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CELODURISMO A YES WE CAN PASSANDO PER IL VAFFA… E LA ROTTAMAZIONE LE PAROLE DELLA POLITICA E L’INTELLIGENZA LINGUISTICA
IRENE PIVETTI ALESSIO ROBERTI
© 2012 Alessio Roberti Editore Titolo dell’opera Dal Celodurismo a Yes we can passando per il Vaffa... e la Rottamazione Sottotitolo Le parole della politica e l’intelligenza linguistica Pubblicata da: Alessio Roberti Editore Srl Via Lombardia, 298 – Urgnano (BG) Italy Prima edizione: dicembre 2012
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Ristampa 2019 2018 2017 2016 2015 2014 2013 ISBN 978-88-6552-051-2 Editor Mattia Bernardini Anna Albano
Fotografie in copertina Alessio Roberti: Fabrizio Zambelli per GLAM Entertainment www.glamentertainment.it Irene Pivetti: Iwan Palombi Progetto grafico e impaginazione Andrea Mattei | www.zeronovecomunicazione.it Stampa Lineagrafica, Città di Castello (PG) Proprietà letteraria riservata. È vietata la riproduzione con qualsiasi mezzo.
INDICE
Prefazione di Clemente Mimun
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Introduzione 1. Il linguaggio di Obama 2. Il linguaggio di Bossi e della Lega 3. Il linguaggio di Berlusconi e Forza Italia 4. Il linguaggio di Grillo e dei rottamatori 5. Le parole di Bob Kennedy per i tecnici Appendice: “Su quanto sta accadendo la classe politica ha di che riflettere” Conclusione
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Postfazione di Alessio Vinci Ringraziamenti Bibliografia Linea diretta con l’Editore
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PREFAZIONE
di CLEMENTE MIMUN
A 17 anni e mezzo sono entrato per la prima volta alla Camera dei deputati. Avevo soggezione perché c’erano gli onorevoli, che all’epoca erano considerati quasi irraggiungibili, alla stregua di figure mitologiche, che tutto potevano nel bene e nel male. Mi è capitato di vedere negli anni ‘70 personalità che hanno segnato la nostra storia. Da Luigi Longo circondato dalle attenzioni di Berlinguer, Bufalini, Natta e tanti altri, ai Moro, Fanfani, Andreotti, De Mita, Marcora, Piccoli e Forlani. Tra i socialisti, partito per cui tifavo assieme ai radicali di Marco Pannella, mi impressionavano Nenni, Mancini e Lombardi. C’era con loro, qualche volta, uno spilungone, che poi riconobbi in Craxi. Poi c’erano gli eredi del fascismo, che non mi
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piacevano per niente e altre figure simpatiche come il monarchico Alfredo Covelli, che aveva sempre uno schiaffone per tutti. Allora nelle aule, tranne qualche intemperanza di Pajetta o dei missini, si usava un eloquio educato e ridondante, citazioni latine e greche facevano chic, la cravatta era obbligatoria, non un optional. Quel che valeva nei discorsi parlamentari, naturalmente, non era il linguaggio sanguigno dei comizi. In tutti prevaleva l’attenzione a quel che si diceva, non a come si comunicava. Il massimo della modernità era rappresentato dalle interviste radiofoniche (in cui era specializzato Lello Bersani), e nell’appuntamento con le tribune politiche, allora imperdibili. Seguo la politica per ragioni professionali, ma anche per interesse personale da allora, e devo dire che, pur avendo vissuto i diversi profondi cambiamenti del costume politico, anche documentandomi al meglio, leggendo il libro di quella che fu la piÚ giovane Presidente della Camera della nostra storia, e Alessio Roberti, ho visto ricollocare al loro posto le mille caselle delle trasformazioni di questi anni. Se era ovvio che, parlando di Bossi, Irene avrebbe mostrato una conoscenza non comune del personaggio e delle sue scelte, per avvicinare ed emozionare il popolo padano, meno
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scontata era la profondità e la completezza, dello studio degli altri fenomeni italiani, ma non solo. La Pivetti e Roberti spiegano con dovizia di elementi cosa hanno portato i protagonisti della politica alla evoluzione del linguaggio e alla costruzione della fabbrica del consenso. Leggendo di Obama si comprende che siamo lontani ancora anni luce dalla modernità, nonostante l’utilizzo, secondo me piuttosto ruspante, di facebook o twitter. Anche in questo campo siamo vittime di un gap, troppa retorica e troppo piagnisteo. È tornato il tempo dei valori condivisi e anche dell’orgoglio nazionale. Bisogna guardare avanti, e noi ancora non ci siamo. Clemente Mimun
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INTRODUZIONE
LA POLITICA SI NUTRE DI PAROLE
Dalla torre d’avorio del politichese all’impatto emotivo del turpiloquio, dall’uso sapiente della metafora alla forza trainante dello slogan perfetto, alcuni politici dimostrano di conoscere a fondo il potere del linguaggio, manifestando quella che Alessio Roberti definisce “intelligenza linguistica”. Fortunatamente anche noi cittadini elettori possiamo acquisire questa abilità, diventando noi per primi linguisticamente intelligenti e imparando così a distinguere tra i discorsi dei politici e quelli dei politicanti. In questo libro cerchiamo di fornire una prospettiva diversa attraverso cui leggere e ascoltare i messaggi di chi chiede il nostro voto e, in vista di una nuova competizione elettorale, acquisire un nuovo strumento di giudizio. Irene Pivetti e Alessio Roberti
CAPITOLO 1
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“Four more years, four more years, four more years…”. Ancora quattro anni. Così l’urlo scandito dalla platea alla Convention Democratica di Charlotte, North Carolina, del settembre 2012 dove Barack Obama ha accettato formalmente la candidatura alle ultime elezioni presidenziali degli Stati Uniti d’America. E, ancora una volta, ce l’ha fatta. Questa volta con lo slogan “Forward”. Avanti. Un messaggio che contiene una presupposizione linguistica: abbiamo imboccato la strada giusta, dobbiamo andare avanti. Oltre alla presupposizione, c’è anche un’ambiguità positiva: avanti, anche nel senso di progresso e miglioramento! (E poco contenuto specifico, per fare in modo che chi ascolta carichi lo slogan dei propri significati.)
