molto più degli architetti. Questi ultimi erano spesso legati a cantieri di lunga durata e dai quali non potevano allontanarsi. Nel mondo della pittura le commissioni erano più brevi e questo permetteva spostamenti e viaggi all’estero, non solo nei luoghi più prossimi. Abbiamo visto alcune delle più importanti rotte che univano il resto della penisola alla Lombardia. Ma i viaggi non si limitavano all’Italia, molti pittori raggiunsero l’Europa, recandosi in Francia o nei Paesi Bassi. Sappiamo già che le idee di Dürer circolavano ed influenzavano la raffigurazione del paesaggio padano. Inizia così una commistione di visioni, di rappresentazioni. Dal tradizionale realismo lombardo si passa alla rappresentazione di luoghi immaginari ed ideali. Nasce il gusto per le rovine, per gli edifici classici in decadenza. I leonardeschi, in parallelismo con l’indagine düreriana, prediligono paesaggi fantastici, nati dalla riflessione su diversi modelli culturali. «L’arte non è imitazione della realtà, ma interpretazione individuale di essa»[33]. Possiamo affermare che il pittore vede il mondo da un punto di riguardo ben limitato ed intenso, che è poi il suo modo pittorico di vedere, e così facendo riduce il caos sterminato della realtà visiva. Nella variante della propria sensibilità, influenzato da idee e novità differenti, ciascun pittore seguirà un suo percorso individuale, particolare, seppur suggestionato da tradizioni locali comuni. Difatti, anche se con caratteristiche personali dissimili, i pittori attivi in Lombardia si servono degli stessi elementi per costruire il paesaggio. Tra questi, tiburi e cupole estradossate emergono come soggetti privilegiati. Ma qual è il rapporto tra pittori ed architetti? E tra pittori ed architettura? Siamo certi che vi fossero relazioni tra il mondo della pittura e la sfera architettonica. Non pochi pittori sono stati anche architetti, e viceversa. È certo però che ogni pittore del Rinascimento conosceva la celebre esperienza di Brunelleschi e la tecnica esatta per la prospettiva centrale. Il metodo si applica dapprima all’architettura, alla rappresentazione di spazi urbani o di interni. In seguito questo sguardo viene proiettato sulla natura e Leonardo realizzerà così uno dei primi paesaggi “liberi”. Un sistema pittorico che nasce per la rappresentazione della realtà unirà architettura e pittura, in quanto l’utiliz-
33. R. Longhi, in Breve ma veridica storia della pittura italiana, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1914, p. 9.
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zo di edifici o parti di essi permette di evidenziare e sottolineare la precisione della prospettiva utilizzata. Donato Bramante arriverà ad impiegarla perfino per creare illusioni ottiche nel coro di Santa Maria presso San Satiro a Milano, il paradigma della prospettiva rinascimentale lombarda. Come si pongono quindi i pittori nei confronti degli oggetti architettonici? Descrivono la realtà o la reinterpretano? Focalizzandoci sui tiburi “alla lombarda” e sulle complementari cupole estradossate, si tratta di capire quali scelte compiono gli artisti lombardi, se prevale la standardizzazione o la varietà, se si sceglie la concretezza o l’illusione.
Gaudenzio Ferrari, Crocifissione, 15201523, Varallo, Santa Maria delle Grazie.
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Architettura e paesaggio: gli intrecci fra rappresentazione della realtà, simboli, mondi ideali I dipinti rinascimentali che raffigurano paesaggi lombardi sono numerosi. Dal Quattrocento agli inizi del Seicento pittori minori e grandi artisti della piana irrigua si interessano tutti alla questione e la affrontano ciascuno secondo gusto personale. Scegliendo un campionario casuale di cento dipinti osservati in prima persona, circa la metà di essi presenta l’inserimento di tiburi o cupole negli sfondi. Di questi cinquanta fondali, solo in una decina la scelta dell’artista ricade effettivamente sul tiburio “alla lombarda”. Perché si preferisce rappresentare le cupole estradossate? Le cupole cosiddette “romane” sono più difficili da realizzare, abbiamo visto come le maestranze locali si fidassero di più della soluzione costruttiva tradizionale. Essendo la pittura un’arte astratta che, di conseguenza, permette assoluta libertà, forse gli artisti si concedevano la possibilità di dimenticarsi dei problemi strutturali. In questo modo potevano raffigurare nelle loro tavole ciò che non si riusciva a realizzare nella realtà, nella concretezza dell’architettura. È interessante però esaminare più nel dettaglio che tipo di cupole estradossate si rappresentano e a cosa rimandano. Alcune sono citazioni di edifici realmente esistenti, magari da poco costruiti, spesso utilizzate per fare sfoggio di cultura, per dimostrare l’attualità delle proprie conoscenze. In particolare si rappresentano variazioni delle cupole fiorentine, prima fra tutte quella di Santa Maria del Fiore (come nella Crocifissione del Sacro Monte di Varallo di Gaudenzio Ferrari). Poi vi è il gusto per l’antico, la riscoperta della classicità, che comporta, oltre a riferimenti a precise opere illustri del passato, una propensione per le rovine. Pantheon, Colosseo e altri celebri oggetti architettonici della classicità vengono posizionati all’interno di città reali o immaginarie, isolati oppure accanto ad edifici della contemporaneità. Vi è poi la rap-
