MD Material Design Post-it Journal Vol. III (2012)

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Annali MD, 2012 [III ]

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Annali MD Post-it 2012, vol. III agosto 2014 Seriale collana ISSN 2533-0918 ISBN 9788890847547 Editore Alfonso Acocella, Media MD Curatore Veronica Dal Buono Impaginazione Stefania Orlandi Contatti redazione materialdesign@unife.it Lab MD Material Design Dipartimento di Architettura UniversitĂ di Ferrara www.materialdesign.it


Annali MD Material Design Post-it Journal MD Material Design Post-it Journal – specifica sezione di Materialdesign.it, canale comunicativo istituzionale del Laboratorio Material Design – è rivista digitale dotata di specifico codice ISSN, riconosciuta a livello nazionale come periodico scientifico in UGOV, Catalogo dei prodotti della ricerca. MD Post-it Journal nasce per diffondere tempestivamene in rete i risultati in progress delle ricerche effettuate da docenti e giovani ricercatori afferenti al team di Lab MD del Dipartimento di Architettura dell’Università di Ferrara e risponde, attraverso l’organizzazione della sua struttura in categorie tematiche specifiche tra loro correlate, allo sviluppo delle attività di ricerca in architettura e design e delle competenze progettuali trandisciplinari che caratterizzano il Laboratorio. Attraverso la stratificazione di contenuti testuali e iconografici (statici e video-dinamici), la rivista digitale ha come obiettivo la trasformazione in comunicazione e narrazione dei vari percorsi di ricerca e dei progetti innovativi che Lab MD sviluppa entro l’Istituzione Universitaria e sul territorio dell’economia reale, assicurando la disseminazione e divulgazione dei contenuti attraverso la rete. Si pone, inoltre, come piattaforma tecnologica relazionale e di interazione tra i membri del team di Lab MD, il settore nazionale formativo del Design, le Istituzioni, le Associazioni, il Sistema produttivo che ne sostiene economicamente – di anno in anno – i programmi di ricerca. MD Post-it Journal, con puntualità di pubblicazione attraverso un flusso costante di articoli, rende disponibili al pubblico della rete – in forma del tutto gratuiti – contenuti originali inerenti variegati temi nonché tende ad affermarsi, progressivamente, come punto di riferimento culturale nel settore del design inteso nell’accezione generale e vasta di progetto contemporaneo (per la cultura, per l’architettura, per il prodotto industriale, per la comunicazione aziendale e per quella istituzionale). A distanza di quattro anni dalla fondazione di Materialdesign.it, la redazione avvia la pubblicazione degli Annali MD Post-it Journal che intendono porsi come collana di volumi digitali indirizzati a proporre, annualmente, una selezione dei contributi più significativi editati dalla rivista digitale. Gli Annali MD Post-it Journal, in forma di e-book, consentono la riunificazione e la fruizione dei contenuti pubblicati – con l’indicizzazione di ogni singolo articolo per autore, numeri di pagina, data di editazione – facilitata dallo sfoglio sequenziale o dal download del volume complessivo in formato pdf. In un racconto a più voci, negli Annali, si troveranno così raccolti i contenuti più interessanti pubblicati all’interno di MD Material Design Post-it Journal nel succedersi degli anni, conferendo ad essi una seconda vita e un valore di diffusività e fruibilità aggiuntiva.

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Annali MD, 2012 [ I II ]

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indice

Annali MD, 2012 [ III]

Cavità di pietra e continuità spaziale. L’ambiente bagno secondo Manuel Aires Mateus Davide Turrini

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Il cerchio è chiuso Vincenzo Pavan

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Il design degli elementi costruttivi in pietra. Lavorazione artigianale o produzione industriale? Davide Turrini

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Sulle tracce della Digital Fabrication. A colloquio con Christian Pongratz Veronica Dal Buono

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Gustavo Pulitzer Finali. Interni litici di mare e di terra Davide Turrini

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La costruzione litica della contemporanità secondo Alberto Campo Baeza Theo Zaffagnini

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Stonescape di Kengo Kuma. L’intervista Veronica Dal Buono

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Pietra e marmo nel design di Carlo Mollino Davide Turrini

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Acqua e pietra, design e cultura. Stonescape di Kengo Kuma all’ex ospedale dei Bastardini Veronica Dal Buono

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Giuseppe Rivadossi: custodie biografiche Sergio Zanichelli

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STONESCAPE di Kengo Kuma & Associates. Alle origini dell’opera Veronica Dal Buono

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ENZO MARI. Precorritore del design in cartone Davide Turrini

56

Ideare, sperimentare, materializzare. Una conversazione con Matali Crasset Veronica Dal Buono

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Intervista a Fabio Gramazio Veronica Dal Buono

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Pietre d’artificio Veronica Dal Buono

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Convergenze materiche. Atelier di dattico di sperimentazione con Chris Gilmour Veronica Dal Buono

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“Bivouac”, promenade tra le opere di Ronan & Erwan Bourouliec Veronica Dal Buono

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Leonardo Savioli e la mostra “Firenze al tempo di Dante” (1965). L’architettura nel dettaglio Emanuela Ferretti Leonardo Savioli e la mostra “Firenze al tempo di Dante” (1965). L’allestimento come momento espressivo e il design espositivo Emanuela Ferretti Magica materia ceramica. Old House di Kengo Kuma Veronica Dal Buono

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MD Material Design Post-it journal ISSN 2239-6063 Vol. III (2012), 1-6 - Davide Turrini edited by Alfonso Acocella, redazione materialdesign@unife.it

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Cavità di pietra e continuità spaziale. L’ambiente bagno secondo Manuel Aires Mateus

Manuel Aires Mateus, bagno in marmo arabescato, 2012.

«Un oggetto, salvo qualche caso eccezionale, non può essere un protagonista assoluto; deve esprimere una grande misura, ossia risultare disponibile a stabilire delle relazioni. […] Gli arredi che hanno segnato la storia possiedono notevole misura e una sorta di banalità, una parola, quest’ultima, dal significato ambiguo e che utilizzo non come sinonimo di “privo di interesse o di qualità” bensì nel senso di “disponibile alla continuità”. […] Il design implica forti contatti con la produzione artigianale e quella industriale. Per sfruttarne le potenzialità è necessario comprendere quali siano le potenzialità da loro offerte. Nel corso del processo produttivo […] è necessario si stabilisca uno stretto legame tra il progetto e chi lo realizza»1. Questi concetti espressi da Alvaro Siza in alcune considerazioni generali riguardanti il design sono appropriati per descrivere il recente progetto integrato per l’ambiente bagno firmato da Manuel Aires Mateus. Manuel, protagonista con il fratello Francisco di una delle più importanti esperienze professionali dell’architettura portoghese contemporanea, ha studiato una nuova collezione di elementi tecnici in pietra naturale per il bagno che sembra materializzare appieno l’idea di “misura” identificata da Siza nella “disponibilità a stabilire relazioni”; la serie, denominata Escavo, è stata sviluppata in contatto diretto con il processo produttivo grazie all’ormai consolidata collaborazione di Mateus con Pibamarmi, azienda leader nel settore del design litico.

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Manuel Aires Mateus, ambiente bagno in marmo al Salone Internazionale del Bagno 2012. Schizzi progettuali e vista dell’allestimento.

Di frequente Manuel e Francisco Aires Mateus accompagnano le presentazioni dei loro progetti con fotografie di cave o paesaggi rocciosi, in cui si percepisce chiaramente l’alto valore assegnato dagli architetti non tanto alla massa in sé, vista nella sua interezza, quanto piuttosto alla forma solida erosa e scavata, e quindi al vuoto che in essa si apre2. Come sottolineano anche queste immagini di accompagnamento fortemente evocative, la cavità - o meglio la massa in negativo - è un tema di studio ricorrente nelle architetture dei due fratelli e viene declinata una volta di più da Manuel alla scala del design nella collezione Escavo, caratterizzata da un design pragmatico, semplice e concettualmente immediato, che propone figure archetipiche di contenitori per l’acqua come il secchio, la tinozza, il catino. Si tratta di oggetti elementari, per certi versi rudimentali, che tuttavia sul bordo assumono la raffinatezza dei profili sottili e incurvati propri di certe stoviglie di porcellana.

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Manuel Aires Mateus, lavabo da appoggio Bacìa, collezione Escavo, 2012 (produzione Pibamarmi).

Il progetto di design di Aires Mateus si concentra infatti sul contrasto tra essenzialità della massa e complessità del vuoto, sull’individuazione di volumi negativi svasati, disegnati secondo un profilo continuo e sinuoso, che smaterializzano monoliti troncoconici o parallelepipedi; in prossimità dei bordi le cavità così ottenute seguono un andamento flessuoso e affilato, ispirato alle forme di antiche porcellane orientali, sì arcaiche ma estremamente accurate ed eleganti nei dettagli e nelle consistenze materiche.

Manuel Aires Mateus, schizzi di lavabi e ambienti bagno in pietra, marzo 2011.

In questa sua prima esperienza di design Manuel Aires Mateus continua a rielaborare le figure care al suo mondo formale: esse prendono corpo come masse plastiche, o come volumi cavi, ottenuti attraverso un processo di asportazione di materia, nella fattispecie ancor più esplicito e ancor più enfatizzato poiché espresso in un contesto monomaterico unicamente dominato dalla presenza della pietra3. Le cavità degli elementi, per la loro particolare sezione, giocano con la luce in una gamma di penombre e ombre che si intensificano dal bordo, quasi piano, fino al fondo, teso e incurvato; anche alla scala oggettuale il progettista affronta la complessità dei caratteri sottesi al disegno del vuoto, alle sue diversificate morfologie e dimensioni, alle sue condizioni di illuminazione e, soprattutto, alle dinamiche con cui esso viene percepito ed esperito dal fruitore.

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Manuel Aires Mateus, lavabo a colonna Balde, collezione Escavo, 2012 (produzione Pibamarmi).

Dalla serie di elementi tecnici allo spazio del bagno, per Manuel Aires Mateus il design di prodotto si integra organicamente con l’interior design, approdando ad un concetto di total design dell’ambiente dedicato all’igiene e alla cura del corpo: il valore complessivo dell’azione progettuale sta ancora una volta per l’architetto di Lisbona nell’enucleazione spaziale, nell’individuazione di un ambito definito da superfici litiche in cui gli oggetti sono collocati in un rapporto di dialogo con il vuoto e con le placcature parietali che lo circoscrivono. I lavabi, le vasche e i piatti doccia non si configurano come protagonisti avulsi dal contesto, bensì come coprotagonisti addossati ai muri, o da essi parzialmente inglobati; a tratti rivelati, a tratti occultati dall’involucro in pietra delle stanze. Se è la continuità materica a dominare l’insieme, è invece una sottile linea d’ombra – data da una fresatura alla base degli elementi tecnici – a rendere leggibile in filigrana l’identità geometrica elementare di ogni singolo oggetto.

Manuel Aires Mateus, schizzi di ambienti bagno in pietra, gennaio 2012.

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Da un’attenta lettura del progetto emerge con chiarezza la completa assimilazione e rielaborazione da parte di Manuel dell’architettura d’interni di Adolf Loos, filtrata ancora una volta attraverso l’opera di Alvaro Siza. In particolare gli oggetti e gli spazi per il bagno di Aires Mateus mostrano evidenti consonanze con spazi marmorizzati e pezzi di design di Siza, come gli interni della Banca Borges a Irmão (1969) o della Casa di Avelino Duarte a Over (1980-84), e come gli arredi liturgici (altare, cattedra, fonte battesimale) della chiesa di Santa Maria a Marco Canavezes (1990-96), veri e propri oggetti relazionali dai volumi nitidi ed elementari, scavati nella pietra naturale. Negli interni di Siza, come del resto in quelli di Gonçalo Byrne4 nel cui studio i Mateus hanno mosso i primi passi da progettisti, i sontuosi rivestimenti marmorei delle case loosiane, stratificati su pilastri, “boiserie”, balze, stipiti, scale, stesure pavimentali e arredi fissi, sono riproposti a creare parati litici totalizzanti, potenti nel veicolare una continuità spaziale ininterrotta e articolata.

Manuel Aires Mateus: in alto, schizzi di bagni in pietra, marzo 2011; in basso, vasca in marmo Banheira, collezione Escavo, 2012 (produzione Pibamarmi).

In questa idea di bagno coordinato, progettato da Manuel Aires Mateus e costituito da collezioni di oggetti e da superfici litiche, è possibile trovare ricorrenze di moduli dimensionali di 35, 45, 90, 110 centimetri, a caratterizzare i bacili, i piatti doccia, le lastre di rivestimento che si distendono in verticale. Tali modularità sono finalizzate a garantire la maggiore flessibilità possibile nel poter ricoprire in continuità vani di tipologie differenti. Come si addice alle forme scavate nella pietra, i bordi e le pareti delle vasche e dei lavabi sono pieni e netti ma non eccedono nello spessore, i volumi monolitici sono ben proporzionati, le finiture delle superfici lapidee

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sono levigate e setose, morbide al tatto. Ogni elemento tecnico, in forma autonoma o in composizione binata, può trovare una collocazione appropriata in un bagno esistente, ogni oggetto della collezione - di per sé rigoroso e laconico - ha una funzione precisa in un arcipelago di elementi tecnici che può essere distribuito con molteplici configurazioni in uno spazio che non necessita di un apposito dimensionamento. Al di fuori delle mode, gli oggetti di Aires Mateus non sono pensati per essere esibiti in un’ambientazione da catalogo, ma per costituire nuovi archetipi formali e funzionali, capaci di ricoprire un ruolo effettivo nel mondo reale, in una quotidianità possibile, innescando un’interazione autentica e diretta con l’utente e le sue più immediate esigenze poiché pienamente “disponibili alla relazione e alla continuità”. Davide Turrini Note 1 Alvaro Siza, “Sul design”, p. 599, in Kenneth Frampton, Alvaro Siza. Tutte le opere, Milano, Electa, 1999, pp. 617. 2 Si rimanda in proposito a Juan Antonio Cortes, “Building the mould of space. Concept and experience of space in the architecture of Francisco and Manuel Aires Mateus”, El Croquis n. 154, 2011, p. 25 e p. 41. 3 Sul tema della massa monomaterica scavata si vedano anche le considerazioni dei Mateus riportate in Ricardo Carvalho, “On the permanence of ideas. A conversation with Manuel and Francisco Aires Mateus”, El Croquis n. 154, 2011, p.7 e p. 15. 4 Di Byrne si vedano in particolare gli interni marmorizzati della Banca ad Arraiolos (1982-92) e delle case Sá da Costa (1984) e Ferreira (1985-89).

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MD Material Design Post-it journal ISSN 2239-6063 Vol. III (2012), 7-8 - Vincenzo Pavan edited by Alfonso Acocella, redazione materialdesign@unife.it

post-it journal Il cerchio è chiuso

Le installazioni per l’exhibit design con tema a indirizzo architettonico sono in genere mirate a offrire nuovi possibili percorsi di ricerca su materiali, tecniche di lavorazione e forme. La strategia comunicativa prevalente è di due tipi: la realizzazione di un frammento, come parte di un tutto, o di una micro architettura, come costruzione completa anche se di dimensioni molto ridotte. In entrambi i casi però lo scarto con la realtà dimensionale e spaziale dell’architettura reale rende difficile il superamento di una pur efficace azione dimostrativa. L’opera di Raffaello Galiotto e Alessandro Serafini in collaborazione con Lithos Design dal titolo Stone Gate - The circle is complete, allestita alla 47° Marmomacc, non si riconosce in nessuno dei due indirizzi. Non si tratta infatti di un frammento seriale applicabile modularmente a un edificio, anche se la sua matrice è un megaconcio di pietra che si ripete fino a generare una geometria compiuta, e neppure una costruzione che dà luogo a una forma spazialmente fruibile, anche se il principio generatore appartiene certamente alla disciplina architettonica. Infine, per uscire dal campo disciplinare, non è neppure un prodotto di design perché privo di fruibilità pratica. È invece certamente una sfida all’ordine costruttivo che per realizzarsi ha intersecato tutti gli aspetti che nega, li ha interpretati e uniti fino a ottenere un oggetto simbolico di potente forza comunicativa. Lo stesso processo di semplificazione e essenzializzazione, dal tubo originario all’anello, dalla forma compiuta alla matrice, così frequente nella grande architettura del passato (spesso per concreti e “prosaici” motivi di sostenibilità), ha aiutato a pervenire alla forma finale.

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La chiusura del cerchio di pietra, un apparente non sense statico che nella sua rappresentazione decontestualizzata sfida la gravità, è stato subito riconosciuto dai visitatori come oggetto simbolico dotato di una straordinaria e misteriosa empatia spiegabile forse con la sua evidente “innaturalità”. L’artificio, quasi invisibile, di assegnare ai cavi in tensione il trattenimento dell’enorme accumulo di forze altrimenti assorbite da una massa muraria assente, ha trasformato l’installazione dimostrativa in un coinvolgente strumento di esperienza percettiva, visiva e tattile. Un oggetto semplice ma allo stesso tempo complesso come questo può nascere solo dall’osmosi di saperi che si trasmettono in due sensi, dal progetto all’esecuzione per tornare di nuovo al progetto fino a concludersi in una forma logica e chiara, com’è giusto che avvenga in una sperimentazione veramente creativa.

L’installazione Stone Gate in rapporto alla figura umana

L’incontro di un team progettuale di ingegnere, con una azienda anch’essa reggere la sfida, di padroneggiare un reinventare, ha prodotto attraverso dispositivo comunicativo. Vincenzo Pavan

1 - 2 Le fasi costruttive del grande cerchio di pietra

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eccellenza, un designer e un eccellente, capace di cogliere e materiale antico ma sempre da questa esperienza un inedito


MD Material Design Post-it journal ISSN 2239-6063 Vol. III (2012), 9-16 - Davide Turrini edited by Alfonso Acocella, redazione materialdesign@unife.it

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Il design degli elementi costruttivi in pietra. Lavorazione artigianale o produzione industriale?

Assonometrie di elementi architettonici in pietra. Dall’alto a sinistra in senso orario: G. Muzio, edicola della Sala dei Marmi all’Esposizione delle Arti Figurative di Monza (1930); M. Zanuso, rivestimento della Casa in Via Laveno a Milano (1965); C. Scarpa, davanzale della Banca Popolare di Verona (1981); I. Gardella, parapetto della Casa delle Zattere a Venezia (1957)1.

Il passaggio dal XIX al XX secolo è epocale, non solo per i mutamenti politici, economici e sociali che fa registrare, ma anche per le trasformazioni che investono la civiltà tecnologica e produttiva. Ciò è particolarmente evidente nel settore manifatturiero italiano, per molti versi ritardatario rispetto alle dinamiche di avvento dell’industrialesimo già vissute da altri paesi europei come la Gran Bretagna e la Germania tra Sette e Ottocento. In tale scenario anche la filiera di trasformazione dei materiali lapidei vive profonde modificazioni: nei primi decenni del Novecento l’impiego delle tecnologie meccaniche e degli strumenti ad aria compressa supporta sempre più le lavorazioni manuali, inoltre l’utilizzo degli utensili al diamante consente di perfezionare e velocizzare le operazioni di taglio e fresatura. Tutto ciò ha ricadute importanti sulle dinamiche del lavoro e sull’organizzazione della produzione; d’altra parte, dall’inizio del secolo, il contributo delle cattedre di plastica decorativa e di scultura nei regi istituti e nelle accademie di belle arti di molte città italiane, è notevole nel formare non più soltanto artisti scultori, ma anche maestranze tecniche specializzate ed esperti artigiani che possano innalzare il livello qualitativo della produzione architettonica corrente.

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Macchina multifunzione per la lavorazione meccanica di marmi e pietre pubblicizzata sulle pagine de Lo Scultore e il Marmo, febbraio 1933. Clicca sull’immagine per ingrandirla

Così, progressivamente e con grande frequenza, i laboratori di scultura e di artigianato lapideo si ampliano, aggiornandosi dal punto di vista tecnologico, e la pratica del modellare la pietra fuori opera, secondo disegni riconducibili a repertori tipologici ripetibili o secondo progetti a casellario, acquisisce connotazioni di carattere industriale. I centri di lavorazione lapidea sono sempre più delocalizzati rispetto ai cantieri di architettura e si concentrano in distretti specifici sviluppati principalmente nelle aree estrattive venete e toscane. Le nuove applicazioni litiche in architettura si diffondono negli esterni e negli interni, per la realizzazione di elementi strutturali, di rivestimenti e pavimenti, particolari decorativi, di fontane, scale e balaustre, di mostre, davanzali, marcapiani, targhe e insegne commerciali, piedistalli e basamenti qualificati dal punto di vista formale. La sedimentazione di queste innovazioni nell’alveo del design moderno e contemporaneo degli elementi costruttivi consegna all’attualità delle applicazioni lapidee una molteplicità di approcci progettuali e di declinazioni produttive: se infatti, per il settore lapideo, il passaggio dalle arti decorative all’industria all’inizio del Novecento non significa un superamento totale di una realtà in favore dell’altra, ma un continuo processo di andata e ritorno tra dinamiche ideative e produttive sempre compresenti, così per tutto il secolo scorso e ancora oggi in apertura del nuovo millennio, marmi e pietre assumono configurazioni formali e costruttive che si muovono costantemente tra arte, artigianato tradizionale, piccola industria o artigianato avanzato post-indutriale; tra produzione manuale, assistita, parzialmente o totalmente automatizzata; tra “design anonimo”, totale controllo autoriale del progetto, o creatività di equipe.

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Soluzioni tecniche alternative del brevetto Favetti per scale in marmo prefabbricate (1931).

Elementi costruttivi in pietra naturale Con l’avvento del Moderno pietre e marmi trovano un impiego ampio e consistente in tutto il territorio italiano, nel progetto dello spazio pubblico, nell’architettura e nell’allestimento d’interni. Dagli anni ’30 del secolo scorso, prende avvio in particolare un primo dibattito relativo alle potenzialità tecniche ed economiche dei processi di prefabbricazione applicati anche alla produzione di elementi costruttivi in pietra; esso si concretizza in sperimentazioni significative e viene ripreso più volte fino agli anni ‘70. Nel settembre del 1933 si tiene a Carrara il “I Convegno Nazionale dei Lavoratori del Marmo, Granito e Pietre Affini” e «la standardizzazione di alcuni elementi costruttivi con speciale riferimento a scale, rivestimenti, cornici, zoccolature, balaustre»2 figura ai primi posti nelle politiche di rinnovamento produttivo del settore lapideo auspicate nell’occasione. Dagli atti del convegno emerge con forza la visione di un approccio di tipo industriale, da promuovere attraverso accordi specifici tra produttori e associazioni degli ingegneri e degli architetti, finalizzati a realizzare concorsi di idee e studi tecnici ed economici congiunti sulla possibilità di produrre in serie opere statiche e decorative in marmo e pietra. Il brevetto Favetti del 1931 è un esempio precoce dei risultati che la prefabbricazione industriale può dare al comparto lapideo: il sistema costruttivo è costituito da tre varianti dimensionali di gradini e pianerottoli in massello di calcare di Aurisina; gli elementi – standardizzati e prefiniti – possono essere applicati a molteplici morfologie di vani scala; lo studio della sezione dei gradini è ottimizzato per consentire il massimo alleggerimento degli elementi, con conseguenti economie di materiale e di peso per facilitare la movimentazione dei pezzi. Il sistema costruttivo è verificato dal punto di vista dei carichi di rottura con prove sperimentali di laboratorio3. La metà degli anni ’60 rappresenta un importante momento di ripresa del dibattito teorico-critico e delle sperimentazioni sulle possibilità di rinnovamento della produzione lapidea in senso industriale, con una

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nuova attenzione riservata anche alla sfida della “pietra strutturale”, spinta – attraverso processi di prefabbricazione e precompressione – oltre i limiti naturali della scarsa risposta alle sollecitazioni a flessione. Nel 1965, in occasione della “I mostra nazionale del marmo e delle tecniche d’impiego del marmo nell’edilizia industrializzata”, vengono realizzati a Carrara due prototipi di opere prefabbricate in marmo armato precompresso: una passerella pedonale con scale di accesso ed una trave della luce libera di 10 metri e dell’altezza di 25 centimetri4.

L’associazione marmo-acciaio è ottenuta attraverso leganti a base di resine epossidiche e le tensioni raggiunte ai lembi inferiori delle travi nelle fasi di tesatura sono di 510 kg/cmq (importanti se confrontate con i parametri del calcestruzzo). Si tratta di sperimentazioni che dimostrano un approccio avanzato di tipo prestazionale all’applicazione dei lapidei nell’architettura, mettendo in campo tecniche d’impiego razionali ed economiche basate sui presupposti di un’attenta verifica delle caratteristiche fisico-meccaniche in una prospettiva generale di controllo della qualità dei materiali e di innovazione formale e costruttiva. Esempi come quelli dei brevetti e dei prototipi illustrati, oltre a prefigurare con largo anticipo esperienze attuali di applicazioni strutturali della pietra5 , aprono in maniera decisiva un percorso di sviluppo dell’”industria lapidea”, che passa attraverso l’ulteriore rivoluzione dell’automazione e dell’informatizzazione degli anni ’80 e ’90, e che ancora evolve negli scenari post-industriali in parallelo rispetto alle produzioni litiche di impostazione maggiormente artigianale. Industria e artigianato infatti vivono nel cantiere dell’architettura lapidea del terzo millennio una relazione di compresenza, e a tratti di integrazione ricca di sfumature , che non ammette risposte univoche alla domanda posta in apertura di questo contributo.

Elementi modulari per pavimenti in marmi ricomposti, brevetto Fulget (1955-56).

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Moduli per rivestimento in lapidei ricomposti È ancora una volta nel 1933, con il “I Convegno Nazionale dei Lavoratori del Marmo” di Carrara, che si analizzano in maniera sistematica le produzioni della pietra ricomposta o artificiale, in una prospettiva che dà conto per la prima volta di un ulteriore importante filone di sviluppo dell’industria lapidea. Nell’occasione del convegno si citano6: - lastre e mattonelle di vari formati in granulati di marmi con legante cementizio; - ardesie artificiali brevettate per la prima volta all’inizio del Novecento dalla ditta austriaca Hatschek; si tratta di impasti di cemento, amianto e colori minerali, lavorati con un processo produttivo simile a quello della carta a formare fogli stratificati anche di grandi formati per coperture e rivestimenti; - calcestruzzo traslucido sperimentato in Francia intorno al 1906 (cemento armato con inclusioni di blocchetti di vetro multicolori, multiformi e disposti secondo schemi decorativi di varia tipologia, per pareti, cupole e solai)7; - piastrelle in terraglia e in gres ceramico; - marmoridea o marmorina (impasti di gesso, calce, silicato e colori minerali applicati in opera come intonaci e poi lucidati); - marmi artificiali ottenuti con trattamenti speciali di vetri e specchi; - linoleum marmorato, linoleum granito e linoleum a intarsi; - masonite colorata ad imitare marmi e mosaici lapidei.

