Arnaldo Picchi
Canovacci di
Iconografia
La regia pensata: lezioni aperte verso una nuova disciplina teatrale
a cura di Massimiliano Briarava
Arnaldo Picchi (1943-2006), prima protagonista del teatro sperimentale degli anni ’70, poi docente universitario, è autore di un sistema pedagogico che riesce nell’impresa di raccogliere in un unico discorso prassi e utopie, tecniche e teorie del teatro contemporaneo. Al Dams di Bologna fin dalla sua fondazione, Picchi è stato per 20 anni titolare dei corsi di Istituzioni di Regia e di Iconografia Teatrale, sintetizzati nelle attività di un laboratorio permanente di ricerca, ad accesso libero, dove ha realizzato con gli studenti oltre 30 spettacoli. In questo manuale si raccoglie la vastissima mole di appunti e articoli predisposti per le sue lezioni di Iconografia teatrale, una scienza nuova, articolata da Picchi in modo del tutto originale e funzionale alla regia: l’iconografia si fa teatrale poiché i suoi sistemi d’ordine sono indispensabili alla comprensione del linguaggio della rappresentazione, alla formazione del regista come coordinatore di storie infinite, di parole e immagini. Massimiliano Briarava, regista teatrale, assistente e collaboratore dell’autore, ha curato questo manuale scontornando e ordinando i materiali più significativi estratti da venti anni di corsi accademici, mettendo così in rilievo il divenire, in una chiave sempre più operativa, dell’iconografia teatrale secondo Arnaldo Picchi. In copertina: - dettaglio da Agnolo Bronzino, Ritratto di giovane uomo con libro, 1540 ca., Metropolitan Museum of Art, New York, - dettaglio da Gerit Van Honthorst (attribuito), L’incredulità di S. Tommaso, 1625-50, Museo del Prado, Madrid.
Curatela realizzata con il sostegno di
ARNALDO PICCHI
Canovacci di Iconografia La regia pensata: lezioni aperte verso una nuova disciplina teatrale
A CURA DI MASSIMILIANO BRIARAVA
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Angelos, Hermes, Messaggeri di Massimiliano Briarava
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Indice delle parole-chiave
CANOVACCI DI ICONOGRAFIA p
Introduzione
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I
Registrazioni (1988)
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In studio. Per un manuale I/1.1. Atteggiamento analitico. Risonanze e apprezzamenti I/1.2. Iconografia prescrittiva. Pro e contro I/1.3. Pseudomorfosi I/1.4. Pseudomorfosi come mobilità storica I/1.5. Attenzione alle fonti I/1.6. Le diverse facce dell’iconografia I/1.7. Regista iconografo I/1.8. Documenti per l’iconografia del teatro I/1.9. Le tre domande ermeneutiche I/1.10. Attualizzazioni I/1.11. Aggiunte, rifacimenti, classicizzazioni] I/1.12. Dinamica e frequenza nella serie iconografica I/1.13. Serie d’ufficio, serie libere I/1.14. Ermeneutica e fraintendimento I/1.15. Serie finalizzata, serie incrociata, cluster I/1.16. Permanenze morfologiche I/1.17. Attributi iconografici I/1.18. Tema/motivo I/1.19. Rubriche I/1.20. Dettagli, spie, scarti, automatismi I/1.21. Punti di stranezza I/1.22. Coincidenze in Gombrich I/1.23. Testi drammatici, incongruità I/1.24. La cena delle beffe, un ibrido di risonanza I/1.25. Fluidità del significato, ibrido di risonanza, inattualità I/1.26. Perché ridurre il fraintendimento? E poi: esiste davvero? I/1.27. La regia come metafora del testo drammatico I/1.28. Liceità e opportunità della ricerca iconografica in teatro I/1.29. Sintesi. Scritto n. 1 I/1.30. Sintesi. Scritto n. 2
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I/2 p p p p
In aula. Quattro lezioni I/2.1. Iconografia, definizioni I/2.2. La pseudomorfosi I/2.3. Descrivere le immagini I/2.4. Rubriche
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II
Le regole dell’attenzione (1997)
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II/1 Prolusione. Le regole dell’attenzione. Qoelet II/1.1. Gli informatori Princìpi di impostazione di una ricerca iconografica.
II/1.2. Il Tempo sacro Qoelet 3,1-8 e un sonetto di Enzo Re; uno studio comparativo.
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II/2 Studio. Sugli attributi del personaggio II/2.1. L’erba di Ulisse Attributi fissi, identitari, e attributi di ruolo, occasionali. Un caso limite.
II/2.2. Aspetti del personaggio Il personaggio come tecnica retorica argomentativa, mimetica, trascendente.
II/2.3. Il ritratto Il ritratto come tecnica figurativa argomentativa, mimetica, trascendente.
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II/3 Tema. Il traditore Giotto, sinossi e regia dell’episodio evangelico, fisiognomica di Giuda.
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II/4 Tema. Vite, morti, miracoli Dai fatti al modo in cui vengono raccontati o raffigurati, diversi modi di calcolare il tempo.
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II/5 Conclusioni. Stile: committenza + eccedenza Appunti sul rapporto tra iconografia, procedura normativa e stile personale, che la eccede.
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III La compressione dei significati (2005)
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III/1 Prolusione. La compressione dei significati. Spinoza. L’immagine di Dio nel Trattato teologico-politico di Spinoza.
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III/2 Studio. Attori di Caravaggio III/2.1. Analisi critica. Ridurre il fraintendimento Caravaggio: la distanza necessaria per intraprenderne lo studio dell’opera.
III/2.2. La Morte, il Diavolo e la Vocazione di Matteo (1599-1600) Filologia del quadro, poi gioco d’azzardo con le fonti; suggestioni teatrali.
III/2.3. Le braccia della Resurrezione di Lazzaro (1609) Il ‘teatrino’ di Caravaggio, casting e cluster. Pathosformeln per un Lazzaro/Cristo.
III/2.4. Personaggi e interpreti Caravaggio regista e la sua “compagnia” teatrale.
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III/3 Tema. Tobiolo e l’Angelo Riepilogo sulla sistematizzazione della serie iconografica, e un esempio di raccolta dati.
III/3.1. Il Libro di Tobia Una sintesi dei temi e motivi del racconto biblico.
III/3.2. Iconografia Tobiolo e l’Angelo nella Firenze del Quattrocento.
III/3.3. Motivi e connessioni, in serie e in reti Trattamenti: Andersen, una fiaba greca, Gozzi, Yourcenar.
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III/4 Tema. Il saggio, il mago, il profeta Ritratti con barba e capelli, dalle fiabe alla Bibbia, fino a Leonardo.
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III/5 Conclusioni. Iconografia dell’invisibile Raccomandazioni per un corretto atteggiamento analitico.
III/5.1. La collezione, la serie Il collezionista, l’analista e la ricerca di un’illuminazione.
III/5.2. Punctum e Spie Come controllare i rischi derivanti dalla costruzione di una serie per via analogica.
III/5.3. Il lettore implicito Appunti per un regista interessato alla scrittura a intarsi.
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IV Canovacci di Iconografia teatrale (2006) (Preparazione di un gruppo a un’Esposizione teatrale)
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IV/1 Prolusione. Il buon dio nei dettagli. Cezanne Un incontro con Jeune homme à la tête de mort di Cezanne.
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IV/2 Studio. Un’iconografia per il teatro IV/2.1. Le quattro tecniche della rappresentazione Testo, attore, spazio, musica, dentro ogni immagine.
IV/2.2. Presenze viventi Della spontaneità vivente, stretta in predicazioni e ideogrammi culturali.
IV/2.3. Tre iconografie Diverse qualità del dettaglio iconografico: dalla tradizione, dalla personalità dell’autore, dal trattamento specifico.
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IV/3 Esercizio. Schede iconografiche aperte IV/3.1. Moglie di Marinaro IV/3.2. Orientalismo IV/3.3. Annunciazione IV/3.4. Prima che la musica cominci
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IV/4 Studio. Serie iconografica e sceneggiatura La serie iconografica è una sceneggiatura? Il commento all’opera è il suo trattamento registico?
IV/4.1. Serie iconografica Criteri per la costruzione di serie e confronto tra documenti. Domande aperte.
IV/4.2. Sceneggiatura: variazioni e lacune Multiformità e lacunosità del trattamento teatrale come della serie iconografica: Fedra.
IV/4.3. Esempi di trattamento Predicazioni: che farsene di un tema.
IV/4.4. Il dialogo, il commento Sulla corretta elaborazione di un commento o – meglio – dialogo con le immagini.
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IV/5 Esercizio. Il commento, dove porta IV/5.1. L’esercizio Kore subacquea Esperimento di analogia e scrittura creativa a partire da un’immagine.
IV/5.2. L’esercizio Gogarty Esperimento di ricerca storico-filologica a partire da un testo di Borges.
IV/5.3. L’esercizio Girotondo Incontro casuale tra immagini. Dalla scheda al commento, dal dialogo al racconto.
IV/5.4. Postilla: sulla realtà dei personaggi Moventi, attributi, epiteti, pietas.
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IV/6 Studio. Il confronto, dove porta IV/6.1. Sullo stile e il trattamento Confronto tra elementi di serie omogenee e non omogenee.
IV/6.2. Serie e reti Iconografia come costruzione di serie, iconologia come costruzione di reti.
IV/6.3. Immagini teatrali, teatralità delle immagini Frammento residuo, verbale, progetto, documento, monumento.
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IV/7 Esercizio. L’energia di presenza Lo studium muove verso un punctum. Il punctum impone un nuovo studium.
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IV/8 Conclusioni. “Parlare” le immagini IV/8.1. Individuum est ineffabile Immagine come presenza, parola come assenza: tentare atti di parola verso le immagini.
IV/8.2. Un immaginario in comune Le parole dello storico, del poeta, del regista.
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IV/9 Esercitazione di gruppo. Duellanti IV/9.1. Storia dell’esercizio di lettura iconografica IV/9.2. Duellanti. Per un’esposizione teatrale
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IV/10 Storiella finale, o ammonimento
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IV/11 Appendice. Note in forma di dialogo per Arcangeli, Morandi, di Roberto Roversi
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V
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V/1 Attori e pittura di storie. 1994
Quattro articoli pubblicati Intarsi pittorici in scena: esempi di allestimenti in cui si palesa un rapporto diretto con le arti figurative, e qualità del lavoro dell’attore in questi casi.
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V/2 L’aiutante magico nella forma degli oggetti di scena. 1997 Gradazioni di senso dell’oggetto scenico: attributo servile, metafora, unheimlich, presenza.
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V/3 Omogeneità e margini delle serie iconografiche. 1997 Evoluzioni della serie iconografica in rete di serie, muovendosi ai suoi margini.
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V/4 La regia e l’attore-personaggio come tecnica di scena. 2000 Il repertorio dei personaggi; passioni, vizi, doppiezze; utilità della sistematizzazione iconografica dei personaggi nell’operatività teatrale.
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Bibliografia e teatrografia complete di Arnaldo Picchi
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Indice delle immagini
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Bibliografia generale
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Postfazione
ANGELOS, HERMES, MESSAGGERI di Massimiliano Briarava
Fig. 1. Beato Angelico, Madonna delle ombre, affresco, dettaglio delle decorazioni del registro inferiore, 1440-50 Museo nazionale di San Marco, Firenze.
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Prefazione
1. Iconografia di un regista pedagogo Il 10 dicembre 2007, a poco più di un anno dalla scomparsa di Arnaldo Picchi, sono più di trenta – dal teatro, dell’università, studenti, compagni di lavoro – i relatori della Giornata di Studi a lui dedicata, al Dipartimento di Musica e Spettacolo dell’Università di Bologna. Si cerca di fare il punto su 35 anni di teatro e di insegnamento; si tratta di un’occasione «non troppo accademica ma al tempo stesso strutturata e rigorosa»1, in sintonia con l’indole dell’uomo, verrebbe da dire. Strutturata in quattro sezioni, la Giornata di studi indaga il caso di un docente poeta. Nella prima sezione, “Regia e pedagogia”, Claudio Meldolesi, Luigi Squarzina, Giuliano Scabia, Carlo Quartucci e Carla Tatò ripercorrono la vocazione pedagogica di Picchi regista teatrale e docente di Istituzioni di regia dal 1987 al 2006. Nella seconda sezione, la tavola rotonda “Avanguardie bolognesi. L’attore-cittadino del Teatro Libero”, Gerardo Guccini ospita diversi protagonisti del teatro sperimentale bolognese dalla fine degli anni Sessanta fino agli Ottanta, ove crebbe Il Gruppo Libero, compagnia di innovazione nelle cantine, per le strade e in università, diretta dal giovane Picchi, allora neolaureato in Chimica pura. Nella terza sezione, “L’iconografia e il lavoro teatrale”, coordinata da Marco de Marinis, si tenta per la prima volta una raccolta dei punti salienti della sperimentazione di Picchi attorno ai termini e confini dell’iconografia teatrale, l’altro suo insegnamento, il primo di cui fu incaricato, dal 1984. Nella quarta sezione, la più magmatica, “Storie da un laboratorio permanente”, si intonano le voci del poeta Roberto Roversi, dei docenti amici Luciano Nanni, Paolo Puppa, Martin Gosman, dell’ex rettore Fabio Roversi Monaco, degli amici studiosi e soprattutto di molti studenti: è il crocevia dove si incontrano anche il Picchi narratore in prosa e in poesia, drammaturgo, autore e regista di radiodrammi, ma soprattutto maestro per le migliaia di ragazze e ragazzi che presero parte al suo laboratorio di regia, attività parallela agli insegnamenti, volontaristica e permanente, dove le visioni e gli impulsi si fanno lingua, partecipazione: sommati, esaltati, materializzati, messi a disposizione e condivisi nell’allestimento con gli studenti – qui attori e autori – di circa quaranta spettacoli in trent’anni. Qualche tempo dopo, il n. 17 della rivista “Culture Teatrali” viene interamente dedicato agli atti della Giornata di studi, e intitolato Arnaldo Picchi. Iconografia di un regista pedagogo, nel tentativo di sintetizzare in un noema tutti quei mondi e modi la cui separazione è di fatto solo questione terminologica, di etichette: se il modus operandi di Picchi è alla costante ricerca di una sua più pura e radicale essenza, il suo modus vivendi è sempre lo stesso, e regge ogni ruolo. Nell’intervento introduttivo alla sezione espressamente dedicata all’iconografia teatrale, Marco De Marinis cerca di inquadrare, attraverso il commento ai Canovacci predisposti da Picchi per il corso accademico del 2006, i termini entro i quali il docente aveva impostato il suo insegnamento, distinguendo immediatamente questa iconografia teatrale da quella disciplina intesa a catalogare «tutto ciò che può docu-
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De Marinis Marco, nota introduttiva al volume AA.VV., Arnaldo Picchi. Iconografia di un regista pedagogo. Atti della giornata di studi, “Culture Teatrali” n. 17, autunno 2007, p. 9.