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Linguisticamente assai più debole del leggendario “Yes we can”, è comunque assertivo e positivo, perciò funziona. Nel discorso di Charlotte, Obama ha puntato come sempre a coinvolgere direttamente gli elettori. La sua è una linguistica di precisione, che mira a rendere protagonista e responsabile del futuro del Paese chi lo ascolta e lo “deve” votare. Eccone un recentissimo esempio: Possiamo aiutare le grandi aziende e le piccole imprese a raddoppiare le loro esportazioni e, se scegliamo questa strada, possiamo creare un milione di posti di lavoro nel manifatturiero nei prossimi quattro anni. Potete fare in modo che ciò accada. Potete scegliere questo futuro.” Obama ha fatto della comunicazione il punto forte del suo “essere” politico. Attraverso il linguaggio lavora incessantemente per costruire un’identità condivisa ed evoca valori e ideali fondamentali per il popolo americano. Il debutto pubblico di Barack Obama è stata la Convention dei Democratici tenutasi a Boston il 27 luglio 2004. Lo storico
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discorso, che analizziamo in questo capitolo, segna di fatto il suo ingresso nella scena politica nazionale. Quando sale sul palco è un semisconosciuto senatore per lo stato dell’Illinois; il giorno successivo i principali giornali degli USA parlano solo di lui. L’apparente semplicità e immediatezza dei suoi discorsi nascondono una raffinata complessità: Obama (e chi scrive i suoi discorsi) è dotato di una intelligenza linguistica acuta. Molte e diverse sono le strategie comunicative applicate dal futuro presidente degli Stati Uniti, già nel corso di quella prima importantissima occasione pubblica.
UNO SCRITTORE DEI DISCORSI GIOVANISSIMO Barack Obama non è l’autore materiale dei suoi discorsi. La loro stesura è affidata a un team attualmente diretto dal giovane Jon Favreau (classe 1981). I due si incontrano proprio alla Convention dei Democratici tenutasi a Boston il 27 luglio 2004, in occasione della quale Obama pronuncia il discorso che pubblichiamo nelle prossime pagine. Al tempo Favreau scriveva i discorsi per la campagna elettorale presidenziale di John Kerry; aveva 23 anni!
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Nell’analisi che segue abbiamo volutamente mantenuto un livello di dettaglio “medio”, in modo da agevolare la lettura e creare un equilibrio tra le parole di Obama e i nostri commenti. La consultazione della registrazione video del discorso, disponibile su YouTube, vi renderà possibile anche soffermarvi su tutti quegli aspetti di comunicazione non verbale difficili da rendere mediante una trascrizione. Discorso di Barack Obama alla Convention dei Democratici tenutasi a Boston il 27 luglio 2004. A nome del grande stato dell’Illinois, crocevia di una nazione, terra di Lincoln, lasciatemi esprimere la mia più profonda gratitudine per il privilegio di poter parlare a questa Convention. Stasera è un particolare onore per me, perché, diciamocelo, la mia presenza su questo palco è abbastanza improbabile. Mio padre era uno studente straniero, nato e cresciuto in un piccolo villaggio del Kenya. È cresciuto portando le capre al pascolo, è andato a scuola in una baracca col tetto di lamiera. Suo padre – mio nonno – era un cuoco, faceva il domestico per gli inglesi.
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Ma mio nonno aveva grandi sogni per suo figlio. Attraverso il duro lavoro e la perseveranza, mio padre ha ottenuto una borsa di studio per studiare in un luogo magico, l’America, che aveva brillato come un faro di libertà e di opportunità per molti prima di lui. Durante i suoi studi in questo paese, mio padre incontrò mia madre. Lei era nata in una città dall’altra parte del mondo, in Kansas. Suo padre aveva lavorato sulle piattaforme petrolifere e nelle aziende agricole per buona parte della Grande Depressione. Il giorno dopo Pearl Harbor mio nonno si arruolò e, agli ordini del generale Patton, attraversò l’Europa. Nel frattempo, a casa, mia nonna cresceva la loro figlia e lavorava in una catena di montaggio per assemblare bombardieri. Dopo il conflitto proseguirono gli studi e acquistarono una casa grazie alle agevolazioni per i veterani di guerra. Successivamente si trasferirono a ovest, spingendosi fino alle Hawaii, in cerca di opportunità. E anche loro avevano grandi sogni per la figlia. Un sogno comune, nato da due continenti. I miei genitori non condividevano solo un amore improbabile, ma anche una fede incrollabile nel-
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le possibilità di questa nazione. Mi hanno dato un nome africano – Barack, o “beato” – convinti che in un’America tollerante il nome che porti non costituisce un ostacolo al successo. Hanno immaginato – Hanno immaginato per me le migliori scuole del paese, anche se non erano ricchi, perché in un’America generosa non hai bisogno di essere ricco per raggiungere il tuo potenziale. Oggi non sono più tra noi. Eppure so che questa sera loro mi stanno guardando da lassù con grande orgoglio. Loro sono qui – E io sono qui, oggi, grato per l’eterogeneità delle mie radici, consapevole del fatto che i sogni dei miei genitori continuano a vivere nelle mie due preziose figlie. Sto qui davanti a voi, consapevole che la mia storia fa parte di una più grande storia americana, che ho un debito verso tutti coloro che sono venuti prima di me, e che, in nessun altro paese al mondo, la mia storia sarebbe stata anche soltanto possibile.”
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On behalf of the great state of Illinois, crossroads of a nation, Land of Lincoln, let me express my deepest gratitude for the privilege of addressing this convention. Tonight is a particular honor for me because, let’s face it, my presence on this stage is pretty unlikely. My father was a foreign student, born and raised in a small village in Kenya. He grew up herding goats, went to school in a tin-roof shack. His father — my grandfather — was a cook, a domestic servant to the British. But my grandfather had larger dreams for his son. Through hard work and perseverance my father got a scholarship to study in a magical place, America, that shone as a beacon of freedom and opportunity to so many who had come before. While studying here, my father met my mother. She was born in a town on the other side of the world, in Kansas. Her father worked on oil rigs and farms through most of the Depression. The day after Pearl Harbor my grandfather signed up for duty; joined Patton’s army, marched across Europe. Back home, my grandmother raised a baby and went to work on a bomber assembly line. After the war, they studied on the G.I. Bill, bought
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a house through F.H.A., and later moved west all the way to Hawaii in search of opportunity. And they, too, had big dreams for their daughter. A common dream, born of two continents. My parents shared not only an improbable love, they shared an abiding faith in the possibilities of this nation. They would give me an African name, Barack, or “blessed”, believing that in a tolerant America your name is no barrier to success. They imagined — They imagined me going to the best schools in the land, even though they weren’t rich, because in a generous America you don’t have to be rich to achieve your potential. They’re both passed away now. And yet, I know that on this night they look down on me with great pride. They stand here — And I stand here today, grateful for the diversity of my heritage, aware that my parents’ dreams live on in my two precious daughters. I stand here knowing that my story is part of the larger American story, that I owe a debt to all of those who came before me, and that, in no other country on earth, is my story even possible.”