presentazione della città celeste, idealizzata molto spesso in una Gerusalemme “lombardizzata”. Da ciò deriva la necessità di raffigurare il Santo Sepolcro o il Tempio di Salomone, nobili esempi di edifici a pianta centrale con cupola estradossata. In rari casi i mondi dei tiburi e delle cupole si intersecano e negli sfondi i due elementi si rappresentano insieme, in una varietà che coincide maggiormente con la città realmente costruita. L’atteggiamento degli artisti che prediligono i tiburi lombardi per i loro fondali non è differente. Anche in questo caso si fanno citazioni colte di edifici rinomati, concedendosi una libertà di rielaborazione non indifferente. I riferimenti sono i tiburi più noti dell’area milanese e lombarda: la basilica di San Lorenzo, la certosa di Pavia, l’abbazia di Chiaravalle. Vi è anche il tentativo di risolvere un problema concreto come quello della costruzione del tiburio del Duomo di Milano: alcuni pittori, consci degli studi e dei disegni dei grandi architetti che si avvicendavano nel cantiere, prendono posizione e rappresentano la soluzione da loro preferita, così come se fosse effettivamente realizzata. È un modo per dare la possibilità di vedere con i propri occhi come la città potrebbe apparire. Eccezionali ma magnifiche sono poi le invenzioni surreali di alcuni pittori che rielaborano l’elemento della tradizione in modo squisitamente particolare e particolareggiato.
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A N A L IS I
Essendo il tiburio “alla lombarda” il protagonista di questa riflessione, si analizzeranno solamente le opere in cui esso compare. Questo viaggio negli sfondi della pittura rinascimentale lombarda tocca dodici dipinti, divisi idealmente in due sezioni tematiche: una campionatura che dimostra la varietà degli interessi e delle conoscenze degli artisti dell’epoca. La prima sezione è dedicata al paesaggio realistico e raccoglie sei opere ambientate in luoghi riconoscibili. In questi fondali sono molte le citazioni di tiburi esistenti ed illustri. La seconda sezione, costituita da altrettanti dipinti, riguarda il paesaggio immaginato e ci mostra la fantasia multiforme ed estremamente soggettiva dei pittori dell’epoca. In questa parte è centrale la ricerca di alcuni artisti sulla rappresentazione della città celeste. Si intravede inoltre il gusto per l’età classica che inizia a diffondersi a partire dalla metà del Cinquecento. La suddivisione tra le due sezioni è però labile, dai confini poco certi. I paesaggi realistici sono anch’essi frutto della fantasia, quelli immaginati fanno comunque riferimento alla realtà. Le due categorie si fondono, si intersecano, a dimostrazione del fatto che il tema della costruzione del paesaggio, ed in particolare quello lombardo, è molto complesso.
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1. Ambrogio da Fossano detto il Bergognone, Crocifissione 1490, Pavia, Certosa di Pavia
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Nei vent’anni di attività per la Certosa di Pavia, Ambrogio da Fossano realizza una serie di tavole d’altare che dimostrano l’evoluzione del suo stile. Uno dei momenti più alti di questo crescendo è la Crocifissione del 1490, tutt’ora conservata nella sua collocazione originaria, nell’altare di Santa Croce. Le figure hanno una grandiosa costruzione tridimensionale, indubbio segno dell’assimilazione degli influssi di Donato Bramante. In particolare la figura di San Giovanni, dall’aspetto monumentale e dalla poderosa plasticità, non può non ricordare la consistenza quasi scultorea del Cristo alla colonna di Brera. Proprio alle spalle di questa figura bramantesca, lo sguardo è spinto a posarsi su un’immaginaria Gerusalemme turrita. Il paesaggio appare tuttavia realistico perché richiama le sagome delle Prealpi padane. Inoltre, sulla sommità di un colle, appare il maestoso volume di un colossale tempio marmoreo, la cui facciata, coronata da un timpano classico, non è molto dissimile da quella che, alcuni anni dopo, sarà posta in opera da Amedeo e Benedetto Briosco. Subito dietro il portale della Certosa si staglia un’inconsueta, torreggiante struttura a pianta quadrata, articolata su tre livelli progressivamente più stretti e sottili, arricchita da un sistema di pinnacoli. La parte 24
inferiore ha finestre circolari, il volume al centro si flette in un tetto ricurvo più scuro, l’elemento superiore è un’edicola aperta coronata da una guglia molto slanciata. Un tiburio a pianta quadrata nella Lombardia del tardo Quattrocento significa senz’altro fare riferimento allo studio di Bramante per il Duomo di Milano. La presenza di numerosi dettagli che parlano un lessico gotico conferma che l’edificio bergognonesco sia stato disegnato proprio avendo in mente la cattedrale milanese[34].