Prefazione
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mentare visivamente, sotto varie forme, e a vari livelli, la vita teatrale»2 – definizione che invece rappresenta la cifra comune alla maggior parte degli studi accademici in materia. Immediatamente De Marinis riconosce che, invece, tutto, per Picchi, partiva da domande e interrogazioni critico-registiche e tutto portava, doveva portare a risultanze critico registiche, cioè a ipotesi operative, sceniche, interpretative, attoriali, su testi, situazioni drammatiche, personaggi.
Un’osmosi tangibile: messi al servizio della regia e dell’attività di laboratorio, i domìni dell’iconografia si espandono, gli assiomi s’infrangono. Nella sua prospettiva operativa Picchi intende come serie iconografica qualunque raccolta ordinata di materiali su un determinato soggetto, tema o motivo, qualunque sia la sua predicazione – il suo trattamento: per immagini, per iscritto, in musica, in eventi. Poi – una volta esplorato nelle sue diverse predicazioni – all’interno della serie iconografica Picchi include la Storia e il suo confronto con memoria, storicità e cronaca; e poi luce, musica, attrezzeria, costumi, tutti intesi sia come attributi iconografici che come opzioni della regia; e infine incroci di serie diverse e intarsi – altre sorprendenti storie che sorgono dalla sovrapposizione di nuovi materiali, buoni a cortocircuitare, a sceneggiare la serie iconografica, «sempre con l’intento di percepirne la teatralità» (IV/2.1. Le 4 tecniche della rappresentazione). È con scientifica acribia che vengono messi in un costante e proficuo stato di crisi i confini tra iconografia e iconologia – ma del resto è una necessità riconosciuta, a suo tempo, perfino dal “sistematico” Panofsky –, tra costituzione della serie iconografica e atto interpretativo, tra raccolta dati e «intuizione sintetica» come facoltà mentale diagnostica dell’iconologo,3 tra ricerca storica e moventi personali – tanto dell’artista nell’operare su quel determinato tema, quanto dello stesso analista nelle sue letture e interpretazioni. A tutto ciò Picchi aggiunge in prima istanza il riconoscimento della regia teatrale come atto critico, come dialogo attivo tra gli ideogrammi culturali di cui anche l’iconografia si occupa. In seconda istanza propone di interpretare la serie iconografica come filo di arianna per muoversi nel labirinto delle reti, ovverosia dei rapporti sorprendenti, inconsueti, analogici, tra le cose. In terza istanza queste serie, ora reti, ora tessuti/texture/testi, ora vere e proprie sceneggiature, potranno tornare utili alla progettazione di regie. In ultimo: è possibile pensare a una serie iconografica vivente, live: un’esposizione museale “teatrale”, di immagini in movimento e sonorizzate, contando anche sulle nuove tecnologie della performance: videomapping, piattaforme virtuali, interattività, “abitazione” e manipolazione dell’opera da parte dei suoi fruitori. Picchi si fa promulgatore di un permanente e fecondo intreccio tra le competenze dell’analista, del regista, dell’intellettuale; tra immagini fatte, patrimonio delle arti visive e della letteratura, e immagini da-farsi, in potenza, nella prosa e nella drammaturgia, nel montaggio e smontaggio delle serie iconografie, nell’immaginario, in scena. Questo progetto è predisposto per essere messo a disposizione, a lezione, di ragazzi ap2
Guardenti Renzo (a cura di), Teatro e iconografia-Dossier, in “Teatro e Storia”, n. 25, 2004, pp. 13-14. Panofsky Erwin, Studi di Iconologia. I temi umanistici nell’arte del Rinascimento, Einaudi, Torino 1981, p. 43.
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Prefazione
pena maggiorenni, che hanno da poco finito il liceo. Quella di Picchi è dunque, sempre, una lingua semplice, per un approccio propedeutico e non specialistico, per studenti e non per studiosi; un racconto orale con gli occhi aperti sugli interlocutori, non chinati sul foglio; anzi, a braccio, senza compromettere l’ufficialità di una lezione accademica, ma ben distinguendola da una conferenza. Insieme agli studenti lui rivive ogni volta la prima volta; quella in cui si schiude un metodo. Questa ricca edizione 2016 – in cui si raccolgono in ordine cronologico le preparazioni di ben 4 corsi accademici (1988, 1997, 2005, 2006), con l’aggiunta di 4 articoli già pubblicati – è una sorta di quaderno di appunti dal viaggio verso una nuova disciplina, quella che si intravede infine nitida nei Canovacci di Iconografia del 2006, che non a caso danno il titolo all’intera raccolta, e sono l’ultimo corso predisposto dal docente, e non realizzato. Ma la spregiudicatezza e la luminosità della proposta avanzata da Picchi nel 2006 – che tocca a noi cogliere e sviluppare –, può essere correttamente interpretata solo avendo già affrontato con lui tutto il percorso chiaroscuro di domande, incertezze, scoperte, proposte – inclusa la graduale fissazione di un lessico specifico e di norme comportamentali di fronte ai materiali – di cui i corsi 1988, 1997 e 2005 sono la prova – o “le prove”, prima della prima, ma altrettanto importanti. L’iconografia teatrale – così spesso marginalizzata dai molti che l’hanno interpretata come disciplina accessoria, raccolta di dati poco attendibili, residuati da una dimensione che di fatto si esaurisce in se stessa com’è quella spettacolare –,4 viene ripensata da Picchi su assunti originali, dotata di nuovi strumenti, rinforzata dalla compenetrazione profonda tra immagine e parola; assunti che il lettore metabolizzerà studio dopo studio, strumenti con cui familiarizzerà esercizio dopo esercizio, compenetrazioni che verificherà tema dopo tema – come una lettura ragionata del sommario suggerisce. È comunque ai paragrafi 7 e 8 di questa prefazione che rimando per una più dettagliata descrizione dei materiali contenuti in questa edizione, e del relativo approccio curatoriale. 2. Tavole nere Se nell’iconografia teatrale di Picchi ogni barriera disciplinare appare solo per scomparire, nondimeno si chiarisce subito, io credo, il trampolino storico-metodologico da cui Picchi lancia la sua proposta, lo sbaragliamento di campo di cui si giova, il pionierismo attraverso cui procede per prestiti eterogenei: sfidando qualunque territorializzazione del sapere (una prassi del resto assai comune e comoda), si manifesta in lui un piacere antico, una passionale tensione, attesa, attenzione verso l’emotività che sorregge ogni forma culturale. Si tratta della stessa corrente empatica che guida Aby Warburg in tutti i suoi studi sulla storia dell’arte fino alla sperimentazione più radicale, l’Atlante Universale Mnemosyne (elaborato dal 1924 e rimasto incompiuto alla sua morte, nel 1929). 79 tavole nere come lavagne, numerate: ogni tavola si muove entro i margini di un tema aperto, di una certa sopravvivenza (Nachleben) dell’antico: un panneggio ellenistico reindossato dalla quattrocentesca Maddalena 4
Guardenti Renzo, Iconografia del teatro: un campo disciplinare aperto, in “Quindi”, 17, ottobre 1997, p. 36.
Prefazione
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del Compianto in terracotta di Niccolò dell’Arca.5 Un cortocircuito di forme, un dettaglio oppure una mancanza, mostrano le immagini come viventi in molti tempi diversi. Warburg raccoglie in Mnemosyne le immagini di una vita, la vita delle immagini, i loro incontri: tutte su supporto fotografico e appese con fermagli, per agevolarne gli spostamenti, da una tavola a un’altra. Come dentro alla memoria, ogni immagine è mobile, viva in tutti i tempi. Mnemosyne (non un pro-memoria definitivo quanto una vera e propria memoria al lavoro)6 apre lo sguardo: una tale procedura ostensiva impone all’osservatore di crearsi proprie logiche sequenziali, narrative (drammaturgie multiple e combinatorie direbbe Picchi). È l’occhio a operare un montaggio, immagine dopo immagine, intervallo dopo intervallo, tavola dopo tavola, e a individuare i nessi; Warburg si limita ad abbozzare per ogni tavola una didascalia,7 evocativa, enigmatica, che possa delineare il percorso interpretativo e dello sguardo, sia all’interno di ogni singolo pezzo (per Picchi: montaggio degli effetti, delle cuspidi drammatiche, nella composizione di un’opera), che nella costruzione di sequenze significative (per Picchi: costruzione di serie – coerenti, stringenti, “logiche” – e costruzione di reti di serie – aperte, analogiche, “poetiche”). Warburg progetta questo sistema aperto (che «si situa a metà strada tra il Talmud e Internet»)8 a partire dall’effettivo procedimento espositivo che era solito impiegare nel corso delle sue conferenze, giustapponendo le immagini sulle lavagne e lasciandole “reagire”, aggregarsi o disgregarsi, come composti chimici;9 rinuncia «a ogni ambizione definitoria/classificatoria», «optando per la proliferazione labirintica dell’Atlante, basato sulla costitutiva permutabilità delle immagini»,10 su traiettorie intese come “costellazioni”. Come non v’è un solo gesto teatrale contemporaneo che possa dirsi immune dalla “malattia” dell’Angelos-Hermes Artaud (messaggero e interprete che, nel 1947, un anno prima della morte e tra un ricovero e l’altro, conferì al Vieux Colombier, testi-
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«Warburg, per tutta la vita, cerca un concetto descrittivo e teorico per questi movimenti […] il rapporto di sopravvivenza che si stabilisce, per esempio, tra lo straordinario panneggio passionale di Niccolò dell’Arca, nel Compianto di Bologna, con un tipo di panneggio ellenistico che l’artista rinascimentale poteva difficilmente riconoscere, e quindi “imitare” […] Va tuttavia riconosciuto che Warburg non ha mai sistematizzato la ricerca descrittiva di questi “tratti comuni”. […] Il suo rispetto delle singolarità forse lo rendeva diffidente nei confronti di una pratica capace di schematizzare l’immagine, quindi di impoverirla», in Didi-Huberman Georges, L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte, Bollati Boringhieri, Torino 2006, pp. 164-167. 6 Ivi, p. 416. 7 Tale enigmaticità è evidentemente una scelta, non certo un sintomo di un rapporto psicotico paralizzante con il linguaggio; si tenga conto che «la disposizione visiva dell’atlante – di volta in volta caotica e ordinata, compatta e centrifuga, satura e dispersa – corrisponde esattamente alla disposizione testuale di molti manoscritti la cui stesura è più o meno contemporanea al costituirsi della collezione di immagini». Ivi, p. 427. 8 Ivi, p. 445. 9 Warburg «concepiva ogni conferenza non come un argomento illustrato da immagini, bensì come una sequenza di immagini illuminata da un argomento», ivi, p. 420. 10 De Marinis in AA.VV., Arnaldo Picchi. Iconografia di un regista pedagogo. Atti della giornata di studi, op. cit. p. 71. Il docente prosegue: «L’itinerario scientifico e umano di Warburg, fino all’impresa utopica, ma concreta, dell’Atlante, è qualcosa che mi piace proiettare sul percorso artistico, scientifico e umano di Arnaldo, regista iconografo, che ha mostrato di sentire sempre la forza demonica dell’immagine».