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Il sogno americano. Prima di questo momento la maggior parte degli americani non ha mai visto Barack Obama. La prima cosa che fa il senatore, perciò, è costruire la propria credibilità. E lo fa volgendo a proprio favore un vissuto che rende la sua presenza su quel palco “improbabile”. La storia dei suoi genitori è la quintessenza del sogno americano: una storia di povertà e immigrazione, ma anche di perseveranza e di duro lavoro; una storia personale che tuttavia abbraccia più di un secolo di storia americana (con il riferimento, tutt’altro che casuale, al presidente Lincoln): una storia che parla di sogni, di opportunità e di libertà. Ancoraggio. Nella parte iniziale del discorso Obama riesce a creare una forte connessione – un ancoraggio – tra se stesso e il sogno americano. Parole evocative. Senza parlare direttamente di religione, attraverso l’uso attento di alcune parole chiave quali “fede incrollabile”, “beato”, “tollerante”, Obama introduce anche uno dei temi chiave per l’elettorato americano. Chi cura la parte di comunicazione nel suo staff conosce bene il potere delle parole, così come la loro capacità di evocare immagini e sentimenti che vanno al di là di ciò che viene esplicitamente detto.
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Uso del tempo. Il futuro presidente si muove fluidamente tra passato, presente e futuro. Il passato che evoca è il proprio e, al tempo stesso, quello di un’intera nazione. Vi sono i nonni e i genitori, ma anche tutti coloro che sono venuti prima di noi. Poi Obama porta l’attenzione al qui e ora, non senza evocare la continuità temporale che culmina nel futuro, qui rappresentato dal riferimento alle figlie. Questa sera siamo riuniti per affermare la grandezza della nostra Nazione – e non è per l’altezza dei nostri grattacieli, o il potere del nostro esercito, o la dimensione della nostra economia. Il nostro orgoglio si fonda su una premessa molto semplice, riassunta in una dichiarazione che risale a più di duecento anni fa: “Noi riteniamo queste verità di per se stesse evidenti, che tutti gli uomini sono creati uguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili, che fra questi diritti vi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità.” È questo il vero genio dell’America, una fede – una fede nei sogni semplici, la persistente fiducia nei pic-
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coli miracoli; poter rimboccare le coperte ai nostri figli la sera sapendo che hanno di che mangiare, di che vestire e che sono al sicuro; poter dire ciò che pensiamo, scrivere ciò che pensiamo, senza il timore di sentir bussare improvvisamente alla porta; poter avere un’idea e iniziare un’attività in proprio senza dover pagare una tangente; poter partecipare al processo politico senza paura di ritorsioni, e sapere che i nostri voti verranno contati – almeno nella maggior parte dei casi.” Tonight, we gather to affirm the greatness of our Nation — not because of the height of our skyscrapers, or the power of our military, or the size of our economy. Our pride is based on a very simple premise, summed up in a declaration made over two hundred years ago: “We hold these truths to be self-evident, that all men are created equal, that they are endowed by their Creator with certain inalienable rights, that among these are Life, Liberty and the pursuit of Happiness.” That is the true genius of America, a faith — a faith in simple dreams, an insistence on small miracles; that we can tuck in our children at night and know
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that they are fed and clothed and safe from harm; that we can say what we think, write what we think, without hearing a sudden knock on the door; that we can have an idea and start our own business without paying a bribe; that we can participate in the political process without fear of retribution, and that our votes will be counted — at least most of the time.” Il passato come elemento unificante. Ancora una volta troviamo un riferimento al passato come tema trasversale per l’intero elettorato, che si può riconoscere nei valori della dichiarazione d’indipendenza: il diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità. E ancora una volta Obama utilizza parole chiave intrise di religiosità: “fede” e “miracoli”. Linguaggio dei sensi. Obama non si limita a menzionare concetti astratti. Il passaggio successivo del suo discorso è fondamentale per creare un collegamento diretto tra i valori menzionati e le esperienze concrete di vita vissuta, in cui chiunque si possa riconoscere. Per conferire vividezza alla sua rappresentazione, Obama fa appello ai sensi: crea immagini facilmente rappresentabili (rimboccare le coperte ai
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propri figli, avviare un’attività in proprio), parla di esperienze auditive (dire ciò che si pensa, sentir bussare alla porta) ed evoca sensazioni (sentirsi al sicuro, avere paura). Quest’anno, in queste elezioni siamo chiamati a riaffermare i nostri valori e i nostri impegni, a confrontarli con una dura realtà per vedere come ci stiamo rapportando all’eredità dei nostri padri e alla promessa delle generazioni future. E amici americani, democratici, repubblicani, indipendenti, vi dico stasera: abbiamo altro lavoro da fare – altro lavoro da fare per gli operai che ho incontrato a Galesburg, Illinois, che stanno perdendo il posto di lavoro nello stabilimento di Maytag che si trasferisce in Messico, e ora si trovano a dover competere con i propri figli per posti dove pagano sette dollari l’ora; altro lavoro da fare per il padre che ho incontrato che stava perdendo il lavoro e soffocando le lacrime, mentre si domandava dove avrebbe trovato i 4500 dollari al mese per i farmaci di cui ha bisogno il figlio, ora che stava per perdere l’assicurazione sanitaria pagata dall’azienda; altro lavoro da fare per la
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giovane donna di East St. Louis, e altre migliaia come lei, che ha i voti, la determinazione, la volontà, ma non il denaro per andare al college. Ora, non fraintendetemi. Le persone che incontro – nei piccoli centri e nelle grandi città, nelle trattorie e negli uffici – non si aspettano che il governo risolva tutti i loro problemi. Sanno che devono lavorare duro per andare avanti, e vogliono farlo. Andate nelle contee intorno a Chicago, e la gente vi dirà che non vogliono che le loro tasse siano sprecate da un ente per il welfare o dal Pentagono. Andate – Andate in qualsiasi quartiere povero della città e la gente vi dirà che il governo da solo non può insegnare ai nostri figli a imparare, sanno che spetta ai genitori insegnare, che i bambini non possono ottenere buoni risultati a meno che non facciamo crescere le loro aspettative, che non spegniamo la televisione e sradichiamo il pregiudizio secondo il quale un ragazzino di colore con un libro in mano si sta comportando da bianco. Loro sanno queste cose. La gente non si aspetta – La gente non si aspetta che il governo risolva tutti i problemi. Ma sente, nel più profondo di sé, che è sufficiente un piccolo cambia-
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mento nelle priorità per garantire che ogni bambino in America sia messo nelle condizioni di giocarsi le proprie carte nella vita, e che le porte delle opportunità rimangano aperte a tutti. Sanno che possiamo fare di meglio. E vogliono questa scelta. In queste elezioni, noi offriamo questa scelta. Il nostro partito ha scelto come nostro leader un uomo che incarna il meglio che questo paese ha da offrire. E quell’uomo è John Kerry.” This year, in this election we are called to reaffirm our values and our commitments, to hold them against a hard reality and see how we’re measuring up to the legacy of our forbearers and the promise of future generations. And fellow Americans, Democrats, Republicans, Independents, I say to you tonight: We have more work to do — more work to do for the workers I met in Galesburg, Illinois, who are losing their union jobs at the Maytag plant that’s moving to Mexico, and now are having to compete with their own children for jobs that pay
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seven bucks an hour; more to do for the father that I met who was losing his job and choking back the tears, wondering how he would pay 4500 dollars a month for the drugs his son needs without the health benefits that he counted on; more to do for the young woman in East St. Louis, and thousands more like her, who has the grades, has the drive, has the will, but doesn’t have the money to go to college. Now, don’t get me wrong. The people I meet — in small towns and big cities, in diners and office parks — they don’t expect government to solve all their problems. They know they have to work hard to get ahead, and they want to. Go into the collar counties around Chicago, and people will tell you they don’t want their tax money wasted, by a welfare agency or by the Pentagon. Go in — Go into any inner city neighborhood, and folks will tell you that government alone can’t teach our kids to learn; they know that parents have to teach, that children can’t achieve unless we raise their expectations and turn off the television sets and eradicate the slander that says a black youth with a book is acting white. They know those things.