Inserzione pubblicitaria dei pavimenti in ciottoli ricomposti del brevetto Fulget (Stile Industria, n. 17, 1958)

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Prescindendo in questa sede dai prodotti ceramici imitativi della pietra, che si evolvono nel corso del secolo in maniera sostanziale per giungere all’attualità in una prospettiva decisamente alternativa e concorrenziale rispetto a quella dei lapidei naturali, è certamente la tipologia delle lastre modulari in granulati litici ricomposti a costituire uno dei temi di maggiore interesse per osservare le linee di sviluppo prevalenti dell’industria lapidea nel Novecento. Tale tipologia si afferma nel secondo dopoguerra, dimostrando interessanti ed inedite capacità di rilettura dei materiali litici tradizionali. I tavelloni in marmi ricomposti Fulget, brevettati nei primi anni ’50 dall’azienda Fratelli Capoferri di Bergamo, sono un esempio emblematico di tale produzione: i moduli sono normalmente del formato 40×40 cm, in ciottoli di marmi colorati sezionati, dispersi in impasti leganti di vari mix cromatici e materici; dal 1958 il marchio comprende nuove serie di formati 60×60 cm con tessere di marmo unite a comporre tessiture geometriche astratte, disegnate da Giò Ponti e Gianfranco Frattini. Sulle pagine del numero 278 della rivista Domus, nel gennaio del 1953, si sottolinea la particolarità del prodotto Fulget, che coniuga «l’effetto astratto e puramente grafico» con «la ricchezza del prezioso e inimitabile frammento naturale». Efficace è il tentativo di conferire una nuova estetica al materiale litico, partendo dalla valorizzazione delle sue qualità espressive naturali e dotando il prodotto del valore aggiunto del progetto di design; innovativi sono gli standard di qualità prestazionale degli elementi, raggiunti attraverso un processo di “metabolizzazione” industriale che omogeneizza le caratteristiche estremamente variabili connaturate all’origine dei diversi litotipi. Esperienze produttive come quella rappresentata dal brevetto Fulget si consolidano in modo soltanto rapsodico fino agli anni più recenti, conservando a tutt’oggi importanti margini di sviluppo inespresso.

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Inserzione pubblicitaria di Eclissi, pavimento in marmi ricomposti disegnato da Giò Ponti per Fulget ( Stile Industria, n. 19, 1958)

Quella dei lapidei ricomposti, che ha dimostrato – seppur occasionalmente – interessanti proprietà anche nel campo del design di prodotto per l’arredamento8, è infatti una delle applicazioni d’elezione, in cui il prevalere di una prospettiva industriale, o meglio ormai postindustriale, può esplicare al meglio, al presente e al futuro, notevoli potenzialità nell’assicurare ai materiali litici naturali un rinnovato valore; una qualità inedita secondo cui gli aspetti materici concreti non sono più soltanto un dato precostituito, accettato e valorizzato per la sua originalità, ma entrano a far parte di un processo dinamico di rielaborazione creativa, che può anche evolvere verso risultati molto distanti rispetto ai caratteri degli ingredienti iniziali. In tutto ciò la pietra, al pari di tutti gli altri materiali della contemporaneità, può divenire più che mai viva, adattabile, versatile e disposta a parlare molteplici linguaggi, ad interpretare variegate proiezioni culturali e progettuali nelle quali aspetti espressivi e prestazionali sono “ridisegnati” all’insegna della più totale flessibilità tecnologica. L’universo dei ricomposti, è insomma una frontiera da esplorare ancora in maniera sistematica, poiché ricca di nuclei problematici aperti, sottesi ad una vita della materia sempre più sospesa tra valori della tradizione e nuove icone della modernità. Tessitura cromatica, geometrica e grafica; traslucenza e leggerezza; morfologia bidimensionale o tridimensionale; sono le categorie secondo cui il design di frazionamento e ricomposizione può dare alla pietra nuove vite estetiche e funzionali, a partire ogni volta dalla valorizzazione delle sue qualità naturali e dei suoi caratteri “genetici” più o meno latenti. Davide Turrini

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Note 1 I disegni sono tratti dal volume Marmo.Tecniche e cultura, Milano, Promorama, 1983, pp. 103, (catalogo della mostra tenuta all’Arengario di Milano nel dicembre 1983). 2 Giovanni Bruni, “I rimedi alla crisi del marmo nel pensiero della confederazione”, p. 405, in Atti del primo convegno nazionale dei lavoratori del marmo, granito e pietre affini, Carrara 16-17 settembre 1933, Roma, F.lli Damasso, 1933, pp. 510 3 Il brevetto Favetti (Aurisina, Trieste) è analizzato in Pasquale Marica, “Le scale”, Marmi, pietre, graniti, n. 1, 1931, pp. 27-33. 4 Sulla passerella e sulla trave realizzate a Carrara nel 1965 si veda Brunetto Cartei (a cura di), 1a mostra nazionale del marmo e delle tecniche d’impiego del marmo nell’edilizia industrializzata, Massa e Carrara, Camera di Commercio Industria e Agricoltura, 1965, pp. 159 (in particolare si segnalano le pp. 70-73). 5 Sulle sperimentazioni attuali in pietra precompressa si rimanda a titolo esemplificativo al post http://www.architetturadipietra.it/wp/?p=1694 6 Per un quadro completo sulle tipologie produttive dei lapidei artificiali in Italia all’inizio degli anni Trenta del Novecento si veda Salvatore Bruno, “L’uso dei conglomerati di cemento, del vetro e della ceramica in sostituzione dei marmi”, pp. 328339, in Atti del primo convegno nazionale dei lavoratori del marmo, granito e pietre affini, op. cit. 7 Come opera emblematica dell’applicazione del calcestruzzo traslucido Salvatore Bruno cita la cupoletta dell’aula centrale della Casa dei Mutilati di Roma. 8 Emblematici in proposito i tavolini Nara e Kyoto di Shiro Kuramata per Memphis (in conglomerato di cemento e vetro, 1983); il tavolo Artifici di Paolo Deganello per Cassina, (con base in graniglia di quarzo e marmo agglomerati con resina poliestere, 1985); il tavolo Artù di Kuno Prey per Zanotta (con base in conglomerato di marmo, 1992).

1 Vista e sezione costruttiva della passerella in marmo armato precompresso, realizzata a Carrara nel 1965. 2 Soluzioni tecniche alternative del brevetto Favetti per scale in marmo prefabbricate (1931) 3 Scala realizzata con gradini in marmo prefabbricati brevetto Favetti (1931) 4 Lavorazioni di prefabbricazione della passerella della trave in marmo armato precompresso (Carrara 1965) 5 Inserzione pubblicitaria di Carte, pavimento in marmi ricomposti disegnato da Giò Ponti per Fulget (Stile Industria, n. 16, 1958) 6 Inserzione pubblicitaria dei pavimenti in ciottoli ricomposti della ditta Fulget (Stile Industria, n. 17, 1958) 7 Inserzione pubblicitaria di Esagono, pavimento in marmi ricomposti disegnato da Gianfranco Frattini per Fulget (Stile Industria, n. 18, 1958)

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MD Material Design Post-it journal ISSN 2239-6063 Vol. III (2012), 17-23 - Veronica Dal Buono edited by Alfonso Acocella, redazione materialdesign@unife.it

post-it journal

Sulle tracce della Digital Fabrication. A colloquio con Christian Pongratz

Incontriamo Christian Pongratz a Verona dove da diversi anni coordina il Summer Programs offerto dall’Istituto presso il quale è docente, guidando un gruppo di venti studenti statunitensi alla redazione di un progetto contestualizzato in Italia. Christian è infatti Direttore e co-Fondatore del Dipartimento di Digital Design and Fabrication, inserito tra le specializzazioni del Master of Science presso il College of Architecture della Texas Tech University. Veronica Dal Buono: I programmi di insegnamento che tieni negli Stati Uniti intersecano architettura, ingegneria e scienza computazionale. Come ha preso origine questo ambito di ricerca così singolare e quali sono i presupposti che lo hanno reso possibile, soprattutto nel contesto degli States? Christian Pongratz: L’origine potrebbe essere identificata con il Master che ho conseguito presso il Southern California Institute of Architecture (SCI-Arc) in Los Angeles, durante il quale ho studiato nuove metodologie di design digitale e modellazione 3D di prototipi. Sono stato uno dei primi a svolgere una tesi progettuale interamente con l’uso del computer a metà degli anni ‘90. Successivamente, ho lavorato alcuni anni presso lo studio Eisenman Architects, prima di insegnare alla University of Texas

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(UT) in Austin, dove nel 2000 ho preso la posizione di Marcos Novak, già pioniere della “virtual architecture”. Con un studente del Dipartimento di Engineering ho cominciato a scrivere un programma specifico per una macchina a controllo numerico computerizzato (CNC) per poterla utilizzare nei miei corsi di progettazione architettonica. É stata la prima occasione in cui ho messo in relazione i due ambiti di architettura e ingegneria. Rientrato in Italia, ho collaborato fruttuosamente con industrie in particolare del territorio veronese nell’ambito della lavorazione dei materiali lapidei. Tornando negli States nel 2007, alla luce di queste esperienze professionali e di ricerca, ho avviato un programma nuovo, un Master of Science in Architecture con specializzazione in Digital Design and Fabrication, basato su tre interessi principali: progettazione computazionale, materiali e fabbricazione, metodologie di assemblaggio di componenti per l’architettura. Sono tornato negli Stati Uniti in quanto ho compreso che le aziende italiane non sempre possono sostenere sperimentazioni e insieme avere le occasioni di ricevere finanziamenti per consentire la ricerca; e ciò succede anche per le Università. Negli Stati Uniti mi è invece possibile attuare nuovi studi e sperimentazioni dove il piano professionale si intreccia con quello accademico. Alla Texas Tech University ho avuto l’opportunità di realizzare un laboratorio altamente tecnologico con strumentazione digitalizzata sofisticata per la prototipazione tridimensionale di strutture e componenti in diversi materiali. Il Dipartimento di Digital Design and Fabrication che ho fondato attrae un alto numero di studenti provenienti da varie parti del mondo, desiderosi di confrontarsi con metodi e tecniche avanzate di progettazione e di ricerca. V.D.B.: La suddivisione didattica in tre campi già suggerisce come si svolga il processo di integrazione del design digitale, “computazionale”, con i sistemi di fabbricazione digitale degli elementi costruttivi. Puoi illustrarci in sintesi come si sviluppa? C.P.: Ho fondato il programma di Digital Design and Fabrication (DDF) coinvolgendo fin dall’inizio Maria-Rita Perbellini, mia partner anche nell’attività professionale, e tre altri docenti si sono aggiunti subito dopo, ciascuno con un proprio personale percorso. Ho inoltre incluso un docente proveniente dalla Corea, con un forte background nei sistemi informatici. Siamo principalmente un team di sei ricercatori. Ognuno di noi insegna in uno o due corsi, a seconda della propria esperienza, relazionandosi con una delle tre tematiche enunciate prima. Tali corsi informano la programmazione didattica con diversi linguaggi di programmazione computerizzata e introducono all’uso dei software più avanzati, incoraggiando la sperimentazione su materiali intelligenti e innovativi. Gli studenti, attraverso l’uso di macchine specializzate, sono coinvolti in un percorso rivolto a tipi di fabbricazione digitale. Le logiche della modellazione digitale vengono sempre testate da modelli e protostrutture reali. Uno dei docenti nel programma di DDF si occupa di Design Build, in particolare di assemblaggio di componenti, procedendo dal modello fisico dell’elemento fino alla realizzazione di un piccolo edificio in scala reale. Due anni fa gli studenti hanno progettato e poi edificato autonomamente una prima abitazione per artisti, un nucleo abitativo ecosostenibile realizzato in ogni dettaglio costruttivo e relazionato ad un

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sito nella periferia di Lubbock, in Texas. Lo studente, attraverso progetti costruiti, trova così un iter completo che si svolge in quattro semestri, impara i linguaggi della programmazione digitale, le diverse tecnologie di fabbricazione, conosce materiali nuovi e si spinge fino alla sperimentazione all’insegna del trinomio “modellazione, prototipazione e assemblaggio”. Il programma si conclude con una tesi finale che può essere teorica o pratica. Attuando una strategia di “cross-fertilization” con altre discipline, i nostri studenti possono scegliere di seguire corsi in altri Dipartimenti di discipline diverse che vanno dal bio-medical design, alle scienze dei materiali, fino all’ingegneria meccanica e civile, coinvolgendo nello specifico ricerche individuali all’interno di altre facoltà. Nel mio caso, il materiale di lavoro preferenziale è la pietra ma gli studi che svolgo con i miei studenti vengono realizzati coinvolgendo anche materiali plastici, compositi, conglomerati e smart materials .

Hyperwave Series, 2006, Azul Aquamarine

V.D.B.: Christian ha una formazione internazionale e la possibilità di verificare in parallelo le evoluzioni, lo status dei diversi paesi che ha la possibilità di frequentare. Come leggi al presente il panorama scolastico rispetto allo studio ed uso di tali tecnologie innovative?

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C.P.: Vi sono diverse scuole all’avanguardia. Negli Stati Uniti penso allo Southern California Institute of Architecture (SCI-Arc) in Los Angeles; il Taubman College con il Digital Fab Lab presso la University of Michigan, senza dubbio il MIT Massachusetts Institute of Technology a Boston. In Europa, la fabbricazione digitale si studia presso il noto dipartimento di Architecture and Digital Fabrication dell’ETH Swiss Federal Institute of Technology di Zurigo, ma è anche importante il lavoro svolto alla University of Applied Arts e la Technical University in Vienna, o a Londra presso il Digital Prototyping Lab dell’Architectural Association, e in Germania presso l’Institute of Computational Design alla University of Stuttgart. Sono le scuole che investono di più sia sulle tecnologie della computazione sia sulla prototipazione e fabbricazione industriale digitalizzata, tutto finalizzato a una ricerca applicata alle fasi di progettazione.

Fluxus, 2005

V.D.B.: Ritieni ci siano ancora margini di innovazione e ricerca sul tema delle superfici da rivestimento, sottili e a spessore, attraverso il disegno e la fabbricazione digitale? C.P.: Nell’ambito dei materiali lapidei ho avviato, intorno al 2003, la ricerca sulle superfici lapidee nell’ambito della progettazione digitale. Sulla mia strada si sono ora collocati diversi designers e il campo di sperimentazione si è allargato. Oggi guardo alle Nanotecnolgie e all’inizio di un percorso di ricerca molto stimolante che si muove dalle proprietà intrinseche e composizionali della materia. Il futuro è legato alla integrazione di queste scienze nello studio e nell’uso dei materiali. Il vero problema è che noi architetti abbiamo una conoscenza poco approfondita sulle caratteristiche e sulle performance dei materiali emergenti. Sicuramente l’ambito dei compositi e degli “smart materials”, ossia dei materiali interattivi, reattivi e rispondenti a stimoli esterni è quello che anche nei programmi delle scuole richiederebbe maggiori approfondimenti. V.D.B.: Come si coniugano le ricerche che conducete con la direzione della “sostenibilità”?

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C.P.: La sostenibilità affronta proprio i temi dei materiali di riuso, degli elementi riciclabili; non è distante dal tema dell’uso di materiali compositi ibridi e dall’inclusione delle nanotecnologie nella progettazione e concezione di materiali nuovi. In questo senso negli Stati Uniti si stanno muovendo importanti ricerche, anche a livello federale, che hanno investito la collaborazione di architettura e ingegneria. Sono anch’io attivamente impegnato in proposte di finanziamenti con progetti di ricerca legati a materiali intelligenti che coinvolgono più discipline.

HI-lo, 2006, Pietra di Vicenza

V.D.B.: Tra tutti i materiali possibili nella contemporaneità, le vostre ricerche, sia con lo studio professionale Pongratz e Perbellini che negli atelier universitari, si concentrano spesso e in particolare sul materiali lapideo, naturale o ricostruito. Quali sono le motivazioni? Quali le qualità che ne consentono la elaborazione “digitalizzata”? C.P.: Ritornando con regolarità da Austin a Verona ho cominciato a realizzare progetti che coinvolgessero il materiale lapideo proprio perché geo-localizzati in uno dei contesti che tra i più in Italia sviluppa tale settore. I miei primi contatti li ho avviati almeno un decennio fa e mi sono subito interessato all’eterogeneità interna, alle molteplici risonanze legate alla pietra stessa che è in sè molti materiali differenti, per la sua lavorabilità, per come reagisce. È nato un amore per questo materiale e una sfida a capire come impegnarlo in modo innovativo, attuale, nell’architettura. Al momento ho progetti di ricerca in atto nel campo della pietra strutturale e sto studiando sistemi di “strutture superficiali” e “superfici strutturali”. Anche nei concorsi ai quali partecipiamo, cerchiamo di proporre sempre il materiale lapideo, spesso coniugato con altri materiali della contemporaneità. Mi piace ripensare la solidità familiare, nota, rassicurante della materia litica e investigarne l’espressività e le risposte legate alla leggerezza da sfiorare, alla translucenza, alle qualità sensoriali capaci di stimolare un effetto e un coinvolgimento emotivo, pur mantenendone vive le valenze tettoniche. La sfida è rappresentata dalla ricerca di nuovi percorsi immaginativi, trasformativi e ancora latenti, di quei caratteri del materiale ancora sfuggenti e insospettati. V.D.B.: Conosci il territorio produttivo italiano e le realtà di produzione artigianali. Il sistema di progettazione digitale e quindi quello di

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fabbricazione computerizzata, che relazione tessono al presente con il contesto artigianale? Vi è una integrazione o i due campi si escludono vicendevolmente? C.P.: Si tratta di contaminazione delle rispettive conoscenze. Mi piace parlare di artigianalità digitale, di digital craft, quando mi riferisco alla generazione che lavora con la programmazione digitale, composta anch’essa da artigiani che giocano con numeri, dati e parametri, in un processo di organizzazione, revisione, reiterazione con continue differenziazioni. L’artigiano tradizionale si misura direttamente con la materia. Anche l’artigiano informatico apprende studiando il mestiere tradizionale che ha secoli di esperienza alle spalle. Vi è un continuo rimando tra i due mondi. È molto importante capire i parametri e le fasi della lavorazione, come si lavora il materiale per poterlo programmare bene. La generazione del design fabrication non vuole eliminare l’artigiano tradizionale, figura che è sempre utile. Anzi, si vuole supportare la qualità di questo know-how generato nei secoli ed avere entrambe le esperienze vive nel presente. Ciò ci riconduce al Deutscher Werkbund, al Bauhaus, alla Wiener Werkstätte, quando in Europa all’inizio del XX secolo prese avvio il rapporto tra artigianato e industria. Un percorso oggi quasi dimenticato, la cui relazione si può rinnovare proprio grazie alle potenzialità delle nuove tecnologie.

Seoul Performing Arts Center, 2005, Azul Bahia Granite

V.D.B.: Proprio in questi giorni, in occasione del centenario dalla nascita, si è rinnovato il ricordo di Alan Turing, riabilitandone, fortunatamente, la figura. Turing andò ben oltre il modello matematico dal quale è nato il moderno computer verso formulazioni di “morfogenesi”, teorie matematiche per comprendere la formazione delle molecole viventi. Riesci a prevedere fino a che punto ci si potrà spingere nel settore del design, del progetto, all’integrazione tra scienze matematiche, le intelligenze artificiali e le tecnologie applicate? C.P.: Se parliamo di “morfogenetica” negli ultimi anni abbiamo visto ricerche che provano di nuovo ad avvicinare il campo dell’architettura alla natura. Questi studi cercano di capire come sono strutturati gli organismi viventi, i vegetali in particolare, come evolvono, come si

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adattano all’ambiente. Ciò si lega al “parametric design” che sfida i materiali sintetici in un percorso molto simile. Penso all’avanzamento della tecnologia cui assistiamo oggi, all’utilizzo delle piattaforme di software quali Building Information Modelling (BIM) e al design parametrico che vediamo applicato da grandi protagonisti dell’architettura quali Zaha Hadid e Patrik Schumacher. Quando questi approcci si coniugheranno alla nanotecnologia, sicuramente sarà possibile pensare di creare un “genetic design” – come dice Karl Chu proprio parlando di architettura, genetica e computazione – ovvero parametri matematici strettamente collegati alle informazioni derivanti dai materiali che possono rispondere in modo “incorporato”, assimilato alle leggi della natura. Osserviamo il modello presente in natura ove le piante, quando cambia il contesto, si adattano oppure si ibridano con altri esseri viventi, in relazione con diversi stimoli. Ecco, questo settore è molto interessante perché presenta regole che oggi sono studiate anche nel campo dell’economia e del business. Il digital design permette di coniugare campi molto lontani in un unico processo, svolgendo interoperanti salti di scala con un software che noi stessi possiamo generare e che consente un controllo, una visione molto completa di come inizia, si sviluppa, e finisce il progetto. Questo è infatti ancora il problema odierno, dove i progetti di architettura sono condizionati da elementi e componenti che non sono del tutto digitalizzabili, sono ancora analogici, hanno difficoltà a comunicare tra loro e nella realtà fisica del settore delle costruzioni siamo ancora legati al passato. Il digitale c’è ed è disponibile ma la “digital fabrication” dove è applicata? Solo in campi limitati dell’architettura come per esempio gli allestimenti temporanei, le istallazioni, realizzazioni di civic art, oppure, attraverso il processo BIM, in grandi progetti come quelli di Frank O. Gehry, Zaha Hadid, Ben van Berkel, ma alla fine non abbiamo ancora soluzioni che siano capaci di coniugare al massimo e facilmente tutti i livelli di scala, i sistemi meccanici, i diversi materiali. Le pelli degli edifici sono ancora compresi come sistemi multistrati. È necessario anche investire nello studio dei materiali stessi. Gli elementi industrializzati oggi disponibili non sono sempre disegnati per noi architetti, da noi architetti. Sono disegnati dall’industria e noi dobbiamo investigare sul come e perché usare tali componenti, se siano realmente giusti e forniscano le migliori performance per il nostro progetto, se possono essere ottimizzati. Il futuro prossimo dovrebbe prevedere proprio studi di integrazione tra materia, funzionalizzazione e macchine programmabili, studi che fino ad ora non sono entrati tout-court nell’ambito della progettazione architettonica. Ora come architetti abbiamo la possibilità di lavorare in team dove le diverse figure sviluppano con specifica competenza una parte di un sapere vasto e non affrontabile da un solo operatore, innestando un modo di lavoro “organico”, auspicando al miglior dialogo tra le competenze professionali. Veronica Dal Buono

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MD Material Design Post-it journal ISSN 2239-6063 Vol. III (2012), 24-28 - Davide Turrini edited by Alfonso Acocella, redazione materialdesign@unife.it

post-it journal Gustavo Pulitzer Finali. Interni litici di mare e di terra

Gustavo Pulitzer Finali, motonave Victoria, sala da fumo di I classe, 1931. Camino in travertino e pareti in pergamena*.

Gustavo Pulitzer Finali nasce a Trieste nel 1887 da una facoltosa famiglia mercantile di origine ebraica; compie i primi studi nell’eterogeneo ambiente culturale triestino per iscriversi poi, nel 1908, alla facoltà di ingegneria del Politecnico di Monaco di Baviera. Theodor Fischer, appartenente al gruppo dei fondatori del Deutscher Werkbund, sarà suo relatore di laurea. La formazione aperta e cosmopolita del giovane architetto si conclude con un viaggio compiuto a piedi e in bicicletta in Emilia, Umbria e Toscana, descrivendo, disegnando e fotografando le città e le architetture del romanico e del rinascimento italiano. Tra il 1914 e il 1918 Pulitzer viaggia ulteriormente in Grecia, Inghilterra e nelle Americhe, dove perfeziona una preparazione professionale di matrice mitteleuropea e di respiro internazionale. All’inizio della sua carriera egli firma progetti di ville e appartamenti, partecipando anche a diverse esposizioni nazionali e internazionali con oggetti e mobili da lui disegnati e prodotti. Nel 1920, con l’architetto Ceas, fonda a Trieste lo studio Stuard, specializzato nell’arte decorativa per l’arredamento. Il gruppo di lavoro, che si amplierà e consoliderà negli anni accogliendo anche la moglie dell’architetto Ducia Kitter in qualità di consulente per i rivestimenti e le tappezzerie, diventa in breve tempo un riferimento tecnico e stilistico nel settore dell’allestimento navale moderno.

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Gustavo Pulitzer Finali, transatlantico Conte di Savoia, scalone centrale di I classe, 1932. Rivestimenti in travertino e pavimenti in linoleum ad intarsio*.

Nel 1925 Pulitzer riceve i primi incarichi dagli armatori Cosulich per la realizzazione di alcuni ambienti delle navi Saturnia e Vulcania; nel 1930 ottiene l’affidamento dell’intero allestimento della motonave Victoria che si configura come la prima unità moderna della marina civile italiana, capostipite di una serie di navi passeggeri che saranno costruite durante gli anni ’30 e che presenteranno caratteristiche strutturali e allestitive profondamente diverse rispetto alle imbarcazioni dei primi vent’anni del Novecento. La Victoria, progettata come battello veloce di lusso per le linee del mediterraneo orientale, ha una linea filante e aerodinamica; al contrario delle unità precedenti, dove il colore chiaro delle soprastrutture contrastava con lo scafo nero, la nave è interamente dipinta di bianco per suscitare una sensazione di leggerezza e “nuova” eleganza. L’arredamento, prezioso nei materiali, è sobrio e funzionale nelle configurazioni; è caratterizzato da soluzioni congruenti con le strutture e i volumi interni della nave e abbandona in maniera programmatica le forme e i modi dell’allestimento scenografico posticcio. Ogni decorativismo di boiseries, soffitti cassettonati e finte trabeazioni è rimpiazzato da una nuova estetica delle superfici complanari, degli angoli stondati, delle fonti luminose diffuse, delle strutture spesso esibite nella loro nuda essenzialità. Gli impianti sono moderni, integrati in sistemi di rivestimento avanzati, e per la prima volta includono gli apparati di condizionamento dell’aria. Le fratture insite nell’esuberante e calligrafico eclettismo stilistico della

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produzione cantieristica degli anni ’20 sono superate in favore di un disegno “continuo” e lineare, che riunifica in moduli geometrici razionali e slanciati una palette materica ricca e innovativa: legni esotici, ottoni, cuoi e pergamene si sposano con vetrate di Pietro Chiesa, ceramiche di Giò Ponti e sculture in bronzo di Libero Andreotti; rivestimenti sottili in onici e travertini sono accostati a stesure pavimentali in linoleum e a raffinati dettagli di rame e metallo cromato.

Gustavo Pulitzer Finali, transatlantico Conte di Savoia, sala da pranzo di I classe, 1932. Sezione costruttiva del rivestimento in travertino*. Clicca sull’immagine per ingrandirla

Tra il 1931 e il 1932, con le commesse per gli allestimenti del transatlantico Conte di Savoia e delle unità Neptunia e Oceania, lo studio Stuard conferma un’ormai solida leadership nella progettazione di interni navali che si manterrà inalterata fino a tutti gli anni ’60. Anche in questi casi l’arredamento è concepito come opera unitaria che si integra in maniera organica con le possibilità costruttive, spaziali e tecniche dell’architettura dei bastimenti. Sempre più, nella poetica costruttiva di Gustavo Pulitzer Finali, gli interni non devono essere «architetture che si sovrappongano a quelle della nave, non finti palazzi, non strutture posticce. L’architettura deve cercare la sua armonia nella genialità del rivestimento, senza alterare gli spazi che le sono offerti dalle strutture della nave stessa. Innumerevoli squisiti effetti si possono ricavare in tutti i

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particolari, studiando le risorse più appropriate, e talvolta più intime e segrete, che ogni materiale offre all’espressione decorativa»i.

Gustavo Pulitzer Finali, Nuova Borsa di Trieste, sala delle contrattazioni, 1930. Rivestimenti in travertino e pavimento in marmi del Carso*.

Oltre ad essere uno straordinario laboratorio di innovazione tecnica e formale per la vita di bordo, la nave è per Pulitzer un importante incubatore di sperimentazioni da applicare poi all’architettura di terra. Infatti, sempre a partire dagli anni ’30 del Novecento, l’architetto acquisisce anche incarichi per allestimenti interni di uffici, spazi commerciali e strutture alberghiere di categoria elevata; tra le principali realizzazioni si ricordano la Borsa di Trieste (1930); l’Albergo Duchi d’Aosta al Sestrieres (1932); il Groosvenor Hotel a Londra (1934); gli Uffici per le società di navigazione italiane a Londra (1934); il Palazzo della Società delle Nazioni a Ginevra (1936); quattro alberghi a Chicago, Boston, New Orleans e Palm Beach (1944-47); gli uffici e lo showroom Ideal Standard a Milano (1953-58).