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Prefazione
monianza oculare e sonora di un poeta “suicidato dalla società”),11 così non v’è oggi un solo studio sulle immagini che possa prescindere della “malattia” dell’AngelosHermes Warburg (messaggero e interprete, che nel 1923, nella clinica psichiatrica in cui si era volontariamente ricoverato da quattro anni, conferì sul Rituale indiano del Serpente – una lezione come “lasciapassare”, per provare a sé e agli altri la recuperata autonomia del suo pensiero).12 L’atteggiamento più sistematico e il gesto più anarchico sono entrambi riverbero del pensiero rivoluzionario di due «fantasmi»13 che hanno sperimentato su se stessi, come cosa sola, la piega del libro e la piaga del Cristo. Così disponibili risultano queste figure di uomini, eppure così puntuali i loro moventi, che per Picchi non c’è motivo né modo di rinchiuderli in parrocchie, sette ideologiche, correnti. Quelle di Warburg e Artaud non sono ideologie bensì “malattie”.14 Allora Picchi dice ai suoi studenti: che ognuno si ammali della sua, e ne faccia il proprio metodo.15 3. Disciplina del margine Mentre Warburg, al fine di sviluppare liberamente le sue “eresie”, impegnò tutto ciò che aveva nella fondazione di una Biblioteca (oggi centro di ricerca con più di centoventimila volumi)16 e non accettò mai di ricoprire ruoli accademici, Picchi racco11
Gruppo Artaud fu il nome scelto dal ventiquattrenne Picchi per la sua prima compagnia teatrale, nel 1968, anno in cui Il teatro e il suo doppio veniva per la prima volta tradotto in italiano. 12 «Anche se ha visto nella conferenza l’inizio di una vera e propria “rinascita”, Warburg era perfettamente consapevole che mostrando i serpenti di Walpi tra i denti dei danzatori [...] egli offriva una parabola della sua stessa situazione: La “dialettica del mostro” lo teneva ancora saldamente in pugno. [...] Come Nietzsche prima di lui, come Artaud dopo, un pensatore si è dibattuto nella prova – “schizoide” – della sua genealogia dislocata. [...] Tutti si sono accorti che qualcosa di decisivo si giocava in quella conferenza. Gli uni hanno visto in essa una faccenda scientifica (il Rinascimento italiano rivisitato attraverso la cultura indiana), gli altri una faccenda identitaria (il giudaismo di Warburg confrontato, se non associato, alla cultura indiana)», in DidiHuberman 2006, op. cit., p. 336-337. Didi-Huberman riconosce parallelismi tra la vicenda di Warburg e quella di Artaud anche confrontando i testi quasi indecifrabili, le schisi grafiche, che Lacan avrebbe denominato schizografie, dei rispettivi diari tenuti nel periodo dell’internamento, cfr. p. 344-345. 13 Ivi, p. 31. 14 Ivi, p. 32: «Non si separa un uomo dal suo pathos – dalle sue empatie, dalle sue patologie – non si separa Nietzsche dalla sua follia o Warburg da quelle perdite di sé che gli fecero trascorrere quasi cinque anni tra le mura di una clinica psichiatrica». 15 Ivi, p. 348-355. Nel corso dei suoi quattro anni di ricovero nell’ospedale psichiatrico di Kreutzlingen diretto dal dottor Ludwig Binswanger, in Warburg il “sintomo del pensiero” suscita il “pensiero del sintomo”. Entrambi riprendono la lezione di Nietzsche inaugurando una vera e propria «antropologia dell’immaginazione». Lo stesso medico è autore di svariati articoli e saggi in cui psichiatria, antropologia e storia dell’arte si servono l’una dell’altra per dare forma a una teoria del sintomo. «Ogni interrogazione sul sintomo assumerà così, in Binswanger, la forma di un’interrogazione sullo stile», e lo psichiatra arriverà perfino a studiare «le tendenze manieriste del comportamento schizofrenico». Ivi, p. 354-355. 16 Come scrive Holly Michael Ann, Iconografia e iconologia. Saggio sulla storia intellettuale, Jaca Book, Milano 1993, p. 18, «l’iconologia nel suo senso moderno prese casa in origine all’Istituto Warburg ad Amburgo. La Kulturwissenschaftliche Bibliothek Warburg fu il parto mentale di Aby Warburg. Biblioteca eclettica e idiosincratica [...] venne assemblata tra il 1900 e 1915 secondo la ‘legge del buon vicino’: “l’idea decisiva era che i libri nel loro insieme – ciascuno con la sua maggiore o minore quantità di informazione e ciascuno potenziato da quelli vicini – potessero guidare lo studente, attraverso i loro titoli, alla considerazione delle forze fondamentali dello spirito umano e della sua storia” (F. Saxl, La storia della biblioteca Warburg [1886-
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glie proprio quest’ultima sfida: gli scopi della sua ricerca si condensano nel rapporto con gli studenti, somma eterogenea di “possibilità”, e raramente pubblica articoli o saggi. Per più di tre decenni al Dams procede nell’impegnativo intento di vivere quell’istituzione, che lui stesso ha contribuito a creare, come un passante. Non grotowskiano né brechtiano, non artaudiano né warburghiano; per quanto l’“aria di famiglia”, l’appartenenza a un clan e la sottomissione alle sue regole siano spesso un buon lasciapassare, Picchi non si lascia incasellare; la sua iconografia teatrale era e resta tuttora un laboratorio sperimentale, migrante, extra-comunitario; e resta sopratutto un play, un gioco teatrale, da giocare con i più giovani. D’altro canto è piuttosto pericoloso trattare direttamente, operativamente, con le immagini e la letteratura; la loro terribile risonanza può vanificare ogni nostro tentativo di sintesi, la loro permanenza ci seduce e ci schiaccia. Quella che si può predisporre allora non è una prassi bensì la struttura di una visione, un sistema di pensiero modellabile, una dimestichezza, prendendo a prestito da ogni studioso, critico, artista quanto necessario in quel momento, a volte anche lasciando provvisoriamente da parte la coerenza e preservando anzitutto, con questi uomini, il rispetto, la comprensione, l’amicizia.17 E l’anonimato: portare idee, non nomi. Restare celibi, restare liberi: È una scommessa con una posta molto alta: è infatti ben più facile seguire le regole, dal momento che aldilà delle regole si può vivere una solitudine mostruosa. (I/3.4. Rubriche)
E insieme alla solitudine ci sono altri rischi: di velleitarismo, analogismo. Picchi li conosce bene, questi rischi, e non li teme. Tantomeno teme i giudizi del sistema accademico quanto piuttosto i limiti delle sue forze nel tenere a bada l’inarrestabile flusso delle “corrispondenze”, ed un loro eventuale sfruttamento ideologico, da scongiurare. Per lui in osservazione sono sempre, assieme, oggetto e metodo: in discussione non è la nostra gioia nella scoperta, il nostro piacere nell’applicazione di una mente duttile; ma, come controparte a questo piacere, sorge il dubbio che la spinta, l’effervescenza mentale, finiscano senza volerlo per giustificare – in una specie di plurium interrogationum – tare ideologiche che possono condurre a esiti inutilizzabili o finanche dannosi. (III/5.2. Punctum e spie)
Maestro dello slancio e del dubbio, attentatore alle sue stesse certezze, interessato più alle domande che alle risposte,18 pronto a monitorare lezioni condotte dagli stu1944]; articolo integrato da Gombrich e pubblicato in Ernst H. Gombrich, Aby Warburg. Una biografia intellettuale, Feltrinelli, Milano 1983). [...] Un approccio operativo alla cultura che Warburg aveva ereditato dal mentore Jacob Burckhardt. Molti importanti studiosi presero spunto e ispirazione da questo tracciato di ricerca [...]; tra essi Erwin Panofsky, Ernst Cassirer, Fritz Saxl, Gertrud Bing ed Edgar Wind». 17 Scrive nel 2006, sul “problema della sceneggiatura”: «Io credo che abbia qualcosa a che vedere con l’amicizia. Ma a questa condizione: che i due o tre uomini, interlocutori che si sono incontrati per destino, si parlino al buio, senza toccarsi, senza riconoscersi dai timbri delle voci […] E poi se ne ripartano l’uno dall’altro come sono venuti, prima che faccia mattina. E che mai nessuno sappia chi era l’altro, e che faccia aveva» (IV/7. L’energia di presenza). 18 «Ero meno interessato», dichiarò Warburg «alla soluzione definitiva che alla formulazione di un problema nuovo», in German Essays on Art History, a cura di Schiff G., New York 1988, pp. 246, in Holly, op. cit., p. 21.
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denti stessi, Picchi teme solo l’eventualità di perdere un giorno l’energia dell’ingenuità necessaria a spingersi sempre così in avanti, fregandosene dei paradigmi, dribblando le certezze della teoresi; perché è solo in quell’oltre che i dubbi si legittimano e fecondano, che il pensiero scientifico si rinnova, in ognuno. «Assumere uno statuto scientifico debole per arrivare a risultati rilevanti, o assumere uno statuto scientifico forte per arrivare a risultati di scarso rilievo»?, si chiede Carlo Ginzburg, concludendo poi che se nella ricerca il rigore di una scienza esatta appare indesiderabile, allo stesso modo le oscillazioni del paradigma indiziario appaiono ineliminabili.19 Così il sistema di pensiero di Arnaldo Picchi sull’iconografia si colloca lucidamente su tutti i margini, e si sviluppa sempre in compagnia dei suoi studenti, vasta comunità residente da sempre sul sottile margine tra ingenuità e scoperta. Anche il rigido gergo di Panofsky o Kubler rileva che sono proprio i margini di serie i luoghi del possibile, della crescita. Sempre più dolcemente, senza cercare giustificazioni o approvazioni, Picchi partecipa di tutte le passioni, sconfina, prende posizione e poi, senza cercare giustificazioni o approvazioni, si raccoglie, si scosta, lascia su questo mare di immagini la traccia leggerissima di una scia di barca, che resta giusto un tempo, un intervallo. È l’atto di umiltà di un regista che, dopo averlo aperto e preparato, dona tutto lo spazio all’attore/personaggio, che appaia; di uno studioso e pedagogo che, dopo avere proposto un avvicinamento, dona al lettore/studente il tempo e i modi per condurre emozionalmente, ora dotato degli strumenti intellettuali adeguati, il proprio avvicinamento. È un atto teatrale, solo qui, solo ora, con gli studenti. Un impulso a tentare: È il fascino del risultato lasciato aperto, formalmente manchevole, incompiuto, da finire; come pure quello della combinazione tentata; la fortuna degli errori di combinazione come portatori di nuove possibilità di apertura. Tenere tutto più aperto, sempre più aperto. Chissà dove e chissà quando altri aggiungeranno del loro; ciascuno il suo. (IV/9.2. Duellanti. Per un’esposizione teatrale)
Questo modo di operare si giova dei vantaggi di «perdere lo specifico»; Picchi è uno «s-definitore».20 Ma del resto per un regista-pedagogo l’aggiunta del connotato teatrale a un qualunque oggetto del discorso, non può che risolversi in un guadagno di panorami, richiami, dettagli e soprattutto incognite per la teoresi. Così anche per l’iconografia; teatrale è un ambito disciplinare quanto un aggettivo, e quella di Picchi è un’iconografia molto teatrale,21 la cui fusione con l’iconologia e la rispettiva ricaduta operativa sono pressoché naturali.
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Ginzburg Carlo, Miti emblemi spie. Morfologia e storia, Einaudi, Torino 1986, p. 192. Barilli Renato, “I vantaggi di perdere lo specifico”, in AA.VV, Arnaldo Picchi. Iconografia di un regista pedagogo. Atti della giornata di studi, op. cit., p. 72. 21 De Marinis, facendo riferimento al testo di Didi-Huberman 2006, op. cit., e a Gombrich Ernst H., Aby Warburg. Una biografia intellettuale, Feltrinelli, Milano 1983, ricorda di Warburg la «fortissima tensione al teatro, alla teatralità [...] come fascinazione dell’alterità, come profonda necessità della relazione con l’altro, come energia delle immagini ritornanti- sopravviventi, da cui egli si sente continuamente minacciato, invaso», in De Marinis, op. cit., p 70. 20
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4. La scienza senza nome La raccolta di scritti che viene oggi finalmente pubblicata va a comporre il primo manuale propedeutico di (una possibile) iconografia teatrale, oppure è un altro dialogo con l’ignoto, un’altra domanda: un impulso s-definitorio e s-definitivo per quella che del resto già Warburg chiamava la scienza senza nome. Fatti gli opportuni distinguo contestuali, non si possono che rimarcare gli innumerevoli punti di contatto tra il fragile modo, sempre intimo eppure esposto, in cui Picchi elabora il suo sistema in forma di laboratorio permanente per se stesso e per gli studenti, e il fragile modo in cui, senza dilungarsi in spiegazioni, con didascalie essenziali, Warburg compone il Bilderatlas Mnemosyne per se stesso e per i futuri. Potentissimo è il modo in cui queste raccolte si impongono come dialoghi scatenati tra tutte le immagini e le immaginazioni, lezioni gestite dalle immagini stesse.22 Potentissima è infine, per entrambi i ricercatori, una connaturata disposizione morale, un assoluto rigore etico che impone qualità dolorosa e insieme gioiosa al pensiero. Sulla prima tavola di Mnemosyne appare una raffigurazione del cielo, con tutte le costellazioni, e sull’ultima la pagina di un quotidiano; la pretesa pare essere quella di ricercare in tutto l’uomo. È una hybris, forse, e potrebbe essere fatale; anche per Pic22
Mazzucco Katia, Forster Kurt, Introduzione a Aby Warurg e all’Atlante della memoria, Bruno Mondadori, Milano 2002, illustrano il progetto Menmosyne, che scarta qualunque forma convenzionale di ricerca e divulgazione del sapere: né saggio, né articolo, né lezione, né comunicazione scientifica, esso viene concepito come opera collettiva, frutto delle ricerche di tutti gli studiosi della KBW (Kulturwissenschaftliche Bibliothek Warburg). Mnemosyne è definita da Mazzucco «un’opera non finibile» – in quanto rimasta incompleta del proprio corredo verbale, ma (forse anche per questo) noi la leggiamo come «fortemente impressa delle tracce del pensiero warburghiano» (p. 76); una cosa simile accade anche con questi materiali di Picchi: «Mostrare con le parole, dire con le immagini». Gli autori riportano il pensiero di Gertrude Bing, prima allieva e custode dell’eredità Warburg, quando afferma che c’è «nell’opera di Warburg un legame strettissimo che unisce descrizione e interpretazione» (p. 66); sempre secondo Bing, con Mnemosyne Warburg tenta una specie di “matrimonio alchemico” delle parole con le immagini. Molto “scenica”, del resto, la sua annotazione: «Quanto più penetrava un problema tanto più pensava per immagini» (p. 67). Quello delle tavole di Mnemosyne è un vero e proprio “montaggio” in termini non cinematografici bensì teatrali, ossia un montaggio non imposto bensì ricostruito da ogni sguardo, che decide (guidato forse da un titolo aforistico, evocativo, invocativo) secondo quali strutture logiche e processi associativi le immagini si sono accostate in quello spazio comune (p. 68), forse seguendo quella stessa “legge del buon vicino” che valeva per l’archiviazione dei testi della biblioteca Warburg. Ognuno dunque ricostruisce liberamente il “discorso” delle immagini. «Nelle tavole non è possibile stabilire con esattezza l’oggetto di partenza, perché ognuna delle immagini che compongono i diversi montaggi potrebbero essere un punto di partenza, d’arrivo o di snodo di altrettanti percorsi di analisi». Spesso «le immagini poste all’interno dello stesso montaggio rispondono le une alle domande poste alle altre» (p. 77), e così vale anche nel macrodialogo tra le tavole stesse, intese come “argomenti” ricorrenti. «La difficoltà che Warburg manifestava nel trovare una struttura verbale che potesse restituire la multidimensionalità dei temi trattati è la stessa che lo spinse a spostare in continuazione i libri della biblioteca e a modificare la composizione dei pannelli dell’Atlante. In questo senso l’opera Mnemosyne potrà essere considerata come figlia di una crisi e alimentare volutamente il mito della fragilità di Warburg, ma nei termini in cui egli stesso voleva che venisse coltivato» (p. 83). La proposta iconografica/teatrale di Picchi recupera il suo potenziale anche da un’altra caratteristica di Mnemosyne: «la decontestualizzazione delle opere – a volte un vero e proprio smontaggio – e ricontestualizzazione attraverso accostamenti che – secondo un procedimento ben noto alle Avanguardie artistiche – possono inizialmente apparire incomprensibili ma che in realtà illuminano gli oggetti sotto una luce nuova» (pp. 81-82); così agisce la prospettiva registica e operativa a cui Picchi sottopone l’analisi iconografica.