34. M. Pavesi, Ambrogio Bergognone e l’Opinio di Bramante per il Duomo di Milano, «Arte Lombarda», 157, 2009, n°3, pp. 5-9.
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2. Ambrogio da Fossano detto il Bergognone, Visitazione 1500, Lodi, Chiesa dell’Incoronata
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Ambrogio da Fossano detto il Bergognone, Presentazione di Gesù al Tempio, 1510, Lodi, Chiesa dell’Incoronata.
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Che Bergognone non fosse insensibile agli sviluppi dell’architettura a lui contemporanea è fatto ben noto. Numerosissimi sono gli esempi e le puntuali citazioni di edifici o parti di questi, rappresentate fin nel minimo dettaglio. A confermare la passione bergognonensca per l’architettura ci sono due dei dipinti per l’Incoronata di Lodi del 1500: la Presentazione di Gesù al Tempio, ambientata in una scenografia ricchissima che riprende con esattezza e precisione l’interno del tempio civico lombardo, e la Visitazione. In quest’ultima, l’incontro tra la Vergine ed Elisabetta si svolge all’aperto, davanti ad uno splendido loggiato corinzio ad archi a tutto sesto. La decorazione è ricca, in oro, con putti musici e tondi a bassorilievo. Più in alto il pittore tratteggia dei clipei da cui fuoriescono teste in rilievo, forse in ricordo della non troppo lontana Incisione Prevedari di Bramante del 1481. Alle spalle di San Giuseppe la scena è arricchita da torri medievali merlate che ricordano nei particolari quelle del Castello Sforzesco, specialmente quella di Bona di Savoia. La città rappresentata è senza dubbio Milano e sullo sfondo emerge un elevato tiburio gotico disegnato molto dettagliatamente. Si distinguono le guglie, le cornici, le finestre traforate. La resa prospettica
lascia dei dubbi sulla sua pianta, quadrata o ottagonale, ma è molto probabile, se non quasi certo, che Bergognone si sia ricordato di un altro dei modelli presentati al dibattito per il Duomo e abbia deciso di raffigurarlo per chiudere la quinta scenica di un paesaggio urbano immaginario ma realistico[35]. In questo modo si fa portatore delle idee di alcuni architetti attivi in uno dei dibattiti più accesi nel campo architettonico milanese e lombardo. Così facendo rappresenta una città che non c’è ma potrebbe essere e permette a tutti di vederla.
35. M. Pavesi, Ambrogio Bergognone..., pp. 10-11.
Bernardino Prevedari (su disegno di Donato Bramante), Incisione Prevedari, 1481 , Milano, Castello Sforzesco.
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3. Vincenzo Foppa, Adorazione dei Magi 1490-95, (oggi) Londra, National Gallery
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36. U. Monneret de Villard, Antichi disegni riguardanti il S. Lorenzo di Milano, «Bollettino d’Arte», VII, 1911, anno V, pp. 271-282.
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Ne L’ Adorazione dei Magi, Vincenzo Foppa costruisce sapientemente la celebre scena biblica. La Sacra Famiglia accoglie i visitatori in una singolare architettura in rovina dai rimandi classici. Il paesaggio che si apre sullo sfondo è verdeggiante e rigoglioso. Si intravedono un corso d’acqua e le tipiche alture prealpine. Su di una collina è arroccata una città racchiusa da alte mura merlate. Si distinguono torri civiche e fortezze dal carattere medievale. L’edificio più elevato è ottagonale, sormontato da cupola con lanternino, cintato da un corpo più basso che racchiude il deambulatorio e a cui sono unite quattro torri coronate da beccatelli e merli. La tipologia dell’edificio a pianta centrale con quattro torri appare in numerosi sfondi pittorici lombardi. Il riferimento è la basilica di San Lorenzo, elemento dell’architettura milanese amato e studiato da architetti e pittori. Tuttavia l’edificio rappresentato dal Foppa non è San Lorenzo ma è molto certo che l’artista, volendo raffigurare nel suo paesaggio lombardo una città turrita, si sia ricordato della chiesa che molte volte doveva aver visto a Milano e ne abbia tracciato la sagoma caratteristica[36]. La sua è una città immaginata che tuttavia evoca la realtà del paesaggio lombardo attraverso citazioni più o meno vo-
lontarie degli elementi celebri che lo costituiscono. La sua è un’elaborazione personale filtrata dalla tradizione milanese e lombarda. È un sublime gioco di variazione degli elementi più caratteristici della cultura architettonica locale.
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4. Bernardino Luini, Madonna della buonanotte 1512, Milano, Abbazia di Chiaravalle
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37. M. Gregori (a cura di), Pittura a Milano. Rinascimento e Manierismo, Milano, Cariplo, 1998, p. 231.