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People don’t expect — People don’t expect government to solve all their problems. But they sense, deep in their bones, that with just a slight change in priorities, we can make sure that every child in America has a decent shot at life, and that the doors of opportunity remain open to all. They know we can do better. And they want that choice. In this election, we offer that choice. Our Party has chosen a man to lead us who embodies the best this country has to offer. And that man is John Kerry.” Messaggio universale. Obama non parla a una platea di democratici, ma all’intera nazione. Democratici, repubblicani e indipendenti fanno tutti parte del “noi” mediante il quale Obama costruisce l’universalità del suo messaggio. Esempi concreti. Obama non parla dei problemi di un Paese, ma dei problemi delle persone. Non parla di disoccupazione, ma delle persone che alla Maytag perderanno il lavoro. Non parla di welfare, ma della tragedia di un padre che non sa come pagare le medicine di cui ha bisogno suo figlio.
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Obama prosegue con un tema caldo della sua intelligenza linguistica. John Kerry crede nell’America. E sa che non è sufficiente che ci sia ricchezza solo per alcuni di noi – perché, a fianco del nostro famoso individualismo, c’è un altro ingrediente della saga americana, la convinzione che siamo tutti connessi come un solo popolo. Se c’è un bambino a sud di Chicago che non sa leggere, per me è importante, anche se non è mio figlio. Se da qualche parte c’è un anziano che non riesce a pagarsi le medicine, e che deve scegliere tra quelle e l’affitto, questo rende la mia vita più povera, anche se non è mio nonno. Se c’è una famiglia araba americana che viene rastrellata senza aver diritto a un avvocato o a un processo, questo minaccia le mie libertà civili. È quella convinzione fondamentale… È quella convinzione fondamentale – io sono il custode di mio fratello, io sono il custode di mio sorella – che fa funzionare questo Paese. È ciò che ci permette di perseguire i nostri sogni individuali e di essere comunque
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uniti in un’unica famiglia americana. E pluribus unum: ‘Da molti, uno solo’.” John Kerry believes in America. And he knows that it’s not enough for just some of us to prosper — for alongside our famous individualism, there’s another ingredient in the American saga, a belief that we’re all connected as one people. If there is a child on the south side of Chicago who can’t read, that matters to me, even if it’s not my child. If there is a senior citizen somewhere who can’t pay for their prescription drugs, and having to choose between medicine and the rent, that makes my life poorer, even if it’s not my grandparent. If there’s an Arab American family being rounded up without benefit of an attorney or due process, that threatens my civil liberties. It is that fundamental belief — It is that fundamental belief: I am my brother’s keeper. I am my sister’s keeper that makes this country work. It’s what allows us to pursue our individual dreams and yet still come together as one American family. E pluribus unum: ‘Out of many, one’.”
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Unire. Obama mira a unire l’elettorato sotto un’unica bandiera e a questo scopo utilizza diverse strategie linguistiche. In questo caso, in particolare, fa leva sul senso di appartenenza a un’unica nazione. Parla di America e di “saga americana”, di individualismo e di connessione. Senza volerci soffermare sull’evidente richiamo a John Donne (“Nessun uomo è un’isola / completo in sé stesso; / ogni uomo è un pezzo del continente, / una parte del tutto.” John Donne, Meditation XVII), che la maggior parte degli americani saprebbe cogliere senza bisogno di alcuna spiegazione, ci basterà notare come Obama elabori il concetto di (cristiana e civile) fratellanza per trasformarlo in quello di “famiglia”, con tutti i potenti risvolti affettivi che esso implica. Adesso, anche mentre stiamo parlando, ci sono coloro che si preparano a dividerci – imbonitori, seminatori di zizzania che abbracciano la politica del “tutto va bene”. Ebbene, questa sera io dico loro, non c’è un’America liberale e un’America conservatrice – ci sono gli Stati Uniti d’America. Non c’è un’America nera e un’America bianca e un’America latina e un’America asiatica – ci sono gli Stati Uniti d’America.