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chi è sempre questione di vita o di morte, mettendo alla prova anzitutto se stesso,23 persuadendo i giovani a fare altrettanto. Ma del resto a questo destino non si può sfuggire: Il ricercatore, per definizione, insegue qualcosa che non ha a portata di mano, che gli sfugge, che desidera […] in un inseguimento senza fine che, forse, a ragione, definirà metodo. Talvolta, mentre corre, si ferma interdetto: un’altra cosa, inattesa, è apparsa […], fortuita, esplosiva o discreta, una cosa imprevista che si trovava lungo la strada […]. Se le si dedica un po’ di tempo, si dimostra sorprendentemente generosa e feconda. Ciò che la cosa inattesa non è in grado di offrire – una risposta agli assiomi della ricerca come domanda che riguarda il sapere – essa ce lo dona altrove e altrimenti: in un’apertura euristica, in una sperimentazione della ricerca come incontro. Un altro genere di conoscenza. La doppia vita di ogni ricerca, il suo doppio piacere e il suo doppio dovere, starebbe in questo: non perdere la pazienza del metodo […], il rigore delle cose pertinenti; ma non perdere neppure l’impazienza o l’impertinenza delle cose fortuite, il tempo breve delle scoperte, l’imprevisto degli incontri.24
Così Georges Didi-Huberman descrive la disciplina del ricercatore (e con “disciplina” si può ora intendere anche il buon comportamento, rigoroso, nobile), la sua paradossale necessità di evidenze – prove, fatti, somiglianze – e insieme di apparenze – apparizioni, lati oscuri, dissomiglianze. Konrad Lorenz è, in merito, meno narrativo, più imperativo e oracolare: Faccio ciò che voglio e trattengo ciò che mi colpisce finché ciò che non voglio mi dà un senso come una scrittura.25
Da casi di conoscenza accidentale si origina buona parte della ricerca di Picchi; muovendo ogni veicolo di conoscenza sul doppio binario della docenza e del teatro, arriva a postulare princìpi e tecniche per quella che definisce, all’interno del programma di lavoro, “l’irruzione del caso”. Ecco quanto si legge alla voce ATTORE (O CASO) del Glossario di regia – il manuale (anch’esso postumo) tratto dai materiali relativi ai suoi corsi di Istituzioni di regia; testo che ha preceduto e oggi sostiene questi Canovacci di Iconografia: Quel che occorre è dunque che il modello preveda, nella sua elaborazione, l’irruzione del caso; il Caso viene chiamato a tarare, a mettere a nudo, i nostri pregiudizi e a cooperare per quello che non si sa. Lasciato irrompere, è subito riutilizzato nello schema produttivo delle quattro tecniche (Testo, Attore, Visività, Musica).26 23
Laddove Panofsky mira al “significato” delle immagini, Warburg mira alla loro “vita”, intesa come «dibattito di latenze e di violenze», in Didi-Huberman 2006, op. cit., p. 108. «La storia delle immagini è dunque per Warburg, come già fu per Burckhardt, una “questione di vita” e di sopravvita, di sopravvivenze», p. 98. 24 Didi-Huberman Georges, La conoscenza accidentale. Apparizione e sparizione delle immagini, Bollati Boringhieri, Torino 2011, pp. 11-12. 25 Konrad Lorenz in Schmitt Carl, Amleto o Ecuba. L’irrompere del tempo nel gioco del dramma, Il Mulino, Bologna 1983, p. 124. 26 Cfr. s.v. ATTORE (O CASO) in Picchi Arnaldo, Glossario di regia. 50 lemmi per una educazione sentimentale al teatro, La casa Usher, Lucca 2015.
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La “Storia dell’esercizio di lettura iconografica”, e il successivo esercizio “Duellanti. Per una esposizione teatrale”, che coronano i Canovacci per il corso 2006 (IV.9), sono esemplari delle tecniche adottate e della produttività di questa apertura al caso; produttività che è frutto di una curiosità inesauribile, una soddisfazione sempre rimandata, una “malattia” anche la sua, del non saper praticare in modo sistematico quel distacco che garantirebbe l’oggettività dei risultati: soffrire invece, e godere di «un’empatia da eccessiva esposizione».27 L’accidentalità della bellezza, dei “fortuiti incontri”, è una grazia alla quale Picchi non sa né vuole rinunciare; e accettiamo che, pur dopo tanta rigorosa applicazione dei metodi, i risultati saranno impuri, porteranno tracce di noi; dopo tanta abnegazione allo studio, ricerca iconografica e bibliografica, fortezza di testimoni a nostro vantaggio, bisognerà ancora avere le forze per demolire tutto, abbandonarsi all’imprevisto. È difficile, perché, come si diceva, la norma è dimora calda, pulita, in ordine, ben frequentata. Ma bisogna abbandonarsi, partire è assolutamente necessario, da soli. Questo deve essere chiaro; questo è l’impulso che Picchi vuole trasmettere, suggerire, raccomandare agli studenti. Collezionando problemi, ciò a cui mira è lo sviluppo di una nuova sensibilità, di un sesto senso: Insomma, che cosa vedremo in questo spettacolo? – Non credo tu faccia la domanda giusta. Dovremmo chiederci invece: in che modo questo spettacolo può interpellare la nostra intima capacità di vedere?28
Del resto, una volta verificate sia l’incontestabile lacunosità di qualunque testo letterario, di qualunque descrizione, sia l’esuberanza temporale di qualunque immagine, siamo guidati a tentare anche la serie aperta, come prototipo di sceneggiatura (IV/5.3. L’esercizio Girotondo); l’accostamento ardito, come prototipo di dialogo e sperimentazione della nostra libertà di agire nel mondo. Se avremo percorso in modo rigoroso le vie maestre, nell’avventurarci ora su vie traverse avremo buoni strumenti di orientamento, fiuto e pazienza, per verificare della libertà tanto il divertimento quanto lo sgomento. I tentativi si basano sempre su un medesimo principio di deviazione, di attenzione allo scarto, di non-pregiudizio, tale da accogliere come significativi testimoni di forme ed epoche anche quei materiali in cui la purezza, già apoteosizzata in grandi opere d’arte, appare più compromessa dall’uso, dal consumo, dalla derisione.29 27
Come quella di Warburg per Mmemosyne, secondo Forster, Mazzucco, op. cit. p. 83. Didi Huberman 2006, cit, p. 454 disvela la genealogia di questa “malattia”: «Warburg era partito da Nietzsche per imboccare la via di un sapere-tragedia di cui recano testimonianza il carattere erratico della sua opera, lo straordinario dolore del suo pensiero, il posto che in esso occupano il non sapere e l’empatia, la quantità impressionante di domande senza risposta che ci rivolge». 28 Didi-Huberman 2011, op. cit., p. 67. 29 Ivi, cap. “Ritornanza di una forma”, pp. 39-49. L’autore descrive il mercatino per turisti sito in Piazza Navona a Roma: «Una fiera, insomma [...] Dinanzi a un tale disordine di visioni e temporalità, davanti a un tale clamoroso trionfo dell’anacronismo, lo storico proverà forse qualche vertigine – terrore o meraviglia, a seconda dei casi: antiche ruote della fortuna con mostri usciti dall’ultimo Walt Disney; angeli di Raffaello con quei ragni adibiti agli scherzi di carnevale [...]; Pinocchio di tutti i formati assieme a Goldrake trasformabili. [...] Mercato di figurine, dunque: un disordine festivo e figurativo, un ciarpame in cui i bambini sono sovrani, una kermesse di immagini. [...] In mezzo a questa fiera di immagini, mi attraversa il pensiero che qui Warburg, probabilmente, avrebbe tenuto la mente all’erta [...]. La storia dell’arte non appare forse come una variopinta massa di oggetti e avvenimenti, di stati e cambiamenti, di circolazioni e dicerie? Come vedere però,
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Sia per Warburg che per Picchi ogni figura è un «complesso di rapporti»,30 in sé stessa come montaggio di diversi effetti, e nelle sue sopravvivenze in altre figure: ogni figura è impura.31 Tali sopravvivenze designano la «realtà spettrale»32 della figura, liberando un margine di indeterminazione, anacronizzando la storia, sbriciolando dunque la nozione cronologica di durata in un tempo vertiginoso, imponendo metafore ossessive come costanti punti di riferimento, pensieri fissi, nel tentativo di affrontare il labirinto coi suoi mostri, senza “perdere il filo”, pur sapendo di aver liberato, parlando di immagini e di loro risonanze e sopravvivenze, «la massa di una materia storica filamentosa all’infinito».33 Aldilà della Ninfa di Warburg, delle Giuditte e Meduse di Picchi, la metafora ossessiva per entrambi – punto di riferimento e paradigma dell’energia di ritorno delle immagini – è il serpente, ancestralità inestinguibile. Meglio ancora: l’Ouroboros, quello che si morde la coda, che è la visione onirica del chimico Kekulè: risvegliatosi, scopre così il benzene come ibrido di risonanza. Poi, alla ricerca di un’analogia che possa descrivere l’infinito potere dell’immagine, di mostrare e insieme nascondere, il chimico Picchi denominerà ibrido di risonanza quest’energia demonica. Anacronistica per Didi-Huberman, Nachleben per Warburg, Ibrido di risonanza per Picchi (e, vedremo, Inesausta per Arcangeli). L’immagine è della stessa sostanza di cui sono fatti i personaggi: fantasmi, spettri enfatici, aggregato di tante materie, tanti tempi, in un singolo oggetto di studio. E questo vale per «tutte le immagini. Qualsiasi» (IV.6.3. Immagini teatrali, teatralità delle immagini). E aggiunge, in un preambolo ai Canovacci:
in questa massa, il divenire delle forme? [...] Sorge allora la domanda, la vera domanda: come tornano le forme? proprio come diciamo dei fantasmi. Domanda nietzschana, domanda freudiana, ma anche domanda warburghiana per eccellenza: quella del Nachleben, della “sopravvivenza” delle forme o delle “formule” visive. [...] La “ritornanza delle forme” [...] esige di aprire l’iconografia cristiana – quella del presepe – a remotissimi demoni pagani [...], pretende che venga ripensato il rapporto del giocattolo con la religione (pensiamo a Baudelaire) e quello dell’estetica con la merce (pensiamo a Benjamin, a Kracauer) [...] Ogni forma – ogni giocattolo, ogni caramella del bric-à-brac di piazza Navona – possiede forse virtualmente questa potenza di anacronismo, di genealogia, di memoria che riaffiora». Così anche in Argan Giulio Carlo, Storia dell’arte come storia della città, Editori riuniti, Roma 1983, pp. 60-61: «Figurazioni artisticamente povere, [...] documenti di seconda o terza mano come le illustrazioni, le stampe popolari, le placchette, le monete, le carte da gioco e simili. [...] È senza dubbio sintomatico che la storiografia di metodo iconologico prediliga proprio questa copiosa, scadente, imagerie». 30 Didi-Huberman 2006, op. cit. p. 45. 31 «Warburg prova disgusto nei confronti di una storia dell’arte estetizzante», annota Didi-Huberman 2006, op. cit., p. 136. E aggiunge: «Le “pure forme” non esistono per chi faccia dell’immagine una questione “vitale”. Le forme esistono solo in quanto impure, cioè intricate nella rete di tutto ciò a cui la filosofia accademica vorrebbe opporle; le “materie”, i “contenuti”, i “sensi”, le “espressioni”, le “funzioni”. Tutto ciò investe le forme fino a fondersi in esse», p. 381. Così anche «il Rinascimento è impuro, nei suoi stili artistici come nella temporalità complessa dei suoi andirivieni tra presente vivo e antichità rammemorata [...], eppure è proprio questa la sua vitalità», p. 78. Contraddittorie risultano le esigenze che «la borghesia fiorentina formulava, nel XV secolo, nella sua fiera volontà di autorappresentazione: l’individualità alla Van Eyck insieme con l’idealizzazione al modo romano, la “pia semplicità fiamminga” insieme con l’ostentazione del mercante “etrusco-pagano”, il particolare gotico insieme con il pathos classico, il didatticismo medievale insieme con la stilizzazione rinascimentale, l’allegorismo cristiano insieme con il lirismo pagano, il dio crocefisso insieme con le menadi danzanti», p. 171. 32 Ivi, p. 82. 33 Ivi, p. 435.