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Gustavo Pulitzer Finali, Uffici delle società di navigazione Italia-Cosulich-Lloyd Triestino in Regent Street a Londra, 1934. Rivestimenti in onice del Carso, pavimenti in marmo, tavolo in travertino*.

Anche nell’architettura dotata di fondamenta il cuore della ricerca progettuale di Pulitzer è lo spazio interno, che egli plasma nelle forme di un razionalismo variamente declinato: dai magniloquenti accenti “romani” dei travertini nella Borsa triestina, all’astrazione e agli echi miesiani dei piani in onice negli Uffici per le società di navigazione a Londra.Tra mare e terra, nell’arco di una lunga e riconosciuta carriera professionale, l’architetto amplia e approfondisce una ricerca del tutto originale, incentrata sulla valorizzazione delle qualità tecniche ed espressive dei materiali, e sulla concezione organica di spazi, arredi e oggetti, tra alto artigianato e industrial design. Tale ricerca rappresenta uno dei capisaldi della storia contemporanea dell’arredamento italiano, per l’indubbio valore di innovazione tecnologica e linguistica come anche per la sistematica incidenza in termini di organizzazione della produzione. Accanto alle doti creative, Pulitzer esprime infatti una straordinaria capacità di coordinamento e armonizzazione del lavoro di decine di unità di progettazione e di squadre di maestranze che si formano a Trieste, nei suoi cantieri, tra gli anni ’30 e gli anni ’60, e che si distingueranno per lungo tempo per la grande sensibilità nei confronti dei materiali e per l’elevata raffinatezza esecutiva. Davide Turrini Note 1 Gustavo Pulitzer Finali, in Il Piccolo, 25 giugno 1931, cit. in Donato Riccesi, Gustavo Pulitzer Finali. Il disegno della nave. Allestimenti interni 1925-1967, Venezia, Marsilio, 1985, p. 72; * La foto della Sala da fumo della nave Victoria è tratta dal libro Mobili tipici moderni, a cura di Giancarlo Palanti, Milano, Domus, 1933, p. 13; le altre immagini sono contenute nel volume Gustavo Pulitzer Finali, Navi e case. Architetture interne 1930-1935, Milano, Hoepli, 1935.

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MD Material Design Post-it journal ISSN 2239-6063 Vol. III (2012), 29-35 - Theo Zaffagnini edited by Alfonso Acocella, redazione materialdesign@unife.it

post-it journal

La costruzione litica della contemporaneità secondo Alberto Campo Baeza

Casa Guerrero a Cadice (2005) corte interna. Credito fotografico: Roland Halbe

Presentazione del libro di Davide Turrini ALBERTO CAMPO BAEZA Pietra, Luce, Tempo

Il volume intitolato ALBERTO CAMPO BAEZA Pietra, Luce, Tempo di Davide Turrini è il terzo monografico della collana Lithos diretta da Alfonso Acocella. Presentato in occasione dell’esposizione Marmomacc 2010 a Verona nel settembre 2010, approfondisce in modo originale e con strumenti d’indagine articolati e differiti nel tempo (interviste), le sensibilità progettuali e filosofiche dell’architetto spagnolo. L’autore - architetto di formazione fiorentina, dottore di ricerca e ricercatore del Dipartimento di Architettura di Ferrara - è da sempre uno studioso dei temi dell’innovazione tecnologica di processo e di prodotto. Egli concentra prevalentemente i suoi interessi sui materiali costruttivi di cui ama condurre raffinate letture dei rapporti intercorrenti tra essi e le relative tecniche di lavorazione e l’architettura. La sua attenzione critica approda più di recente allo studio del design

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litico contemporaneo ove si concentra sul legame tra prodotto e contesto culturale, spaziale e sociale di riferimento. É in continuità con questi interessi che Turrini ci offre la possibilità di un ulteriore approfondimento del pensiero e del magistero di Alberto Campo Baeza. Un volume che, attivato dall’evento creativo del Padiglione “La Idea Construida” concepito da Campo Baeza come exhibit design per Pibamarmi nell’edizione 2009 di Marmomacc, offre ben oltre la testimonianza di un evento culturalmente e poeticamente rilevante. Si tratta di un approfondimento - in chiave espressamente litica - del manifesto baeziano , da cui il padiglione traeva titolazione ossia “La idea construida – La arquitectura a la luz de las palabras”, raccolta di saggi del 1996. La sintassi compositiva dell’architetto spagnolo viene riletta attraverso l’uso del materiale prediletto - la pietra – a partire dai fondamenti linguistici della sua opera. Il podio, il piano orizzontale, i solidi stereotomici, la solidità tettonica del costruito, la massa, il ricercato bilanciamento tra inerzia e cristalline ed eteree volumetrie. Attraverso una lettura delle opere costruite in oltre vent’anni, si è condotti in una analisi puntuale delle raffinate logiche compositive ed espressive dell’architettura di Campo Baeza. Le posizioni teorico progettuali del maestro spagnolo, spesso caratterizzate da una interpretazione critica del razionalismo del novecento con predilezione per le teorie di Le Corbusier , ma soprattutto di Mies Van der Rohe, sono state caratterizzate significativamente anche dalle frequentazioni culturali e dalle collaborazioni di altri importanti protagonisti della scuola spagnola post-bellica. Il progettista spagnolo è infatti estimatore dell’opera di Javier Caravajal (che realizza la scuola Alts Estudios Mercantils a Barcellona_1954-61) di cui ammira la musicalità, la ricercata articolazione spaziale e il senso di ordine che riesce l’insieme a trasmettere, ma soprattutto di Alejandro de la Sota di cui ammira l’eleganza dei gesti compositivi che si avvicinano all’essenzialità.

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Sede Centrale della Caja General de Ahorros a Granada (1992-2001) Credito fotografico: Roland Halbe

Come ci ricorda il critico Antonio Pizza “(…) nel caso di Alejandro de la Sota, le ascendenze sono ancor più manifeste e di ordine sia concettuale che formale”. Nell’opera di De la Sota infatti l’idea progettuale è sempre nitida e manifesta, ben controllata sin dall’origine; i paradigmi generali costantemente verificati ed esemplificati in schizzi per lo più assonometrici chiarificatori, una attitudine in comune con Alberto Campo Baeza. É la necessità di dare forza all’idea progettuale che li accomuna….. un’idea che “pone al centro di tutte le questioni l’uomo” nelle ragioni di Campo Baeza. “L’architettura è idea che si esprime attraverso le forme. (…) E’ idea costruita” (Campo Baeza). Ma questa idea necessita di rigore nella sua enunciazione e di grande forza e per dare vita ad una struttura ed uno spazio. Nel pensiero di Campo Baeza la costituzione dello spazio è ottenibile dall’accostamento di Gravità e Luce. Fenomeni o fattori senza tempo capaci di connotare architetture durevoli allo scorrere del tempo. Opere capaci di emozionare sempre e per sempre.

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L’idea progettuale è dunque per lui una continua opera di sottrazione della materia da elementi di solidi (prismi e cubi) in combinazione con ricercate adozioni materiche, per l’essenzialità. La variabilità percettiva ottenuta da una scultorea valutazione dell’incidenza della luce, da differenti gradazioni di permeabilità visiva, dalla giustapposizione tra “scatole” stereotomiche a scatole tettoniche. Questa ricercata volontà espressiva e compositiva viene sintetizzata anche in un motto Mas con menos (il più con meno) “un più che vuole mantenere l’uomo e la complessità della sua cultura come centro del mondo creato, centro dell’architettura. Un meno che, al di là di ogni minimalismo, vorrebbe giungere al nucleo della questione, tramite “un numero preciso di elementi” in grado di tradurre materialmente quelle idee” (A. C. Baeza).

La cattedrale di luce della Caja, vista interna. Credito fotografico: Hisao Suzuki

Con questa finalità egli mette in gioco i piani litici, i basamenti di impianto geometrico variabile, solide murature di delimitazione o di separazione spaziale, pensate in giustapposizione alle parti più leggere ed evanescenti di sommità dei suoi edifici, con lo scopo di potenziare ancor

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più il senso di gravità e di solidità e ricercare appunto l’essenzialità dell’architettura. La sua riflessiva essenzialità. A corollario, il sapiente uso delle vocazioni tipiche della pietra costruttiva; i suoi colori, le sue trame, le sue tattili porosità, la sua codificata memoria, le sue opacità o traslucenze, così sensorialmente variabili in base all’incidenza della luce; essenza atemporale. “La pietra non ha età (..) è sinonimo di gravità destinata a resistere al trascorrere del tempo”. Ecco finalmente compiuta la relazione tra le parole chiave riportate nel titolo del libro di Turrini: Pietra, Luce, Tempo. L’uso della pietra, seppure sistematicamente presente anche nelle sue opere residenziali più apprezzate come le case Gaspar a Zahora1 (1992) e Guerrero a Cadice (2005) appare più incisivo per declinazione d’uso nelle strutture per la ricerca e l’istruzione come il Centro Balera de Innovation Tecnologica a Inca2, Maiorca, (1995). Nelle opere pubbliche si percepisce tutta la forza del pensiero di Campo Baeza. Il caso esemplificativo dell’Ampliamento della sede provinciale del Servizio Sanitario Nazionale ad Almeria (1999-2002) mostra una semplicità volumetrica a gravità variabile ottenuta in ragione del grado di movimento ed apertura di brisesoleil litici. L’altro manifesto costruito ottimamente descritto in esordio di volume - è invece una banca , la Sede Centrale della Caja General de Ahorros a Granada (1992-2001). Si tratta di un vero e proprio cubo “stereotomico” scavato da ritmici vuoti geometrici organizzati in griglie cartesiane di brisesoleil cementizi, verso l’esterno a sud-est e sud-ovest, dotato all’interno di un vuoto monumentale. Una cavità ottenuta dal lavoro di quattro maestosi pilastri e arricchita dalla variabile intensità della luce zenitale ottenuta grazie alla previsione di un impluvium di luce in copertura e da traslucenze parietali di pietre sottili. Qui - in particolare - un uso più articolato della combinazione tra rigore compositivo - talvolta monumentale - e uso della pietra sia nella sua vocazione massiva che in quella di materiale per involucri traslucenti, trasmettono il messaggio di essenzialità senza tempo. E’ proprio nella “statica” trasformazione chiaroscurale – come non ricordare per assonanza l’analogo l’impluvium circolare del Pantheon - e nella presenza del materiale archetipo per eccellenza, che trova fondamento il concetto baeziano di “idea costruita in pietra”. Il volume, ricco di immagini, schizzi e dettagli tecnologici ad accompagnare questa disamina, si distingue anche per il resoconto di tre conversazioni condotte da D. Turrini con l’architetto Campo Baeza su aspetti progettuali e costruttivi relativi ad alcune sue opere recenti tra cui il Padiglione “La idea Construida”, oltre che esplicativi della sua visione dell’architettura in pietra proiettata nel terzo millennio. Si tratta di dialoghi di approfondimento avvenuti in momenti diversi, con cadenza biennale tra il 2005 ed il 2009. In essi si declina, attraverso la lettura di opere come il citato edificio per la sede Servizio Sanitario Spagnolo di Almerìa (1999-2002), la Banca di Granada o la Biblioteca di Alicante e i progetti più recenti di residenze e scuole, la perfetta combinazione tra i valori dominanti del pensiero architettonico di Campo Baeza e l’impiego della pietra come materiale costruttivo ed espressivo eletto.

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Schizzi di Alberto Campo Baeza per il sistema costruttivo di facciata della Sede del Servizio Sanitario di Almeria, (1997-1998)

E’ poi in quella centralità dell’uomo nelle scelte, nell’attenzione sistematica posta nel proporre il corretto approccio alla funzione, l’attenzione al contesto e la messa in gioco dell’essenziale che trova collocazione il valore riconosciuto del genius loci e della necessaria durata dell’Architettura. La forza dello strumento dell’intervista si manifesta nella narrazione della genesi di scelte materiche specifiche ed esecutive. Nello specifico emergono a più riprese, con estrema coerenza, l’attento vincolo tra l’architettura baeziana e il contesto, la continua ricerca della risorsa litica più coerente non solo al luogo di applicazione, ma anche alla sua tradizione costruita e ai saperi costruttivi locali. Emergono nelle parole di Campo Baeza gli stretti ed affettuosi rapporti di “complicità creativa” tra lui e gli artigiani esecutori delle sue opere con il manifesto riconoscimento ed apprezzamento per l’importante contributo apportato alla qualità della trasposizione finale dell’idea. Saperi antichi messi in campo per un uso contemporaneo della pietra. Il volume è chiuso da un breve, ma intenso saggio firmato dal critico Antonio Pizza, autore di articolati e puntuali approfondimenti sull’opera di Alberto Campo Baeza.

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In esso trova spazio la contestualizzazione dell’azione culturale; una lettura del pensiero e dell’opera dell’architetto spagnolo all’interno del panorama dell’architettura contemporanea. Campo Baeza - in un mondo definito “di imperante e disinibito eclettismo progettuale” - si apprezza per la “ferma estraneità a mode medianiche” e “per la continua ricerca della matrice concettuale della propria opera”. Tale caratteristica emerge prepotentemente proprio sul finire del volume in una risposta offerta da Campo Baeza a Davide Turrini, nell’ultima intervista documentata, in merito al ruolo della pietra in architettura nel futuro “La pietra non è vecchia, o classica, è invece del tutto contemporanea. Io sono un architetto contemporaneo, proiettato verso il futuro e uso la pietra.” Alberto Campo Baeza (2009). Theo Zaffagnini

Note 1 In cui i pavimenti litici sono usati per dare anche continuità tra interno ed esterno della costruzione a fronte di candide murature a delimitazione di un tipo edilizio a “hortus conclusus” 2 Ancora una volta un tipo ad hortus conclusus triangolare – questa volta di dimensioni monumentali con al centro un anfiteatro scavato in cui l’impiego del travertino è estensivo

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MD Material Design Post-it journal ISSN 2239-6063 Vol. III (2012), 36-38 - Veronica Dal Buono edited by Alfonso Acocella, redazione materialdesign@unife.it

post-it journal Stonescape di Kengo Kuma. L'intervista

La conversazione che riportiamo a seguire si è svolta in occasione di Bologna Water Design 2012 presso l'opera Stonescepe di Kengo Kuma, un progetto per Agape, Il Casone e Mapei. Veronica Dal Buono: Ritroviamo nel suo lavoro non solo architetture monumentali ma anche interventi in scala ridotta e di più semplice – apparentemente - realizzazione. Qual é il suo approccio al design di strutture temporanee? Kengo Kuma: Il progetti temporanei sono simili alle tea house giapponesi per la cerimonia del tè. Le case del tè giapponesi sono edifici molto piccoli e umili, luoghi di piacere dove si può avvertire la filosofia che vi è sottesa. Così, nel progetto di minuti padiglioni, cerco di tenere il medesimo atteggiamento del progettista delle case del tè. V.D.B.: Che ruolo giocano i materiali e quanto sono importanti in tali progetti? K.K.: I materiali sono il fondamento del design e cerco sempre di coglierne l'essenza nei miei progetti. Se sappiamo percepirne il cuore allora il progetto - l'architettura, il design – trovano un cuore anch'essi.

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Questo essenzialmente il mio approccio. V.D.B.: Stonescape per Agape, Il Casone e Mapei, non è il suo primo progetto che gioca con elementi quali acqua e pietra. Come interpreta questa sinergia? K.K.: La pietra, come quella utilizzata per Stonescape - la Pietra Forte Fiorentina - è una creazione dell'acqua stessa. L'acqua modella la pietra e la relazione che vi è fra i due elementi è così forte che sono indotto a fare ricerca con continuità su questi elementi. In Stonescape, specificatamente, ho lavorato alla combinazione di pietra, acqua e elementi di arredo per il bagno. V.D.B.: Il bagno, soprattutto nella cultura giapponese, è uno spazio simbolico di relazione fra mente, corpo e superfici materiche. Come hai affrontato questi temi? K.K.: In realtà il bagno è il centro della casa giapponese. É in tale spazio che le persone si ricongiungono con la natura e trovano armonia. Anche al presente le persone hanno compreso che l'equilibrio con la natura può costituire il punto centrale delle loro esistenze e questa è la ragione per cui nella società contemporanea il bagno sta occupando sempre più spazio, sta divenendo sempre più grande... V.D.B: Crede che il design possa svolgere un ruolo nella contemporanea fase di “crisi” dell'economia? K.K.: Penso che attraverso la crisi economica la gente possa scoprire l'importanza della relazione con l'ambiente e rendersi conto realmente della meraviglioso splendore che ci offre la Natura. Di conseguenza al momento di “crisi” l'uomo riscopre questo valore. V.D.B.: Come legge il futuro dell'architettura nei paesi emergenti come Brasile, Russia, India e Cina? K.K.: Sono paesi dove ancora è conservata la bellezza della Natura. Come processo di evoluzione sono paesi che dovrebbero preservare tale ricchezza e, se fossero abili a rispettare l'ambiente, potrebbero divenire modello per i nostri stili di vita futuri. V.D.B.: Il Brasile per esempio è uno di essi. Come vedi la possibilità di lavorarci? K.K.: Non ho al momento progetti in corso in Brasile. È un paese speciale e molti dal Giappone vi si stanno trasferendo, portando con sé la loro cultura. L'ho visitato più di vent'anni orsono e rimasi impressionato dalla bellezza naturale del paese. Le persone hanno mentalità aperta e una forte attitudine alla socializzazione. Potrebbero essere sviluppati nuovi modelli di cultura ispirandosi ad essi. Anche l'architettura contemporanea brasiliana è originale ed espressiva. Mi piacerebbe realmente, in futuro, lavorarci. V.D.B. E in Italia al momento? K.K.: Abbiamo un progetto a Rovereto e recentemente ho vinto il concorso per il terminal di Val di Susa. Nonostante la recessione economica questi progetti sembrano procedere in modo regolare...

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---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Material Design Lab ha curato per STONESCAPE il progetto di comunicazione visiva e svolge attivitĂ di Ufficio Stampa promuovendo con i media cartacei e digitali i contenuti testuali, iconografici e multimediali, legati al progetto. Videoediting, grafica e musica di "Stonescape. Alle origini dell'opera" e di "Intervista a Kengo Kuma" sono a cura di Lab MD

Un progetto per

Sponsor Tecnici Open Project, Frassinagodiciotto, Davide Groppi

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MD Material Design Post-it journal ISSN 2239-6063 Vol. III (2012), 39-45 - Davide Turrini edited by Alfonso Acocella, redazione materialdesign@unife.it3

post-it journal Pietra e marmo nel design di Carlo Mollino

Carlo Mollino, tavolo a fratina con sostegni in marmo e ripiano in cristallo per Casa Devalle, pezzo unico, 1939. Vista e schizzo progettuale

Una parte consistente della poliedrica attività progettuale di Carlo Mollino si esplica nell’architettura d’interni e nel design di arredi contrassegnati da forme sinuose, in cui fantasie surrealiste sono fuse a suggestioni organiche mutuate dal mondo naturale. Tra il 1937, con l’esordio progettuale nell’edificio per la Società Ippica Torinese, e il 1973 – anno della sua morte e dell’inaugurazione del Teatro Regio di Torino, suo ultimo capolavoro – l’architetto realizza visioni dinamiche ed eclettiche, portate a compimento con sicuro e concreto controllo della configurazione costruttiva e declinate in molteplici mondi materici tra cui spiccano quelli del legno scolpito, del compensato curvato, del vetro e degli specchi, dei materiali litici sofisticati e preziosi. Il processo creativo di Mollino è decisamente sperimentale e si radica con pragmatismo in complesse e innovative ricerche sui materiali e le tecnologie; egli realizza i disegni esecutivi e cura relazioni dirette e continuative con il contesto produttivo dell’alto artigianato torinese: le manifatture e i fornitori di materiali sono la falegnameria Apelli e Varesio; Viarengo per gli ottoni e Giorsini per le parti in ferro; la tappezzeria Sitia; la vetreria Cristal-Art. Il design molliniano si colloca sempre nella prospettiva del pezzo unico o della ridottissima serie e, con vero “atteggiamento rinascimentale”, elegge l’artigiano ad interlocutore privilegiato, poiché detentore di un magistero ammirato e profondamente introiettato attraverso un’esperienza personale prolungata e diretta.

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Carlo Mollino, tavolino con ripiani in marmo e struttura in metallo per CADMA, pezzo unico, 1947.

«La comunicazione e la discussione avvengono tra professionisti e Mollino pare essere professionista in tutti i tipi di mestiere. […] Un falegname racconta che solo l’architetto realizzava disegni esecutivi in cui assolutamente tutto era definito, incluso l’esatta posizione e quantità delle viti necessarie all’assemblaggio delle componenti del mobile e ancora un amico ingegnere, Guido Barba Navaretti, esecutore dei lavori di rinnovo della farmacia Boniscontro nel 1954, descrive la precisa scelta di Mollino di un marmo raro, contenente fossili marini, per il bancone di vendita delle specialità medicinali: con la sua natura geologica avrebbe dato un tono di rassicurante scienza alle pozioni vendute»1. In questo contesto, di forma curva o spigolosa e spezzata, di superficie rustica o liscia che sia, l’oggetto in pietra di Mollino è quasi una scultura barocca, sempre irripetibile e carica di effetti stupefacenti; esso nasce per appartenere ad un luogo soltanto ed instaura con lo spazio dell’ambiente domestico un rapporto osmotico fondante ed imprescindibile. Emblematici in proposito sono i primi pezzi realizzati per Casa Devalle (1939); si tratta di una console e di un tavolo con piani di appoggio in cristallo e basi scultoree. Nel primo caso la forma plastica è quella della Trinacria realizzata da Italo Cremona, nel secondo caso due masselli in marmo statuario di forme mistilinee costituiscono i supporti verticali di una rivisitazione del tavolo a fratina. Tra il 1945 e il 1947 si apre per Mollino la parentesi dell’esperienza di CADMA2, in cui l’architetto affronta il progetto di elementi di design astratti da un preciso contesto spaziale, da replicare e proporre al mercato americano. Anche in questo caso, come del resto nelle altre limitate occasioni finalizzate alla riproducibilità in serie (mobili per la competizione Garzanti e per Spartaco Fazzari), Mollino realizza oggetti fantasiosi, che attraggono l’attenzione dell’utente trasfigurando di frequente la loro funzione: accanto a poltrone imbottite, a lampade e a carrelli portavivande in ferro, egli progetta un tavolino con doppio ripiano in marmo venato di forte spessore, e un camino da centro con focolare in onice e cappa metallica.

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Carlo Mollino, camino a doppio affaccio con base e apertura in pietra e legnaia in marmo, Casa F. e G. Minola, 1945. Vista e sezione.

Nel tavolino rielabora la dinamica delle forme curve, ruotate o contrapposte, già presente nell’analogo mobile con piani in cristallo per Casa Miller (1936), accostando però la materia litica non al legno, ma ad un arabesco strutturale metallico con tiranti riuniti in un “nodo” centrale; nel camino lastre lapidee dal disegno “a stella” formano un basamento spigoloso su cui è innestata la cappa sinuosa e fortemente verticalizzante. Si tratta di oggetti che rappresentano una «tendenza a concepire il mobile modellandolo come fosse una scultura, comune, sul finire degli anni Quaranta, a tutto il mondo occidentale, […]. Al seguito o al fianco di Mollino, De Carli, Parisi, Ponti e molti altri architetti disegnano mobili dalle forme plastiche tanto libere da trascendere spesso il limite funzionale. Mollino, il più geniale ed estroso, definisce il suo stile percorrendo una strada culturale del tutto autonoma che passa attraverso il surrealismo, Gaudì, l’aeronautica, il tutto filtrato dalla lente della macchina fotografica che fissa un corpo nudo femminile»3. In questo modo gli oggetti molliniani diventano iper-oggetti, carichi di significati e fortemente personalizzati; se lo scopo del design è quello di creare pezzi replicabili e in un certo senso aspecifici, Mollino opera al contrario una caratterizzazione fortissima dei suoi mobili e dei suoi arredi fissi, che si configurano come protagonisti conchiusi nella scena di appartamenti introversi e isolati dal mondo esterno.

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Carlo Mollino, camino a doppio affaccio della casa F. e G. Minola, 1945 (a sinistra). Carlo Mollino, camino da centro con base in onice per CADMA, pezzo unico, 1947 (a destra).

Ecco allora rivelarsi i camini per le case Minola (1944-46), elementi totemici dalle forme morbide ed organiche che agiscono da catalizzatori di attenzione e di attività domestiche, in un arcipelago di oggetti tridimensionali innovativi per struttura e tipologia funzionale: isolato e sospeso su di un basamento litico tornito quello dell’appartamento per Ada e Cesare; plastico, bifronte e con legnaia fiancheggiante in marmo, quello per la casa di Franca e Guglielmo Minola. Nelle bocche di questi focolari il gusto di Mollino per il colore e il polimento di onici e marmi lascia il posto alla preferenza per la pietra rustica a spacco, a lungo osservata e sperimentata nelle tanto amate architetture di montagna e qui lasciata libera di irrompere, scabra ed essenziale, sulla scena abitativa dell’alta borghesia cittadina. Un progetto dopo l’altro, Mollino dissemina nei suoi interni preziosi pezzi litici fino all’ultimo arredamento che realizza per la casa da lui affittata e ristrutturata in Via Napione a Torino a partire dal 1960. Le immagini storiche di Casa Mollino mostrano un tavolino tornito monolitico in marmo bianco e una grande mensola anch’essa di marmo, caratterizzata da una forma mistilinea asimmetrica e dal bordo a triplo bisello; quest’ultimo elemento ribadisce la consuetudine – già espressa dall’architetto nelle case Minola e in Casa Orengo (1949) – nel realizzare console litiche a sbalzo con piani di forte spessore e di forme spezzate o a vassoio ellittico. Tali pezzi sono da riguardare ancora una volta come presenze scultoree surreali ed ambigue, sdoppiate nell’immagine poiché aggettanti da specchiere antiche o sospese su intere pareti riflettenti.

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Carlo Molino, tavolo in marmo statuario e marmo venato per Casa Mollino, pezzo unico, 1960 circa.

Nella sala da pranzo della casa in Via Napione è collocato l’ultimo mobile disegnato da Mollino: si tratta di una scultura fortemente statica, di un grande tavolo in cui la materia lapidea dà vita ad un poderoso trilite: la mensa in marmo statuario ha la forma stondata del varco-boccaporto navale già proposto nelle case D’Errico (1937) e Devalle ma ribaltato, questa volta, sul piano orizzontale; le gambe rudentate in marmo venato sono un’evocazione classica, quasi archeologica, di colonne che riconnettono ad una storia passata ben conosciuta e apprezzata soprattutto in maturità dall’architetto, come ingrediente indispensabile per una visione demiurgica che fonde, in continuità, antico e moderno.

Carlo Mollino, mensola in marmo statuario per Casa Mollino, due pezzi, 1962 circa. Vista e schizzo progettuale.

Mollino propone pezzi di design litico anche al di fuori dalle “scatole magiche” degli interni privati: nella continuità geometrica e relazionale degli ambienti pubblici da lui progettati, pietre e marmi sono impiegati

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ancora una volta per preziosi dettagli, come nel caso delle specchiature in onice nell’atrio dell’auditorium RAI a Torino (con Aldo Morbelli, 1950), o più spesso per stesure o super-oggetti che compartecipano a pieno titolo alla definizione delle sue morfologie spaziali esperienziali, fortemente dinamiche e sinestetiche4. Nella Sala da Ballo Lutrario a Torino (1959-60) cadono le partizioni, si moltiplicano gli effetti di dilatazione ottica e il piano pavimentale policromo in macro-mosaico lapideo è il luogo privilegiato per sviluppare una creatività disegnativa finalizzata all’ottenimento di una potente continuità di percezione; il banco bar ellittico in marmo arabescato del Teatro Regio (1965-73), incastonato nel foyer foderato di rosso, è un grande arredo fisso polifunzionale, progettato per contenere ed appoggiare oggetti oltre che per accogliere inservienti e clienti; oltre ad assolvere a tali esigenze – completamente sganciato dal perimetro dell’architettura – esso dialoga con l’ulteriore cellula isolata della cassa, proiettando all’intorno le sue intense qualità spaziali.