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Ai saccenti, ai saccenti piace spezzettare il nostro paese in stati rossi e stati blu; rosso per gli stati repubblicani, blu per gli stati democratici. Ma ho una novità anche per loro. Noi adoriamo un “Dio maestoso” negli stati blu, e non ci piace che degli agenti federali mettano il naso nelle nostre biblioteche negli stati rossi. Abbiamo allenatori di softball negli stati blu e sì, abbiamo alcuni amici gay negli stati rossi. Ci sono patrioti che si sono opposti alla guerra in Iraq e patrioti che hanno sostenuto la guerra in Iraq. Noi siamo un solo popolo, giuriamo tutti fedeltà alle stelle e strisce, e tutti difendiamo gli Stati Uniti d’America. Alla fine – Alla fine – Alla fine, questo è il senso di queste elezioni. Partecipiamo a una politica di cinismo o partecipiamo a una politica di speranza? John Kerry ci invita alla speranza. John Edwards ci invita alla speranza. Non parlo qui di un cieco ottimismo – l’ignoranza quasi intenzionale convinta che la disoccupazione scomparirà, se solo non ci pensiamo, o che la crisi del sistema sanitario si risolverà da sé, se solo la ignoriamo. Non è di questo che parlo. Sto parlando
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di qualcosa di più sostanziale. È la speranza degli schiavi che, seduti attorno al fuoco, cantano canzoni di libertà; la speranza degli immigrati che partono per lidi lontani; la speranza di un giovane tenente della marina che coraggiosamente pattuglia il delta del Mekong; la speranza del figlio di un operaio che osa sfidare il destino; la speranza di un ragazzo magrolino, con un nome buffo, che crede che l’America abbia un posto anche per lui. La speranza - La speranza di fronte alle difficoltà. La speranza di fronte alle incertezze. L’audacia della speranza!” Now even as we speak, there are those who are preparing to divide us — the spin masters, the negative ad peddlers who embrace the politics of “anything goes”. Well, I say to them tonight, there is not a liberal America and a conservative America — there is the United States of America. There is not a Black America and a White America and Latino America and Asian America — there’s the United States of America.
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The pundits, the pundits like to slice-and-dice our country into red states and blue states; red states for Republicans, blue states for Democrats. But I’ve got news for them, too. We worship an “awesome God” in the blue states, and we don’t like federal agents poking around in our libraries in the red states. We coach Little League in the blue states and yes, we’ve got some gay friends in the red states. There are patriots who opposed the war in Iraq and there are patriots who supported the war in Iraq. We are one people, all of us pledging allegiance to the stars and stripes, all of us defending the United States of America. In the end — In the end — In the end, that’s what this election is about. Do we participate in a politics of cynicism or do we participate in a politics of hope? John Kerry calls on us to hope. John Edwards calls on us to hope. I’m not talking about blind optimism here — the almost willful ignorance that thinks unemployment will go away if we just don’t think about it, or the health care crisis will solve itself if we just ignore it. That’s not what I’m talking about. I’m talking about something
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more substantial. It’s the hope of slaves sitting around a fire singing freedom songs; the hope of immigrants setting out for distant shores; the hope of a young naval lieutenant bravely patrolling the Mekong Delta; the hope of a millworker’s son who dares to defy the odds; the hope of a skinny kid with a funny name who believes that America has a place for him, too. Hope — Hope in the face of difficulty. Hope in the face of uncertainty. The audacity of hope!” Contrapposizione. Obama conosce bene la forza coesiva generata dall’avere un nemico in comune. Per quanto la contrapposizione noi-loro non sia al centro del suo discorso politico, in alcune occasioni egli non manca di toccare anche questo tasto. In questo caso, “loro” non sono i repubblicani (ai quali, ricorderete, Obama tende fraternamente la mano), ma dei non meglio specificati saccenti, imbonitori e seminatori di zizzania. Il loro peccato non è quello di avere una diversa opinione, bensì quello – ben più grave all’interno della cornice di fratellanza creata da Obama – di voler dividere l’America.
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Ancoraggio negativo. Dopo aver costruito questa immagine negativa fatta di cattive intenzioni e resa mediante scelte lessicali adatte a descrivere un avversario vile e meschino, Obama crea un’associazione tra i non meglio identificati “loro” e un certo modo di fare politica: quello dei suoi avversari. Vaccino. Dopo aver parlato di speranza, Obama provvede a vaccinare i suoi ascoltatori contro una possibile lettura negativa – il “cieco ottimismo” –, in modo da affrontare e fugare ogni dubbio. In contrapposizione al cieco ottimismo, Obama parla di schiavi e immigrati, facendo appello alle radici della stragrande maggioranza degli attuali cittadini americani. Le altre tre persone che nutrono questa speranza sono, nell’ordine, il candidato presidente Kerry, il candidato vicepresidente Edwards e lo stesso Obama. Densità semantica. Dopo aver tracciato un percorso di unione e di speranza, Obama sa che il modo migliore per capitalizzare le impressioni positive dell’uditorio è quello di condensare l’intero messaggio in una singola frase a effetto: l’audacia della speranza. È il principio dello slogan, sommato all’avervi associato (o, meglio, ancorato) uno stato emozionale positivo.
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Alla fine, questo è il dono più grande che Dio ci ha fatto, è questo il fondamento della nazione. Credere nelle cose che non si vedono. Credere che ci aspettino giorni migliori. Io credo che possiamo dare respiro alla nostra classe media e che possiamo dare alle famiglie che lavorano una strada che porta alle opportunità. Io credo che siamo in grado di offrire posti di lavoro ai disoccupati, case ai senzatetto, e che sapremo salvare i giovani nelle città di tutta l’America dalla violenza e dalla disperazione. Io credo che alle nostre spalle soffi un vento giusto e che, trovandoci al crocevia della storia, possiamo fare le scelte giuste, e affrontare le sfide che abbiamo di fronte. America! Questa sera, se anche tu senti la stessa energia che sento io, se anche tu senti la stessa urgenza che sento io, se anche tu senti la stessa passione che sento io, se anche tu senti la stessa speranza che sento io – se facciamo quello che dobbiamo fare, allora non ho dubbi sul fatto che in tutto il paese, dalla Florida all’Oregon, da Washington al Maine, nel
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mese di novembre la gente si solleverà, e John Kerry sarà nominato presidente, e John Edwards sarà nominato vicepresidente, e questo paese rivendicherà la sua promessa, e da questa lunga oscurità politica sorgerà un giorno più luminoso. Molte grazie a tutti. Dio vi benedica. Grazie.” In the end, that is God’s greatest gift to us, the bedrock of this nation. A belief in things not seen. A belief that there are better days ahead. I believe that we can give our middle class relief and provide working families with a road to opportunity. I believe we can provide jobs to the jobless, homes to the homeless, and reclaim young people in cities across America from violence and despair. I believe that we have a righteous wind at our backs and that as we stand on the crossroads of history, we can make the right choices, and meet the challenges that face us. America! Tonight, if you feel the same energy that I do, if you feel the same urgency that I do, if you feel the same passion that I do, if you feel the same hopefulness that
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I do — if we do what we must do, then I have no doubt that all across the country, from Florida to Oregon, from Washington to Maine, the people will rise up in November, and John Kerry will be sworn in as President, and John Edwards will be sworn in as Vice President, and this country will reclaim its promise, and out of this long political darkness a brighter day will come. Thank you very much everybody. God bless you. Thank you.” Il re dell’anafora. L’anafora è una figura retorica che consiste nell’iniziare più frasi successive (o più porzioni della stessa frase) con le stesse parole. Questa reiterazione conferisce al discorso ritmo e coesione, focalizza l’attenzione e crea un irresistibile crescendo emozionale. Si pensi ad esempio al celebre discorso di Martin Luther King, da molti ricordato proprio per i passaggi che iniziano con “I have a dream…(Ho un sogno)”, oppure all’appello pronunciato da Churchill al parlamento britannico dopo la disfatta di Dunkerque: “… Noi combatteremo in Francia, noi combatteremo sui mari e sugli oceani, noi combatteremo con crescente fiducia e crescente forza nell’aria…”
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Dopo il discorso del 2004, il secondo e ancora più travolgente passaggio mediatico di Barack Obama fa il giro del pianeta nel 2007, quando il senatore si presenta come candidato alle primarie del proprio partito, che vincerà nel giugno dell’anno successivo, quando Hillary Clinton ammette la sconfitta e Obama diventa il candidato per il partito democratico alla Casa Bianca. I due slogan della sua campagna elettorale sono “Change we can believe in” e “Yes We Can” (rispettivamente “Un cambiamento in cui possiamo credere” e “Sì, noi possiamo”). Obama continua a presentarsi come l’uomo nuovo, portatore di cambiamento all’interno della società americana. Il suo paradigma comunicativo continua a ricercare un elemento unificante, di appartenenza e comunanza, che entrambi i suoi slogan dichiarano apertamente mediante il “we” (noi). Il breve estratto che segue, tratto da uno dei discorsi tenuti durante le primarie del 2007, restituisce intensamente l’intelligenza linguistica del politico Obama e del suo “Yes we can” (Sì, noi possiamo).