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Se il testo è di vari pezzi riuniti, è ovvio che sia pieno di lacune. Ma da questo punto di vista anche una banale proposizione è un prodotto di sintesi di assemblaggio. Se io dico “Ieri sono andato in treno da Bologna a Padova”, sto richiudendo in nove parole due ore di vita. […] E dunque qualunque pezzo può andare bene […]. C’è solo spazio da prendersi, perché il tempo è sempre multiplo, caotico e in marcia nei due sensi.34
5. Storia e memoria Il tempo multiplo, lacunoso, il «rompicapo del tempo», s’innesca nella sovrapposizione tra l’anacronismo delle immagini e la natura allografica e istantanea del fatto teatrale, poiché se parliamo di spettacolo allora intervengono altri tipi di iconografia: le iconografie personali e tradizionali dei singoli componenti allografi del fatto teatrale. Ecco dunque, insieme alla doppia iconografia dell’autore del testo [doppia poiché esito della fusione tra tradizione iconografica imposta dall’esterno e iconografie personali, aggiunte proprie], quella dello scenografo, di un attore, del regista, del tecnico luci, del fonico, eccetera (I/1.8. Documenti per l’iconografia del teatro)
L’approccio storico a una tale congerie di immagini reali e potenziali (ognuna di per sé già frutto di continui prestiti, “fotomontaggi” e viaggi nel tempo) in serie iconografiche o in sceneggiature, presuppone lo scardinamento del concetto positivista di Storia come continuum, e il conseguente e penoso «dovere storico di interpretare l’insensatezza della storia»35 che già fu “malattia” – «disperazione senza rimedio»36 – per Walter Benjamin, terzo Angelos-Hermes di questo Novecento di pensatori per immagini. Con Benjamin l’iconografia che non sa darsi pace nella museificazione, che esige di operare nel presente, trova nutrimento nell’idea che la Storia si possa raccontare solo poiché è in movimento, solo perchè richiama di fronte a noi i fatti come tracce, schegge, memoria delle cose: memoria all’entrata della metropolitana di Parigi, che a Benjamin appare come la bocca dell’inferno, memoria nella vetrina di un negozio, memoria nell’uscio della prostituta, nei milioni di rivetti della Tour Eiffel, nelle carte da gioco. Benjamin vede la Storia affollarsi di fronte ai suoi occhi camminando per Parigi; anche lui rivendica il diritto di riconoscere, della Storia, l’immagine più vera nelle sue cristallizzazioni più compromesse e meno appariscenti, nei suoi cascami: vestigia, rifiuti della storia, contromotivi e controritmi, cadute o irruzioni, sintomi o malesseri, sincopi o anacronismi nella continuità dei fatti del passato. Di fronte a tutto questo lo storico deve rinunciare ad alcune secolari gerarchie – fatti importanti contro fatti insignificanti.37
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Preambolo ai Canovacci per il corso di Iconografia teatrale 2006; nota datata 30 agosto 2006. Didi-Huberman Georges, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 118. 36 Ivi p. 95. 37 Ivi p. 100. 35
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Così non c’è progresso, non ci sono artisti minori, arti pure né epoche di decadenza38 («nessuna eugenetica della storia dell’arte» direbbe Picchi includendo nella sua ricerca le immagini digitali recuperate su internet, la fumettistica, i giocattoli, i francobolli, le copertine della serie di racconti di fantascienza Urania, gli articoli di cronaca, Jack Vettriano, pittore pop replicato in serie su stampe adocchiate in pizzeria o copertine di romanzi d’appendice); c’è invece la vita delle forme, e ci sono le nostre vite, sintomi39 e memorie come elementi della nostra disordinata Storia; c’è la rinuncia a un’altra gerarchia che pareva irrinunciabile – dati oggettivi contro dati soggettivi. Benjamin si spinge fino a riconoscere nell’immaginazione – nel libero montaggio delle immagini – una facoltà che percepisce i rapporti intimi e segreti tra le cose, e a comporre perciò reti di serie iconografiche su corrispondenze baudelairiane. Ancora Mnemosyne, la memoria, massima esperta nel montaggio delle attrazioni. Le immagini per Benjamin sono gli strumenti per lo smontaggio della continuità della Storia e il montaggio di una nuova storicità, che permetta l’affiorare di affinità elettive più profonde, strutturali. L’immagine ha spesso più memoria e più avvenire di colui che la guarda.40
Benjamin chiama malizia41 questa qualità dell’immagine, o astuzia. Picchi, che ne fa un uso funzionale alla regia, la chiama sceneggiatura o programma per la scena. Così, tra le tavole dell’incompiuta Menmosyne di Warburg, iconografo-poeta; tra le pagine dell’incompiuto Passagen-Werk (1927-40) di Benjamin, filosofo-poeta; tra le incompiute lezioni-a-forma-di-domanda dei Canovacci di Picchi, ci sono solidarietà e amicizia. Ci sono, condivise, la necessità di un laboratorio sperimentale42 e la con-
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Panofsky si rivela il «grande esorcista» (p. 91) dell’anacronismo di Warburg. Comincia, con il suo maestro, a riconoscere l’impurità del tempo, ma finisce per «estirparla, risolverla, sussumerla in uno schema ordinato che riannoda i legami con l’ambizione estetica delle età dell’oro (il Rinascimento è una di esse) come con l’ambizione storica dei “periodi di riferimento”». Ivi, pp. 96-97. 39 Alla “funzione memorativa delle immagini” risponde «il concetto warburghiano di sopravvivenza. È il modo in cui le immagini sopravvengono e ritornano in uno stesso movimento, il movimento – il tempo dialettico – del sintomo [...] Dovremo considerare Mnemosyne come atlante del sintomo [...] specifico dello stesso Warburg: l’incapacità, così strana in uno storico – di raccontare la storia dell’arte come si racconterebbe una serie ordinata di eventi». Ivi, p. 355. 40 Didi-Huberman 2007, op. cit., p. 13. 41 L’immagine-malizia è il titolo del capitolo, dal quale sono tratte queste riflessioni, che Didi-Huberman dedica al commento del Passagen-Werk di Walter Benjamin. Ivi, p. 119. 42 Guardando all’intera ricerca di Warburg, Didi-Huberman scrive: «Perché, infine, chiamare laboratorio il luogo in cui osservare questa dialettica? Perché l’osservazione diretta – spontanea, positiva o storicistica – non permette di comprendere insieme gli intrichi (i fenomeni di massa, di groviglio o di fluidità) e le contraddizioni (i fenomeni di rottura, di tensione o di polarità). Occorre, a tal fine, inventare un protocollo sperimentale. E tale è appunto la biblioteca, con la sua classificazione così particolare, destinata a sollevare i problemi, le messe in serie di problemi. Tale è anche l’atlante Mnemosyne, questo protocollo sperimentale concepito per esporre insieme, visivamente, gli intrichi e le polarità del Nachleben der Antiken». Su questa “collezione” di immagini vige la logica storica, benjaminiana, della conoscenza attraverso il “montaggio”: «Le differenze delineano configurazioni e le dissimiglianze creano, insieme, ordini inavvertiti di coerenza. Chiamiamo questa forma un montaggio. Il montaggio – almeno nel senso che ci interessa qui, non è la creazione ingannevole di una continuità temporale a partire da “piani” discontinui disposti in sequenze. È, piuttosto, un modo di dispiegare visivamente le discontinuità del tempo all’opera in ogni sequenza della storia», in Didi-Huberman 2006, op. cit., p. 436.
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sapevolezza del «nesso fondante tra “conoscenza” (Erkenntnis) e “confessione” (Bekenntnis)».43 6. Funzionalità Testimoni-chiave dell’approccio aperto di Picchi al profilo morfologico della serie iconografica sono tanto il Nachleben di Aby Warburg quanto il Punctum di Roland Barthes – dal suo ultimo saggio, La camera chiara (1980). A sostegno di un approccio aperto al profilo culturologico e storiografico della serie iconografica possono essere richiamati la rivoluzione filosofica di Walter Benjamin e i paradigmi indiziari segnalati da Carlo Ginzburg. Inoltre Picchi adopera e supera ogni volta, sullo sfondo di ogni argomento, le prescrizioni per l’analisi iconografica proposte da Panfosky; adopera e supera, garantendo alla tradizione un ruolo importante ma non prevaricante. Adotta per le sue ricerche le bibliografie più disparate, un mare aperto di pagine da saggi, romanzi, racconti, articoli di quotidiani, un mare dove già naviga la “fiera” delle immagini. Per il nitore con cui sono illustrati metodi e scopi di questa iconografia teatrale protesa verso la propedeutica per la regia – tanto che in prefazione al Glossario ne parlai come di una «regia pensata» – riporto il promemoria redatto da Picchi, datato 25 ottobre 1999, in preparazione al corso accademico di quell’anno – non altrimenti documentato. 1) Non è possibile usare immediatamente Panofsky e tutto il restante armamentario teoricometodologico, e poi le riflessioni sulle serie incrociate, sui loro limiti eccetera, se innanzitutto non si dimostra la necessità di farvi ricorso. Quindi è opportuno partire da un problema assolutamente contingente, come può essere una commessa di lavoro in teatro. 2) Ora, se di qualcuna delle cosiddette mansioni artistiche teatrali può accadere di essere incaricati (trascuro quelle di infrastruttura – direttore di allestimento, amministratore di compagnia, tecnici di scena ecc.), queste possono riguardare: a) una parte di attore, b) di regista, c) di scenografo, d) di musicista di scena, e) di dramaturg. Ora, qualunque sia l’incarico ricevuto, questo riguarderà la messa in scena di un soggetto. Consegue che, oltre al bagaglio professionale adeguato, è il soggetto che in primo luogo deve essere ben conosciuto. Ciò vale anche se il soggetto deve essere costituito ex-novo. Si deve essere in grado di costruirlo. 3) Il soggetto in realtà si presenta come un ideogramma; e va compreso – cioè sciolto – come un ideogramma. Voglio dire che va esaminato come oggetto funzionale, prima di tutto; come oggetto vivente funzionale. Prima ancora che da un punto di vista estetico o etico (ma non certo indipendentemente da questi valori) va compreso lo scopo per cui è stato progettato. Badare: non dico interpretato, ma capito nella sua funzionalità. Oppure 4) se il soggetto di partenza è un accadimento reale (per esempio un fatto di cronaca o un’improvvisazione di attore) va prima di tutto esaminato in quanto racconto di qualcu43
Ivi, p. 358.
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no che ce lo racconta, e quindi compresa la funzione che gli sta assegnando (e non tanto le ragioni personali che lo spingono a farlo). Quindi: così come l’ideogramma va sciolto nelle sue componenti materiali, grafiche ecc., e nei suoi richiami (nel suo portato culturale), negli elementi reali e in quelli allusi che lo compongono, così anche il fatto di cronaca, l’evento empiricamente osservato, va esaminato nelle sue varie funzionalità. A partire da quelle di chi ne ha fissato il racconto, per comprendervi anche quelle di chi fisicamente vi ha agito. Abbiamo quindi davanti due casi limite: il soggetto dichiaratamente di fiction, inventato, e il soggetto dichiarato cronaca, registrazione di eventi, cioè espressamente escluso dalla fiction. Poi naturalmente le varie combinazioni intermedie. Prime domande: per chi e come e per quale scopo il soggetto è stato approntato (per una platea, un bambino, un poliziotto, un curioso, un’amante, un ascoltatore occasionale, un diario)? Come è stato truccato? Chi mente, e fino a che punto? Se ogni racconto è come un testimone, ogni testimone va sottoposto a vaglio, a critica.