Carlo Mollino, banco bar in marmo arabescato, Teatro Regio di Torino, 1965-73.

In tutto ciò, nella dimensione privata come in quella pubblica, appare chiara una concezione del design che vede prevalere l’arte e l’artigianato sull’industria, la libertà espressiva sulla norma unificante, la proiezione “utopica” del singolo sulla ragione collettiva, in un approccio contemporaneamente visionario e operativo i cui caratteri, del tutto originali, emergono chiari e definiti nelle parole programmatiche dello stesso Mollino: «…Ben sappiamo che la casa deve “costare poco” e perciò essere prefabbricata e in serie [...]. Per contro la nostra tecnica costruttiva è ben ferma nella concezione dell’opera “singola”, anche tecnicamente modernissima, ma eseguita con sistemi produttivi a impronta nettamente artigiana. Al superamento di questa deficienza non basta accorrere con soli studi teorici e tabelle di unificazione con desolante destino di arenamento, ma è necessaria la formazione di “una mentalità produttiva che la nostra industria edilizia ignora assolutamente”. Purtroppo non sarò io l’ultimo ingenuo a pensare di poter forzar questa situazione [...]. Passando all’aspetto sociale del problema, la casa che costruiremo

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dovrebbe soddisfare a quella inguaribile componente utopica che è al fondo delle speranze terrene dell’umanità. [...] La casa “deve consentire” la massima libertà all’individuo senza “nuocere” al prossimo [...]. Questa libertà non deve essere intesa come livellamento specializzato d’alveare ma essere proporzionale al valore del singolo [...]. La casa è una conchiglia che dovrà consentire ad ogni organismo la sua libera e “ben differenziata” vita individuale: sognare, godere di un bel quadro o di un mobile “fuori serie”…»5.

Davide Turrini

Note 1 Fulvio e Napoleone Ferrari, I mobili di Carlo Mollino, Londra, Phaidon, 2006, p. 20. 2 Centro Assistenza Distribuzione Materiali Artigianato, con sede a Firenze sotto la direzione di Carlo Ludovico Ragghianti. I prototipi di Mollino, unitamente a quelli di altri architetti italiani, saranno esposti in mostre a New York e Chicago fino ai primi anni ’50. 3 Irene De Guttry, Maria Paola Maino, Il mobile italiano degli anni ’40 e ’50, Bari, Laterza, 2010, pp. 39-40. 4 Sugli aspetti della spazialità continua e dinamica nelle architetture di Mollino si veda Manolo De Giorgi, Carlo Mollino. Interni in piano-sequenza: Devalle Minola Lutrario, Milano, Abitare Segesta, 2004, in particolare le pp. 7-22; si rimanda anche al saggio di Michele Bonino, Bruno Pedretti, “Lo spazio e l’esperienza: interni, allestimenti, ambientazioni di Carlo Mollino”, pp. 125-135, in Carlo Mollino architetto 1905-1973. Costruire le modernità, a cura di Sergio Pace, Milano, Electa, 2006, pp. 303. 5 Carlo Mollino, “Testimonianza della casa” (1946), cit. in Carlo Mollino. Architettura di parole. Scritti 1933-1965 , a cura di Michela Comba, Torino, Bollati Boringhieri, 2007, pp. 271-274.

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MD Material Design Post-it journal ISSN 2239-6063 Vol. III (2012), 46-48 - Veronica Dal Buono edited by Alfonso Acocella, redazione materialdesign@unife.it

post-it journal

Acqua e pietra, design e cultura Stonescape di Kengo Kuma all'ex Ospedale dei Bastardini

STONESCAPE, vista di dettaglio dell'installazione. (Foto Giovanni De Sandre)

Si è conclusa con esiti d'eccellenza la seconda edizione di Bologna Water Design, un successo importante per la considerevole presenza di pubblico espressione e testimonianza della contemporanea attenzione alla cultura dell'abitare e di nuovi stili di vita. Un risultato positivo e singolare in particolare per l'ex Ospedale dei Bastardini di via D'Azeglio, gioiello architettonico nascosto nel cuore della città storica che ha offerto l'estensione spaziale inattesa dei suoi interni, ad istallazioni, esposizioni, avvolgenti scenografie per collezioni e prodotti di design: un insieme di allestimenti realizzato grazie alla collaborazione di affermati progettisti con aziende leader invitate a rappresentare la cultura imprenditoriale del nostro Paese. Un'effervescente serata inaugurale ha visto piÚ di seicento visitatori affluire all'istallazione Stonescape di Kengo Kuma per Agape, Il Casone e Mapei. L'acqua, tema trasversale di riflessione ed elemento unificante dell'intera iniziativa, da silenziosa protagonista ha segnato il percorso degli spettatori che si muovevano ammaliati , ammirando i ricercati elementi d'arredo bagno di Agape installati tra le armoniose dune stratigrafiche in pietra Forte Fiorentina de Il Casone, rese possibili dalla tecnologia celata ma essenziale di Mapei.

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Kengo Kuma ha saputo, come sempre, far lievitare il design dei singoli elementi d'arredo bagno - a firma di Angelo Mangiarotti per i lavabi e Giampaolo Benedini per le vasche - all'interno delle linee fluide e dell'avvolgente basamento litico. Per l'occasione Philippe Daverio, ospite illustre e atteso della manifestazione, ha introdotto la serata inaugurale percorrendo con il consueto ricercato eloquio, non privo di curiosi aneddoti e intriganti ironie, la storia della stanza da bagno. La narrazione, fatta di sole parole ma evocanti vivide immagini, ha consegnato al pubblico un messaggio di positività e fiducia alla cultura progettuale d'interni del presente. Continuo e copioso, anche nei successivi giorni all'inaugurazione, l'afflusso di visitatori a Stonescape ha innescato relazioni e dibattito tra architetti, specialisti dell'architettura, autorità cittadine, operatori della produzione provenienti da tutto il mondo, tra l'altro coinvolgendo al dialogo gli stessi residenti della città emiliana. Segnale questo positivo, di conforto,di incoraggiamento in considerazione soprattutto del particolare clima economico che anima il Paese. Grazie altresì alla qualità espressa dall'iniziativa, la manifestazione fieristica Cersaie ha riconosciuto a Bologna Water Design, “fuorisalone” bolognese, un importante stimolo partecipativo introdotto nel tessuto urbano, affermando la complementarietà dell'evento posto ad arricchire e approfondire i contenuti dell'esposizione.

Veronica Dal Buono ---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Un progetto per

Sponsor Tecnici Open Project, Frassinagodiciotto, Davide Groppi

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1 - 4 STONESCAPE, vista di dettaglio (Foto: Giovanni De Sandre)

1 STONESCAPE, Kengo Kuma tra gli sponsor (Foto: Tommaso Petrella) 2 - 3 STONESCAPE, Kengo Kuma (Foto: Tommaso Petrella) 4 STONESCAPE, il giorno dell'inaugurazione (Foto: Tommaso Petrella)

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MD Material Design Post-it journal ISSN 2239-6063 Vol. III (2012), 49-52 - Sergio Zanichelli edited by Alfonso Acocella, redazione materialdesign@unife.it

post-it journal Giuseppe Rivadossi: custodie biografiche

Le opere di Rivadossi sono il riflesso della sua storia. Una biografia che sconfina tra memoria ed innovazione; tra identità contestuale e avanguardia espressiva; tra manualità artigianale e sofisticata tecnologia costruttiva, ed infine un evidente rapporto di simbiosi tra affetti, valori morali, etici e una forma artistica che diventa “poesia della quotidianità”.

Credenze

Il rapporto natura e ricordo, tra luogo e persona sembra essere il tema di ricerca del lavoro espressivo di Rivadossi. La relazione tra luogo e espressione artistica per Rivadossi è la ricerca di “un nuovo rigore che viene dalla cultura in rapporto con la città e lo spazio” e che si esprime attraverso “la morale del progettista e il progetto come espressione della cultura in senso totale”. Una creatività non espressione di una “libertà senza senso” come ama definirla Rivadossi, ma un design che va oltre le possibilità tecniche, un paesaggio di interno in analogia a come si presenta la città. Le forme, le linee, i colori, sono segni ed evocazioni di un vivere che ricerca nella bellezza l’espressione del rapporto con la vita. Rivadossi dice che l’arte proviene dal profondo dell’essere e appartiene alla poesia; quindi basta cercare nella materia che è già luce e ombra per costruire uno specifico “linguaggio plastico”.

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Le sue opere sono, come dice Giovanni Testori, figli della sua carne, della sua terra e le sue “custodie” sembrano essere il frutto che si apre per uscire dalla “custodia naturale” di un riccio di castagna.

Custodia Altamira

Dalle prime opere come il Blocco Giallo in tiglio del 1968, alle Punte Krisa in tiglio di Selva del 1994, alla Custodia Altamira in noce nazionale del 2005, e fino alla Madia Lombarda del 2006, questo effetto di “materiale naturale” dell’opera in rapporto anche alla scala del paesaggio si percepisce come architetture di esterni in rapporto di osmosi e di stratificazione con lo spazio costruito. Non spontaneità del gesto ma trasposizione di tecniche e tematiche artigianali del passato; non come oggetti di arredo ma di immenso e silenzioso amore tra uomo e prodotto per andare alle radici del linguaggio.

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Scranno Tanzio

La semplicità è sintomo di un grande equilibrio espressivo che ha nel rapporto con la luce una ricerca di “dinamismo” percettivo in antitesi alla staticità degli oggetti che hanno nella materia, nel peso e nella dimensione le loro componenti formali e costruttive.

Credenza

Questa “ossessione di ospitalità ambientale” delle opere di Rivadossi è espressa tra un sottile equilibrio di relazioni tra proporzioni e rifrazioni, quasi uno sconfinamento involontario nelle tematiche linguistiche dell’arte cinetica che attraverso l’uso del legno ottiene un attraversamento della materia fino a plasmare e rendere visibile tutte le sue potenzialità.

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Louis Kahn in un famoso aforisma disse: “chiedi al legno cosa vuole diventare”. A questa domanda Rivadossi non propone opere con funzioni meramente estetiche ma uno specifico e assoluto percorso ideativo atto a “riempire vuoti” in una semplicità formale e nel mettere ordine nel caos che oggi contraddistingue sia uno stato di fatto dei luoghi, sia una tendenza linguistica di una parte dell’architettura contemporanea.

Pozzetto, chiuso (sopra) e aperto (sotto)

È attraverso l’aspetto artigianale come tema fondativo del progetto, ciò che Rivadossi chiama il “linguaggio della vita”, che riesce a coniugare uno stupendo equilibrio, la poetica del materiale e la forza del simbolismo. Questo esclusivo lirismo espressivo compare anche nell’ultima produzione artistica come nel Dolmen in tiglio di selva 2006 e nelle Custodie Nave in juglans regie 2009; e come ci ricorda Mario Botta “opere straordinarie per la loro bellezza e cariche di intelligenza artigiana sono tali da trasmettere una capacità evocativa che tocca e commuove l’uomo oggi”.

Sergio Zanichelli

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MD Material Design Post-it journal ISSN 2239-6063 Vol. III (2012), 53-55 - Veronica Dal Buono edited by Alfonso Acocella, redazione materialdesign@unife.it

post-it journal STONESCAPE di Kengo Kuma & Associates Alle origini dell'opera

STONESCAPE, vista d'insieme dell'installazione. (Foto Enrico Geminiani)

Dall'idea sottile e immateriale, concepita e poi tracciata in segni leggeri e fluidi sulla carta dalla mano del maestro giapponese Kengo Kuma, il percorso di progetto si articola in laboriose fasi operative di produzione sino alla materializzazione fisica della forma architettonica. Ha preso vita cosĂŹ Stonescape, l'istallazione per Agape, Il Casone e Mapei presentata in questi giorni a Bologna Water Design 2012. La maestria produttiva, la cultura tecnica di esecuzione e la predisposizione all'innovazione del team di aziende coinvolte nel

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progetto, ove ancora il processo artigianale si integra a quello industriale, hanno consentito il percorso realizzativo di questa singolare opera. Con il racconto dinamico per immagini che qui presentiamo, si illustra quel processo di costruzione che ha visto gli spazi dell'ex Ospedale dei Bastardini, tesoro “dormiente” nel cuore di Bologna, trasformarsi in breve tempo in una inaspettata scenografia. Ciò che rende Stonescape istallazione immaginifica, è la particolare materializzazione delle sue strutture litiche a contatto con l'acqua, fatte rifluire, come per magia, alla base di uno spazio interno chiuso dalla geometria regolare, stereotomica. Con i paramenti murari del palazzo storico, le ampie volte e aperture proprie della tradizione costruttiva italiana, le linee concave e convesse di Stonescape che disegnano al suolo il percorso espositivo stabiliscono una originale relazione spaziale, un inedito rapporto dimensionale, avvolgente e suggestivo per gli effetti di luce tra lo specchio acqueo e la Pietra Forte Fiorentina. L'attenzione rivolta alle fasi produttive dei componenti litici, la calibratissima esecuzione dei dettagli costruttivi ove le grandi lastre curvilinee sono posate con cura su una forma tecnica invisibile assecondante il disegno prefigurato dall'architetto, hanno configuato con naturale e rara eleganza lo spazio di questa magica oasi artificiale "acqueolitica". La scena centrale, come scolpita nella pietra, è perfetta scenografia espositiva per gli elementi d'arredo bagno - grandi vasche e lavabi, omaggio all'opera di Angelo Mangiarotti recentemente scomparso - che, come sculture domestiche, affiorano dallo specchio acqueo.

Veronica Dal Buono

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Material Design Lab ha curato per STONESCAPE il progetto di comunicazione visiva e svolge l'attività di Ufficio Stampa promuovendo con i media cartacei e digitali i contenuti testuali, iconografici e multimediali, legati al progetto. Videoediting, grafica e musica di "Stonescape. Alle origini dell'opera" è a cura di Lab MD. ---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Un progetto per

Sponsor Tecnici Open Project, Frassinagodiciotto, Davide Groppi

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MD Material Design Post-it journal ISSN 2239-6063 Vol. III (2012), 56-60 - Davide Turrini edited by Alfonso Acocella, redazione materialdesign@unife.it

post-it journal ENZO MARI Precorritore del design in cartone

Enzo Mari, Elementi espositivi tubolari in cartone canettato bianco, 1966

L’oggetto di carta o cartone è stato storicamente associato a un’idea di merce povera e transitoria; eccezion fatta per i supporti scrittori o pittorici destinati a durare, i materiali a base di fibre cellulosiche hanno pervaso la quotidianità dell’uomo ma quasi sempre nella prospettiva del consumo immediato e, di frequente, in associazione diretta a un’idea di sfruttamento dannoso dell’ambiente e delle materie prime naturali. Oggi la percezione dei prodotti cellulosici è mutata. In generale si è sviluppato da tempo un profondo ripensamento del concetto di “usa e getta”: le nozioni di economia, assenza di manutenzione, indifferenza al senso di possesso, di cui gli articoli di facile e rapido consumo sono paradigmatici, sono sempre più spesso percepite come valori; inoltre alcune pregiudiziali negative dell’usa e getta, connesse all’assenza di qualità, al consumismo e alla mancata sostenibilità, sono state ribaltate da una nuova consapevolezza ambientale e da nuove pratiche di produzione e utilizzo1. In particolare, a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, l’industria cartaria ha precocemente accettato la sfida della sostenibilità dei propri prodotti nell’intero ciclo di vita, ha progressivamente aumentato l’utilizzo del macero e ha certificato filiere e materiali ottenendo marchi Ecolabel. Oggi, per stare ai soli dati italiani, il settore cartario utilizza una quantità di fibre secondarie da riciclo che tocca quasi il 50% e che supera abbondantemente quella delle fibre vergini, comunque provenienti da

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foreste coltivate in base a protocolli altamente sostenibili. Secondo il 16° Rapporto sulla raccolta, il riciclo e il recupero di carta e cartone pubblicato dal COMIECO, nel 2010 ogni italiano ha raccolto in modo differenziato oltre 52 kg di carta e cartone, mentre il saldo netto dei benefici per la comunità nazionale, derivante dall’aver attuato dal 1999 a oggi la raccolta differenziata e il riciclo dei prodotti cellulosici, ammonta a 3,5 miliardi di euro. Si tratta di dati consistenti, emblematici delle positive ricadute ambientali, economiche e sociali derivate da un diffuso e consistente ripensamento dei processi e dei prodotti cartari2. Tale cambiamento è partito negli ultimi lustri dalla gamma dei materiali, aggiornata ed ampliata con prodotti innovativi in larga parte ottenuti dal recupero; esso si è poi sviluppato attraverso la creatività di designer, artisti e artigiani grazie ai quali la cellulosa rinasce ciclicamente, alimentando un universo produttivo sostenibile, leggero, amichevole e declinato in maniera articolata nei settori dell’arredamento, del packaging e del corporate design, del design for children, del fashion design, dell’allestimento e dell’architettura. Di questo fenomeno Enzo Mari è stato un precorritore assoluto, poiché già negli anni ’60 del secolo scorso ha conferito ai materiali cartari il valore aggiunto di un design colto e innovativo. Impiegando il cartone, Mari crea allestimenti, imballaggi e strumento ludici e didattici per Danese: struttura produttiva che inizia la sua attività nel 1957 e si configura come una realtà agile e versatile, dedicata alla realizzazione di oggetti d’uso di alta qualità. In tale contesto il designer può sperimentare le potenzialità di una filiera in cui sono compresenti lavorazioni artigianali e processi industriali, con lo scopo di rispondere ad una vocazione produttiva spiccatamente innovativa, che sperimenta nuove tipologie oggettuali basate di frequente sull’ambiguità formale e funzionale, sull’ironia, sulla comunicazione di significati inediti e di una peculiare interpretazione del mondo. I sistemi espositivi in cartone di Enzo Mari, studiati per le mostre e i negozi Danese, presentano un’elevata connotazione architettonica, basata sulla composizione di moduli dalle geometrie primarie, a creare forme complesse per la divisione dello spazio o il supporto all’esposizione dei prodotti; gli elementi di base sono sempre in cartone canettato con alcuni inserimenti di plexiglass o laminati plastici; le configurazioni di montaggio sono libere e variate e avvengono per accostamento o sovrapposizione, secondo schemi lineari, retti, circolari o sinuosi; i sistemi di giunzione utilizzano diffusamente la graffettatura metallica. Il designer realizza un primo allestimento nel 1964, si tratta di una “struttura cellulare” con moduli scatolari in cartone di 50x50x30 cm. Tra il 1965 e il 1969 elabora un sistema più complesso e versatile, basato su profili ripiegati ad U che danno vita a forme “a sedia” o trapezoidali di 18x70x100 cm; questi ultimi elementi sono impiegati in varie composizioni negli spazi commerciali Danese e per le mostre degli oggetti del marchio allo Stedelijk Museum di Amsterdam (1967) e al Musée des Arts Décoratifs di Parigi (1970). Del 1966 è un allestimento con elementi tubolari in cartone di diversa altezza a base quadrata e del 1969 sono le scaffalature con montanti in

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cartone e ripiani in plastica trasparente che per lungo tempo andranno a costituire il sistema si allestimento “stabile” del negozio Danese. La stessa concezione che Danese esprime nella realizzazione dei suoi allestimenti è ribadita dall’azienda nell’impostazione del packaging, dove il marchio disegnato da Franco Meneguzzo è coordinato con il progetto dell’imballo e della grafica firmati di volta in volta dallo stesso Mari o da Bruno Munari. Scatole in cartoncino e in cartone dai colori naturali e dai volumi elementari, essenziali grafiche serigrafate, sistemi semplici di montaggio e di chiusura sono i caratteri di un packaging design che mira ad una sostanziale economia di materiale e di operazioni per la realizzazione, prendendo le distanze da una certa idea di confezione “ad effetto” che inizia ad imporsi proprio tra gli anni ’60 e gli anni ’70; per Stefano Casciani tutto ciò è ancora una volta in linea con le esigenze di un’azienda per cui «la comunicazione principale è affidata al valore del prodotto, alla sua capacità di rispondere alle necessità dell’utilizzatore, allargate in senso “antropologico”, attraverso una forma e una funzione innovative»3.

Enzo Mari, “Il posto dei giochi”, 1961-67. Produzione Danese

Nel corso degli anni ‘60, sempre nel contesto della produzione Danese, Mari traduce in gioco le ricerche che sta conducendo sull’uso del cartone negli allestimenti. Il frutto di tale lavoro - che si esplica su più fronti di innovazione tipologica, visiva e grafica - è Il posto dei giochi: un foglio di

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cartone rigido, piegabile a fisarmonica, adatto per essere impiegato come attrezzatura multifunzionale da bambini di età compresa tra i 3 e i 6 anni. Il paravento, leggero e resistente, è uno strumento per giocare, con cui costruire recinti chiusi o aperti, labirinti o scenografie; la parete è caratterizzata da fustellature sui bordi e da trafori di varie forme e dimensioni, inoltre su di un solo lato è “decorata” con serigrafie geometriche. Intagli e disegni arricchiscono il gioco di elementi simbolici aperti a molteplici interpretazioni da parte dei piccoli utilizzatori, conferendo viepiù allo strumento il carattere di uno spazio interattivo, definito da Renato Pedio come un vero e proprio “habitat a misura di bambino”, di cui Gillo Dorfles ha sottolineato la “componente magicorituale”4. Con Il posto dei giochi Enzo Mari mette a punto un capostipite del paper design per bambini, una materializzazione essenziale delle funzioni esplorative, creative e di supporto didattico del gioco infantile…. ma il palinsesto di cartone è molto di più. Per i suoi caratteri visuali ed evocativi esso si configura infatti come un’opera aperta, proiettata oltre il regno degli oggetti d’uso. È ancora Casciani ad affermare a giusta ragione che Il posto dei giochi rappresenta «un fenomeno di confine nel tempo e nello spazio della produzione Danese, in bilico tra l’oggetto d’arte e il gioco per bambini. Forse non casualmente dal 1970, quando entra nella collezione del Kunstgewerbemuseum di Zurigo, questo prodotto ottiene una lunga serie di riconoscimenti in quelle istituzioni ”artistiche” per eccellenza che sono i musei»5. Davide Turrini

Note

1 Si veda in proposito Renato De Fusco, Design 2029. Ipotesi per il prossimo futuro, Milano, Franco Angeli, 2012, pp. 65-71. 2 Sull’evoluzione della raccolta differenziata dei prodotti cellulosici nell’Italia postindustriale, sui suoi aspetti ambientali, economici e socio-culturali si rimanda a Carlo Montalbetti, Ercole Sori (a cura di), Quel che resta di un bene. Breve storia della raccolta differenziata e del riciclaggio di carta e cartone, Bologna, Il Mulino, 2011, pp. 192 (con consistente bibliografia). 3 Stefano Casciani, Arte industriale: gioco, oggetto, pensiero. Danese e la sua produzione, Milano, Arcadia, 1988, p. 57. Il volume è imprescindibile per la documentazione completa e il contributo critico sui progetti in cartone di Enzo Mari. 4 Sui progetti in cartone di Mari si veda anche Renato Pedio, Enzo Mari designer, Bari, Dedalo, 1980, pp. 143 (in particolare le figg. 96-99/109-113 con relative didascalie). Sui giochi si rimanda inoltre a Emilio Battisti, Gillo Dorfles, Mariella Loriga, I giochi per bambini di Enzo Mari, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1969, pp. 91. 5 Stefano Casciani, op. cit., p. 125.

1 Enzo Mari, allestimento-libreria per Danese con pareti in cartone e piani in plastica trasparente, 1969 2 Enzo Mari, allestimento per Danese a struttura cellulare in cartone canettato bianco, 1964 3 Enzo Mari, allestimento-libreria per Danese con pareti in cartone e piani in plastica trasparente, 1969

1 Enzo Mari, allestimento in moduli di cartone con piano di supporto trapezoidale, 1965

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2 Enzo Mari, allestimento per Danese in moduli trapezoidali di cartone, 1969 3 Enzo Mari, allestimento in cartone per il negozio Danese di Losanna, 1965-70

1 - 2 Enzo Mari, Bruno Munari, Scatole e imballaggi di prodotti Danese, 1959-70. 3 - 4 Enzo Mari, “Il posto dei giochi�, 1961-67. Cartone piegato e stampato, produzione Danese.

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post-it journal

Ideare, sperimentare, materializzare. Una conversazione con Matali Crasset

Ho avuto occasione di conoscere per la prima volta i tuoi progetti qualche tempo fa presso la Galleria Luisa delle Piane. Il fascino immediato che hai suscitato su di me è stato per l'uso disinvolto, disinibito del colore, come elemento linguistico del progetto.Approfondendo poi il tuo percorso, le tue realizzazioni, emerge che non vi è soltanto la policromia ma anche altre costanti quali composizione, modularità, trasformabilità, interazione, duttilità di elementi, flessibilità di spazi. È indubbio: attraverso i tuoi progetti, mantieni "svegli", "attivi", "reattivi" gli utenti. Pensi dunque che questa sia una delle funzioni "sociali" del design? Matali Crasset: Certamente; sono per proporre delle strutture utilizzabili, praticabili, che guidino al «fare». Mi sono accorta che c'è bisogno di fare sperimentazione, un'attività un po' dimenticata. Grazia all'attività sperimentale ci si evolve. La «storia del fare» è molto importante per l'umanità stessa. La manipolazione appartiene a quei momenti in cui ci si lascia vivere e si comincia a creare. bisogna essere attenti, vigili, perché abbiamo molti strumenti che ci permettono il “fare” secondo modalità molto diverse. Dunque bisogna porsi delle domande, trovare un punto di equilibrio per non arrivare ad un momento di passività. Svolgendo sperimentazione ci si pone delle domande, ci si rimette in causa e, poco a poco, si ricomincia, ripartendo dalla fase precedente. Talora si rischia tuttavia di non essere più aperti a raggiungere un risultato ma solo attivi in una continua sperimentazione e ricerca di novità; dunque, paradossalmente, non è più fare sperimentazione. Quindi bisogna mantenere fisso lo sguardo sull'obiettivo del progetto e dei suoi utenti.

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Quand Jim monte à Paris, Matali Crasset, 1995.