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Una delle prime opere di Bernardino Luini, risalente al 1512, è la cosiddetta Madonna della buonanotte, così chiamata perché situata in fondo alla rampa di scale addossate alla parete del transetto destro della chiesa, costruita per consentire l’accesso al dormitorio dell’Abbazia di Chiaravalle. Nel corso del Settecento il dipinto è stato racchiuso dentro una cornice marmorea che ha gravemente compromesso i margini della scena, danneggiando in particolare l’effetto di inquadramento prospettico dato dalla grande edicola architettonica con pilastri e capitelli corinzi. Ancora ben leggibili sono invece i due scorci di paesaggio che si aprono ai due lati del trono su cui siede la Vergine dove sono rappresentati episodi delle penitenze di San Benedetto, a sinistra, e di San Bernardo, a destra. Nonostante le manomissioni dell’inquadramento, l’affresco costituisce un fondamentale punto di riferimento per la comprensione della radicale maturazione stilistica avvenuta nel linguaggio del pittore a cavallo tra primo e secondo decennio del Cinquecento. In particolare ci interessa notare la nuova delicatezza atmosferica e chiaroscurale del fondale di filtrata ascendenza leonardesca[37]. Il paesaggio è tranquillo, idilliaco, immaginario rispetto al contesto dell’abbazia, ma sullo
sfondo si scorge lo slanciato tiburio-torre che caratterizza ed identifica Chiaravalle, il punto di riferimento per chiunque la raggiunga. La citazione cosÏ letterale dell’elemento architettonico rende il paesaggio riconoscibile, quasi familiare, simbolo di un profondo senso di appartenenza a quella terra.
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5. Ambrogio da Fossano detto il Bergognone, Madonna del Certosino 1489-90, Pavia, Certosa di Pavia (oggi) Milano, Pinacoteca di Brera
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38. L. Giordano, La Certosa di Pavia, in M. T. Fiorio, V. Terraroli (a cura di), Lombardia rinascimentale. Arte e architettura, Milano, Skira, 2003, p. 118.
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Come già abbiamo visto, dal 1489-1490 è documentata la presenza del Bergognone alla Certosa di Pavia, maestro prediletto dai monaci, per i quali realizzò un impressionante numero di pale d’altare, polittici e dipinti di devozione personale. Tra questi ultimi quello più particolarmente significativo raffigura la Madonna del Certosino, identificato, quest’ultimo, con il beato Stefano Marconi, apprezzato priore della certosa e personaggio di rilievo per la storia dell’Ordine. Il dipinto è esemplificativo del “patetismo” del pittore da Fossano, che si esprime, oltre che attraverso la grazia e la fisionomia delle figure, anche e soprattutto per via del colore, soffuso di una tonalità delicatissima di grigio[38]. Alle spalle dei personaggi rappresentati in primo piano si aprono tre scorci differenti di paesaggio, intervallati dalle teste della Vergine e della santa. Sulla sinistra si nota una collina verdeggiante con arbusti, ai piedi della quale scorre un corso d’acqua fiancheggiato da un sentiero. Sulla destra il sentiero si inerpica sopra un’altura, su cui sorge una chiesa di cui si intravede la facciata, probabilmente quella della Certosa stessa. Al centro si vede un borgo affacciato sull’acqua. Monocromatico, di dimensioni modeste, potrebbe essere un centro abitato di qualsiasi zona
d’Italia, ma un elemento lo contraddistingue: un oggetto, probabilmente di forma ottagonale, sormontato da un tetto con guglie su cui si innalza un tiburio turrito, slanciato, coperto a sua volta da un tetto piramidale. I temi del tiburio e della torre campanaria si fondono in ambito monastico, diventando un elemento iconico e facilmente riconoscibile. Poligonali, stretti, con aperture in sommità per disporvi le campane, coperti da tetti a piramide solitamente molto appuntiti, sono simboli tipicamente lombardi. Della Lombardia è proprio anche il paesaggio montano che si staglia sullo sfondo, che fa da controparte simmetrica alla torre, con alture famigliari agli abitanti della piana pavese.
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6. Vincenzo Foppa, Martirio di San Sebastiano 1487-89, Milano, Chiesa dei SS. Sebastiano e Marcellino (oggi) Milano, Civiche Raccolte d’Arte del Castello Sforzesco
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39. M. Gregori (a cura di), Pittura a Milano..., p. 217.