«Si faccia attenzione ai termini» suggerisce Gerardo Guccini: «la “funzionalità”, a cui Picchi si riferiva con frequenza, non implicava un lavoro teatrale segmentato in distinte gabbie professionali, ma una sorta d’agile struttura pragmatica […] indirizzata al conseguimento degli esiti scenici».44 La “funzionalità” è dunque il riconoscimento della destinazione operativa di tutti i materiali che lo studente manipola, della loro natura di strumenti atti a un “esperimento”. Michael Ann Holly, nel breve e illuminante saggio Iconografia e iconologia45 – spesso accanto al Panofsky nei programmi dei corsi accademici di Picchi – propone una buona sintesi sullo stato dell’arte di quella «scienza senza nome» chiamata a volte iconografia, a volte iconologia, altre volte storia della cultura, pur sempre intendendo “esperimento” e attraversamento di confini come “atto politico”:46 La nuova iconologia […] interroga i confini tra i generi e la distribuzione diseguale di potere che essi incoraggiano. Esamina la distinzione tra la cosiddetta cultura “alta” e quella “bassa” e le loro conseguenti espressioni artistiche. Propone un dialogo tra le forme artistiche nello sforzo di superare la condizione privilegiata ora della parola ora dell’immagine. […] Il nome è cambiato; ci riferiamo ora, piuttosto che all’iconologia, alla critica del connubio parola-immagine, o agli studi culturali. […] Non ci sono oggetti artistici autonomi la cui esistenza sia posta in uno splendido isolamento trascendentale. […] Dovremo impegnarci a promuovere o proteggere lo scombinamento di campo. Aby Warburg l’avrebbe fatto. Panofsky certo lo osò fare. La “capacità” della teoria contemporanea ci incoraggia a svariare di molto nelle nostre indagini, e autorizza giustapposizioni non ortodosse tra storia letteraria, storia sociale, materiali psicoanalitici, testi femministi, e così via.47. 44
Gerardo Guccini, “Picchi, regista innovatore”, in AA.VV., Arnaldo Picchi. Iconografia di un regista pedagogo. Atti della giornata di studi, op. cit. pp. 32-33. Holly, op. cit. 46 .Ivi. A p. 19 Holly riferisce di Heckscher William, The Genesis of Iconology (in Stil und überlieferung in der Kunst del Abendlandes: Akten des 21; International Kongresses fur Kunstheschichte in Bonn (1964), t. 3 (Theorien und Probleme) Berlin 1967, p. 246), in cui la conferenza di Warburg dell’ottobre 1912 – dedicata a una inedita interpretazione della cosmogonia negli affreschi di Palazzo Schifanoia a Ferrara e tenuta al Congresso Internazionale di Storia dell’arte di Roma – viene identificata come atto politico e genesi dell’iconologia moderna, forma di analisi che «non ammette di essere rinchiusa da controlli di frontiera». 47 Ivi., p. 77-78. Holly qui rimanda alla teoria di Jonathan Culler riguardo alla necessità di disordine teoretico in tutte le discipline umanistiche; Culler, Framing the Sign: criticism and its institution, Norman 1988. Inoltre: Didi-Huberman in merito a Mnemosyne cita Warburg stesso, che intende la sua opera come «accostamen45
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7. Una curatela Questo lavoro deve sviluppare al massimo grado l’arte di citare senza virgolette. La sua teoria è intimamente connessa con quella del montaggio […] Metodo di questo lavoro: montaggio letterario. Non ho nulla da dire. Solo da mostrare. Non sottrarrò nulla di prezioso e non mi approprierò di alcuna espressione ingegnosa. Stracci e rifiuti, invece, ma non per farne l’inventario, bensì per rendere loro giustizia nell’unico modo possibile: usandoli.48
Da quel paradigma della modernità che sono le macerie e spolia che compongono il Passagen-werk di Benjamin estraggo quello che potrebbe essere il manifesto per l’opzione operativo/funzionale di Picchi sulla storicità e sulle forme, nella prassi teorica come nelle pratiche di regia, entrambe sempre intarsiate, colme di riferimenti impliciti. Picchi sviluppa la sua pedagogia spesso a partire dal commento a testi d’altri – dissepolti dalla sua biblioteca mobile, divisa tra Firenze e Bologna, in cui vigono logiche non dissimili da quella del “buon vicino” che già regola i criteri di archiviazione del catalogo della biblioteca Warburg. Questo sistema a intarsi funziona come una calamita, attirandone sempre di più: e come scomposta si compone la sua scrittura, così si compone e scompone nella lettura a nella curatela, invitando ognuno di noi a inserire nuovi intarsi – i nostri testi, che fanno parte della nostra bio-bibliografia. Le lezioni sono soprattutto una raccolta di esempi e giochi di attenzione e precisione, usando i più disparati soggetti e linguaggi. Ma i giochi non esemplificano una teoria già data: è la necessità di individuare le regole del gioco a produrre la teoria. Per chiarire gli scopi di tale sistema, Picchi scrive a epigrafe dei Canovacci: «È preferibile che la situazione sia il più rilassata e amichevole possibile; e che le questioni risultino più spunti per una discussione che asserzioni prescrittive». Volendo ricomporre nel modo più funzionale quegli appunti scritti o registrati a voce (ovvero riportati in modo immediato, caotico, come bozze per corsi accademici, canovacci per comunicazioni orali, senza alcuna previsione di fissazione sulla pagina), alla curatela si impone di farsi vero e proprio racconto, trattamento narrativo. Quanto coraggiosa è la proposta di Picchi tanto deve farsi la curatela, nell’interpretare il proprio ruolo: una «assunzione di responsabilità dell’intermediario tra autore e pubblico, perché è lui che determina la verità di questo particolare atto comunicativo che è in corso» scrive (in I/1.28. Liceità e opportunità della ricerca iconografica in teatro), parlando del regista, dell’intermediario; e altrettanti diritti e doveri legati alla propria assunzione di responsabilità Picchi li riconosce al lavoro del traduttore. AngelosHermes ho credo giusto titolare questa prefazione, per esprimere in estrema sintesi quanto ho appreso nei molti anni di lavoro con Picchi e su Picchi: Angelos-Hermes, perché un messaggero non può esimersi dall’essere anche un interprete. Rispetto a un impianto epistemico convenzionale, il montaggio necessario alla ricostruzione di queste “lezioni” ricostruisce pur sempre un movimento a salti, che moltiplica le poliritmie delle immagini, le lacune della parola, e rende tangibile la tridito comparatista delle immagini dell’arte nella storia [ai fini di] una scienza della cultura», in Didi-Huberman 2006, op. cit. p. 437. Benjamin Walter, Passagen-Werk, citato in Didi-Huberman 2007, op. cit., p. 116.
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mensionalità e l’espandibilità del sistema. A questo scopo, i principali strumenti di cui la curatela ha dotato i Canovacci sono: 1) la suddivisione e titolazione dei materiali secondo uno schema semplice che distingue, per ogni corso: una prolusione, una serie di studi, una serie di temi o esercizi, una conclusione. I sottotitoli, nel sommario e in testa a ogni paragrafo, possono essere utili per agevolare la consultazione, anticipare i contenuti, svolgere percorsi trasversali; 2) il vasto apparato iconografico, che include la maggior parte delle immagini citate nel testo. Le immagini citate en passant, come divagazioni su ulteriori serie iconografiche o reti di serie non sono incluse per ragioni di spazio ma restano facilmente reperibili sui motori di ricerca internet, così come pure le versioni a colori e ad alta definizione delle immagini qui riprodotte in bianco e nero e a dimensione ridotta; 3) il corposo apparato di note a piè di pagina, in cui quelle del curatore, tra parentesi quadre, si distinguono così da quelle dell’autore. Le note agevolano una lettura anche non consequenziale, poichè laddove il linguaggio di Picchi è allusivo, specialistico o rimanda a temi già trattati, il richiamo in nota chiarisce o indirizza ad altre pagine del testo, dove si trovano le definizioni-base. A questo stesso scopo, di un più ragionato attraversamento di questi materiali, credo utile fornire fin da subito al lettore una lista dei principali termini che compongono il lessico dell’Iconografia di Picchi, così da monitorarne la dinamica: Allegoria, Allografia teatrale, Analogia, Attributo, Cluster, Commento, Collezione, Critica, Critica dei testimoni, Dettaglio, Energia di presenza, Epiteto, Equipaggiamento mentale, Fonti, Fraintendimento, Funzione, Ibrido di risonanza, Iconografia, Iconologia, Intarsio, Metafora, Monumento/Documento, Motivo, Movente, Paradigma, Parola-chiave, Personaggio, Pertinentizzazione, Predicazione, Programma per la scena/Verbale, Pseudomorfosi, Punctum, Racconto, Rete di serie, Ritratto, Rubrica, Sceneggiatura, Serie iconografica, Stile, Tema, Tipo, Trattamento. Se ciò che risulta dalla curatela degli scritti di Arnaldo Picchi volesse essere inteso come un manuale per gli studi superiori, allora la preparazione di un studente, la sua capacità di ben operare con gli strumenti che questi Canovacci mettono a disposizione, potrebbe essere verificata non tanto attraverso domande specifiche quanto piuttosto attraverso la riattivazione del circolo ermeneutico, come Picchi era solito fare, chiedendo: «che cosa ne pensi?», e poi: «che cosa te ne fai?». È la stessa impostazione intellettuale che regge le argomentazioni del suo Glossario di regia, ulteriore testimone a stampa delle vite parallele di Picchi.49
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Oltre a Canovacci e Glossario, altri tre sono i volumi previsti dal progetto “Archivio Picchi”, dedicato alla tutela, curatela, pubblicazione dei suoi testi inediti. Prima pubblicazione, risalente al 2012, fu il monumentale diario di regia per l’allestimento di Enzo re, di Roberto Roversi. Cfr. Picchi Arnaldo, Roversi Roberto, Enzo re. Dalla pagina alla scena, I Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme 2012. Nel testo è inoltre contenuto un ampio saggio a mia firma, dal titolo Einverständnis, dedicato alla storia del Laboratorio permanente di Istituzioni di regia, l’attività volontaristica con e per gli studenti, che Arnaldo Picchi ha voluto, cresciuto, difeso lungo l’arco dei suoi trenta anni di docenza. Nel 2015 è stata la volta del Glossario di regia e nel 2016 di questi Canovacci. Restano in attesa di pubblicazione Teatro. Testi drammatici e studi e Apologia Poetarum. Scritture, prose, poesia.
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8. I testi in questo volume I. Registrazioni (1988). Dopo il testo scelto come Introduzione – una nota scritta nell’estate del 1988 e già piuttosto esauriente nel delineare, sui presupposti della tradizione, quelle istanze teatrali che Picchi sente di poter affermare attraverso gli studi iconografici – vengono presentati i materiali dal primo dei quattro corsi recuperati, in questo caso un vero e proprio flusso di coscienza. Si tratta infatti della trascrizione ed elaborazione delle registrazioni vocali su nastro magnetico, risalenti a quella stessa estate 1988, realizzate sì in preparazione al corso dell’autunno successivo, ma soprattuto in previsione di un manuale poi mai realizzato: ecco perché l’intero “discorso” si sussegue come una serie di appunti relativi a problemi che poi dovranno trovare sviluppo per iscritto. Il ricorso alla viva voce – oltre a dare prova dell’impressionante intensità delle comunicazioni orali di Picchi, della sua capacità di articolare mondi complessi in diagrammi logici sia induttivi che deduttivi – scarnifica i meccanismi del pensiero mostrando utile e precisa mappatura di tutte le aporie, le pressanti questioni ermeneutiche e di coerenza con la tradizione, i dubbi e i timori che nascono di fronte alla sfida di un manuale, all’elaborazione di un metodo per una disciplina che Picchi stesso intende lanciare oltre il metodo, e mettere al servizio della regia. Per disporsi a “leggere” un’opera, Picchi parte dalla basi della semiotica e dell’estetica, ma se ne libera abbastanza presto, quando comincia a prendere forma il lessico, la serie di parole-chiave della sua iconografia, che si ripresenteranno negli anni successivi con significati aggiunti o nuovi. Questi stessi termini si svuoteranno e riempiranno di senso, come in un processo di pseudomorfosi, e saranno essi stessi ibridi di risonanza e aggregati. Così il lessico dell’iconografia è spesso mutuato da quello della chimica pura: è un flusso di coscienza che il regista-chimico traduce in murmure nel suo studiolo fiorentino, labirinticamente; l’ordine degli appunti per questo manuale, ammette Picchi stesso, va interamente ricostruito (e così la curatela tenta di fare, individuando 30 argomenti e titolando ogni paragrafo). L’esito dell’indagine resta interlocutorio, ma è da questo magazzino di domande che può avviarsi l’avventura dell’iconografia teatrale; ed è in questa sezione che si è creduto opportuno concentrare la maggior parte delle integrazioni a piè di pagina: note esplicative e bibliografiche che permettono di contestualizzare le parole-chiave dell’iconografia teatrale al loro primo apparire, confrontando le proposte di Picchi con quelle della tradizione. Le Registrazioni possono essere intese come sommario dei problemi e delle parole-chiave, sommario a cui, nei corsi successivi, si farà opportuno rimando. Specificità dell’approccio all’iconografia teatrale elaborato da Arnaldo Picchi in questi primi anni di insegnamento sono: 1) l’adozione, insieme alla manualistica specifica, di testi dedicati all’ermeneutica, all’estetica, al restauro, alla psicanalisi, alle tecniche di traduzione, alla retorica; 2) l’orientamento di tutta questa varietà di studi verso l’analisi del testo drammatico, ammesso all’iconografia poiché inteso come raccolta di immagini potenziali. Il metodo iconografico si declina nei termini di un sistema di raccolta e serializzazione di varianti di soggetti letterari e relativi trattamenti drammaturgici e allestimenti, ad uso del regista. Un approccio ben rappresentato dall’articolo dedicato alla documentazione dell’allestimento del 1909 de
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La cena delle beffe di Sem Benelli,50 articolo elaborato parallelamente alle registrazioni e del quale queste ultime riportano diverse riflessioni in progress. Nelle Registrazioni si raccolgono, oltre gli appunti In studio. Per un manuale, anche le prime quattro lezioni In aula, nell’autunno dell’88, dove l’intreccio degli appunti trova scioglimento e ordine nell’alternanza puntuale tra analisi testuale e analisi di immagini. Ma è un ordine che si vuole imposto soltanto dalle regole della comunicazione verbale: devo confessare che il mio impaccio principale consiste nel procedere con una successione cronologica degli argomenti, quasi fossero successivi, mentre in realtà sono tutti punti di vista coi quali si osserva un unico argomento o problema – e quindi sono tutti contemporanei. Ma è sicuramente una mia impazienza nel volervi comunicare tutta insieme una certa conoscenza mentre invece, materialmente, mi tocca dire una parola alla volta. [I/2.3. Descrivere le immagini].