V.D.B.: Quale é il tuo rapporto con le tecnologie informatiche, sia nel concepire il progetto che nell'integrazione di esse alla realizzazione dello stesso? M.C.: La tecnologia è uno strumento, si potrebbe dire un “utensile”, che cambia continuamente e che io stessa ho visto direttamente evolversi. Appartengo ad una generazione che realizzava i disegni tecnici con i “rotring” e che si è aggiornata imparando ad utilizzare molteplici software. La tecnologia non può sostituire l'attività del pensiero. Non è la macchina che consente di pensare; bisogna mantenere la propria colonna vertebrale, il proprio pensiero, la propria metodologia. La tecnologia mi serve; cerco di addomesticarla. In ogni modo in nessun caso non sostituisce l'attività creativa attraverso le funzioni automatizzate. Personalmente faccio in modo che mi serva al momento giusto. Cerco di manipolarla e digerirla per conservare la mia intuizione vergine. La cosa principale nel mio lavoro è l'idea di tradurre in progetto la mia intenzione, il mio concetto di “valore”; dunque non è l'informatica che mi aiuterà a trovare questi significati e a materializzarli ma piuttosto mi aiuterà a divulgare i miei progetti, non a crearli. V.D.B.: In sintesi come spiegheresti il tuo metodo progettuale? È sempre lo stesso o varia di volta in volta, in funzione di committente, progetto, contesto...? M.C.: Ci sono molti metodi di progettazione possibili. Passa il tempo e mi trovo a lavorare in contesti molto diversi; non solo il mondo industriale ma anche quello dell'associazionismo o delle istituzioni, ecc.. D'altro canto, io ho il mio proprio metodo, il mio proprio modo di procedere e, allo stesso modo, ritengo che ognuno debba trovare il proprio. È ciò che dico agli studenti. Ci sono metodi cosiddetti “classici” ma

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ognuno deve trovare la metodologia contestuale al proprio percorso. Si ha l'impressione che “Design” significhi trovare delle idee, ma non è così. Tutti hanno delle idee. Ma sono le idee utilizzate nel contesto appropriato e sviluppate fino a un certo livello da permettere l'innovazione, a funzionare. Al contempo non devono essere di rottura con ciò che già esiste. L'esperienza di questo equilibrio di forze che si acquisisce con la pratica è molto importante, progetto dopo progetto. Bisogna realizzarne molti per acquisire plasticità. È una ginnastica del pensiero che, innestata, consente in avvio di un progetto di comprendere subito il contesto, dove siano le leve sulle quali agire e i limiti del progetto stesso. Dunque fare in modo di proporre al committente qualcosa che sia in risonanza con il contesto. Quando svolgo atelier di progettazione della durata di pochi giorni, un po' ovunque nel mondo, recentemente presso Haute Ecole d’Art et de Design di Ginevra, cerco di trasmettere degli insegnamenti concreti. V.D.B.: Saper fare artigianale o fabbricazione industriale a controllo numerico sono contesti di produzione, compresenti nella contemporaneità, che fanno parte della tua pratica e ricerca? Come individui dove e come realizzare i tuoi progetti? M.C.: Non svolgo ricerche in assoluto – solo molto molto raramente. Se faccio ricerche è per la volontà di mostrare il mio lavoro. Faccio ricerca quando ho bisogno di materializzare, mostrare all'esterno il mio interesse più profondo e fare uscire l'idea iniziale e tutte le nozioni che costituiscono questo centro di interesse e stanno per formalizzarsi con il progetto. Io non ho limiti nella ricerca, lascio che vari molto. Mi piace procedere in più di una direzione parallelamente. Per esempio mi interesso di sociologia e antropologia, allo stesso tempo ad addomesticare la tecnologia nello spazio quotidiano; mi interesso anche di informatica, sì, faccio anche questo. Cerco di mettere in relazione le mie passioni personali e il bisogno locale, ovvero il mio interesse e quello degli altri, anche di coloro che si trovano dall'altro capo del mondo. V.D.B.: Nel progetto, è chiaro, non parti dalla scelta dei materiali con cui realizzarlo. Eppure come rientrano essi infine nel progetto? M.C.: Non sono ancorata ad un solo modo di produzione. Sono stata per esempio in Tunisia dove il tema era la costruzione di una struttura alberghiera e non conoscevo affatto il contesto. Pertanto bisogna avere una base in tutti i settori e poi procedere completando a seconda del progetto. Si sa che il nostro mestiere significa coinvolgersi con passione, di volta in volta, in nuove esperienze e ambiti di conoscenza. Per ogni progetto si è obbligati ad immergersi e trovare la sinergia con un modo di fabbricazione differente e anche con un certo tipo di relazioni umane. Non è solo la semplice “fabbricazione” ma come si interagisce con gli interlocutori, come si realizzano i progetti collettivamente. Ciò che mi interessa non è dirigere ma piuttosto interagire e raggiungere l'obiettivo del progetto che si farà. La cosa sulla quale sono più chiara è il mio metodo. Cosa si fa con tutto ciò con il quale ci si imbatte nel progetto? La materia non è tutto; non mi riesce cominciare un progetto

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partendo dai materiali perché ciò diverrebbe un semplice esercizio. Io non devo svolgere esercizi, come a scuola - può capitare per un allestimento, per esempio -; non si può partire con un esercizio, verrebbe a mancare una dimensione. La dimensione del superare se stessi, di comprendere gli altri e infine dominare la materia. Mi piace molto, talvolta, lasciar parlare la materia, creare intimità con essa; ci si accorge che ci sono dei potenziali nascosti perché talora la materia è stata privata di qualche cosa; rivelarli può essere molto importante. È un po' la medesima cosa che succede con la tecnologia: quando taluni aspetti sono rimasti inespressi si possono trasferire in ambiti differenti, valorizzare attraverso altre applicazioni. Realizzo progetti di ogni tipo, piccole serie e a scala industrial, con artigiani locali che conosco personalmente o con l'industria. Il mio approccio è scoprire ciò che un oggetto suggerisce, la sua interiorità. Poi realizzarlo per i diversi contesti, dall'ambito delle galleria d'arte al mercato della grande distribuzione. V.D.B.: Come si svolge il dialogo con i tuoi collaboratori, rispetto ad una autorialità così spiccata, indipendente, come la tua? M.C.: Siamo un piccolo Atelier, difendiamo l'idea di una struttura in scala “umana” e collaboriamo con ambiti della produzione anch'essi di ridotte dimensioni. Partiamo dall'idea di mettere le nostre intelligenze in comune e dunque difendiamo la “dimensione umana”. Si ha un tipo di creatività diversa in piccole strutture; faccio un design indipendente, impegnato, che non si potrebbe svolgere in strutture diverse. Qui da noi non si può parlare di prodotti commerciali, non esiste in strutture di queste proporzioni. C'è un tipo di creatività diversa. Sono stata invitata in Russia a presentare i miei progetti e, in chiusura dell'esposizione, mi hanno chiesto: “Ma tutti questi progetti li hai fatti tutti completamente da sola?” Io, di base, spiego sempre con chi ho lavorato tuttavia le mie realizzazioni sono apparse così personali, così libere, affermate, identitarie, che non si aveva l'impressione avessi lavorato con altri interlocutori. Non è semplicemente affidare ai collaboratori un compito da eseguire, un disegno da realizzare ma dialogare, incontrarsi, spiegare loro un “saper fare” particolare per raggiungere risultati singolari – difendo la singolarità – e, in finale, coloro che mi raggiungono in studio per collaborare è perché diffondo l'idea che nel design più c'è differenza, diversità di idee, meglio è. Ciò dà speranza ed è veramente ciò in cui credo e che difendo. V.D.B.: Rivolgersi a pubblici "particolari" come i giovani, i bambini, ne design, significa anche affrontare la questione dei costi. Come ti rapporti connquesto ineludibile aspetto della produzione? M.C.: Non si comincia un lavoro senza pensare al costo di realizzazione e poi di vendita. Fa parte del mestiere. Certo è che la stessa idea la si può realizzare a livelli diversi di costo. E trovare il costo è molto di più del saper fare. A un momento dato del processo progettuale, il mio processo mentale è trovare attenzione, ospitalità, condivisione e non cristallizzarsi attorno ad un concetto. L'idea finale la potrò materializzare a diversi livelli di costo, gestendo materiali e costi di produzione diversi e questa è

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l'esperienza. È uno degli ingredienti essenziali del mestiere del designer un po' come la relazione con i committenti. “Adoro”, del resto, avere committenti e più ne ho più posso digerire il progetto, spingerlo e superarlo. E sono sicura che la proposta corrisponderà di fatto a ciò che l'interlocutore chiede. È un dato molto importante del mestiere e io considero che rispondere in funzione dei costi, fare un oggetto funzionale è il “minimo sindacale” del design ma non è sufficiente... V.D.B.: Infine, la gentilissima Matali Crasset pensa di essere cambiata da quando vive e lavora a Parigi? M.C.: No, no, sto molto bene qui a Belleville tra decine di famiglie, l'Ufficio proprio di fianco al luogo dove vivo. Ho scelto di stare qui; talvolta si può scegliere e ciò è una tipicità del mestiere del designer; è una capacità che abbiamo e dunque ne possiamo approfittare anche per le scelte di vita. Bisogna fare in modo di vivere gradevolmente e configurare la propria struttura, familiare e lavorativa, come “voglia di vivere”.

Veronica Dal Buono

Nota alla traduzione. Ritengo opportuno precisare che nella trasposizione testuale dell'intervista a Matali ho adottato criteri a mio avviso importanti anche se personali. Ho scelto di mantenere il discorso diretto per stare vicino al “suo” sentire e trasmettere il senso dei concetti da lei espressi con tanto vigore ed entusiasmo. A volte, a scapito della traduzione stessa, ho riportato pedissequamente, le strutture usate dalla intervistata, più francesi che in forbito italiano, utilizzando il significato base della parola quasi a voler mantenere quei suoni e quelle onomatopee che, unitamente al tono della voce e alla gestualità, tanto aggiungono arricchendo l'argomentazione e la conoscenza acquisita dell'interlocutore.

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1 Hotel Hi Matic, Paris. ph: Simon Bouisson 2 - 4 Hotel Hi Matic, Paris. Logis ĂŠcologique & urbain. ph: Simon Bouisson 5 - 6 Hotel Hi Matic, Paris. ph: Simon Bouisson 7 Hotel Hi Matic, Paris. Logis ĂŠcologique & urbain. ph: Simon Bouisson 8 - 10 Hotel Hi Matic, Paris. ph: Simon Bouisson 11 - 15 Hotel Hi Matic, Paris. City cabane. ph: Simon Bouisson

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1 Dar Hi. Espace Pilotis. Ph. Jérôme Spriet 2 Dar Hi. Espace Troglodyte. Ph. Jérôme Spriet 3 - 4 Dar Hi. Espace Dunes. Ph. Jérôme Spriet 5 - 6 Dar Hi. Hi body and soul. Ph. Jérôme Spriet 7 -10 Dar Hi. Espace Pilotis. Ph. Jérôme Spriet 11 Dar Hi. Espace Troglodyte. Ph. Jérôme Spriet 12 Dar Malika. Ph. Jérôme Spriet 13 - 14 Dar Hi. Ph. Jérôme Spriet 15 Dar Hi. Bazar Fegtima. Ph. Jérôme Spriet 16 - 18 Dar Hi. Ph. Jérôme Spriet 19 - 20 Centre historique de Nefta, Tunisie

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MD Material Design Post-it journal ISSN 2239-6063 Vol. III (2012), 68-75 - Veronica Dal Buono edited by Alfonso Acocella, redazione materialdesign@unife.it

post-it journal Intervista a Fabio Gramazio

Fabio Gramazio & Matthias Kohler sono architetti e programmatori, specializzati nell’applicazione di tecnologie digitali all’architettura. In particolare le loro ricerche, condotte presso il Politecnico Federale di Zurigo dove sono docenti della cattedra di Architettura e Fabbricazione digitale e quindi estese ai progetti del loro studio professionale, si concentrano sulle possibilità di utilizzo del braccio meccanico automatizzato nel campo dell’architettura. Il robot è in grado di assemblare elementi modulari secondo forme progettate e calcolate con strumenti di disegno tridimensionale direttamente connessi alla macchina. Veronica dal Buono: Architetto, la ricerca che assieme a Matthias Kohler conducete già da diversi anni, risulta assolutamente originale e innovativa. Come ha preso avvio e quali presupposti l’hanno reso possibile? Fabio Gramazio: Abbiamo seguito con molto interesse gli sviluppi tecnico-informatico degli anni ’90, imparando entrambi a servirci della

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programmazione nel senso diretto del termine: programmare le macchine per creare forme, organizzare moduli. All’epoca tutto ciò era virtuale, esisteva solo a livello di immagine e di dati e non era possibile, né vi era intenzione, tradurre questi eccitanti e nuovi risultati in architettura costruita, considerando l’“architettura” quale organizzazione di materia nello spazio e creazione di spazi per vivere. Anzi, all’epoca era consuetudine leggere questi aspetti del progetto come due discipline in antitesi l’una con l’altra. La “realtà virtuale” in architettura era antagonista della creatura analoga reale, fisica, costruita. La motivazione che ci ha condotto lungo la strada che percorriamo ora, è stata la speranza che si trattasse solo di una distinzione arbitraria, motivata dalla mancanza di concetti e tecnologie che potessero consentire la traduzione da una realtà all’altra, riconducendo “virtuale” e “reale” ad una sola dimensione. Quando nel 2000 fondammo il nostro studio, abbiamo investito tempo, energia e risorse nell’investigazione di questi fenomeni. Proprio in quegli anni le tecnologie di produzione digitale cominciavano a divenire, se non propriamente “normali”, almeno “pensabili” in architettura. Macchinari che fino a poco prima non erano disponibili o erano troppo costosi, oppure producevano in dimensioni non interessanti per l’architettura, di colpo sono entrati nel mercato. I nostri primi esperimenti erano praticati con macchine che lavoravano in dimensioni 6 per 3 m, create per l’industria automobilistica e dell’aviazione, cosa fino a pochi anni prima impensabile. V.D.B.: Quanto ritenete che il contesto nel quale operate vi abbia influenzato e quale eredità della cultura elvetica è sottesa al vostro lavoro? F.G.: L’attenzione per il dettaglio e l’interesse per la costruzione sono i concetti che, più che “svizzeri” in generale, rappresentano la costante pedagogica dell’ETH, il Politecnico federale di Zurigo. In 150 anni di storia la scuola del Politecnico non ha mai deviato da questa prospettiva, non si è mai lasciata dirottare da mode o contingenze. Il senso spiccato verso la tecnologia della costruzioni come parte integrante, generativa, dell’architettura è l’importante regola che l’Istituzione presso al quale lavoriamo ha saputo mantenere. Il lato positivo (e meno noioso!) è proprio la coscienza dell’importanza del dettaglio costruttivo; dettaglio che diviene centrale appena si comincia a pensare a macchine di precisione come quelle che adottiamo noi: non è possibile realizzare un progetto digitale senza occuparsi dei dettagli. V.D.B.: Che cosa intende attraverso il concetti di “informing architecture” e di “digital materiality”? F.G.: L’espressione, più datata e generale, “informare l’architettura”, significa integrare il materiale di una qualità astratta, l’informazione. Può essere un’informazione relativa alla organizzazione oppure alla performance del materiale. Prendiamo per esempio il muro in mattoni, tema cui abbiamo dedicato i primi esperimenti: esso è solo un muro in mattoni come tanti ma arricchito dell’informazione della rotazione dei singoli elementi. Il concetto si può estendere a piacimento fino ai materiali intelligenti, “smart”.

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L’espressione “materialità digitale” l’abbiamo coniata in occasione dell’omonima pubblicazione (Gramazio & Kohler, Digital Materiality in Architecture, Lars Müller Publishers, Baden 2008) e vuole descrivere una creazione completamente artificiale che rispecchia il mondo digitale, immateriale di cui parlavo prima. Tali categorie, fino agli anni ’90 non conciliabili, per noi formano un’unità più ricca del solo digitale o materiale. Nella fusione si generano effetti che sono unici, specifici del fenomeno “materialità digitale”. Proprietà morfologiche che ben conosciamo come appartenenti al mondo digitale, come grafiche che si manifestano solo nello screen, se inserite nel materiale diventano un’esperienza fisica, sensuale. Così i materiali se arricchiti improvvisamente di proprietà facenti parte, a livello di logica, di un altro “dominio”, vengono trasformati. È un neologismo che continuiamo ad arricchire di significati. V.D.B.: Definireste la vostra indagine applicata ad un metodo progettuale o costruttivo, o piuttosto ad entrambi insieme? F.G.: La riflessione che diparte da questa osservazione è proprio se la progettazione architettonica possa essere considerata in analogia ai metodi di elaborazione delle informazioni ovvero se sia un metodo top down o bottom up (rispettivamente dall'alto verso il basso e dal basso verso l'alto). Per riuscire a rispondere, probabilmente direi “entrambi contemporaneamente”. Posso affermare che nel nostro metodo il sistema costruttivo è sempre il punto di partenza. Ciò non significa che tutto sia sottomesso ad esso, sarebbe riduttivo - il livello del progetto, molto spesso top-down, vi è sempre - eppure la base costruttiva è la fonte di ispirazione originaria. V.D.B.: Puoi spiegarci come nasce il progetto di un “muro algoritmico” e come si realizza? F.G.: L’esempio del “muro” è basilare e, per la sua linearità, perfetto per spiegare il concetto. Il primo passo è cercare di capire a livello fisico, empirico, cosa succede accatastando degli elementi di laterizio uno sull’altro, quanto si possa farli sporgere uno sull’altro. A partire da queste osservazioni empiriche creiamo delle regole specifiche che si possono paragonare alla logica di connessura tra gli elementi, alla regola di tessitura. Raggiunta questa conoscenza attraverso l’esperimento, si formalizza in un programma di regole che possono avere un grado di complessità alquanto superiore a quelle possibili nel lavoro manuale di muratura. Una volta che il programma è scritto e definisce in maniera univoca e chiara la sequenza e la posizione degli elementi, aspetti questi i più importanti, la sequenza può essere letta da un robot che eseguirà il programma. V.D.B.: Quali sono le principali caratteristiche del robot?

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F.G.: Il robot è più interessante di altre macchine perché antropomorfo e può eseguire dei processi simili a quelli dell’uomo, a livello di abilità e movimento nello spazio, eppure seguendo regole completamente differenti. In particolare il robot a controllo numerico non necessita di referenze ottiche. Per spiegarmi: l’essere umano può collocare elementi uno accanto all’altro molto velocemente; quando è aggiunta la richiesta di ruotarli di un valore preciso in gradi, allora è necessario introdurre la misurazione e così l’uomo diventa inefficiente. E l’inefficienza in architettura significa denaro, tempo e non realizzabilità. L’interessante dunque è la complementarietà che si crea col robot. Senza modificare la velocità e con la stessa efficienza, il robot può eseguire 10.000 operazioni precise nello spazio in tempo reale. Inoltre è poco costoso, robusto e grande, rispetto ad altre macchine di prototipazione digitale (per esempio le frese). Se vogliamo parlare di industrializzazione del settore edilizio questi sono dati importanti perché non si lavora in laboratorio ma all’aperto, sotto la pioggia, e il denaro è sempre poco… V.D.B.: Un materiale della tradizione, il laterizio, ed una tecnica assolutamente innovativa. Come è nato il progetto per la facciata della cantina Gautenbein (Adolfo Baratta, Informing architecture, Costruire in Laterizio 124, 2008, pp. 48-51; Luigi Alini, Materialità digitale, in Costruire in Laterizio 141, 2011, pp. 74-77) e la collaborazione con il committente? F.G.: Stavamo concludendo le prime sperimentazioni con laterizi e robot – cercando di sondare le possibilità a livello di estetica e di statica, di costruzione, sostituendo la colla alla malta – quando si è offerta la possibilità di intervenire sulla facciata di questo edificio. L’idea era quella della facciata classica in laterizio, con aperture regolari per la luce, tuttavia con termini temporali estremamente stretti, da aprile a settembre, e il cantiere era già avviato. Progettualmente non vi erano dunque margini di intervento. Questa occasione fortunata ci ha consentito di lavorare su scala più grande di quella da laboratorio e di sfruttare le tecnologie digitali coinvolgendo in particolare un’azienda di produzione di laterizio, creando fiducia, esperienza ed obiettivi comuni. L’esperienza realizzativa lega molto più rispetto ad un meeting o altre forme di collaborazione. Siamo riusciti a concludere la facciata nei termini, realizzandola nei laboratori dell’università sotto la supervisione dell’impresa stessa che poi si è assunta la responsabilità del prodotto, facendo seguire a questa collaborazione altri progetti di cui non posso ancora anticipare…. V.D.B.: Il “muro digitale” ha una propria forte ed autonoma qualità estetica e insieme soddisfa anche ad esigenze progettuali legate al contesto ed alle esigenze funzionali della costruzione. Come si conciliano questi aspetti attraverso il vostro lavoro? F.G.: Nel progetto della cantina questa coincidenza tra estetica funzionale e costruttiva è riuscita molto bene. Il muro con aperture è stata la tipologia costruttiva ideale per applicare le nostre prime

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sperimentazioni. Inizialmente il muro digitale era solo un muro aperto, non poteva essere isolato, né impermeabilizzato, aspetti che a tre anni di distanza e di sperimentazioni, sono possibili. Il progetto prevedeva di creare un grande spazio semibuio, che evitasse la luce diretta che può guastare l’uva e la sua lavorazione, con la giusta ventilazione, e al tempo stesso creare un’illuminazione di base che permettesse di lavorare senza luce artificiale. Il laterizio inoltre crea massa e la giusta temperatura con i medesimi cicli di quella esterna. A livello di progetto architettonico abbiamo creato il motivo “allegorico” delle sfere tridimensionali. Essendo la cantina un oggetto isolato nel vigneto e visibile anche a grande distanza e non paragonabile ad un contesto urbano denso, essa è predestinata al gioco visivo secondo una strategia di immagine non diretta. Il motivo della sfera (analogia all’uva) identificabile a distanza, da vicino o in altre condizioni di luce, sparisce completamente. In alcune orientazioni si percepiscono altre dinamiche, come forze sulla superficie, come un campo di grano mosso dal vento, e i nessi con la sfera e la sua figuratività si dissolvono. V.D.B.: Il progetto riesce ad esprimere le potenzialità figurative, luministiche e tattili del materiale laterizio. Come è possibile conciliare la sensibilità poetico-espressiva con il processo ideativo e creativo “digitalizzato”? F.G.: Il risultato della digitalizzazione non è creato dalla macchina ma dall’intelligenza umana, quindi la dimensione poetica è già inclusa in questo atto. Il secondo aspetto importante è che il materiale ha sempre una dimensione fisica, quindi anche sensibile, ha una sua temperatura. Vi sono del resto materiali più o meno espressivi. Il laterizio, con la sua superficie irregolare, è un materiale poetico; ogni elemento è unico, imperfetto, aspetti che nel mondo astratto del computer non esistono. Il vetro, per esempio, è invece completamente astratto e riconquista la dimensione poetica attraverso la riflessione, altrimenti sarebbe amorfo. V.D.B.: I materiali del progetto: esiste una muta relazione tra forme e materiali. Per ora vi abbiamo osservato lavorare con elementi rigidi ed anche con materiali inizialmente in forma “fluida”. In che modo il progetto digitale ed il vostro metodo di progettazione influisce sulle potenzialità tecnologiche dei materiali individuandone nuove potenzialità espressive? F.G.: Una strategia di progetto è sicuramente quella della fabbricazione con processo additivo. “Architettura” è per definizione addizione di elementi più o meno complessi e primitivi: è il procedimetno più arcaico, quello del modulo che può diventare pietra, mattone, pietra lavorata, elemento complesso. Grazie alla possibilità di posizionare con il robot un numero molto elevato di elementi di piccole dimensioni, il limite dell’aumento di tempo lavorativo che altrimenti sarebbe cubico, può essere superato. Negli anni ’90 la tendenza era a lavorare con elementi sempre più grandi in facciata: l’idea sottesa senza dubbio quella di ridurre i costi di cantiere rispetto a quelli del materiale, costruendo molti più metri quadrati in meno tempo. Eppure più grande è l’elemento più diminuiscono le possibilità espressive. Ora abbiamo la possibilità di controllare la costruzione con un algoritmo e quindi costruirla con il robot. Il processo può tradursi anche con altre

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materialità, come per esempio il legno. Con materiali fluidi abbiamo fatto meno esperimenti. Le possibilità espressive sono massime ma il controllo sull’artefatto è invece minimo. Anche quello è un settore che ci interessa e che continueremo a indagare. Quali siano le leggi che agiscono sulle possibilità espressive da un lato, quelle economiche dall’altro, il livello d precisione, sono tutti fattori connessi tra loro e di nostro interesse. Il laterizio, avendo la possibilità di essere applicato a tutto lo spessore, una volta risolto il problema dell’isolamento, potrebbe riguadagnarsi una posizione di materiale completo, dove il muro intero viene realizzato in maniera omogenea. V.D.B.: Quali potrebbero essere essenzialmente i vantaggi in un’architettura realizzata, interamente o per componenti specializzate, attraverso il procedimento di programmazione digitale? F.G.: Io penso che per noi, come architetti, le potenzialità che ci motivano di più siano estetico-architettoniche. Ci sono poi altri vantaggi nella digitalizzazione dell’intero processo di costruzione come la maggior precisione, la riduzione della percentuali di errore, tutti processi di razionalizzazione finalizzati alla migliore qualità del prodotto finale, alla riduzione dei costi, con minor spreco di risorse naturali. Questi i tre parametri che motivano la ricerca nella direzione dell’industria delle costruzioni che, rispetto alle altre industrie, è ancora arretrata, direi “folle” a livello di efficienza di costi. La digitalizzazione del processo è a nostro giudizio la via logica da percorrere, come del resto stanno svolgendo tutte le altre industrie. Promette di rendere possibile la razionalizzazione del settore senza perdere l’individualità del prodotto, cosa fondamentale in architettura ancor più che nell’industria automobilistica perché in architettura la diversificazione è più fondamentale. V.D.B.: Quale il futuro del lavoro artigianale e quali conseguenze sulla formazione delle maestranze? F.G.: Io penso che la digitalizzazione avverrà comunque nella realtà del cantiere e del progetto, con trasformazioni strutturali che altre industrie hanno già visto. Non credo però che la macchina riduca il numero di persone necessarie alla realizzazione del progetto. Queste sono paure che si formulano regolarmente durante la ristrutturazione di ogni industria e si sono sempre rivelate false quando si è verificato che vi sono lo stesso numero di persone impiegate, se non di più, che però si occupano di aspetti diversi. A conti fatti ci sarà lo stesso importante numero di persone impiegate nel settore dell’edilizia. Nel processo di trasformazione si presenteranno momenti non per tutti. Per le industrie ora la potenzialità è enorme. Vi è il rischio di uscire dal mercato per chi non reagisce abbastanza in fretta, per i grandi come per i piccoli: come possono perdere la battaglia anche i grandi, così anche per i piccoli vi è la possibilità di riposizionarsi completamente, attraverso l’elaborazione innovativa di un know-how che il mercato potrà comprare e chi sarà capace di fornirlo sarà tra i vincitori, come in ogni ristrutturazione.

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V.D.B.: L’evoluzione della vostra ricerca e in particolare il coinvolgimento di altri professionisti, quali cambiamenti potrà comportare? Quali nuovi requisiti richiederà alle conoscenze dell’architetto-designer? F.G.: Attualmente le competenze richieste per non sono accessibili ai più. Io penso tuttavia che il processo si svolgerà comunque. Lo abbiamo visto con il software per il mondo professionale: non importa se venga insegnato a scuola oppure no, i giovani lo assorbono comunque e il mondo professionale si è sempre adattato a nuove realtà. La domanda critica è: saprà il mondo professionale influenzare questi cambiamenti? Se li influenzerà, li potrà dirottare in maniera positiva e intelligente sull’esercizio del mestiere e nel processo di architettura. Se non li influenza, li assorbirà e sarà costretto ad usare processi sviluppati da altri. Medesima situazione si è verificata per i programmi di disegno che non sono nati per gli architetti, con gli architetti, ma per ingegneri e noi li usiamo per motivi di produttività e non perché ci offrano altri vantaggi. Sarebbe perdere una potenzialità che il mondo della professione potrebbe sfruttare opportunamente. Tuttavia ora è un po’ presto e questi cambiamenti stanno iniziando ad interagire col mondo produttivo solo ora. Bisognerà vedere fra dieci anni i giovani architetti se sfrutteranno queste potenzialità. Non posso che credere che ciò non succederà. Versione integrale dell’intervista svolta nel gennaio 2011 e pubblicata in Costruire in Laterizio n. 141, 2011, Svizzera, pp. 42-45.