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Il dipinto foppesco di datazione poco certa proviene dall’altare maggiore della chiesa milanese dei Santi Sebastiano e Marcellino, poi trasformata nel civico Tempio di San Sebastiano, ed è oggi conservato al Castello Sforzesco. Purtroppo molto rovinato, il dipinto ha subito diversi interventi di restauro che non hanno tuttavia consentito di migliorare una situazione già originariamente compromessa. Il primo piano è avvolto in una penombra che si scioglie nel vasto paesaggio sullo sfondo. Il carattere della composizione è fortemente bramantesco, tanto da poter individuare un preciso prestito dal Cristo alla colonna di Bramante nel motivo della colonna addossata a un pilastro cui è legato il santo. Le soluzioni strutturali, cromatiche e luministiche provengono invece dalle suggestioni leonardesche. Lo squarcio di paesaggio è amplissimo, definito nella resa chiaroscurale e atmosferica[39]. Inquadrate da due archi a tutto sesto, una serie di colline verdeggianti si sussegue fino all’orizzonte. Appoggiate su alcune di esse si trovano città fortificate, turrite. Quella più vicina, sulla destra, è caratterizzata in ogni dettaglio: si intravedono le mura ed una delle porte, la torre civica e un edificio sacro. La copertura di quest’ultimo è molto particolare, quasi inconsueta, in quanto
si tratta di un altissimo tiburio circolare sormontato da lanterna. È interessante immaginare il possibile rapporto con il Tempio di San Sebastiano, unico esempio milanese di tiburio a base circolare, progettato da Pellegrino Tibaldi a partire dal 1577. Sembra esserci un’inversione: il modello pittorico precede il cantiere di quasi un secolo. È possibile che il Pellegrini sia stato ispirato dal disegno foppesco? O, come simbolo di martirio, l’architetto sceglie di riferirsi ai sacelli a pianta centrale? Forse l’ipotesi più probabile è che si tratti ancora una volta di una rivisitazione della chiesa di San Lorenzo, utilizzata come evocazione della città di Milano, di cui il santo si riteneva originario. Come in tutti i dipinti analizzati in precedenza, anche questo paesaggio non è reale, non esiste, ma è la rappresentazione di una propria idea di paesaggio, filtrato dalla cultura e dalle esperienze personali, che richiama la realtà per mezzo di riferimenti a modelli precisi, usati in chiave simbolica, semplificata, ridotta ad essenza.
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7. Bartolomeo Suardi detto il Bramantino, Agosto 1504-09, (oggi) Milano, Civiche Raccolte d’Arte del Castello Sforzesco
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Si analizzano d’ora in avanti paesaggi di pura invenzione, seppur con l’evocazione del tiburio come elemento tipicamente lombardo. Il pittore che più di ogni altro è stato maestro nella costruzione di un paesaggio urbano personale e surreale, la cui produzione presenta invenzioni, soluzioni compositive e concezioni architettoniche quasi metafisiche, è Bartolomeo Suardi detto il Bramantino. Una delle sue più note imprese è il disegno di dodici arazzi, dedicati ciascuno alla personificazione di un mese dell’anno, commissionatogli da Gian Giacomo Trivulzio. Le scene monumentali degli Arazzi Trivulzio sono prive di precedenti, stravolgono l’iconografia tradizionale, tardoantica e gotica, dei “mesi”. Il tema infatti prediligerebbe la rappresentazione di spazi aperti di campagna, quasi del tutto assenti nei paesaggi del Bramantino. Inoltre le scene architettoniche costruite dall’artista sono lontane dalla realtà lombarda e potrebbero fungere da immagini propagandistiche per il nuovo potere francese approdato a Milano nel 1499. Una posizione di assoluta rilevanza spetta al mese di Agosto: considerato l’anti-Cenacolo di Leonardo e in cui si è identificato un ritratto di Donato Bramante nella figura che guarda verso lo spettatore accanto alla personificazione del mese. 48
In questo modo l’arazzo comunica gli indirizzi culturali perseguiti dal pittore, cioè quelli rivolti a un recupero del gusto dell’antico, sviluppato da Bramante nell’ultimo ventennio del Quattrocento, continuato da Bramantino nei decenni successivi e ben espresso dalla solida architettura in stile dorico che figura nell’impianto dell’arazzo stesso[40]. A destra, sullo sfondo, è rappresentato un oggetto architettonico interessante, con impianto centrale, quattro torri agli angoli e una copertura con tiburio dodecagonale. La tipologia rimanda sicuramente alla basilica di San Lorenzo ma la sua raffigurazione ne è totalmente estranea. L’edificio rappresentato è un’esaltazione del mondo classico, è l’applicazione dei valori del Rinascimento, ma, ciò nonostante, è legato alla tradizione costruttiva lombarda. Bramantino non disegna una cupola “alla romana” ma, come l’architetto di cui porta il nome, predilige la costruzione di un tiburio, seppur con il linguaggio del mondo antico. Difatti l’oggetto immaginato dal pittore ricorda moltissimo la tribuna di Santa Maria delle Grazie a Milano progettata da Donato Bramante.
40. F. Tasso, Gli arazzi dei “Mesi” di Gian Giacomo Trivulzio, in M. T. Fiorio, V. Terraroli (a cura di), Lombardia rinascimentale. Arte e architettura, Milano, Skira, 2003, pp. 247-255.