II-III. Le regole dell’attenzione (1997) e La compressione dei significati (2005). Dieci anni dopo il nastro magnetico, il supporto su cui si raccolgono gli appunti è ora il computer, archivio di parole sempre rivedibili, strumento che, per sua stessa natura e con il contributo delle banche dati accessibili tramite internet, apre a un’efflorescenza inarrestabile di perfezionamenti, approfondimenti, collegamenti, dettagli. Così, le scritture del 1997 e 2005 non hanno più la forma nervosa degli appunti, ma prendono le sembianze – più accoglienti – di piccoli saggi e articoli divulgativi, discorsivi (i fruitori sono del resto gli studenti di un corso complementare del Dams). Dati per episodi, per suggestioni, non ancora scanditi da uno sviluppo conseguente dell’argomentazione, per agevolarne la consultazione si è pensato di strutturare questi corsi secondo uno schema comune: una prolusione; i contenuti teorici in forma di studi; i contenuti pratici in forma di temi; una conclusione. Nel 1997 e nel 2005 la raccolta di «tutto ciò che può documentare visivamente, sotto varie forme, e a vari livelli, la vita teatrale» risulta solo una delle tante funzioni dell’iconografia per il teatro. Cresce esponenzialmente la «fiera» dei soggetti e degli oggetti trattati: oltre ai temi e motivi letterari l’analisi e la serializzazione includono ora molte immagini. Il teatro si colloca all’incrocio di tutte le culture dell’area in cui esiste, così che i punti di vista da cui può essere accostato sono una moltitudine. E così il sapere di cui possiamo servirci per avvicinarne i problemi – il senso e il valore del suo esistere – è disperso in infiniti luoghi. In pratica non c’è lettura che non ci aiuti in questa marcia di avvicinamento: e perciò si prenda volontariamente un volume il più possibile distante da ciò di cui ci stiamo occupando, cioè dall’iconografia del teatro […]. Questo lavoro è una continua sorpresa. E se non verremo mai a capo della nostra ricerca non dobbiamo scoraggiarci; il viaggio è veramente tutto ciò che importa, perché la nostra curiosità è insaziabile e viaggeremo per paesi e contrade sempre nuovi, e incontreremo genti sempre diverse; e così saremo liberi e inafferrabili, anche se chini su un foglio, alla luce di una lampadina e nella più angusta delle
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Picchi Arnaldo, In margine alle “Cena delle Beffe” di Sem Benelli, in: “Quindi”, nov. 1989, pp. 14-25; numero monografico Tradizione e novità nel novecento teatrale italiano, curato da Arnaldo Picchi; poi ripubblicato in Picchi Arnaldo, Tracce per messinscene pirandelliane, Forni, Sala Bolognese 1991.
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camerette. La ricerca è di per sé una lode a Dio, al dio della Ragione, all’umanità dell’Uomo. (III/1. Prolusione. La compressione dei significati. Spinoza).
Simili presupposti non possono che predisporre l’annessione definitiva (come sarà nei Canovacci), all’interno degli studi di iconografia, di tutte le tecniche della rappresentazione teatrale: testo, attore, spazio, musica – e, con esse, di tutte le possibilità del fraintendimento: ridurlo, ammetterlo, esaltarlo. IV. Canovacci di Iconografia teatrale (2006). Nei Canovacci si ripresentano le domande chiave, già esposte fin dal corso 1988 – cosa sono l’iconografia e l’iconologia e come si mettono al servizio della regia –, e si organizzano infine delle risposte possibili – e definitive solo per via dell’intrinseca fatalità di un opus infectum. I Canovacci differiscono in modo considerevole dai corsi precedenti, fin dal programma didattico dichiaratamente incentrato sulla produzione di un progetto di allestimento; differiscono nel linguaggio, intimo e rilassato; differiscono poiché non confortati dalla prova empirica della loro efficacia nel dialogo con gli studenti; non è possibile per Picchi – scomparso la sera del 24 ottobre 2006, a poche ore dalla quinta lezione di questo corso specialistico – ricalibrare i materiali dopo il passaggio in classe, come accadeva invece per i corsi del 1997 e del 2005. Eppure i Canovacci vanno a impostare quello che si presenta come il percorso più completo per chiarezza di linguaggio e per sviluppo, per studi ed esercizi, per ampiezza di trattamenti sia visivi che narrativi, per proposte ed esiti. La capacità dell’autore di articolare un simile discorso, ammorbidito proprio dalla sua natura di diario preliminare, rende a questi Canovacci tutto intero il valore di un lascito di grande spessore scientifico, pedagogico e, nondimeno, letterario. Mettendo a frutto questo lascito, dopo la scomparsa del docente il corso potrà essere portato avanti dagli assistenti – tra i quali io stesso. I Canovacci vanno dunque intesi, anche da chi ora li consulta, come un invito a trattare personalmente, con gli strumenti già acquisiti attraverso gli scritti precedenti, i problemi che l’immagine pone. In buona sostanza, i Canovacci sono finalmente ciò a cui tutta l’iconografia di Picchi tende: un quaderno per il regista, ove raccogliere immagini, cartoline, fotografie, commenti, articoli, ritagli, riferimenti bibliografici, che così si incontrano e dialogano. La capacità di leggere dentro e tra le immagini e di vedere dentro e tra le parole (capacità comunemente detta intelligenza, dal latino intus legere, “leggere dentro”, o inter legere, “leggere tra”) viene sostenuta dalla disciplina e messa in moto dall’immaginazione. Come già sottolineato nelle prime pagine – ma giova ripeterlo – in questa edizione degli scritti di Arnaldo Picchi dedicati all’iconografia, la scelta di procedere cronologicamente permette al lettore, da un lato, di percepire tutto l’evolversi della nuova disciplina, tutti i passi dell’autore verso la pienezza di un sistema di pensiero; dall’altro tiene in sospeso la piena adesione della proposta di Picchi ai suoi stessi presupposti operativi e ideologici – che sono quelli di un regista teatrale al lavoro su soggetti da allestire e di un intellettuale al lavoro sulla sua cultura. Visto che è impossibile far rientrare tutta una cultura simultaneamente in un unico quadro, dovrò cominciare l’analisi da un punto scelto arbitrariamente. Poiché le parole devono ne-
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cessariamente essere organizzate in righe, dovrò presentare questa cultura (che, come qualunque altra, è in realtà un complicato reticolo di cause ed effetti intrecciati tra loro) con parole disposte in serie lineari anziché attraverso una rete di parole […]. L’ordine in cui questa descrizione è organizzata è necessariamente arbitrario e artificiale. [sottolineature mie]51
Bateson si trova nello stesso impasse di Picchi, che è poi anche il mio, nel ricoprire il compito di curatore. Si sa che in una serie iconografica l’ordine cronologico è necessario alla corretta comprensione e interpretazione dei dati; l’illuminazione, l’eureka, non possono essere predisposti per iscritto né descritti. Ma avvengono, ed è nei Canovacci che infine la serie cede il posto alla rete. La lettura del corso 2006 risulta più discorsiva e ricca proprio perché giunge nel momento in cui un sistema di pensiero è stato sviluppato, chiarito e confermato, al punto tale da poter essere ora messo in discussione. Il corso ruota infatti attorno alle tecniche di sceneggiatura per immagini, e scatena il «disagio del metodo», le potenzialità dei fraintendimenti, arrivando a sdoganarli definitivamente, senza più remore, anzi: con una certa soddisfazione. Si impone la questione centrale dell’autorizzazione alla descrizione, al commento, all’interpretazione, alla critica; e alla regia come atto critico – autorizzazione che l’immagine stessa concede a determinate condizioni. È perciò nei Canovacci che l’iconografia (la disciplina che regola la costruzione di un archivio ragionato di documenti, stabilendo serie) cede definitivamente il passo all’iconologia (la disciplina che commenta e confronta i documenti, stabilendo reti), coniugandosi definitivamente con le tecniche della regia teatrale, in un generoso scambio di potenzialità, con licenza di suggestione e di poesia. Ed è qui che l’ausilio del Glossario di regia torna più utile; è qui che, con una spinta vigorosa dal teatrale verso il performativo, il programma per la scena o il testo spettacolare possono prendere le mosse da qualunque documento: una fotografia, un brano musicale, un breve racconto, un episodio biografico. Picchi illustra un modo, vari modi, per farlo. Canovacci. Appendice. Note in forma di dialogo per “Arcangeli, Morandi”. Il problema del commento alle immagini – o, più correttamente, del “dialogo” con le immagini – è affrontato da Picchi a partire dalle riflessioni sull’arte raccolte nei testi del critico e poeta bolognese Francesco Arcangeli (allievo di Roberto Longhi e suo erede alla cattedra di Storia dell’arte all’Università di Bologna); è lui il nostro quarto Angelos-Hermes – “malato di Novecento”. Picchi coglie suggestioni sia dalle limpide proposte metodologiche che dall’esperienza personale di Arcangeli, sia dai testi pubblicati che dalla tormentata vicenda relativa alla monografia che il critico dedica al maestro, amico e concittadino Giorgio Morandi, che però la ricusa, ritenendo l’interpretazione di Arcangeli inattendibile e falsificante, «ostracizzandola come una calamità».52 «Storia amara di dissapori tra due uomini, negli anni compresi tra il 51
Bateson Gregory, Naven. Un riturale di travestimento in Nuova Guinea, Einaudi, Torino 1988, pp. 8-9. Luca Cesari, introduzione a Arcangeli Francesco, Giorgio Morandi. Stesura originaria inedita, introduzione, apparati, note a cura di Luca Cesari, Allemandi, Torino 2007, p. 33. Il testo è l’edizione critica della monografia, e porta traccia di tutte le modificazioni apportate da Arcangeli a seguito delle continue obiezioni di Morandi, prima del definitivo “ripudio”. Leggiamo, da una lettera che Morandi indirizza a Cesare Brandi (critico di fama, già autore di saggi dedicati al pittore bolognese e pubblicati col placet dell’artista) in merito
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1961 e il 1964, degenerata poi nell’“assurdo” allontanamento subito dal critico dal raggio umano e professionale del pittore, perpetuato oltre la scomparsa dell’artista».53 Una vicenda di incredibile durezza che, mentre ieri pregiudicava la reputazione e straziava la coscienza di Arcangeli – fino a condurlo a una deriva psico-patologica «che ha la sua origine nell’incredibile attaccamento alla persona dell’artista, rispettato come un “padre”»54 –, apre oggi a una discussione, tutta di carne e sangue, sul controverso rapporto tra arte e critica, poesia e commento: in breve, ancora, tentativi di descrivere la demonicità delle immagini attraverso la “malattia” che provoca negli uomini.55 La questione, al cuore di ogni atto artistico e critico, coinvolge Picchi totalmente e viene da lui “predicata” sia in termini accademici che poetici – anzi fondendo le due predicazioni in una: tutta la carica poetica ammissibile entro il progetto per un corso universitario specialistico di Iconografia teatrale; tutta l’acribia accademica ammissibile entro il progetto per tre spettacoli, ognuno dei quali dedicato a un dialogo immaginario tra critico e artista, sullo sfondo di un incontro – onirico e musicale – tra le vie di Bologna: Francesco Arcangeli e Giorgio Morandi, Roberto Longhi e Caravaggio, Cesare Gnudi e Nicolò dell’Arca. Con un testo drammatico scarno, in forma di dialogo, scritto per l’occasione dal maestro e amico Roberto Roversi, Picchi porta in scena nel giugno 2005 il primo di questi programmi, col titolo Arcangeli, Moran-
al brusco rifiuto della monografia: «Il primo dissidio nacque dalle ingiustificate e sciocche polemiche contro di Lei e contro Argan [...] Ma non soltanto verso studiosi d’arte erano rivolti, diciamo pure, i suoi rancori, ma anche verso altri amici come, ad esempio, Eugenio Montale. Dava l’impressione che il suo desiderio era quello di far nascere dissapori ed allontanare vecchi e cari amici [...]. Fra tante sciocchezze, di cui parecchie in evidente malafede, anche quella di cui lei mi parla per cui io sarei ‘il padre dell’Informale’ faceva parte del testo» (pp. 33-34). Nonostante queste parole di Morandi, Cesari sottolinea che i rapporti tra Arcangeli, Brandi e Argan erano prima e furono successivamente sempre improntati alla massima civiltà, educazione mentale e collaborazione. «Fu poi l’adoperare tante idee e tesi inedite che non garbò a Morandi» (p. 35), cui infastidiva l’essere considerato «antieroe delle avanguardie», «capo di una civiltà di minoranza», «ariete di una revisione del moderno contro Picasso». 53 Ivi, p. 9. 54 Ivi, p. 33. Inoltre Pasquali Marilena, Giorgio Morandi. Saggi e ricerche 1990-2007, Noèdizioni, Firenze 2007, p. 206, parla di «gravi crisi nervose sfociate dieci anni più tardi nella morte prematura» di Arcangeli. Del resto nel critico il disagio psichico iniziò «a manifestarsi già attorno ai 22-23 anni, nel 1937-38 (e) andrà precipitando con la scomparsa dell’adorata madre, proprio nell’estate del 1962». 55 Pasquali, op. cit., p. 205: «Una vicenda emblematica di come, per chi sente davvero l’arte e la cultura come parte inscindibile del vivere, come la sostanza stessa della vita, una disputa d’ordine meramente critico ed interpretativo possa divenire causa di lacerazioni profonde che straziano chi ne è coinvolto in prima persona». L’autrice si preoccupa però di cercare le ragioni del rifiuto di Morandi, superando la banalizzazione e la forzatura dell’accaduto nella direzione che farebbe «di Arcangeli la vittima e di Morandi il carnefice» (p. 206). A p. 210: «Entrambi i ‘contendenti’ hanno ragione, o – meglio – le loro ragioni e i loro torti: Arcangeli ha il diritto culturale di leggere Morandi come meglio crede e di esprimere con tutta l’energia necessaria le sue opinioni. Morandi ha il diritto di non essere d’accordo su specifici riferimenti e sulla più complessiva impostazione ‘allargata’ del discorso critico. Arcangeli rivendica la sua piena libertà di giudizio come autore del saggio; Morandi chiede il rispetto delle sue opinioni e cerca più e più volte di spiegare al critico che, trattando il libro di lui e della sua arte, chi lo leggerà sarà legittimato a pensare che egli condivida nella sostanza e nelle singole parti quanto in detto volume è contenuto», come espressamente scritto nella lettera di Morandi ad Arcangeli, datata 5 ottobre 1961. Pasquali analizza e infine sintetizza la divergenza tra Arcangeli e Morandi, mettendo in evidenza come, secondo il pittore, nella monografia il critico «per ‘alzare’ Morandi tende ad ‘abbassare’ tutti gli altri» (p. 213), sia che si tratti di artisti o di recensori e critici.