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1 - 2 Cantina Gantenbein, Fläsch, Svizzera, 2006. © Ralph Feiner 3 - 6 Facciata della Cantina Gantenbein, Fläsch, Svizzera, 2006. © Ralph Feiner 7 Facade element © Gramazio & Kohler 8 - 11 Cantina Gantenbein, Fläsch, Svizzera, 2006. © Ralph Feiner

1 -2 Flexbrick: Prototype 2, Zoom-in joints © Gramazio & Kohler, ETH Zurich 3 - 6 Pike Loop, Manhattan, New York, 2009 Installation in public space. © Alan Tansey

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post-it journal Pietre d'artificio

I due tipi di bellezza, artistica e naturale, sono animati dalle stesse regole (…) semplicemente nell’uomo l’immaginazione ha sostituito l’istinto. Ciò che la natura minerale o animale compie per la fatalità implicita e per un meccanismo necessario, la nostra specie ha il privilegio di sceglierlo e crearlo,nell’incertezza, nello sforzo ma nella libertà. Là dove regna indiscusso l’automatismo, si sono levate l’iniziativa e la responsabilità. Roger Caillois, 1972 Tra mimesi ed invenzione. La ricerca “Pietre d’artificio. Materiali per l’architettura tra mimesi e invenzione” si propone di indagare il senso costitutivo e applicativo, nonché la dimensione espressivo-sensoriale, di alcuni materiali “d’ispirazione litica” contestualizzando il tema sia teoricamente che storicamente, lungo un percorso sospeso fra tradizione e contemporaneità, tra artigianato e industria, tra imitazione, riproduzione seriale e personalizzazione del prodotto. L’itinerario proposto è quello dell’esame dei modi in cui singoli elementi di partenza (naturali e/o artificiali) evolvono verso l’invenzione della “materia”, rendendo possibile la vita del “materiale”. L’indagine parte da una riflessione di ordine tecnologico e concettuale che riguarda il mondo contemporaneo dei materiali per l’architettura. Termini quali “nuove pietre”, “pietre ricostruite”, “pietre fabbricate”, “pietre ricomposte”, sono di uso comune e con essi sono stati introdotti nel mercato materiali nuovi, o presentati come tali, in taluni casi difficilmente riconoscibili o definibili nella sostanza per la forte rassomiglianza con i lapidei naturali.

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L’esistenza di tali materiali, la cui difficile classificazione è comprovata dalla non esistenza di una trattazione di carattere scientifico autonoma a riguardo, conferma che la ricerca tecnologica, a distanza di millenni dai primi esempi d’imitazione della varietas delle pietre e dall’invenzione del mattone omogeneo e standardizzato – esso stesso prima pietra artificiale “ante litteram” –, continui a sperimentare la possibilità di creare e produrre materiali che, mantenendo come orizzonte di riferimento la “pietra”, siano capaci di soddisfare le esigenze costruttive e le aspettative estetiche del presente. Nella formulazione del percorso di ricerca, ci si è proposti per primo la definizione del campo di indagine, quindi l’individuazione delle possibili “famiglie” di appartenenza delle materie definibili come “pietre d’artificio”. L’espressione, scelta per comprendere secondo una categoria più generale possibile le materie oggetto di indagine, guarda alla materia litica originaria visualizzandone come riferimenti fondamentali concetti quali quelli di “anteriorità, durevolezza, solidità, interezza” 1, qualità cui le pietre artificiali cercano di allinearsi ma che tuttavia potrebbero essere riviste in progress attraverso un estensione di campo della ricerca rivolta alle nuove possibilità offerte dalle tecnologie contemporanee.

Mappa concettuale che mette in relazione i termini “mimesi” e “invenzione” con sinonimi, nomi composti e termini ad essi correlati. Clicca sull’immagine per ingrandire

Fusion, colore, trasparenza, plurimaterialità, leggerezza, macrodimensione, immaterialità, sottigliezza, plasticità, resistenza, disegno, sensorialità… sono solo alcune delle potenziali categorie delle

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pietre artificiali contemporanee che rappresentano possibili varianti programmabili per la realtà della materia, declinabili a seconda delle necessità espressive e costruttive del materiale o componente. Sullo sfondo si affaccia infatti il concetto di “artificio”. Le materie indagate sono frutto d’artificio inteso come “espediente abile e ingegnoso diretto a supplire le deficienze della natura o migliorare l’apparenza, il risultato, l’effetto di qualche cosa” – termine da cui discende l’aggettivo artificiale ovvero “prodotto con artificio”2. Nel Terzo Millennio i materiali artificiali non costituiscono più un problema in sé ma una importante variabile da definire all’interno del progetto di architettura. L’offerta tecnologica del presente e il progetto di architettura dovrebbero infatti appartenere alla medesima realtà operativa, tuttavia nell’analisi del settore di produzione di materiali artificiali che imitano la pietra si possono rilevare forti contraddizioni e il segmento di produzione di tali materie può apparire sotto certi aspetti contraddistinto da una forte limitatezza. Una parte della ricerca e dell’investimento delle aziende produttrici di artefatti che emulano le pietre naturali è stato riversato in particolare alla conoscenza dei limiti tecnologici e prestazionali dei prodotti, perdendo di vista l’orizzonte del progetto. Riteniamo che tali materiali posseggano in più una importante dimensione espressivo-sensoriale oltre ad un potenziale “formale” profondo, insito nella loro particolare natura e, per quanto attiene le famiglie delle “pietre d’artificio”, esso sia da valutarsi sperimentalmente nelle sue opportunità correlandolo con gli specifici requisiti tecnici.

Tra natura e artificio

Mappa concettuale che mette in relazione i termini “natura” e “artificio” con sinonimi, nomi composti e termini ad essi correlati. Clicca sull’immagine per ingrandire

Si intende indagare il mondo di tali materiali approfondendone le caratteristiche, le vocazioni, le potenzialità nel rapporto materiamateriale. Le “pietre d’artificio” vengono affrontate attraverso un’analisi

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conoscitivo-informativa che le interpreta da elementi originari in natura ad elementi prodotti dall’uomo in funzione delle necessità del costruire, sia di ordine tecnico che estetico. Il mondo di queste materie d’invenzione viene avvicinato seguendo un percorso che ha origine nella natura – considerando come sia già insito in essa il processo di agglomerazione ed osservadone i processi litogenetici – attraversando le famiglie delle materiali e prodotti tradizionali mimetici dell’assetto delle pietre naturali, per giungere alle “nuove pietre” prodotte industrialmente con alto grado di tecnologizzazione: le pietre agglomerate e le pietre ceramiche. Attraverso l’analisi delle diverse combinazioni di materie litiche lungo un percorso sospeso tra tradizione e contemporaneità, la ricerca intende mettere alla luce come la progettazione delle materie artificiale possa intendersi svolta dialetticamente tra differenti livelli di “imitazione”. Da un lato prodotti “riproducenti” le materie naturali, mimetici degli aspetti in sé riconoscibili dei materiali naturali – sia sotto il profilo d’aspetto che in termini di struttura o possibilità di lavorazione – secondo una mimesi “analogica”; dall’altro la riproduzione dei processi di produzione come suggeriti in natura (agglomerazione, pressatura, cottura…) entro una sorta di “mimesi di processo”. Entrambe le strade hanno condotto alla produzione di materie comunque differenti nella sostanza da quelle “naturali”. È possibile prefigurare che sia la seconda via, quella del progressivo allontanamento dalla natura verso l’“invenzione espressiva”, la strada destinata a condurre alla maggiore autonomia dei prodotti.

Dalla materia ai materiali.

La costruzione dei contenuti della presente sezione ricerca prosegue mettendo a fuoco, dopo una necessaria definizione terminologica e concettuale di materiale “composito”, i caratteri tecnici ed il processo di produzione delle pietre cosiddette “composite”, ottenute con processo di agglomerazione. L’analisi parte dalla considerazione che la ricerca svolta nel corso del XX secolo sulle materie plastiche sintetiche, caratterizzate dall’intrinseca natura di materiali “camaleonti”, ha innestato un meccanismo di versatilità e flessibilità nel modo di interpretare la materia, messo in atto nei confronti di tutti i materiali. In architettura non solo il vetro e l’acciaio, oggi usati in dimensioni inusitate, stampati nelle textures più varie, hanno intrapreso la strada dell’innovazione imitando l’eclettismo delle plastiche, ma anche i materiali lapidei naturali stanno vivendo una seconda giovinezza. Parallelamente, negli ultimi anni, sono state immesse sul mercato tipologie di prodotti presentati come “nuove pietre” nati come alternativa a quelle naturali. Si tratta della famiglia delle “pietre agglomerate” che

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ricompongono inerti lapidei con leganti organici ed inorganici, e quella delle “ceramiche tecniche”, prodotti ceramici di rinnovata formulazione che superano per resistenza i materiali ceramici tradizionali. Mentre questi ultimi cercano di offrire una immagine molto simile ai marmi e alle pietre muovendosi principalmente sul terreno della riproduzione mimetica dell’assetto estetico dei lapidei, per i primi l’effetto pietra-marmo è stato in parte superato e sono presenti sul mercato prodotti che cominciano a distinguersi con una propria identità. In particolare l’attenzione nello svolgimento della specifica sezione, verrà rivolta al processo di produzione dei materiali agglomerati con legante resina, considerati come revisione contemporanea dei più consolidati conglomerati cementizi, famiglia la cui storia ha radici più antiche; passando poi all’approfondimento delle “pietre artificiali” realizzate con processo ceramico, osservando sia la complessa composizione delle miscele, sia le avanzate macchine automatiche che rendono possibile il processo produttivo. Si intende mostrare come la tecnica produttiva adottata dall’industria contemporanea, nella sua incessante attività di re-invenzione, trasformi la materia in “materiale” plasmato, configurato, disegnato dall’uomo.

La domanda da porsi a fondamento di questo percorso di indagine è se la vocazione intrinseca di questi materiali trovi rispondenza nelle possibili messe a sistema per l’architettura, se le potenzialità delle materie artificiali siano opportunamente utilizzate. Ad una prima analisi del mercato italiano pare che la strada della produzione di “pietre ricostruite” non sia stata ancora percorsa interamente ed è evidente come le aziende si contendano principalmente il medesimo segmento di mercato, quello della produzione dei rivestimenti per interni e pavimentazioni. Tuttavia è squisitamente italiana, diffusa e utilizzata internazionalmente, la tecnologia di fabbricazione delle pietre agglomerate in grandi blocchi o lastre. Innovativo, avanzato e sofisticato, sia per la produzione che per gli utilizzi, il settore, anch’esso specificità del nostro Paese, delle ceramiche tecniche. Il settore di ricerca che studia invece il montaggio delle lastre di pietra ricomposta in facciata, ha avuto sviluppo non discostandosi molto dalle possibilità offerte dalla pietra naturale, non evidenziando le specificità della pietra artificiale. Osservando tale panorama sembra che il futuro delle pietre manufatte possa risiedere non tanto nell’ipernaturalismo quanto in un allargamento dell’artificio, della manipolazione estetica, delle proprietà espressive delle materia, combinando le tradizionali tecniche di trattamento superficiali alle più varie combinazioni di materie di partenza (mix design), oppure grazie all’ausilio di innovative tecniche di lavorazione (imprinting, fotoincisione, cronocromatismo…).

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Ad impasti di frammenti di marmi e di leganti, progettati dal mix designer secondo requisiti non solo tecnologici ma anche estetici, può essere impressa subito la “forma” che deve assumere l’elemento nel progetto, predisponendo contestualmente l’armatura in acciaio per migliorare la resistenza. Pietra plasmabile, a miscela programmata, il cui progetto può essere sviluppato con l’ausilio dei software di modellazione tridimensionali che rendono realizzabili con estrema precisione le forme dei componenti. Il progetto di architettura si indirizza conseguentemente verso la componentistica di precisione, verso la prefabbricazione di elementi singoli specifici realizzati in stabilimento poi trasportati e montati in sito; sistemi costruttivi che possono denunciare, pur evocando l’archetipico valore della pietra, la loro valenza artificiale, nelle dimensioni e forme con il materiale naturale difficilmente producibili.

Veronica Dal Buono

Note 1 Per Roger Caillois (1913-1978) sociologo e antropologo francese che ha dedicato all’universo minerale anni di riflessione e scrittura, queste sono le qualità nelle quali si racchiude l’importanza ed il fascino delle pietre, proiettandole ai primordi dell’universo e facendole garanti della stabilità del mondo. 2 Cortellazzo Manlio, Zolli Paolo, Dizionario etimologico della lingua italiana, 3a ed., Bologna, Zanichelli, 1997.

Il presente testo è un estratto della riflessione introduttiva al testo “Pietre d’artificio. Materiali per l’architettura tra mimesi e invenzione”, tratto dalla omonima ricerca condotta dall’autrice nell’ambito del Dottorato di Ricerca in Tecnologia dell’Architettura (XIX ciclo), 2007 presso la facoltà di Architettura di Ferrara, e pubblicato per Lulu nel 2011.

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post-it journal

Convergenze materiche. Atelier didattico di sperimentazione con Chris Gilmour

Le opere d'arte finiscono nei musei, nelle gallerie, nelle esposizioni. Gli oggetti d'uso comune che ci circondano, tutti i prodotti industriali dotati di forma e funzione, dagli stabilimenti dove sono realizzati e stoccati raggiungono vetrine, scaffali di stores, grandi magazzini, negozi, mercati, poi, dopo aver svolto la loro missione funzionale, li ritroviamo nelle soffitte, nei mercatini di scambio, molto spesso tra i rifiuti o – in caso positivo – decostruiti nelle loro componenti, sono direzionati al riciclaggio o allo smaltimento. Qualcuno di essi viene salvato da questo flusso continuo e diviene modello, esempio di buona realizzazione, quindi oggetto di conservazione da parte dei musei di arti decorative e di cultura materiale, viene osservato quale esempio d'arte o di design. La sperimentazione didattica della quale si presenta qui una sintesi, riguarda l'universo degli oggetti comuni presenti nell'orizzonte domestico – in specifico oggetti “contenitori” realizzati, originariamente, in plastica – per farne oggetto di una metamorfosi che in un passaggio solo li trasforma in oggetti d'osservazione, di riflessione, se non “artistica” quantomeno “concettuale”. Né arte, né artigianato, talora oggetti di design spontaneo, talora definiti solo forzatamente dal mercato quali oggetti di “design”. Oggetti che ci parlano della civiltà contemporanea, del silenzio degli artigiani, del retaggio delle industrie, della distanza tra l'arte e la vita quotidiana. Agli studenti del secondo anno del Corso di laurea in Disegno industriale di Ferrara, nell'ambito del corso di Tecnologie di Prodotto II, curato dal docente Raffaello Galiotto, abbiamo chiesto di muoversi proprio in questo panorama e individuare, per coppie di studenti, ciascuna una

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“cosa” del vivere quotidiano in materiale plastico che per qualche ragione – o talora senza ragione – li attraesse dal punto di vista formale, funzionale, produttivo. L'esperienza si è svolta poi innestando un'inconsueta ed ibrida relazione che ha visto all'origine la plastica, convertirsi nel materiale forse ad essa più distante, il cartone; quest'ultimo infine, modellato “alla maniera di”, esperire una nuova dimensione, esprimere un diverso linguaggio, inaspettato. Alla guida della performance didattica due figure rappresentanti i due universi materici. Per primo Raffaello Galiotto, designer di professione, ha innescato il processo di ricerca sull'oggetto d'uso quotidiano, di studio e analisi della forma, d'individuazione del processo di realizzazione originario, memore della sua personale esperienza in materia.

Quindi il Corso ha visto l'ingresso di un nuovo protagonista invitato ad apportare il suo personale e originale contributo: l'artista inglese, ormai naturalizzato italiano, Chris Gilmour introdotto al team di ricerca di MaterialDesign grazie a Comieco, Consorzio Nazionale Recupero e Riciclo degli Imballaggi a base Cellulosica, con la finalità di innestare nuove sperimentazioni e filoni di ricerca sul materiale di interesse, il cartone. Gilmour è noto nel panorama dell'arte contemporanea per il suo perseverante e severo lavoro di rappresentazione e riproduzione di oggetti della realtà, di qualsiasi scala e valore, rigorosamente e con estremo realismo modellati in cartone a grandezza naturale. Solo cartone, rigorosamente riciclato, e colla. La poetica dell'iperrealismo di Gilmour cerca l'illusione ma non dissimula la realtà; il materiale cartone è in superficie nudo e crudo nella sua provenienza di rifiuto urbano, pur creando una copia conforme all'originale e conferendo una nuova dimensione all'opera. Opere dense di particolari non approssimativi; quanto più risultano conformi

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all'originale tanto più rivelano attraverso l'intrinseca rigidità del cartone, il lato lontano dall'utile, “inutile”, del modello reale originario. La perfezione del dettaglio dell'oggetto ricostruito, raddoppiato nella materia “anomala” che è il cartone, sorprende l'osservatore per l'asettica spersonalizzazione lontana dalla vanità gratificante di tecniche di riproduzione quali il trompe l'oeil. Nell'interazione con il pubblico, per la risonanza formale e la dissonanza cromatica, le opere di Gilmour creano un corto circuito tra la percezione della funzionalità e la sua reale impossibilità all'utilizzo. In questa esperienza didattica non è Chris Gilmour a scegliere l'oggetto da riprodurre ma sono i ragazzi del corso a individuare il proprio tema e Chris a guidarli nella tecnica espressiva di riproduzione. Per prima quindi la “plastica”, il materiale della modernità per eccellenza, termine in linguaggio comune per esprimere tutte le declinazioni di polimeri, dalle qualità proteiformi, dalle caratteristiche camaleontiche. Flessibile, modellabile in ogni forma, colorata, la plastica che si progetta con gli strumenti digitali e si modella e crea solo industrialmente Quindi ha seguito l'esperienza sul cartone: rigido, monocromatico, stratificato, opaco, dalle apparenti limitate possibilità formali per le sue intrinseche caratteristiche. Il cartone si presta al lavoro manuale, alla sperimentazione pratica e diviene materiale ideale per lo studio di prototipi, per la realizzazione di bozzetti di studio, adattandosi e svelando potenzialità intentate. L'esercizio richiesto agli studenti consterà dunque in questo processo di conoscenza attraverso la duplicazione dell'oggetto prescelto e trasformazione materiale. Dal rilievo dal vivo delle forme, con strumenti tradizionali, e dallo studio delle componenti, gli studenti realizzano prima il ridisegno per trasformarle e tradurle in un materiale che richiede tutt'altra tecnologia. Si è richiesto ai discenti una resa quanto più possibile fedele dei particolari che innesti distanza emotiva dall'oggetto e insegni loro ad esperire il mondo, ad appropriarsene, rifacendolo con le proprie mani. La creazione di “doppi”, innesta l'acquisizione della sufficiente distanza critica dalle cose materiali che può consentirne la comprensione. Non semplice in realtà l'atto di manipolare la materia; solo alcuni degli elaborati finali sono divenuti fedeli riproduzioni, altri interpretazioni del modello originario mediate dal calore dell'imperfezione. La trasformazione da plastica a cartone ha comportato talora la semplificazione degli oggetti in quanto a decorazione, struttura quando irriproducibile... Ma tutto ciò fa parte del gioco e della sperimentazione stessa. L'esperienza didattica è riuscita nell'obiettivo di mettere in relazione due mondi materici differenti e lontani e di sperimentare del materiale cartone nuove forme di valorizzazione. L'atelier si è tradotto in un modo per mettere a confronto e ibridare le esperienze professionali di due professionisti, artista e designer, entrambi provenienti da formazione artistica ma le cui strade si sono fortemente differenziate. Chris Gilmour, incline alla riproduzione iperrealista della realtà come strumento di analisi attraverso un severo lavoro sul materiale cartone rivolto alla fruizione del

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pubblico dell'arte contemporanea; Raffaello Galiotto che professionalmente ha privilegiato la produzione iterata in serie di nuovi prodotti attraverso le tecnologie della contemporaneità. Per il tempo in cui Chris Gilmour ha diretto il laboratorio, con rigorosa scansione dei limitati tempi a loro disposizione, gli studenti sono stati indotti a limitare la loro capacità inventiva, lo slancio alla visione del nuovo, per concentrare energia e tecnica sulla imitazione, la conservazione della forma, della realtà tangibile. L'esercizio si è svolto con oggetti anonimi, di uso quotidiano; molti di tali orpelli, attraverso l'analisi e le mani dei giovani “scultori”, si sono rivelati di non elevata concezione progettuale, privi di valore di design, oggetti poveri di "disegno", dimostrando come l'esercizio di modellazione del cartone fosse utile per acuire il sapere tecnico e produttivo, per approfondire la conoscenza delle possibilità formali, costruttive di entrambi i materiali, cartone e plastica. L'imitazione, svoltasi non con mezzi meccanici, lontani dall'errore, infallibili, ma con pratica ed esperienza viva, di mani, di tagli e scottature, con mezzi e processi manuali, di “artigiani”, ha innestato un atteggiamento “critico”, di riflessione, verso la perfezione tecnica attribuibile alle macchine. Allineati sul lungo tavolo del salone al piano terreno di Palazzo Tassoni Estense – dove gli elaborati finali dei ragazzi hanno trovato esposizione nonché momento di incontro con il designer e critico Andrea Branzi – gli elementi in cartone ci raccontano un mondo di oggetti di cui siamo circondati, che il mercato continua a produrre in grande quantità. Il cartone da riciclo, recuperato appositamente da Gilmour tra i rifiuti per questo come per tutti i suoi progetti, torna in essi a rivivere e li veste di un potenziale insospettabile. Lontano dalla gratificazione cromatica possibile attraverso i polimeri, il cartone li presenta come una raccolta di fossili, omogeneizzati ed eguagliati, silenziosi. Non più trasparenza e policromaticità, ma una stratificata opacità, lo sforzo del cartone a farsi curva, piegato da invisibili, sottili tagli e pieghe ad imitare una tecnica attraverso l'arte. Un processo di ribaltamento, di inversione: dal modello al bozzetto, dalla realtà delle forme plastiche all'iper-realtà delle superfici di cartone.

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1 stampo per cubetti di ghiaccio, di Roberta Nardelli 2 spremiagrumi, di Andrea Gherardini e Giulia Nascimbeni 3 innaffiatoio, di Alexandra Zanasi e Alberto Zuccoli 4 caraffa filtrante, di Andrea Morelli e Simone Scorrano 5 sessola, di Stefano Banfi, Jacopo Pericati 6 portamollette, di Giulia Bigotto 7 scatola, di Corrado Galiano e Alessio Faustoferri 8 zuccheriera, di Giulia Cavinato e Elisabetta Ferraro 9 Sistema di funzionamento di spruzzino, Nicholas Gamberini, Luca Tarozzi 10 macina pepe, di Maria Vittoria Ferrari e Luisa Ciabatti 11 bicchiere con cannuccia, di Luca Ferrari 12 confezione gelato, di Veronica Piazza e Antonella Paparella 13 portaombrelli, di Francesco Del Fuoco e Stefania Corradetti 14 portasapone, di Michela De Tomi 15 scolapasta, di Clara Panin 16 Vasino, di Giulia Cremonini e Federica Iannicelli 17 portaspaghetti Alessi, di Fabiana Bergami 18 innaffiatoio, di Riccardo Sartori e Marco Montanari

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"Bivouac", promenade tra le opere di Ronan & Erwan Bouroullec

PiÚ di mille metriquadri di esposizione, l'intera galleria del terzo piano del Centre Pompidou di Metz, avveniristica costruzione diShigeru-Ban, sono consacrati per quasi nove mesi (da ottobre 2011 a luglio 2012) all'opera di Ronan & Erwan Boutoullec. Ciò, per evidenziarne l'importanza, si svolge contestualmente ad altre due esposizioni di grande interesse: la prima, "1917", importante ed immenso racconto che focalizza l'attenzione su quell'anno del XIX secolo "rivoluzionario" in ogni suo aspetto che vide lo sconvolgimento della guerra e al contempo l'affermarsi delle avanguardie artistiche; la seconda che immette lo spettatore in un imponente e concettuale percorso tra i grandi lavori murari, superfici grafiche di estrema precisione ed effetto, realizzate da Sol Le Witt. Simultaneamente, per la prima volta, la Francia, paese natale, dedica una mostra monografica ai due fratelli tra i creativi piÚ richiesti del XXI secolo, "testa di ponte" della generazione dei giovani designer. Concepita come un "Bivouac merveilleux", un esteso "accampamento delle meraviglie", l'allestimento compone per la prima volta insieme, ogni opera realizzata dai Bouroullec in un magico giardino artificiale dove ciascun oggetto dialoga con gli altri concepiti dai medesimi autori, si confronta morfologicamente e cromaticamente senza nessun altro elemento scenografico se non il lavoro dei designer. Giochi di scala tra le dimensioni del piccolo oggetto e le grandi superfici, trasparenze,

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sovrapposizioni avvolgenti tra grandi velari teatrali e spazi raccolti per la sosta, distendono una seducente promenadenell'antologia completa dei progetti dei fratelli francesi. Il visitatore è invitato a passeggiare liberamente e, affascinato, percepire la quieta atmosfera conferita da queste creazioni, da questi oggetti complessi, compiuti, figli di un lungo lavorio dialettico di progetto. Come se il solido rapporto tra i Boutoullec e il loro metodo di lavoro, iter di ricerca fatto di lunghe fasi di analisi, disegno e ridisegno, discussione sulle differenti idee, epurazione fino all'emergere di quella dominante e definitiva, si respirasse dall'accurata ed esatta presentazione espositiva. I pezzi esposti compongono una giungla mutante che evoca astratte forme naturali, ambigue, forme che giocano sull'illusione e non svelano mai con esplicita analogia il riferimento originario. Il percorso espositivo mette in evidenza la varietà delle creazioni realizzate negli anni ed anche la ricerca tra produzione industriale ed artigianale, le scelte di economia della produzione. Concetti chiave la modularità e il nomadismo conquistati con l'uso di materiali della contemporaneità, conferiscono carattere e insieme rigore alla forma. Oggetti che parlano di un universo effimero, denotato comunque dalla temporaneità, leggero e mutevole come la flessibilità della nostra epoca dove nulla che sia scritto o progettato, rimane se stesso fino alla fine. Doppia voce e quattro mani. Ronan Bouroullec, il maggiore dei due fratelli afferma: "arrivare, ripartire, con semplicità, pragmatismo. Amo la dolcezza delle tende barbare, degli arazzi e tappeti sotto il sole. Sono soluzioni pragmatiche, evidenti, dall'ergonomia sottile che allo stesso tempo offrono decoro e atmosfera romantica. Denotano rispetto per l'ambiente perché non lasciano traccia; raffinati, leggeri e umili.” Erwan risponde dichiarando la propria passione per i tessuti, per i tessili che si adattano alle forme senza contraddirle.

Algues, North Tiles, Clouds, definiscono lo spazio plastico come rampicanti o membrane e consenteno all'utilizzatore di modulare il proprio spazio in un vedo e non vedo; Lianes, Blacklights aggiungono le componenti luminose; Slow Chair, Ploum, Alcove, Vegetal e Osso chair, sono solo alcune delle sedute presentate nell'esposizione. E ancora le molteplici collezioni per la cucina, il bagno, l'arredo casa. Si approda quindi alla fine del percorso, dopo ritmate pause e piacevoli soste, a testare fisicamente i diversi ambienti, i grandi tappeti abitabili, i "nidi", le confortevoli zone di fruizione dei messaggi multimediali di spiegazione, con la soddisfatta percezione che, se pur frutto di una incessante e non conclusa ricerca, è la dimensione ludica ad abitare e animare il progetto di design. Veronica Dal Buono

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Leonardo Savioli e la mostra “Firenze al tempo di Dante” (1965) L’architettura nel dettaglio

Leonardo Savioli, Allestimento della mostra Firenze ai tempi di Dante, (Archivio di Stato di Firenze, Fondo Savioli). Sala della città.