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8. Gaudenzio Ferrari (e Giovanni Battista della Cerva), Ultima Cena 1541-42, Milano, Santa Maria della Passione
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La pala dell’Ultima Cena, tuttora dotata della sua magnifica cornice dorata originale, è conservata nella cappella del transetto sinistro della basilica di Santa Maria della Passione a Milano. La chiesa, fondata alla fine del Quattrocento, ebbe un cantiere travagliato per quanto riguarda la costruzione della tribuna al di sotto del tiburio, che si trascinò nel tempo. Il tiburio e la rispettiva lanterna furono innalzati e decorati soltanto a metà del 1500. L’Ultima Cena della Passione ha sempre goduto di grande fama ed è certamente una delle opere più conosciute di Gaudenzio Ferrari, nota anche al tempo al di fuori della Lombardia. Come in molti altri lavori, l’anziano maestro valsesiano si avvale dell’aiuto del “socio” Giovanni Battista della Cerva, che si occupa di parti minori del dipinto, quali l’architettura interna, le nature morte e alcune figure sullo sfondo. Interamente ascrivibile al Ferrari e di grandissima qualità è invece il disabitato paesaggio urbano visibile attraverso l’apertura sullo sfondo, immerso in una luce bianca e irreale. Nell’edificio a pianta centrale dall’altissima lanterna sostenuta da colonne impossibilmente esili si può forse riconoscere una rappresentazione evocativa della tribuna e del tiburio della chiesa che lo ospita, ancora in costruzione ne52
gli anni di esecuzione del dipinto[41]. L’oggetto architettonico è però di pura immaginazione, rinnega le leggi della statica e, ad eccezione del Pantheon nel corpo circolare con pronao antistante, non ha riferimenti architettonici. Tuttavia lascia trasparire il ricordo delle astratte architetture dipinte dal Bramantino, di cui Gaudenzio Ferrari sarà molto debitore.
41. M. Gregori (a cura di), Pittura a Milano..., pp. 254255.
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9. Giovanni Donato Montorfano, Crocifissione 1495, Milano, Refettorio di Santa Maria delle Grazie
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42. M. Gregori (a cura di), Pittura a Milano..., p. 215.
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Qualche mese prima che Leonardo iniziasse a lavorare alla sua Ultima Cena, un pittore milanese detto il Montorfano affrescò la parete opposta del cenacolo di Santa Maria delle Grazie con una monumentale Crocifissione. La scena è caotica, vivace, movimentata, ricca di personaggi e di colori. L’opera occupa l’intera parete e le tre lunette, all’interno delle quali sono posizionate le altissime croci di Cristo e dei ladroni. L’intera scena è immaginata al di là di un proscenio costituito da due pilastri d’angolo e dagli archi delle lunette. Sullo sfondo si apre un vasto paesaggio caratterizzato da rilievi aspri e rocciosi[42]. Al centro sorge la città di Gerusalemme così come il Montorfano se la immaginava: circondata da mura sproporzionatamente elevate, ispirate dai disegni del Filarete, con torri merlate ed enormi porte di accesso. All’interno della cerchia muraria svettano elementi architettonici diversi. Tra questi, simmetricamente posti rispetto alla croce di Cristo, si trovano un tiburio e una cupola. È questo uno di quei rari casi in cui i due mondi, lombardo e romano, si intersecano e convivono. Nessuno dei due elementi sembra appartenere interamente a uno dei due mondi, si tratta piuttosto di ibridi, di fusioni. L’oggetto di sinistra, che sembra volare nel vuoto, è costituito da
un tamburo quadrato con lunette circolari su cui si imposta una cupola semi-estradossata, sormontata a sua volta da una lanterna cupolata. Il colore grigio-azzurro del tetto rimanda alle coperture tipiche di Roma. L’elemento di destra, anch’esso senza un vero corpo su cui si appoggi, è caratterizzato da un tiburio circolare con feritoie strette e alte, coperto da un tetto a falde su cui si imposta una lanterna elaborata. Le coperture di colore mattone ricordano quelle lombarde. Si tratta di oggetti senza un vero riferimento preciso, frutto dell’immaginazione del pittore seppur legati a tradizioni costruttive ben specifiche. Ăˆ una Gerusalemme eterogenea, fortemente italiana, con caratteristiche appartenenti a diverse culture costruttive ed estetiche.
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10. Bartolomeo Suardi detto il Bramantino, Crocifissione 1503-04, (oggi) Milano, Pinacoteca di Brera
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43. G. Agosti, J. Stoppa, M. Tanzi (a cura di), Bramantino a Milano, Milano, Officina Libraria, 2012, pp. 146-150.