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Ma in quella storia improbabile che è l’America, non c’è mai stato nulla di falso nella speranza. Infatti, quando abbiamo affrontato ostacoli impossibili, quando ci è stato detto che non eravamo pronti, o che non avremmo dovuto provare, o che non potevamo, generazioni di americani hanno risposto con un credo semplice che riassume lo spirito di un popolo. Sì, noi possiamo. È stato un credo scritto nei documenti su cui si fonda questo Paese, documenti che dichiararono il destino di una nazione. Sì, noi possiamo. È stato sussurrato dagli schiavi e dagli abolizionisti che nelle notti più buie hanno illuminato il cammino verso la libertà. Sì, noi possiamo. È stato cantato dagli immigrati che salpavano da lidi lontani e dai pionieri che si sono spinti a ovest affrontando una natura selvaggia e spietata. Sì, noi possiamo. È stato il richiamo per i lavoratori che si sono organizzati, per le donne che hanno ottenuto il voto, per un
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presidente che ha scelto la luna come nuova frontiera, e per un re che ci ha portato in cima alla montagna e ci ha indicato la strada per la Terra Promessa. Diciamo “Sì, noi possiamo” alla giustizia e all’uguaglianza. Diciamo “Sì, noi possiamo” alle opportunità e alla prosperità. Sì, noi possiamo guarire questa nazione. Sì, noi possiamo riparare questo mondo. Sì, noi possiamo.” But in the unlikely story that is America, there has never been anything false about hope. For when we have faced down impossible odds; when we’ve been told that we’re not ready, or that we shouldn’t try, or that we can’t, generations of Americans have responded with a simple creed that sums up the spirit of a people. Yes we can. It was a creed written into the founding documents that declared the destiny of a nation. Yes we can. It was whispered by slaves and abolitionists as they blazed a trail toward freedom through the darkest of nights.
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Yes we can. It was sung by immigrants as they struck out from distant shores and pioneers who pushed westward against an unforgiving wilderness. Yes we can. It was the call of workers who organized; women who reached for the ballot; a President who chose the moon as our new frontier; and a King who took us to the mountaintop and pointed the way to the Promised Land. Yes we can to justice and equality. Yes we can to opportunity and prosperity. Yes we can heal this nation. Yes we can repair this world. Yes we can.�
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PICCOLA DIGRESSIONE NOSTRANA Poco dopo, uno degli uomini politici italiani di punta di allora, presentò come slogan – “Si può fare” – che sembrava ispirarsi proprio allo “Yes We Can” del candidato alla presidenza statunitense. Purtroppo per il politico nostrano, probabilmente non ben consigliato, questa “traduzione” snatura completamente il messaggio originario, privandolo di tutta la sua efficacia. “Sì” è un’affermazione e trasmette determinazione, apertura, possibilità. Sì. “Si”, per contro, è una particella pronominale che in italiano si usa nelle forme impersonali. Non solo manca dell’assertività del sì, ma crea un secondo e più grave problema, legato a ciò che rimane di questo breve slogan. L’intento unificatore del “noi” nel discorso politico di Obama viene del tutto vanificato dalla presenza, in italiano, del “si” impersonale. Un conto è dire “Sì, noi possiamo”. Noi. Voi e io, insieme. È una presa di responsabilità, oltre che una forte esortazione ad agire. Tutt’altra cosa è dire “Si può fare”. La forma impersonale equivale a un passivo: può essere fatto. Da chi? Non so, però si può fare. Dal punto di vista della comunicazione efficace, “Si può fare” è una catastrofe assoluta.