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di. Parole, silenzio, dolore.56 Le riflessioni più pregnanti e personali sul problema della critica e del commento sono contenute in un diario che Picchi redige, anch’esso nella forma di un dialogo, nel corso delle prove di allestimento del testo di Roversi. Di tale diario di allestimento sono riportati, in questa Appendice ai Canovacci, i passaggi salienti, utili inoltre a comprendere lo stretto legame tra il Picchi regista e il Picchi docente, che imposta il suo corso di Iconografia teatrale 2006 sui temi affrontati per l’allestimento del 2005, mostrando dunque, del problema del commento alle immagini, la prospettiva più intima, partecipata, personale, sia per Arcangeli che per sé. Picchi è attratto dal caso Arcangeli poiché anch’egli è autore di un’opera in cui la forza delle immagini si dispiega in tutta la sua invadenza e conflittualità. Così agli incompiuti Mnemosyne e Passagen-Werk, vibranti sintomi di questa invasione, si affianca ora la monografia rifiutata dal pittore famoso; a tenere aperta la questione su quanto il metodo giusto per la storia dell’arte debba potersi affrancare dalle interpretazioni ufficiali di termini come “metodo” e “giustezza”;57 a riconoscere le tremende forze in gioco (energie di presenza direbbe Picchi) quando è con le immagini che si gioca. Non si dà morfologia, o analisi delle forme, senza una dinamica, o analisi delle forze.58
V. Quattro articoli pubblicati. Nel corso della sua carriera Picchi pubblica molto poco, riservando tra l’altro la maggior parte dei suoi articoli sulla regia e l’iconografia a una rivista da lui stesso progettata e curata, “Quindi”, dal formato imponente 56
Lo spettacolo venne messo in scena il 21 e 22 giugno 2005 presso l’aula absidale di Santa Lucia a Bologna. La componente attoriale fu affidata al seguente cast: Omero Antonutti, Morandi; Gianni Fenzi, Arcangeli; Massimiliano Briarava, il laureando; studenti del laboratorio di regia nel ruolo di loro stessi. Le musiche furono affidate a Francesca Breschi e al M° Orio Odori, e concretizzate in due canzoni realizzate per l’occasione su testi tratti dalla raccolta di poesie L’Italia sepolta sotto la neve di Roberto Roversi, e collocate in apertura e chiusura dello spettacolo, e da un intermezzo musicale, pure preparato per l’occasione, in cui era impegnata un’orchestra di fiati composta da una ventina di elementi. La visività era affidata a un Racconto per immagini, una vera e propria drammaturgia parallela, che accompagnava l’allestimento con proiezioni di opere di Morandi sulla parete circolare dell’abside, oltre la vetrata del fondale. Nella relazione artistico-scientifica, prodotta da Picchi a conclusione del progetto, si può trovare una sintesi del nucleo drammatico affrontato: « In primo luogo, dunque, si è trattato di riesaminare i vari problemi teorici relativi alla critica d’arte come esposti in letteratura. In particolare quelli riguardanti la possibilità di rendere il valore etico-estetico di un’opera pittorica attraverso il linguaggio della critica, trascinato a volte fino alle sue risonanze poetiche. Ed era questo il nocciolo della disputa tra Morandi e Arcangeli. Di conseguenza sono state esaminate le questioni poste dalla ‘drammaturgia in versi’ con cui Roberto Roversi rendeva la complessa vicenda professionale e personale che si sviluppò tra Arcangeli e Morandi; esaminando, voglio dire, questo linguaggio drammatico innanzitutto nella capacità di rendere la complessità, anche dolorosa, di quella vicenda, poi nella sua propria sostanza espressiva e infine nella sua funzionalità in un progetto scenico, distante, per com’era, da qualunque realismo e volto piuttosto verso una sorta di Sprechgesang. Questo ha portato ad affrontare i problemi di regia che venivano posti da un testo di gran pregio letterario, ma anche scenicamente ellittico, e nel quale la resa stessa dei personaggi storici e delle ragioni del loro contrasto passava attraverso atmosfere sottili e al limite del silenzio. [...] L’allestimento di Arcangeli, Morandi ha dunque in questi vari modi messo alla prova la natura di seminario avanzato del Laboratorio di Istituzioni di Regia da me diretto». 57 Cfr. Didi-Huberman 2006, op. cit. p. 466. 58 Ivi, p. 104. Le forme sono dunque il precipitato di un conflitto – aggiunge Didi-Huberman –, sono un gioco di forze.
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(24x34), dove raccoglie i contributi di molti studiosi amici, corredandoli con immagini spesso edite in modo soprendente – sparse tra le pagine, libere, come racconto parallelo, a sé. Oggi pressochè introvabile, “Quindi” era «una rivista del tutto singolare»,59 le cui uscite non avvenivano secondo scadenze previste ma solo quando si fossero raccolti un numero sufficiente di materiali interessanti. Pare quasi ironico allora il sottotitolo della rivista – “Per l’invenzione del tempo”; un motto che forse allude alle dimensioni temporali dell’immagine e del teatro, prevedibili solo per un tratto, quello di cui si può parlare – mentre il resto rimane come educazione alla conoscenza accidentale. I quattro articoli scelti per completare questo manuale (due dei quali risalgono appunto a “Quindi”) sono rappresentativi delle diverse declinazioni teatrali dell’iconografia, conferite qui in modo sintetico e chiaro, pur senza mai rinunciare a quel valore aggiunto che è il coinvolgimento personale dell’autore, sempre evidente nelle preparazioni ai corsi. Il coinvolgimento è attestato anche dal ripresentarsi puntuale, in tre su quattro di questi saggi brevi, di una medesima figura femminile: Giuditta, testimone chiave di tutti gli usi a cui può essere piegata, senza mai spezzarsi, l’iconografia di un archetipo: paradigma della prolifica dialettica tra vizio e virtù. Attori e pittura di storie e L’aiutante magico nella forma degli oggetti di scena trattano il tema (poco sviluppato nei corsi) dell’iconografia teatrale come studio dei materiali residuati dall’orbita di un allestimento: fotografie, attrezzeria, pitture citate in scena, rassegna stampa. E se l’iconografia funzionale al lavoro del regista pare essere momentaneamente messa da parte, tracce della personalissima poetica di Picchi restano nella delicatezza con cui descrive la sovrumana forza delle immagini sopra alle parole, dell’inesplicabilità dell’esistenza, del tempo sacro condensato negli oggetti più minuti, che non trova modo di essere detto – se non forse in Proust. In Omogeneità e margini delle serie iconografiche la discipina è interpretata come procedura di identificazione di figure limite, le più dinamiche, le più politicamente attive, quelle vive; infine, in La regia e l’attore personaggio come tecnica di scena si dipana, in una sintesi eccellente, tutta la proposta di Picchi, in cui l’iconografia è sia il vivace piacere dell’ordine classificatorio che l’affilato bisturi che ritaglia i contorni del lavoro del regista e dell’attore sul personaggio, e del lavoro del personaggio sul regista e l’attore; una reciprocità piena tra reale e immaginario, storia e presente; un ponte con il Glossario, una classificazione sia ordinata che creativa, scrive il regista-chimico: «come una tavola di Mendeleiev». 9. Immagine-rebus Quale urgenza spinge Picchi nella sua (e non solo sua, s’è visto) ostinata sfida all’ordine? Io credo si tratti dell’impegno che richiede essere onesti, integri; bisogna prevenire lo scollamento tra realtà e rappresentazione di cui risentono l’arte ridotta al concetto o all’esercizio di stile, la ricerca ridotta alla teoria, la storia ridotta alle date. 59
Riflessioni estratte dall’articolo di Paola Bignami, “Arnaldo e la sua iconografia”, in AA.VV., Arnaldo Picchi. Iconografia di un regista pedagogo. Atti della giornata di studi, op. cit., pp. 76-79.
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L’urgenza deriva poi, per Picchi, anche da una “religiosità” laica, con Pasolini (Angelos-Hermes che presiede all’intreccio politico/poetico della proposta di Picchi), votata all’umanità dell’uomo; una religione che «si manifesta come scrittura poetica, cioè quando riassume il rapporto con l’assente riprendendo la sua dolorosa ricerca, quella di Iside, o di Demetra, o dello chassid (l’uomo pio), che nell’immondezzaio del mondo cerca le disperse scintille di Dio. Quando cioè la parola torna a essere sé, sforzo per riunirsi all’altro, e accettarsi come visione, canto o preghiera» (IV/8.1. Individuum est ineffabile). Riconosco ancora le fertili provocazioni di Arnaldo Picchi, mio maestro, e le volte in cui ci sembrava di avere catturato il mondo in una sera, in una frase, in un’immagine; infantile soddisfazione, ma fragorosa. Riconosco queste conquiste per esempio quando George Didi-Huberman, col medesimo gusto della provocazione, e allo scopo di esemplificare il «disagio del metodo», di aprirlo all’euristica, di cimentarlo all’esperienza, ci spinge a uno pseudomorfismo analogico assurdo: arte astratta, Pollock, dripping, rintracciati tra le macchie e le nuances di colore di una serie di riquadri decorativi, rettangoli di finti-marmi, nel registro inferiore di una Sacra Conversazione del Beato Angelico (fig. 1).60 Una pittura accessoria, mai ritenuta degna di uno sguardo iconografico, non può essere processata con gli strumenti convenzionali dell’iconografia. Chiaramente il Beato Angelico non è il progenitore dell’action painting e l’analogia non resiste a lungo; eppure l’immagine risuona del suo anacronismo, produce un corto-circuito nel nostro equipaggiamento mentale, e di fronte ad essa ci troviamo improvvisamente oltre le illusioni dell’eucronia (“l’artista e il suo tempo”); il nostro sguardo si sospende incerto tra tempo, storia e memoria. Ecco il nocciolo del problema dell’iconografia: le subdole opportunità di un fraintendimento. Il dovere di ridurlo al massimo e insieme l’impossibilità di non fraintendere. Non eravamo là – ed esserlo non sarebbe bastato a fornirci garanzie; non eravamo lui. Non ci resta che essere noi, con ciò che resta di lui: immedesimazione insieme a straniamento, storia insieme a memoria, hic et nunc, come fosse teatro. Guarda che ironia: una similitudine con il teatro salva l’iconografia dalle sue presunzioni. Se fosse possibile, anche solo per un momento, anche solo per pochi intimi, bisognerebbe tentare. Poi, in effetti, anche Didi-Huberman parla di teatro, spazio che «non rappresenta il mondo come disegno figurativo, ma come rebus di azioni, di intensità, di calcoli, di paradossi, di defigurazioni»,61 così come Mnemosyne di Warburg non vuole decifrare rebus bensì produrli,62 quali unioni naturali tra alfabeti e immagini. 60
Didi-Huberman 2007, op. cit., cap. Overture, par. “Di fronte all’immagine, di fronte al tempo”, pp. 11-30. L’affresco in questione è la Madonna delle ombre, 1440-50 ca., Museo Nazionale di S. Marco, Firenze. Didi-Huberman 2011, op. cit., pp. 30-31. «Tutte le nostre estreme solitudini di immagini sono l’organo stesso che ci permette di stare in contatto con la comunità [...]. Il massimo vertice della nostra solitudine immaginaria sarebbe allora il massimo vertice della nostra condizione comune. [...] Proprio come il mondo, la scena non va letta come un racconto, magari “simbolico” nel senso banale del termine. Proprio come il mondo, non va vista come una composizione in forma di disegno figurativo [...] (un teatro perfettamente realista sarebbe perfettamente inutile). Tra sogno e mondo la scena diverrebbe quel rebus per eccellenza in cui ogni solitudine di immagine esiste come compagna di un’altra e di tutto ciò che l’immagine non è. I sotterranei del sogno costruiscono le nostre città. I mondi paralleli descrivono la struttura del mondo stesso, che non è unico, che non è generalizzabile, ma doppio, sfaldato, sfogliato, fantastico». 62 Didi-Huberman 2006, op. cit. p. 455. 61
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Nel progetto di Arnaldo Picchi l’iconografia teatrale ha come suo primo compito d’essere impulso e sistema per la ricerca, dentro di sé e nel mondo. Così, maternamente, diabolicamente, l’iconografia teatrale si prende carico di tutto l’arsenale di immagini solitarie, solitudini immaginarie, con cui ognuno costruisce i suoi bisogni, le sue mancanze, il suo teatro: gli atti incompiuti, le foto di famiglia, gli amici perduti, le malattie, i piccoli sintomi, i lapsus, le ossessioni, tutta questa collezione di istantanee che ognuno accumula, che accomuna ognuno. «Immagini-raccontimusiche-vissuti. Alcuni di questi sono in noi strettamente privati, appartengono alla nostra esperienza personale; altri li abbiamo in comune con tutti» (IV/1. Il buon dio nei dettagli). Questa iconografia teatrale tenta di metterle in funzione63, le immagini solitarie, le solitudini immaginarie. In un ordine, ma non di importanza. Una sequenza che funzioni, che dalla solitudine faccia sbocciare un incontro, e le parole per raccontarlo.
Ringraziamenti
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Ivi, p. 424. Allo stesso modo Warburg allestisce con Menmosyne un dispiegamento della “funzione memorativa” propria delle immagini della cultura occidentale, portando in tal modo anche tracce del linguaggio privato e della ricerca autobiografica.