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La Crocifissione è il dipinto mobile più grande del Bramantino ed è anche uno dei più singolari. Il pittore ha scarnificato l’iconografia tradizionale di questo tema, riducendo al minimo il numero delle comparse ed eliminando ogni forma di eccesso. Anche l’ambientazione è inconsueta e non segue la descrizione delle Scritture, essendo le croci in una piana ai piedi di Gerusalemme e non sulla cima di un monte. Alle spalle di Cristo e dei ladroni crocifissi, dietro una fascia di alberi e una di rocce e ruderi, si estende a perdita d’occhio una città fitta di costruzioni e monumenti all’antica[43]. È un paesaggio urbano surreale, monumentale e apparentemente disabitato. È uno sfondo carico di suggestioni e citazioni che rimandano a mondi differenti: rovine decadenti, colonne classiche, abitazioni semplici, tetti piramidali, torri merlate. Sul fondale si erge un enorme tiburio dal linguaggio classicheggiante che copre un edificio a pianta centrale con torri addossate. Abbiamo visto come questa tipologia sia la più apprezzata, la più comune, la più reinterpretata. Qui Bramantino dimostra la sua passione per l’antico, disegna un elemento architettonico imponente ma estremamente semplice, monumentale ma essenziale. Il tiburio è caratterizzato solo da aperture strette e alte e da un
tetto a falde senza lanterna. Non è un riferimento preciso, non è una citazione, si tratta solo di un’evocazione, una suggestione. All’interno di un paesaggio architettonico eterogeneo, il pittore non dimentica le sue radici e rappresenta uno degli elementi più connotativi della tradizione lombarda.
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11. Alessandro Bonvicino detto il Moretto, San Rocco medicato da un angelo 1545, Brescia, Sant’Alessandro (oggi) Budapest, Szépművészeti Múzeum
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44. M. T. Fiorio, Ambiente e paesaggio..., p. 220.
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Il periodo della seconda metà del Cinquecento e l’area bresciana rendono i paesaggi del Moretto particolarmente diversi da quelli analizzati finora. La lettura ambientale del pittore assume varie declinazioni, dalla documentazione realistica dei luoghi alla reinterpretazione in chiave fantastica. Appartiene a quest’ultima categoria il magnifico dipinto che raffigura San Rocco medicato da un angelo. Dagli anni ’40 del Cinquecento l’artista è uno dei primi ed efficaci interpreti delle istanze controriformistiche. Il clima che si diffonde con il Concilio di Trento provoca un’ondata di religiosità e introduce una diversa esigenza espressiva. Il Moretto introduce un nuovo e significativo uso della luce e del chiaroscuro e scarnifica le scene, inserendovi solo gli elementi strettamente necessari per la comprensione<[44]. Nel dipinto di San Rocco il primo piano è essenziale e comunicativo, una descrizione precisa del racconto popolare legato al santo. Lo stesso non si può dire del paesaggio che si apre alle sue spalle: l’ambiente naturale sullo sfondo rimanda alla Lombardia, con i suoi colli verdeggianti confusi nella nebbia e nella pioggia, ma il paesaggio urbano non è lombardo, non è reale. Si tratta piuttosto di un’aggregazione di rovine, di edifici in decadenza, dal linguaggio pu-
ramente classico. È un montaggio di elementi singolarmente veritieri ma resi irriconoscibili dall’essere estraniati dal loro contesto. Tra questi emerge il particolare oggetto architettonico al centro, l’edificio a pianta centrale coperto da tetto a falda. In qualche modo ricorda un tiburio sormontato da lanterna ma la tipologia è talmente reinterpretata da non poter più essere identificabile. È una città inventata, ispirata dall’antico, ma totalmente straniante, senza nessun contatto con la realtà.
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12. Bartolomeo Suardi detto il Bramantino, Compianto sul Cristo morto 1515-20, Milano, San Barnaba (oggi) Milano, Pinacoteca del Castello Sforzesco
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L’opera forse più “metafisica” del Bramantino è il Compianto sul Cristo morto, che si trovava nella sagrestia di San Barnaba fino alla fine del Settecento e che oggi è custodito nella pinacoteca del Castello Sforzesco. Il tema, molto caro al pittore, è qui organizzato in primo piano attorno al corpo morto di Cristo, disteso sul sudario. La ricerca della stereometria prevale sulla rappresentazione del dolore, misuratissimo nelle sue espressioni. La semplificazione delle forme e dei volumi coinvolge sia i personaggi che le architetture: tutto è geometrizzato. Sullo sfondo, dietro una doppia fila di colonne doriche, si staglia un’architettura imponente e monumentale. L’edificio a pianta centrale parla un linguaggio classico, semplice ed essenziale, ma la tipologia a cui fa riferimento non appartiene al mondo antico: la forma poligonale, con otto o dodici lati, e la fascia con aperture, probabilmente bifore, rimanda immediatamente al tiburio “alla lombarda”. Ciò che manca è il tetto, la struttura è lasciata senza copertura, è aperta, traguardabile. È probabile che Bramantino volesse raffigurare una rovina, in continuità con i resti del colonnato lì davanti. Tuttavia la mancanza di un elemento così importante e sempre rappresentato negli altri sfondi del pittore può farci riflettere 68
e pensare ad un’altra interpretazione. Basandoci sull’analisi compiuta finora possiamo leggere quest’immagine anche in modo simbolico, come la negazione della scelta tra il tetto piramidale a falde e la cupola estradossata. Di conseguenza l’oggetto non-finito sarebbe la dimostrazione concreta della dicotomia tra il mondo dei tiburi e quello delle cupole, ossia l’incarnazione della discussione accesa a favore di un sistema o dell’altro. Questa possibile chiave di lettura sarebbe la raffigurazione di un problema irrisolto, di un contrasto difficile tra certezze costruttive tradizionali e difficoltà statiche esterofile, su cui pittori, architetti e costruttori si sono interrogati durante tutto il corso del Rinascimento.