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L’ARMA LETALE DI BARACK OBAMA NELLE ELEZIONI DEL 2012: LA RETORICA ROSA Vestita di rosa, il suo “brand” fisico (le braccia scoperte) in bella evidenza e un accenno di lucidalabbra, Michelle Obama ha pronunciato il suo intervento alla Convention Democratica del settembre 2012 dimostrando un’eccellente preparazione in comunicazione verbale (parole), paraverbale (tono, volume, pause…) e non verbale (postura, gesti…). Ha utilizzato le variazioni di tono per porre l’accento sulle parole chiave, ha osservato le pause di rito e non ha mai mostrato compiacimento per gli applausi. Insomma, brava. Durante il suo intervento ha richiamato gli assi portanti della cultura americana: il duro lavoro, il merito, i valori della famiglia. Nella costruzione retorica del suo scenario, lei e Barack sono i protagonisti del sogno americano. Provengono da due famiglie modeste ma di solidi principi; hanno conseguito i loro obiettivi più ambiziosi, ma il successo non li ha cambiati, così almeno ce la racconta:
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... per me Barack è sempre il ragazzo che mi veniva a prendere con un’automobile così malandata che io vedevo letteralmente il marciapiede che ci sfilava a fianco attraverso un buco nella portiera.” … to me, he was still the guy who’d picked me up for our dates in a car that was so rusted out, I could actually see the pavement going by through a hole in the passenger side door.” La vita che racconta Michelle Obama è fatta di povertà, malattie, sacrifici, debiti. Eppure la storia che racconta non è affatto triste, in quanto Michelle sa porre abilmente l’accento sulle lezioni che lei e Barack hanno imparato dalle rispettive famiglie. Abbiamo imparato cosa fossero la dignità e il decoro – che lavorare sodo conta più di quanto guadagni; che aiutare gli altri non serve soltanto a farsi una posizione. Abbiamo imparato cosa fossero l’onestà e l’integrità – che la verità conta; che non devi prendere scorciatoie o giocare seguendo le tue regole, e che il successo non conta se non lo conquisti one-
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stamente. Abbiamo imparato cosa fossero la gratitudine e l’umiltà – che moltissime persone avevano contribuito al nostro successo, dagli insegnanti che ci hanno ispirato ai bidelli che tenevano pulita la scuola. Ci hanno insegnato ad apprezzare il contributo di tutti e a trattare chiunque con rispetto: questi sono i valori che Barack e io – come la maggior parte di voi – stiamo cercando di trasmettere alle nostre figlie. Questo è ciò che siamo. E quando mi sono trovata davanti a voi quattro anni fa, sapevo che per me era importante che nulla di tutto questo cambiasse, se Barack fosse diventato presidente. Bene, oggi, dopo tutte le sfide e i trionfi e i momenti che hanno messo alla prova mio marito in modi che mai avrei saputo immaginare, ho potuto vedere con i miei occhi che essere presidente non cambia chi sei – lo rivela.” We learned about dignity and decency – that how hard you work matters more than how much you make... that helping others means more than just getting ahead yourself. We learned about honesty and integrity – that the truth matters... that you don’t take shortcuts or play
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by your own set of rules... and success doesn’t count unless you earn it fair and square. We learned about gratitude and humility – that so many people had a hand in our success, from the teachers who inspired us to the janitors who kept our school clean... and we were taught to value everyone’s contribution and treat everyone with respect. Those are the values Barack and I – and so many of you – are trying to pass on to our own children. That’s who we are. And standing before you four years ago, I knew that I didn’t want any of that to change if Barack became President. Well, today, after so many struggles and triumphs and moments that have tested my husband in ways I never could have imagined, I have seen firsthand that being president doesn’t change who you are – it reveals who you are.” In poche frasi Michelle Obama ci parla dei valori che condivide con suo marito, della loro volontà di trasmettere questi valori alle figlie e della loro identità familiare (“Questo è ciò che siamo”).
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Lo dichiara apertamente, Michelle: Barack conosce il sogno americano perché lo ha vissuto.” Barack knows the American Dream because he’s lived it.” Poi parla dell’importanza della “cena” come momento chiave della giornata che vede la famiglia riunita intorno al tavolo. Parla di un uomo che ascolta pazientemente le figlie, risponde alle loro domande su questioni di attualità e le aiuta a escogitare la giusta strategia per gestire le amicizie a scuola. (Da far impallidire un democristiano consumato!) Michelle non dimentica certo i punti caldi del programma elettorale. Della riforma alla previdenza sociale ci dice: A proposito della salute delle nostre famiglie, Barack si è rifiutato di dare ascolto a tutti quelli che gli dicevano di rimandare la riforma, di lasciare che fosse un altro presidente a occuparsene. A lui non importava se fosse o meno la cosa più facile da fare da un punto di vista politico – non è così che è stato cresciuto – a lui importava che fosse la cosa giusta da fare.
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When it comes to the health of our families, Barack refused to listen to all those folks who told him to leave health reform for another day, another president. He didn’t care whether it was the easy thing to do politically – that’s not how he was raised – he cared that it was the right thing to do.” Michelle Obama riserva un’altra parte del suo discorso ai diritti delle donne, al diritto all’istruzione, al coraggio degli americani, che nei momenti più difficili si sanno rimboccare le maniche. Un discorso denso e coinvolgente che pone in risalto i suoi lati migliori. Ancora una volta, complimenti a Jon Favreau e al suo team (altri due ragazzi più o meno della sua stessa età: in tre non arrivano a cent’anni!) che hanno scritto il discorso. Il culmine dell’efficacia, che sfocia in un grande coinvolgimento emotivo da parte dell’uditorio, arriva verso la fine: Dico tutto questo, stasera, non solo come First Lady, e non solo come moglie. Vedete, alla fine dei conti il mio titolo più importante è ancora quello di “mom-inchief” [mamma in capo].”
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And I say all of this tonight not just as First Lady... and not just as a wife. You see, at the end of the day, my most important title is still “mom-in-chief.” Romney voleva puntare la sua campagna sulla famiglia. È arrivato secondo, grazie anche all’intelligenza linguistica di Michelle e Barack Obama.
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di ALESSIO VINCI
A volte le parole mancano, a volte basta una parola o anche un gesto. L’ho capito nel deserto del Kuwait, quando insieme ai Marines mi stavo preparando per l’invasione dell’Iraq nel 2003. I generali americani erano preoccupati che i loro soldati non riuscissero a comunicare con la popolazione civile e avevano quindi organizzato dei corsi di lingua araba per insegnare alle truppe alcune parole chiave, di solito necessarie ad un posto di blocco: “stop”, “avanti”, “scendi”, “apri il cofano” ecc. Durante una di queste lezioni mi avvicinai ad un sergente che mi pareva distratto e distaccato. Gli chiesi perché non fosse interessato alla lezione, e lui mi rispose con un mezzo sorriso accarezzando l’arma che portava a tracolla: “I speak M-16”. Parlo M-16 mi ha risposto, facendo riferimento al fucile mitragliatore in dotazione ai Marines.