Gli oggetti La mostra è organizzata in nove sezioni: “sala dell’Economia”, “sala di Taddeo Gaddi”, “sala della vita pubblica e privata”, “sala della Croce degli Uffizi”, “sala della Casa”, “sala di Giotto e Arnolfo”, “sala della Scienza”, “sala della città”, “sala delle proiezioni”. Il percorso espositivo presenta ben 222 ‘pezzi’ di vario genere: sculture, bassorilievi, affreschi staccati, polittici e dipinti, codici miniati, monete, documenti contabili, armi, oggetti d’uso quotidiano. La provenienza delle opere è varia: dal Museo del Bargello allo Stibbert, dall’Archivio di Stato di Firenze alla Biblioteca Nazionale. Non tutti gli oggetti, come sopra ricordato, sono in esposti in originale: ci sono calchi di bassorilievi, nonché moltissime fotografie di dipinti e documenti. Parte integrante dell’esposizione sono infatti le numerose riproduzioni di codici miniati della Biblioteca Apostolica Vaticana o della Biblioteca Laurenziana in diapositiva, esposte con un’originale strumentazione ostensiva, oggetto di una progettazione di dettaglio di notevole complessità. Completano l’esposizione alcune riproduzioni al vero o in scala di dipinti (affreschi della chiesa Inferiore di San Francesco ad Assisi) e di apparati decorativi (Museo di Casa Davanzati, Firenze),

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scompaginate e presentate come singolari composizioni per frammenti, ideate dallo stesso Savioli: si tratta di soluzioni che entrano da protagoniste nel piano dell’esposizione e che costituiscono una delle elaborazioni più innovative del progetto allestitivo. Il tema del rapporto originale fac-simile, esplorato provocatoriamente da Alexander Dorner (1893-1959) nella celebre esposizione del Kestner Museum di Hannover nel 1929-1930 e tornato in auge con la pubblicazione della biografia dello stesso Dorner (1958), è qui percorso secondo un particolare registro creativo che trasforma le immagini in oggetti dalle specifiche valenze espressive: non si tende alla mistificazione (ovvero far sembrare la riproduzione un originale), ma piuttosto a rendere evidente la natura dell’oggetto, estremizzandone le caratteristiche preminenti mediante la valorizzazione della trasparenza della lastra, ottenuta con la retroilluminazione. Per i calchi delle formelle del Campanile di Giotto, inoltre, la disposizione di una luce radente, con l’enfatizzazione delle valenze della superficie, rende facile la comprensione da parte dello spettatore della matericità dell’oggetto e dunque il suo essere copia.

Leonardo Savioli, Pianta dell’allestimento della mostra Firenze ai tempi di Dante (da Domus, 1965).

Gli ensembles realizzati dall’architetto nel vasto palinsesto allestitivo rimangono sempre nell’alveo della corretta percezione dell’opera, come pure nella dimensione dell’attenzione alla sua comunicabilità: lo studio dell’altezza dei supporti delle sculture o la sistemazione delle vetrine

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sembra infatti rispondere a quel criterio di “misura” invocata da Ragghianti per il suo ideale museo che dovrebbe restituire “volta a volta col massimo possibile rigore il dictamen basilare dell’artista”. Il racconto e il medium espositivo Nei vasti spazi del Palatium della Certosa l’architetto crea una narrazione sintattica che evidenzia le connessioni fra gli oggetti esposti. L’impaginazione museografica è presentata secondo uno schema tridimensionale che non occulta ubiquitariamente il piano delle pareti, ma informa tutte le parti dell’allestimento: dall’illuminazione alle bacheche, dai basamenti agli strumenti di comunicazione (supporti per le didascalie). Il progetto si presenta dunque come creazione spaziale dalle evidenti valenze plastiche, con cui si dà originale formatività ai contenuti da esporre, ma lasciando al contempo libero l’occhio del fruitore di scoprire o auto-costruire le relazioni interne al racconto espositivo: “mi è sembrato – scrive Savioli – essere necessario creare più che altro, con mezzi moderni, un clima, una tensione, una sorta di «avvenimento» possibile, nel quale oggetti e spettatori fossero in un certo senso più intimamente chiamati, interessati, coinvolti”, parole che evocano le riflessioni di Umberto Eco. Ferro, vetro, perspex, sono i materiali con cui è realizzato l’allestimento; si tratta di tipologie materiche lontane e diverse da quelle del monumento e degli oggetti esposti. Ai muretti e nicchie di gesso bianco sembra essere affidato il compito di mantenere aperto un dialogo con la espressiva massa muraria del contenitore, oltre a rievocare allusivamente contesti architettonici: è il caso delle due sagome ogivali sfalsate, raddoppiate e compenetrate, disposte perpendicolarmente (Sala di Taddeo Gaddi) a fare da sfondo alla Madonna di Taddeo Gaddi e a una sinopia di mosaico dalle collezioni dell’Opificio, suggerendo lo spazio di una cappella. Elementi portanti a vista in ferro sagomato verniciati di nero costituiscono la trama verticale e orizzontale principale. I setti di gesso definiscono ulteriormente gli spazi, e appaiono conformati secondo tagli rettilinei, curvilinei o diagonali in relazione alle opere che accolgono, per essere poi spesso reiterati o sovrapposti secondo un ideale piano delle ascisse. Viene proposto un sistema dominato da un’architettura metallica e vitrea, che diventa dispositivo ostensivo, integrando i corpi illuminanti. Ogni parte è realizzata appositamente per l’esposizione dallo “Studio H” di Firenze, noto per l’abilità artigianale nell’arredamento di alta fascia e dell’allestimento interno di grandi natanti. Nell’archivio Savioli si conservano gli elaborati esecutivi in scala 1:1 o 2:1 di tutti gli elementi dell’allestimento. Il percorso diventa leggibile anche attraverso una riconfigurazione della superficie pavimentale, scalettata su piani diversi che accoglie le filiere impiantistiche. Vengono al contempo enfatizzate le pause, con la sistemazione di sedute davanti ad alcuni oggetti, o create delle accelerazioni che guidano il visitatore nella comprensione delle opere come parti di un continuum narrativo. Da tale pavimento ‘artificiale’ emergono delle isole o delle penisole segnate nei profili dall’illuminazione, come anche cilindri metallici che nascondono

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l’illuminazione interna. Le varie unità che caratterizzano le superfici pavimentali sono evidenziate da una diversa colorazione delle moquette, scelta in tinte accese. L’estrema varietà dei pezzi esposti porta l’architetto a delineare una serie complessa di supporti espositivi. Alcuni di questi riprendono soluzioni messe a punto nelle mostre precedenti, altri sono progettati del tutto exnovo: il telaio metallico con l’espositore in ferro e vetro era presente nella mostra dedicata dell’Oggetto moderno, ma l’introduzione di differenti punti luce rinnova il senso della proposta allestitiva. I basamenti per le statue, inoltre, sono dei solidi in gesso bianchi, la cui geometria si adatta al percorso, secondo una soluzione già sperimentata nella mostra su Le Corbusier a palazzo Strozzi.

Leonardo Savioli, Allestimento della mostra Firenze ai tempi di Dante, (Archivio di Stato di Firenze, Fondo Savioli). Schizzo di studio per la composizione dei “fotomontaggi”.

Per alcuni dipinti e bassorilievi l’architetto predispone dei parallelepipedi che si staccano dal piano verticale neutro (parete o pannelli) di quel tanto che basta per creare un appoggio minimo all’opera, che determina dunque le dimensioni del supporto stesso. L’effetto che si offre allo spettatore ripropone, alla stregua di una citazione visiva, la sistemazione ideata da Michelucci per i polittici della mostra di Giotto agli Uffizi del 1937. Grandi teche polimateriche sono progettate per la documentazione archivistica: in alcuni casi il contenitore vero e proprio, in ferro verniciato di nero e vetro, ruota rispetto al parallelepipedo sottostante in gesso bianco, valorizzando il ruolo di snodo del dispositivo ostensivo nell’intelaiatura narrativa del percorso. La sequenza ideativa che determina la morfologia di tali supporti è descritta in uno schizzo dell’architetto: la matrice geometrica delle formelle delle porte bronzee del Battistero fiorentino viene qui risignificata in senso tridimensionale e astratto.

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Sistemi di vetrine in sequenza per gli oggetti di minori dimensioni costruiscono un racconto per immagini, mentre la realizzazione di un articolato registro superiore - composto da lastre di vetro quadrate accoppiate e disposte ortogonalmente al supporto metallico orizzontale e ai relativi punti luce -, ne sottolinea la presenza. La realizzazione dei dispositivi per la visualizzazione delle riproduzioni fotografiche (diapositive) è studiata nel dettaglio, come se si trattasse di preziosi complementi di arredo. Numerose e diversificate sono infatti le creazioni dei supporti per questi elementi: due frammenti del polittico Strozzi di Andrea Orcagna (Santa Maria Novella) sono inseriti in un sistema retroilluminato che prevede l’intersezione di un quadrato maggiore e di un cerchio minore; o ancora, una fotografia di un codice miniato viene montata su un dispositivo che intesse riferimenti sottili con lo schermo televisivo selezionando - come attraverso l’occhio di una cinepresa - due riproduzioni di dettaglio della pagina, scelte per illustrare il tema enucleato. Spicca inoltre in questo senso la struttura composta da due lastre sottili di metallo nero, separate da un telaio che contiene i neon necessari alla retroilluminazione delle lastre: una serie di fori circolari inquadrano le diapositive nella parte rivolta verso lo spettatore. Di rilievo, per le forti assonanze con le esperienze artistiche coeve interessate alle trasformazioni/trasfigurazioni degli oggetti -, appare la creazione dei cosiddetti “fotomontaggi”, ovvero la riproduzione e la libera scomposizione/ricomposizione di parti di affreschi, che Savioli aveva studiato personalmente. In quest’ultimo caso, si attuano lo smontaggio e il rimontaggio dei brani dell’immagine dell’opera d’arte, e provocatoriamente pannelli di perspex ‘proteggono’ i frammenti esposti. Attraverso questa decontestualizzazione – che è già connaturata all’operazione del mostrare in quanto è un estrarre l’oggetto dal contesto di origine, e dunque è una operazione quasi di coerenza - l’oggetto mostrato assume significati ulteriori. L’immagine dell’oggetto diventa un ingrediente creativo del progetto allestitivo che si trasforma viepiù in una singolare installazione artistica, capace di trasmettere una fertile e attualizzata rilettura del passato che porta il dato storico in una dimensione totalmente contemporanea. Va sottolineato inoltre che per le riproduzione dei celebri affreschi assisiati, si attua un preciso procedimento di selezione. L’opera è mostrata rendendo evidenti ed enucleando alcuni temi: del tendaggio, per esempio, sono evidenziate non solo la cromia e la fattura del tessuto ma anche la modalità dell’ancoraggio. Si trova così tracciato un passaggio concettuale fondamentale che apre alle dinamiche cognitive e relazionali del museo didattico contemporaneo. Allo stesso tempo la modalità di comunicazione di queste ‘strutture’ dialoga con i pannelli pubblicitari, i cartelloni e la stessa televisione. L’atto artistico realizzato da Savioli in questi fotomontaggi è la consapevolezza apportata a tale “finzione”: come nel “neorealismo” o in parte della pop art dove l’artista “si rende chiaramente conto del carattere «problematico» delle sue indagini nella realtà visuale corrente, e intuisce che i risultati sono carichi di ambiguità di ogni

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genere”, Savioli accetta il mondo fittizio della comunicazione di massa e lo restituisce trasformato quel tanto che basta a soddisfare le esigenze formali, e in questo caso didattiche, della sua opera. Volendo, infine, ragionare sul dialogo di Savioli con gli altri protagonisti dell’architettura dei musei e degli allestimenti temporanei si deve rilevare l’originalità della sua proposta, profondamente intrecciata alle sue ricerche grafiche e pittoriche. La fruttuosa relazione dialettica che nel lavoro di Savioli s’instaura fra allestimento e contenitore - in una dimensione che esplicita e materializza la poetica complessiva dell’architetto -, disegna un percorso di continua ricerca, segnato da una profonda aspirazione verso l’innovazione e la sperimentazione. Per l’individuazione dell’ordinata e l’ascissa del reticolo estetico e concettuale che informa il progetto espositivo di Savioli, due elementi appaiono dunque determinanti: in primo luogo la coerenza interna del pensiero compositivo dell’architetto nei molteplici versanti della sua attività (edificatoria, didattica, allestitiva); in secondo luogo, il valore di manifesto che questo settore della sua attività assume in relazione sia all’architettura, sia alle riflessioni di cui l’architetto si fa catalizzatore e a cui sono chiamati a partecipare più attori, con metodo aperto e interdisciplinare. Un’eredità dunque, teorica e concreta, che ci consegna tasselli fondamentali per acquisire maggiori conoscenze sulla figura di questo protagonista dell’architettura fiorentina nei decenni a cavalieri della metà del XX secolo. Emanuela Ferretti

Note 1 Vedi oltre. 2 Carlo Ludovico Ragghianti, “Il Museo Vivente”, recensione al volume Samuel Cauman, The living museum. The experience of an art historian and museum director: Alexander Dorner, New York 1958, in Selearte, VII, 1959, 39, pp. 21-30; il tema è ampliato in Id., Arte, fare e vedere cit., pp. 89-91. La posizione di Ragghianti è critica nei confronti di Dorner e dunque della contaminazione fra fac-simile e originale 3 Carlo Ludovico Ragghianti, Arte, fare e vedere cit., p. 90. 4 Leonardo Savioli, “Il problema degli allestimenti”, cit., p. 260. 5 Umberto Eco, Opera aperta cit., pp. 52-53. 6 Queste scelte ritornano nelle mostre degli Archizoom ad Orsanmichele (1969) e a Palazzo Strozzi: Roberto Gargiani, Archizoom, cit., pp. 145146. 7 Lo Studio H è partner di Savioli anche nella mostra “L’oggetto moderno”. 8 Nel sottile slittamento dei piani pavimentali della mostra della Certosa si potrebbe trovare un labile riferimento a opere di Scarpa, ma l’orizzonte culturale appare completamente diverso: manca in Savioli la valorizzazione della preziosità materica, che è carattere distintivo

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dell’operare del maestro veneziano; l’astrazione creata da Scarpa intorno all’opera è distante dal dialogo dinamico e disincantato, se non estraniante e provocatorio, fra oggetto e spettatore alla base del progetto dell’architetto fiorentino: Manfredo Tafuri, “Il frammento, la «figura», il gioco. Carlo Scarpa e la cultura architettonica italiana”, in Francesco Dal Co, Giuseppe Mazzariol, Carlo Scarpa. 1906-1978, Milano, Electa, 2005 (prima ed. 1984), p. 81. 9 Archivio di Stato di Firenze, Archivio Savioli, Materiale relativo ai progetti, 187-190. 10 Giovanni Fanelli, scheda 100, in Leonardo Savioli, cit., p. 240; Leonardo Savioli, “Il problema degli allestimenti”, cit., p. 258 11 Francesco Dal Co, “Mostrare, Allestire, Esporre”, in Sergio Polano (a cura di), Mostrare, cit., p. 11. 12 Sala della Casa, n. 146 “Stanza da letto”: La mostra di Firenze ai tempi di Dante cit., p. 124. Lo stesso procedimento caratterizza il “pannello” dedicato alla città nell’omonima Sala, desunto dall’affresco di Pietro Lorenzetti, Ingresso di Cristo in Gerusalemme, ad Assisi 13 Sam Hunter, “Neorealismo, Assemblage, Pop Art in America”, in L’arte moderna. Correnti contemporanee, vol. XIII, Fratelli Fabbri Editori, Milano 1967, p. 123.14 Fabrizio Rossi Prodi, Carattere cit., p. 144.

1 Leonardo Savioli, Allestimento della mostra Firenze ai tempi di Dante, (Archivio di Stato di Firenze, Fondo Savioli). Particolare di un elemento per l’esposizione delle lastre fotografiche dei codici miniati 2 Leonardo Savioli, Allestimento della mostra Firenze ai tempi di Dante, (Archivio di Stato di Firenze, Fondo Savioli). Schizzo di studio delle teche e della composizione dei pannelli verticali. 3 Leonardo Savioli, Allestimento della mostra Firenze ai tempi di Dante, (Archivio di Stato di Firenze, Fondo Savioli). Sala dell’economia e, sullo sfondo, Sala di Taddeo Gaddi. 4 Leonardo Savioli, Schizzi su una riproduzioni delle decorazioni di un ambiente di Palazzo Davanzati per creare alcuni elementi ai fini dell’allestimento della Sala della Casa Firenze, Archivio di Stato, Fondo Savioli.

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1 Leonardo Savioli, Allestimento della mostra Firenze ai tempi di Dante, (Archivio di Stato di Firenze, Fondo Savioli). Sala della vita pubblica e privata. 2 Leonardo Savioli, Allestimento della mostra Firenze ai tempi di Dante, (Archivio di Stato di Firenze, Fondo Savioli). Sala della casa, particolare con uno dei “fotomontaggi�. 3 Leonardo Savioli, Allestimento della mostra Firenze ai tempi di Dante, (Archivio di Stato di Firenze, Fondo Savioli). Sala della vita pubblica e privata. 4 Leonardo Savioli, Allestimento della mostra Firenze ai tempi di Dante, (Archivio di Stato di Firenze, Fondo Savioli). Sala dell’economia, particolare.

1 Leonardo Savioli, Allestimento della mostra Firenze ai tempi di Dante, (Archivio di Stato di Firenze, Fondo Savioli). 2 Leonardo Savioli, Allestimento della mostra Firenze ai tempi di Dante, (Archivio di Stato di Firenze, Fondo Savioli). Particolare con la sistemazione del Polittico della Badia di Giotto. 3 Leonardo Savioli, Allestimento della mostra Firenze ai tempi di Dante, (Archivio di Stato di Firenze, Fondo Savioli). Sala di Taddeo Gaddi. 4 Leonardo Savioli, Allestimento della mostra Firenze ai tempi di Dante, (Archivio di Stato di Firenze, Fondo Savioli). Particolare con la riproduzione del dipinto della Cappella Strozzi in Santa Maria Novella.

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Leonardo Savioli e la mostra “Firenze al tempo di Dante” (1965) L’allestimento come momento espressivo e il design espositivo

Leonardo Savioli, Allestimento della mostra Firenze ai tempi di Dante, (Archivio di Stato di Firenze, Fondo Savioli). Sala della città, particolare con uno dei “fotomontaggi” espositivi.

Il tema degli allestimenti museali, permanenti e temporanei, è riconosciuto dalla storiografia come un settore specifico della produzione artistica di una parte rilevante degli architetti italiani fra il quinto e il settimo decennio del Novecento, e trova protagonisti di primo piano in figure quali i BBPR, Ignazio Gardella, Luciano Baldessari, Franco Albini e soprattutto Carlo Scarpa1. Nei decenni precedenti il secondo conflitto mondiale si erano già stratificate molteplici esperienze che avevano catturato, restituito - e in parte anticipato – nella dimensione dell’evento temporaneo gli esiti e le elaborazioni della cultura architettonica più avanzata. Con la trasformazione e il rinnovamento del linguaggio della comunicazione e con la contaminazione delle arti e dei materiali, si apriva infatti un nuovo orizzonte per lo spazio ostensivo, e i semi gettati avrebbero germogliato nella stagione successiva moltiplicando, nella diversificazione del pensiero compositivo, le proposte e le soluzioni progettuali2.

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Nell’architettura dei luoghi espostivi dell’Italia post-bellica sono esperite da un lato soluzioni pertinenti all’esplorazione delle qualità spaziali del luogo, solitamente edifici storici, con realizzazioni di grande interesse per le relazioni fra contenuto e contenitore che il progetto allestitivo materializza, evidenziando anche le complessità e le eventuali criticità dei siti stessi; dall’altro, sono esplicitate le diversificate riflessioni sulle modalità del ‘mostrare’, contaminate dalle risultanze del lungo lavorio teorico di alcuni storici dell’arte, nonché dalle proficue intersezioni con i linguaggi dell’arte contemporanea. Quest’ultime formulazioni confluiscono inoltre nell’esperienza particolare della progettazione dei dettagli3, cioè di quelle articolazioni che non rientrano nella categoria delle soluzioni tipizzate e richiedono dunque un peculiare approfondimento: la lettura di questi particolari può migliorare la messa a fuoco di alcuni temi nodali all’interno del pensiero compositivo del progettista.

Nell’orizzonte cronologico considerato, il progetto dell’allestimento, effimero e non, si pone dunque come percorso conoscitivo e restitutivo di vari contesti concettuali e materiali: dall’artigianato di qualità al mondo poliedrico della macchina e della tecnologia, dalle modalità di delineazione delle valenze spaziali del contenitore museale alla valorizzazione delle invarianti dell’edificio storico, enucleando pensieri e proposte non di rado concettualmente riconducili all’ambito di quella che viene definita “site-specific art”4. In una galassia di procedimenti e realizzazioni, i tre decenni che seguono il secondo conflitto mondiale si caratterizzano per il complesso intreccio del portato degli eventi espositivi e dei riallestimenti permanenti dei grandi musei italiani, con i primi che si offrono come laboratori per sperimentare nuove forme di ostensione e comunicazione, da selezionare e applicare poi nei secondi5. La costruzione dello spazio espositivo temporaneo, inoltre, vive anche di dinamiche autonome rispetto al museo, legandosi direttamente al polimorfico mondo che ruota intorno ai concetti di “messa in scena”, di arredo, di ostensione/estensione degli oggetti6. In questo contesto, dunque, la definizione del palinsesto compositivo può presentarsi come una più libera manifestazione della poetica dell’architetto, non priva di caratteri propri della sperimentazione o del manifesto. Nell’ambito di tali esperienze, un ruolo di grande interesse si riconosce anche a Leonardo Savioli (1917–1982)7che accompagna alle proprie opere nel settore espositivo, l’anelito a una teorizzazione, e dunque un tentativo di sistematizzazione concettuale delle problematiche sottese all’ideazione del progetto di allestimento8. L’interesse dell’architetto s’inserisce in quadro unitario che raccoglie l’attività professionale e di docente universitario, e di cui fa parte anche la collaborazione con Giulio Carlo Argan e Carlo Ludovico Ragghianti9, nomi di rilievo nell’aggiornamento degli indirizzi della museografia italiana, se pur non sempre su posizioni comuni10.

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Mostra la Casa Abitata (1965), Firenze, Palazzo Strozzi

Nell’exhibition design di Savioli inoltre si leggono in filigrana alcuni temi sviluppati poi, in maniera molto più dirompente e ubiquitaria, da un gruppo di allievi del suo corso che avrebbero segnato l’ambiente fiorentino e italiano della seconda metà degli anni Sessanta11. Fattore decisivo negli allestimenti di Savioli è infatti la sua nota sensibilità di pittore e grafico - che gli permette di sviluppare una particolare apertura verso le acquisizioni più avanzate dell’arte contemporanea internazionale. Il riferimento è alla pop art, l’optical art, la kinetic art, fino ai nuovi realismi americani e francesi: queste contaminazioni si ritrovano in particolare nella prima attività degli Archizoom12, gruppo di architetti formato anche da allievi di Savioli13. È Savioli stesso a citare, come riferimenti concettuali in questo settore del suo fare artistico, i nomi di Eduardo Paolozzi (1924-2005), Nicholas Schöffer (1912-1992), Jean Tinguely (1925-1991) e Victor Vasarely (1906-1997)14,tutti esponenti di rilievo di una stagione tendente, se pur in modo non univoco, a investigare un nuovo rapporto fra ‘oggetto’ e spettatore informato da una relazione tesa a sviluppare un comportamento integrativo e attivo dell’uno rispetto all’altro, e viceversa15. I modi di connessione fra osservatore e opera d’arte dal punto di vista della partecipazione emotiva

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e intellettuale, e della dialettica dinamica fra passato e presente, costituiscono il campo principale d’indagine e sperimentazione dell’opera di Savioli architetto degli spazi effimeri. Come è stato notato16, questo tratto distintivo dell’autore si intreccia con il portato delle riflessioni sedimentate da Umberto Eco nel volume Opera aperta (1962), dove è presentata una articolata e polisemica ricerca sull’idea di “apertura” dell’arte, proposto dalle poetiche contemporanee17. La pubblicazione del libro di Eco, che insegna alla Facoltà di Architettura di Firenze dal 1966, insieme all’esposizione degli artisti americani della pop art alla Biennale di Venezia del 1964 e alle esperienze didattico formative dei corsi di Leonardo Ricci e Leonardo Savioli, sono considerati fattori importanti per il rinnovamento dell’architettura italiana che ha inizio alla metà degli anni sessanta18.

Mostra dell’Oggetto Moderno, Firenze, Palazzo Strozzi, vista di una sala

Se i temi dicotomici sopraricordati – che l’architetto definisce spesso “cortocircuito” - rappresentano un carattere peculiare del modusoperandi di Savioli, si deve rilevare anche l’attenzione e la cura alla base dell’elaborazione del particolare tecnologico, declinato nella puntuale definizione progettuale ed esecutiva dei supporti espositivi, dei corpi illuminanti, del sistema dei percorsi e degli strumenti didattico-illustrativi: l’architettura dell’allestimento, attraverso tale puntuale analisi pienamente coerente con il pensiero compositivo sotteso agli edifici che Savioli va progettando e realizzando19-, si offre come “sistema di particolari pertinenti”20, ovvero come un insieme congruente che contribuisce a chiarire la natura dell’architettura rispetto all’epoca e all’orizzonte culturale cui appartiene. Marco Dezzi Bardeschi a chiusura di un articolato saggio su Savioli del 1966, ha scritto: “un aspetto che

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resta da indagare utilmente e per il quale mi limito ad un semplice accenno è l’indiscutibile angolazione tecnologica della ricerca di Savioli intesa come istintivo fascino per la carica di formatività proprio del prodotto di officina, a qualunque livello esso appartenga”21. In questo versante, Savioli sembra interpretare in maniera personale una componente precipua del fare architettura di quella che è definita la Scuola fiorentina22, che viene a intrecciarsi nel suo caso ad archetipi autobiografici23. Gli allestimenti, tutti fiorentini, di Savioli si collocano nell’arco di vent’anni, con un’accumulazione nella prima metà degli anni sessanta: se la “mostra della musica” (1950) e la “mostra delle armi da caccia” (1970) costituiscono gli estremi cronologici di quest’attività, nell’arco di tre anni l’architetto realizza la mostra dell’Oggetto moderno (1962), la mostra di Le Corbusier (1963), la mostra della Casa abitata (1965), con Michelucci come ordinatore e la mostra di Firenze ai tempi di Dante (1965) alla Certosa del Galluzzo (Firenze). L’esposizione dei gioielli creati dalla moglie Flora Wiechmann alla Strozzina (1963), come la personale del ceramista e scultore Guido Gambone a villa Salviati a Sesto (1971) si caratterizzano per una dimensione più intima dell’impaginazione allestitiva, che trasfigura nell’omaggio personale e partecipato.

Ogni mostra si distingue per collaborazioni di alto livello (Argan, Ragghianti, Michelucci) e presenta caratteri peculiari all’interno, tuttavia, di un’enunciazione di ordine teoretico e fattuale, organica e compiuta, che diviene inoltre strumento di verifica e di elaborazione di una metodologia interna al pensiero dell’architetto24. Per la centralità cronologica - anche nel contesto degli eventi più generali che segnano la cultura architettonica contemporanea - e la diversificazione dei contenuti della proposta progettuale (dall’insieme al dettaglio, dalle scelte materiche all’esplorazione delle qualità spaziali del contenitore rappresentato da un rilevante edificio storico), appare di grande interesse la mostra “Firenze ai tempi di Dante”, che mutua il titolo dal celebre volume di Robert Davidsohn (1929). L’esposizione della Certosa si distingue dalle altre curate da Savioli per la presenza di numerosissimi pezzi non in originale, circostanza ‘letta’ come elemento di debolezza della mostra25, ma che in realtà contribuisce ad accrescere il ruolo dell’allestimento nel palinsesto complessivo, e dunque ad evidenziare il pensiero compositivo dell’architetto che in questa dimensione ‘temporanea’ trova una efficace esplicitazione: si determinano qui infatti le condizioni per una piena contaminazione fra grafica, arte e architettura, oltre alla materializzazione di temi progettuali quali la scomposizione neoplastica che l’architetto va declinando nello stesso torno di anni nelle sue architetture, con esiti che raggiungono piena espressività nel caso dell’edificio ad appartamenti di via Piagentina a Firenze (1964).