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I ND ICE D EGLI AUTO R I
Carlo Braccesco (Milano, … – Milano, 1501) Bonifacio Bembo (Brescia, 1420 – Milano, 1480) Vincenzo Foppa (Bagnolo Mella, 1430 - Brescia, 1515) Andrea Mantegna (Isola di Carturo, 1431 – Mantova, 1506) Donato Bramante (Fermignano, 1444 – Roma, 1514) Bernardino Butinone (Treviglio, 1450 – Treviglio, 1507) Ambrogio da Fossano detto il Bergognone (Fossano, 1453 – Milano, 1523)
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Francesco de’ Tatti (Varese, 1470 – Varese, 1532) Andrea Solario (Milano 1470 – Milano, 1524) Marco D’Oggiono (Oggiono, 1475 - Milano, 1530) Gaudenzio Ferrari (Valduggia, 1475 - Milano, 1546) Martino Piazza (Lodi, 1475 – Lodi, 1523) Cesare da Sesto Cesare da Sesto (Sesto Calende, 1477 – Milano, 1523) Gian Giacomo Caprotti detto il Salaì (Oreno di Vimercate, 1480 – Milano, 1524)
Giovanni Donato Montorfano (Milano, 1460 – Milano, 1502)
Lorenzo Lotto (Venezia, 1480 – Loreto, 1557)
Bernardo Zenale (Treviglio, 1463 – Milano, 1526)
Giovanni Girolamo Savoldo (Brescia, 1480 – Venezia, 1548)
Bartolomeo Suardi detto Bramantino (Bergamo, 1465 – Milano, 1530)
Bernardino Luini (Dumenza, 1481 – Milano, 1532)
Girolamo Romani detto il Romanino (Brescia, 1484 – Brescia, 1566) Girolamo da Santacroce (Santa Croce, 1490 – Venezia, 1556) Cesare Magni (Milano, 1495 – Milano, 1543) Giovan Pietro Rizzoli detto Giampietrino (Milano, 1495 – Milano, …) Alessandro Bonvicino detto il Moretto (Brescia, 1498 – Brescia, 1554) Agostino Facheris (Capersegno, 1500 – Bergamo, 1522) Callisto Piazza (Lodi, 1500 – Lodi, 1561) Fermo Ghisoni detto Fermo da Caravaggio (Caravaggio, 1505 – Mantova, 1575)
Carlo Urbino (Crema, 1525 – Crema, 1585) Lattanzio Gambara (Brescia, 1530 – Brescia, 1574) Simone Peterzano (Venezia, 1540 – Milano, 1596) Pietro Gnocchi (Milano, 1550 – Milano, 1610) Ambrogio Figino (Milano, 1553 – Milano, 1608) Giovan Battista Crespi detto il Cerano (Romagnano Sesia, 1573 – Milano, 1632) Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone (Morazzone, 1573 – Piacenza, 1626) Fede Galizia (Milano, 1578 – Milano, 1630)
Giovan Battista Moroni (Albino, 1522 – Bergamo, 1578) Antonio Campi (Cremona, 1524 – Cremona, 1587) 71
B IB LIO GR AF IA
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S ITO GR AF IA
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The origin of landscape in art coincides with the beginning of the Renaissance period. Views of natural spaces or cities can be seen inside pictorial backgrounds. This study examines the ability of Po valley’s painters to build a lombard landscape through symbolic and recognizable images. In addition to natural elements, such as the presence of water or the Prealpine highlands, local architecture plays an important role. By observing Renaissance paintings today, it is possible to spot cities and towers, bridges and walls, domes and tiburi. The relationship between the elements of the last couple is symptomatic of the aesthetic and constructive heated debate between the fiftheen and sixteenth centuries in Lombardy. Taking into account a dozen of paintings from that era which depict tiburi “alla lombarda”, the study focuses on the role of this architecture in shaping a local identity. Distinguishing between architectural objects that recall reality and elements of pure imagination, it is possible to discover complex issues about the circulation of ideas, projects, programs, and hence the relationship between different arts and cultural dimensions.
MPÈRE