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Mi sono bastate quelle poche parole per capire che l’esercito e i Marines non erano assolutamente pronti all’invasione. E non mi riferisco ai piani di battaglia o alla presa di Baghdad che poi avvenne poche settimane dopo. Ma a quello che sarebbe successo dopo, all’incapacità dell’amministrazione americana in Iraq di capire come gestire un popolo dopo decenni di dittatura, l’incapacità di prevedere una rivolta popolare sfociata poi in anni di guerriglia. Certo non sarebbe bastato insegnare ai soldati l’arabo, ma era chiaro sin dall’inizio che l’atteggiamento era quello di spara prima e poi chiedi il chi va là. In guerra spesso ti manca la parola. Per quello che vedi, per quello che vorresti raccontare e non puoi dire. Ci sono regole ferree anche se non scritte. Durante i bombardamenti della NATO in Serbia nel 1999 ho ricevuto decine di telefonate da “colleghi e amici” negli Stati Uniti che mi chiedevano di non entrare nei dettagli di come centinaia e forse migliaia di civili rimanevano uccisi dalle “bombe intelligenti”, che colpivano sì l’obiettivo strategico ma se lì vicino c’erano delle famiglie, dei bambini, o se passava per caso un pullman carico di operai la parola per descrivere la loro morte era stata ben presto coniata dalle autorità militari: “collateral damage”, danni collaterali. Nessuno ha mai pensato che le 3.000 vittime (tutti civili) dell’attacco alle Torri Gemelle l’11 settembre 2001 fossero
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un danno collaterale. Eppure nelle prime ore i media “nemici dell’occidente” che si opponevano a quello che descrivevano come l’egemonia mondiale del “grande satana” raccontavano che per la prima volta dopo Pearl Harbor gli americani avrebbero finalmente capito cosa significasse sentirsi “sotto attacco”, cosa si provasse a perdere amici, parenti e cari in una guerra non dichiarata. Le Torri Gemelle un obiettivo “legittimo” dicevano. Chi ci lavorava dentro e ci abitava vicino erano “danni collaterali”. Parole che pesavano come macigni all’indomani di quell’attacco che scosse il mondo, cambiò la storia, e con il quale ancora oggi si fanno i conti. Le parole “Ground Zero” o “11 settembre” e “Torri gemelle” sono diventate immediatamente sinonimo di tragedia, di guerra portata in casa, di terrorismo inteso come “siete tutti obiettivi legittimi, nessuno è salvo”. Non a caso quando poi Al Qaeda colpì successivamente Madrid (l’11 marzo 2004) e Londra (il 7 luglio 2005) la stazione di Atocha divenne il “ground zero spagnolo” e l’attacco alla metropolitana di Londra “l’11 settembre inglese”. Dopo gli attacchi di New York, Madrid e Londra si sono fatti vivi con me alcuni nazionalisti serbi con i quali mi ero confrontato tra il 1999 e il 2000, dopo che le bombe NATO erano riuscite a cacciare le milizie serbe dal Kosovo. Mi dissero che “gli americani, gli spagnoli e gli inglesi (tutti paesi NATO) avevano
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ricevuto la “giusta punizione”. Parole che pesavano come macigni. Ma con il loro linguaggio diretto e con parole semplici esprimevano un concetto assurdo: i bombardamenti NATO e gli attacchi dell’11 settembre sono stati entrambi parte della stessa “strategia del terrore mondiale”, del tentativo del più forte di imporre la propria volontà sul più debole. La macchina folle della propaganda serba messa in piedi da Slobodan Milosevic (ormai in cella e poi deceduto prima della fine del suo processo all’Aia) era sopravvissuta al suo leader. Il suo potere oratorio era riuscito a convincere i serbi che “nessuno li avrebbe mai più cacciati” dalla loro terra. Milosevic fu bravissimo dopo i bombardamenti NATO a raccogliere consensi in patria con parole chiave come “reagire, ricostruire, e resistere”. Resistere all’opposizione in casa che faticava a raccogliere consensi, reagire all’aggressione della comunità internazionale “ricostruendo” il Paese. Ci hanno creduto in molti fino al suo arresto. Quando il giudice della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia gli chiese cosa rispondeva all’accusa di crimini contro l’umanità, Milosevic rispose “this is your problem”. Il problema è suo disse. “I consider this tribunal false tribunal, the accusations false accusations”, considero questo tribunale un tribunale falso, le accuse false accuse. Milosevic sapeva usare le parole e sapeva che non sarebbe mai stato condannato. Non perché
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innocente, ma perché sia lui che il giudice morirono (di cause naturali) prima di arrivare ad una sentenza. Slobodan Milosevic non fu il primo leader a scommettere sulla parola “ricostruzione” per salvare il proprio destino politico. Fu così anche per Michail Gorbaciov la cui perestrojka però non era propaganda, ma il tentativo (riuscito) di cambiare un modello politico-economico-sociale che ormai aveva perso il passo nei confronti dell’occidente ed in particolare degli USA. Non tutti ricordano però che “perestrojka” (che significa appunto ricostruzione) fu la terza parola chiave della fine dell’URSS. La prima infatti era stata “uskorenije” che significa “accelerazione”. Gorbaciov aveva capito che per poter competere con gli Stati Uniti bisognava appunto accelerare il progresso tecnico-scentifico del Paese. Reagan aveva già iniziato la sua guerra stellare (lo scudo militare che avrebbe difeso gli USA da un attacco missilistico dell’URSS). Gorbaciov si rese subito conto che l’URSS non avrebbe mai tenuto il passo, e che una gara agli armamenti avrebbe messo in ginocchio il suo paese già economicamente provato. Fu in quel momento che il tentativo di “accelerare il progresso scientifico” (leggi militare) lasciò spazio alla più conveniente “glasnost”, cioè trasparenza, la seconda parola chiave legata alla fine dell’URSS.
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In realtà la parola viene dal russo “golos” che significa “voce”. A Gorbaciov interessava “dare voce” ad un popolo che fino a quel momento non solo non l’aveva, ma viveva sulla propria pelle il fallimento del sistema comunista. Fu proprio la “voce del popolo” a scardinare un sistema basato sul silenzio inteso come repressione e segreto di stato. L’immagine di Boris Eltsin sul carro armato dopo il tentato colpo di stato nel 1991 divenne il simbolo della “piazza che prendeva la parola” e Eltsin ne era il portavoce. Non uno che “veniva” dalla piazza, ma uno che la “capiva”. L’errore che fece Gorbaciov fu proprio di non avere il linguaggio adatto per la piazza. Per Eltsin fu un gioco da ragazzi prendere il sopravvento. Da quel momento tutto cambiò. Eltsin rimase al potere fino al 2000, ma già alle elezioni del 1996 dava segni di cedimento. Pochi sanno o ricordano che fu un gruppo di esperti della comunicazione (americani ma non solo) che riuscirono a fargli vincere quelle ultime elezioni contro il potente candidato comunista Gennady Zhuganov, che raccoglieva consensi raccontando la storia più vecchia dell’anti-politica: chi sta al potere è un corrotto, un bugiardo e un incapace. Alessio Vinci