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Palatium degli Acciaioli alla Certosa del Galluzzo, Firenze. Vista del corpo nord-orientale al piano terreno dopo i restauri (da Procacci, Morozzi 1966)

Il tempo, il luogo, gli attori I centenari danteschi del XIX e del XX secolo hanno lasciato a Firenze tracce significative. Il primo, coincidente con lo spostamento della capitale del nuovo Stato unitario a Firenze (1865), vede mobilitata la città e numerose istituzioni. Il secondo centenario trova l’Italia, e Firenze in particolare, impegnate in estese celebrazioni. Sulla base della legge del 20 marzo 1964, n. 162 (Contributo straordinario dello Stato alle spese per le celebrazioni nazionali del VII centenario della nascita di Dante; costituzione del Comitato per le celebrazioni)26, sono membri di diritto del Comitato Nazionale il Ministro per la pubblica istruzione e i rappresentanti delle città di Firenze e di Ravenna, designati dai rispettivi Consigli comunali. La Legge nazionale del 1964 prevedeva di poter finanziare anche “iniziative dirette a garantire e a promuovere la conservazione delle cose di carattere storico e artistico connesse con la tradizione dantesca”. Il Ministero stanziava per le cospicue manifestazioni, previste in varie parti d’Italia, la consistente cifra di 300 milioni di lire. Gli eventi espositivi più importanti si tengono a Firenze e a Roma27. L’amministrazione comunale di Firenze si prepara alle celebrazioni dall’autunno del 1963, con un programma incardinato su tre eventi principali: un congresso internazionale e due mostre dedicate al poeta (alla Biblioteca Nazionale Centrale e alla Certosa del Galluzzo)28. Si forma un comitato fiorentino, presieduto dal professor Raffaello Ramat dell’Università di Firenze, già assessore alla cultura nell’ultima Giunta La

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Pira29, che comprende fra gli altri anche il Soprintendente alle Gallerie Ugo Procacci, e il Soprintendente ai Monumenti Guido Morozzi, oltre all’importante storico dell’arte Roberto Longhi e al Rettore dell’ateneo fiorentino, Giovangualberto Archi30. Dal 1955 è aperto il cantiere di restauro del cosiddetto Palazzo degli Studi o Palazzo Acciaioli alla Certosa del Galluzzo31, guidato da Morozzi. La struttura della Certosa, oltre alla chiesa e agli ambienti destinati alla residenza della comunità religiosa, comprende infatti anche un grandioso complesso a “L” (il Palatium) voluto dallo stesso Niccolò Acciaiuoli (1310-1365) fondatore della struttura, e rimasto incompiuto alla morte del committente. L’edificio subisce nel corso dei secoli numerose trasformazioni e rifunzionalizzazioni, fino ai restauri novecenteschi della Soprintendenza.

I primi interventi si datano all’immediato dopoguerra, secondo un programma destinato a mutare progressivamente negli scopi e nei contenuti nel giro di pochi anni: nell’autunno 1960 si comunica al Ministero che la Soprintendenza fiorentina intende “eseguire le opere essenziali di restauro e sistemazione delle due suddette sale e degli accessi … anche allo scopo di destinare successivamente le sale stesse alla formazione di una nuova pinacoteca per l’esposizione delle numerose opere d’arte esistenti e mal collocate nel monastero; particolarmente i pregevolissimi affreschi del Pontormo che alcuni anni or sono furono rimossi dal chiostro grande per ragioni di conservazione”32. Gli interventi a stampa di Guido Morozzi33, riguardanti le opere compiute nella vastissima compagine trecentesca, sono animati da un misto di pacato orgoglio e didascalica retorica, il cui grado di sottile reticenza si coglie confrontando le descrizioni fornite dall’architetto con la documentazione contabile e iconografica relativa alle opere effettivamente realizzate sotto la sua direzione34. Tali campagne, condotte secondo principi vicini al “restauro critico” ma spesso convergenti verso il “restauro di ripristino”35, portano alla meritoria eliminazione di un solaio che divideva il piano terra all’altezza dei capitelli dei pilastri della sala meridionale, ma anche alla ridefinizione delle aperture e degli accessi, in alcuni casi ex-novo. Ne risultano due ampi vani al primo piano con capriate a vista, e quattro grandi stanze al piano terra, due delle quali diaframmate da un ampio varco, cui si aggiunge un corpo longitudinale con massicci pilastri centrali e volte a crociera. Negli ambienti del piano terra la rarefazione dello spazio così ‘restaurato’ trova una minima ridefinizione nell’articolazione delle vaste volte a crociera costolonate, mostrate nella scarnificazione del mattone a faccia vista, e nelle monofore archiacute che scandiscono le pareti. Sul finire del 1964 i lavori vanno terminando e sembra, dunque, un’occasione alquanto propizia fare del piano terreno del Palatium la sede della mostra fiorentina, che può contare su un budget relativamente consistente, soprattutto in relazione all’ambizioso progetto didatticoillustrativo che informa la mostra: 5.000.000 di lire, di cui una parte cospicua viene corrisposta all’architetto36. Di grande interesse appare la scelta attuata dalla Soprintendenza e dal comitato di affidare l’allestimento a una personalità per cui era certa

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l’impossibilità di cadute mimetiche, rischio più che reale in un’esposizione di tal soggetto e in un luogo così carico di storia. L’ambiente istituzionale fiorentino appare del resto, da tempo, sensibile a connubi di questo genere, come la collaborazione di Michelucci, prima e dopo la Seconda guerra mondiale, con gli Uffizi può ben esemplificare37: la mostra di Giotto e la sistemazione attuata dallo stesso Michelucci con Gardella e Scarpa due decenni dopo di alcune sale del Museo, sono esperienze citate espressamente dallo stesso Savioli, nei suoi scritti e nella propria architettura38. Si rivela nell’Istituzione fiorentina preposta alla conservazione e alla tutela una sensibilità - non certo estranea alla coeva cultura italiana - per il dialogo fra antico e contemporaneità che segna anche gli interventi degli Archizoom a Orsanmichele (1967) e nel Duomo fiorentino (sistemazione degli scavi archeologici di Santa Reparata sotto il pavimento, 1968), interventi questi ultimi caratterizzati da un’originale espressività: il riconoscimento delle valenze innovative e dei contenuti di tali progetti non deve essere inficiato dall’ombra dell’agevolazione familistica che grava su questi cantieri, posizione sostenuta in prima persona dallo stesso Savioli in sede giudiziaria39.

Leonardo Savioli, Allestimento della mostra Firenze ai tempi di Dante, (Archivio di Stato di Firenze, Fondo Savioli). Sala della vita pubblica e privata

La mostra dantesca ripresenta inoltre il binomio soprintendenzaarchitetto progettista dell’allestimento, proposto come connessione ideale nella rassegna alla Triennale di Milano del 1957 sui nuovi allestimenti permanenti di importanti realtà museali italiane40.

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Alla Certosa del Galluzzo si prospetta per Savioli la possibilità di esplorare – attraverso il progetto dell’allestimento temporaneo - le caratteristiche del luogo e la sua vocazione a spazio museale permanente41, secondo una dimensione concettuale propria di altri luoghi e di altri protagonisti a lui contemporanei, in primis Carlo Scarpa a Castelvecchio42. Il sito, di per se stesso significante nella stratificazione storica e nel rapporto con il paesaggio circostante, diviene un elemento imprescindibile nell’equazione progettuale, declinando il pensiero del progetto proprio dell’elaborazione site-specific43. Il progetto espositivo, in questo sito da risignificare e con un’identità da ridefinire nei suoi elementi spaziali, compositivi, distributivi e materici diventa dunque un vero e proprio atto artistico performativo: la performance infatti si rivela là dove le due componenti – le modalità del mostrare e le impressioni che il luogo e gli spettatori restituiscono in un complesso gioco di specchi - emergono dal compimento del suo accadere.

Emanuela Ferretti Note: Questo saggio prende le mosse da ricerche condotte in concomitanza con l’incarico di inventariazione analitica dell’Archivio Savioli, commissionato a chi scrive dalla Soprintendenza Archivistica per la Toscana e dall’Archivio di Stato di Firenze, nonché dagli studi nell’ambito delle esercitazioni svolte come frequentante nei corsi di Storia dell’Arte contemporanea (prof. Enrico Crispolti) e Allestimento e museografia (prof. Amerigo Restucci) della Scuola di Specializzazione in Archeologia e Storia dell’Arte, Università degli Studi di Siena. 1 Paolo Fossati, Il design in Italia. 1945-1972, Torino, Einaudi 1972; Ezio Bonfanti, Mario Porta, Citta, museo e architettura. Il Gruppo BBPR nella cultura architettonica (1932-1970), Firenze, Vallecchi, 1973; Manfredo Tafuri , Storia dell’architettura italiana. 1944-1985, Torino, Einaudi 1982, pp. 65-138; Sergio Polano (a cura di), Mostrare. L’allestimento in Italia degli anni Venti agli anni Ottanta, Milano 2000 (prima ed. Milano 1988), Milano, Lybra Immagine 2000; Paolo Morello, “Opere e modelli storiografici”, in Francesco Dal Co (a cura di), Storia dell’architettura italiana. Il secondo Novecento, Milano, Electa, 1997, pp. 392-418; Sergio Polano, “L’arte dell’allestimento temporaneo. Mostrare italiano”, in ivi, pp. 418-429; Luca Basso Peressut, Il Museo Moderno. Architettura e museografia da Perret a Kahn, Edizione Lybra Immagine 2005, in particolare pp. 201-206. 2 Enrico Crispolti, “Il Futurismo negli anni Trenta”, in Nadine Bortolotti (a cura di), Gli annitrenta: arte e cultura in Italia, catalogo della mostra (Milano, 1982), Milano, Comune di Milano 1982, pp. 178-180 e Anty Pansera, “Le Triennali”, in ivi, pp. 311-324; Paolo Morello, “Esposizioni e mostre: 1932-36”, in Giorgio Ciucci, Giorgio Muratore (a cura di), Storia dell’architettura italiana. Il primo Novecento, Milano, Electa 2004, pp. 306-323; Orietta Lanzarini, “«Mi attrae usa sconvolgermi insegnandomi»: gli allestimenti di Luigi Moretti”, in Bruno Reichlin, Letizia Tedeschi (a cura di), Razionalismo e trasgressività tra barocco e informale, catalogo delle mostre (Roma 2010), Milano, Electa, 2010, pp. 239-240. 3 Enzo Legnante, Antonio Laurìa, L’architettura nei dettagli, Firenze, Alinea 1988, p. 17. 4 Per la definizione concettuale di queste tematiche dell’arte degli anni Sessanta-Settanta, soprattutto per il contesto americano, Miwon Kwon, “One Place after Another: Notes on Site Specificity, in October, LXXX (Spring, 1997), pp. 85-110; Miwon Kwon, One Place after Another: Site-Specific Art and Locational Identity , Cambridge, Massachusetts-London, MIT Press, 2004. 5 Marco Mulazzani, “Lo spazio interno come spazio architettato”, in Antonella Huber, Il Museo italiano, Milano, Lybra Immagine, 1997, pp. 59-75: 63. 6 Sergio Polano, “L’arte dell’allestimento temporaneo. Mostrario italiano”, in Francesco Dal Co (a cura di), Storia dell’architettura, cit., p. 430. 7Leonardo Savioli, Firenze, Edizioni Centro Proposte, 1966: schede nn. 82-84, n. 100-101 a cura di Giovanni Fanelli; Leonardo Savioli grafico e architetto, catalogo della mostra (Faenza, 1982), Firenze, Centro Di, 1982. Le mostre di Savioli sono ricordate nella rassegna proposta in Sergio Polano (a cura di), Mostrare, cit.; cfr. anche Alessandro Poli, “Il divenire del segno nell’idea di spazio di Leonardo Savioli: progetti architettonici e allestimenti espositivi”, in Leonardo Savioli: il segno generatore di forma-spazio, catalogo della mostra (Firenze, 1995), Città di Castello, Edimond, 1995, pp. 85-146: 86-88. Nella storiografia più recente dedicata a Savioli, si ricordano le sintetiche osservazioni contenute nelle schede presenti nel volume di Massimiliano Nocchi, Leonardo Savioli. Allestire, arredare, abitare, Firenze, Alinea, 2008, pp. 88 e sgg. 8 Leonardo Savioli, “Il problema degli allestimenti. Alcune esperienze dal 1962 al 1971”, in Leonardo Savioli, Danilo Santi, Problemi di architettura contemporanea. L’architettura delle Gallerie d’Arte Moderna, Firenze, Giglio & Garisenda, 1972, pp. 258-261. 9 Argan scrive la premessa al catalogo della mostra “L’oggetto moderno” (1962) e collabora al corso di Savioli all’Università di Firenze (Leonardo Savioli et al., Ipotesi di spazio, Firenze, Giglio & Garisenda, 1972); presenta l’opera di Savioli nel volume del 1966: Leonardo Savioli, cit.; scrive anche un saggio nel volume di Savioli e Santi: Giulio Carlo Argan, “Progettazione di un museo d’Arte moderna: rapporto tra museo e allestimento, in Leonardo Savioli, Danilo Santi, Problemi di architettura contemporanea, cit., pp. 32-35. Ragghianti è l’ordinatore della mostra dedicata a Le Corbusier (1963) e accompagna Savioli a Parigi alla mostra monografica sull’architetto svizzero l’anno precedente. Ragghianti dirige per molti anni “La Strozzina”, associazione culturale fiorentina, che organizza le mostre da lui ideate e promosse a Palazzo Strozzi, e dedicate a Frank Lloyd Wright

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(1951), Le Corbusier (1963), Alvar Aalto (1966). Per questi aspetti Augusto Rossari, “Ragghianti e gli architetti”, in Luk, n.s., 16 (2010), pp. 114-115. 10 Per un rinnovamento della concezione del museo nel dibattito culturale italiano: Marisa Dalai Emiliani, “Musei della ricostruzione in Italia, tra disfatta e rivincita della storia”, in Licisco Magagnato (a cura di), Carlo Scarpa a Castelvecchio, Milano, Edizioni Comunità, 1982, pp. 149-170; Carlo Ludovico Ragghianti, Arte, Fare e vedere , [prima ed. 1973], Firenze, UIA, 1990; Paolo Morello, “La museografia”, cit.; Luca Basso Peressut, Il museo moderno?, cit., pp. 207- 212; Antonella Gioli, “Ragghianti, i musei e la museologia”, Predella , X, (2010), 28, http://predella.arte.unipi.it (2012)???. 11 Fabrizio Rossi Prodi, Carattere dell’architettura toscana, Officina Edizioni, Roma, 2003, p. 20. 12 Paolo Deganello, “Narrate uomini la vostra storia”, in http://sites.google.com/site/paolodeganello/articoli : (2012). 13 Roberto Gargiani, Archizoom associati. 1966-1974. Dall’onda pop alla superficie neutra, Milano, Electa, 2007, p. 13, 101. Deganello in particolare si laurea con Savioli. 14 Leonardo Savioli, “Il problema degli allestimenti”, cit., p. 260. Nel gennaio del 1965 esce l’articolo di Lara Vinca Masina, “Arte programmata”, Domus, 422 (1965), pp. 40-48 dove vengono commentate opere e protagonisti della opticalart, fra cui Tinguely e Schöffer, oltre a citare esempi di declinazione del fenomeno artistico nell’architettura. La vivacità dell’ambiente culturale fiorentino è ricordata anche in François Burkhardt, “Le avanguardie fiorentine dell’anni sessanta e settanta”, in Ezio Godoli (a cura di), Architetture del Novecento. La Toscana, Firenze, Ed. Polistampa, 2001, pp. 139-142. 15 Francesco Poli, “Arte e ambiente”, in Francesco Poli (a cura di), Arte contemporanea. Le ricerche internazionali dalla fine degli anni ’50 ad oggi, Milano, Electa 2007 (prima ed. 2005), 96-121. 16 Luigi Prestinenza Puglisi, This is Tomorrow. Avanguardie e architettura contemporanea, Torino: Testo & immagine, 1999, pp. 113-115; Marie Theres Stauffer, Figurationen des Utopischen, Deutscher Kunst Verlag, Berlin – München, 2008, pp. 127-135. 17 Umberto Eco, Opera aperta, Bompiani, Milano, 1962. 18 Luigi Prestinenza Puglisi, This is Tomorrow, cit., p. 116; p. 125; Gabriele Corsani, “Premessa”, in Marco Bini, Gabriele Corsani (a cura di), La Facoltà di architettura di Firenze. Fra tradizione e cambiamento, atti del convegno (Firenze, 29-30 aprile 2004), Firenze, Firenze University Press, 2007, p. XIX. Un ulteriore fattore di veicolazione delle nuove istanze delle esperienze artistiche più avanzate degli anni Cinquanta, con particolare riguardo all’Informale, è rappresentato dalla rivista “Spazio” (1950-53) e dall’attività dell’omonima galleria romana, diretta da Luigi Moretti (Letizia Tedeschi, “Algoritmie spaziali. Gli artisti, la rivista “Spazio” e Luigi Moretti, 1950-1953”, in Bruno Reichlin, Letizia Tedeschi (a cura di), Razionalismo e trasgressività , cit., pp. 137-178). L’architetto è inoltre presente alla mostra “La Casa Abitata” (1965) con una ricostruzione del suo studio dove convivevano esempi di arte barocca e opere contemporaneein una sistemazione che suscita un grande interesse nei visitatori: Alessandra Muntoni, “Luigi Moretti nella storia e nella critica”, in Corrado Bozzoni, Daniela Fonti, Alessandra Muntoni (a cura di), Luigi Moretti architetto del Novecento, atti del convegno (Roma, 25-26 settembre 2009), Roma, Gangemi, 2009, pp. 43-60: 53; Orietta Lanzarini, “«Mi attrae usa sconvolgermi insegnandomi»: gli allestimenti di Luigi Moretti”, in Bruno Reichlin, Letizia Tedeschi (a cura di), Razionalismo e trasgressività, cit., p. 249. L’Informale rappresenta un tema che caratterizza anche la ricerca artistica di Savioli, alimentata dai rapporti epistolari con Vedova, soprattutto negli anni Cinquanta: Eleonora Tolu, “Ripercorrendo la vicenda umana e artistica di Leonardo Savioli”, in Claudio Paolini, Eleonora Tolu (a cura di), “Registrare l’esistenza”. La pittura e il disegno di Leonardo Savioli, catalogo della mostra (Monsummano 2010), Firenze, Ed. Polistampa, 2010, pp. 60-61. 19 Federico Bellini, “Toscana, Emilia, Romagna, Marche, in Francesco Dal Co (a cura di), Storia dell’architettura , cit., pp. 151-152. 20 Pier Angelo Cetica, “Introduzione”, in Enzo Legnante, Antonio Laurìa, L’architettura, cit., 1988, p. 12. 21 Marco Dezzi Bardeschi, “Leonardo Savioli, una metodologia di progettazione”, Marcatrè, (1966), p. 71. 22 Fabrizio Rossi Prodi, Carattere, cit., pp. 56-57. 23 In particolare il mondo dei treni e delle locomotive, essendo il padre un disegnatore meccanico delle ferrovie. Devo questa indicazione a Paolo Breschi, allievo e amico di Savioli. Si veda anche Massimiliano Nocchi, Leonardo Savioli, cit. 24 Lara Vinca Masini in Leonardo Savioli, cit., p. XIII. 25 Giovanni Fanelli, scheda 100, in Leonardo Savioli, cit., p. 240. 26 G.U. n.89 del 10-4-1964. 27 La mostra romana, a Palazzo Venezia, e la mostra fiorentina sono recensite in parallelo da Angiolodomenico Pica: Id., “Settecent’anni dalla nascita di Dante: due mostre”, Domus, (1966), 435, p. 55. La mostra romana è opera di Peppino Piccolo e Fabrizio Vico, e l’allestimento è giudicato da Pica “abbastanza corrente nella sua accuratissima eleganza”, ma al contempo viene elogiata “la straordinaria efficacia raggiunta mediante espressioni plastico-pittoriche”. 28 Archivio Storico Comunale di Firenze, Delibere della Giunta, anno 1964, n. 585; Mostra di codici e edizioni dantesche, (Firenze 1965), Firenze, Sandron 1965. 29 Giulio Conticelli, Lorenzo Artusi, Bibliografia degli scritti di Giorgio La Pira, Firenze, Fondazione Giorgio La Pira, 1998. 30 L’elenco dei membri del Comitato fiorentino si trova nel volume Mostra diFirenze ai tempi di Dante 1965 , catalogo della mostra, Firenze, Giunti Barbera, 1966. Sulla mostra cfr. anche: Il Ministro Gui inaugura stamani una suggestiva mostra della Firenze di Dante, in Il Giornale del Mattino, 10 giugno 1965; Il Ministro Gui alla mostra della città di Dante, in La Nazione, 11 giugno 1965; Inaugurata la mostra di Dante, in L’Unità, 11 giugno 1965; Lara Vinca Masini, “Mostra Firenze ai tempi di Dante”, Marcatrè, (1965), 16-18, pp. 216-217; Fernando Concedda, “Un’immagine vera di Firenze ai tempi di Dante”, in Il Giornale del Mattino, 11 giugno 1965; Lara Vinca Masini, “Firenze ai tempi di Dante”, in La Biennale 1965, 57-58, pp. 85-86; “Les exposition à l’étrange”, Architecture d’Au Jourd’hui, (1966), 435, p. 55; Maria Bottero, “L. Savioli”, World Architecture, (1966), 3, pp. 182185. Leonardo Savioli grafico e architetto cit., pp. 14-15, 52-55. 31 Pietro Ruschi, Scheda 11 [“La Certosa presso Firenze”], in Archivi dell’aristocrazia fiorentina, catalogo della mostra (Firenze, 1989), Firenze, Acta, 1989, pp. 31-33. 32 Guido Morozzi e Ugo Procacci, 2 novembre 1960: relazione di accompagnamento alla richiesta di un ulteriore finanziamento per le opere alla Certosa: Soprintendenza per i Beni Architettonici di Firenze, Archivio delle Perizie, anno 1960, c.n.n. 33 Ugo Procacci, Guido Morozzi, “Il Palazzo degli Studi nella Certosa del Galluzzo”, in Bollettino degli Ingegneri , 273, 1966, pp.1-12; Guido Morozzi, Interventi di Restauro, Firenze, Bonechi 1979. 34 Soprintendenza per i Beni Architettonici di Firenze, Archivio delle Perizie, anni 1959-1965. Si evidenzia un cambio di progetto che, da manutenzione straordinaria, diviene vero e proprio intervento di ripristino come già indicato da Pietro Ruschi, vedi nota seguente. 35 Pietro Ruschi, scheda 11, cit., p. 32. 36 Archivio Storico Comunale di Firenze, Sezione Belle Arti, anno 1965. 37 Roberto Duilio, “Allestimento della mostra di Giotto agli Uffizi, 1937”, e “Allestimento di alcune sale degli Uffizi

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1953-60,” in Claudia Conforti, Roberto Duilio, Marzia Marandola, Giovanni Michelucci (1881-1990), Milano, Electa, 2006, p. 165, 225. Il contesto in cui nasce e si sviluppa la mostra del 1937 è ricostruito in Alessio Monciatti, Alle origini dell’arte nostra. La mostra giottesca del 1937a Firenze, Milano, Il Saggiatore, 2010, in particolare pp. 38-86. 38 Si tratta di riferimenti visivi puntuali (vedi oltre) e riferimenti teorici: “Di fronte al Cristo di Cimabue ci si inginocchiava (e fecero bene Gardella, Michelucci e Scarpa, nella prima sala degli Uffizi, a disporlo inclinato su un gradino, quasi a proporne un ambiente e un gesto religioso)”: Leonardo Savioli, “Il problema degli allestimenti”, cit., pp. 258-259. 39 Roberto Gargiani, Archizoom cit., p. 101. Fanno parte dell’Archizoom i figli del Soprintedente Morozzi. Nel processo che si tiene nel 1975 per presunti illeciti nella gestione del cantiere di Orsanmichele, Savioli è chiamato insieme a Domenico Cardini a deporre ed esprime stima nei confronti dei giovani allievi: ivi p. 249. 40 “Mostra di Museologia”, in Agnolodomenico Pica (a cura di), Undicesima Triennale, catalogo della mostra (Milano 1957), Milano, Tip. Crespi, 1957, pp. 49-59. Tale evidenza è sottolineata in Paolo Morello, “Museografia”, cit., nota 13, p. 414. 41 In questo senso anche le osservazioni di Lara Vinca Masini, “Mostra”, cit. 42 Marisa Dalai Emiliani, “Musei della ricostruzione”, cit.; Giacomo Pirazzoli, Site Specific Museum. One, Pistoia, Gli Ori, 2011, pp. 74-75. 43 Nella peculiare soluzione compositiva concepita in stretta relazione con il luogo si dispiega la poetica della site-specific art.

1 Leonardo Savioli con la moglie Flora Wiechmann 2 Mostra della Musica(1950), vista di una sala 3 Mostra della Caccia, Firenze, Palazzo dei Congressi, vista di una sala (1971) 4 Mostra di Le Corbusier (1963), Firenze, Palazzo Strozzi

1 Palatium degli Acciaioli alla Certosa del Galluzzo, Firenze. Progetto di restauro del fronte meridionale e piante (da Procacci, Morozzi 1966) 2 Palatium degli Acciaioli alla Certosa del Galluzzo, Firenze. Prospetto meridionale dopo i restauri (da Procacci,Morozzi 1966) 3 Palatium degli Acciaioli alla Certosa, vista del complesso durante i lavori di Guido Morozzi (da Procacci, Morozzi 1966) 4 Palatium degli Acciaioli alla Certosa del Galluzzo, Firenze. Vista del corpo nord-orientale al piano terreno dopo i restauri (da Procacci, Morozzi 1966)

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1 Leonardo Savioli, Allestimento della mostra Firenze ai tempi di Dante, (Archivio di Stato di Firenze, Fondo Savioli). Sala della casa 2 Firenze, Orsanmichele. Scala in ferro progettata dagli Archizoom (1967) 3 Firenze, Santa Maria del Fiore, Scavi della chiesa di Santa Reparta. Sistemazione degli Archizoom (1968)

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MD Material Design Post-it journal ISSN 2239-6063 Vol. III (2012), 110-116 - Veronica Dal Buono edited by Alfonso Acocella, redazione materialdesign@unife.it

post-it journal

Magica materia ceramica. Old House di Kengo Kuma.

"Ceramica è il risultato della mescola tra la terra, la propria terra intesa fisicamente, e la vita degli esseri umani". Tale affermazione - intensa significazione nell'estrema sintesi che contraddistingue il suo stesso autore -, è pronunciata da Kengo Kuma in occasione dell'inaugurazione della Old House di Casalgrande Padana, sua seconda realizzazione architettonica in terra emiliana ove il grès porcellanato è ancora una volta protagonista. Il maestro giapponese ci rammenta come il materiale ceramico venga dal "basso", dal terreno fisico, evidenziandone il senso di appartenenza alla terra, vivo in ciascuna civiltà che faccia uso tradizionalmente di tale materiale; dal suolo la materia è colta informe per essere trasformata in materiale artificiale grazie all'attività dell'uomo, rappresentandone simbolicamente il frutto dell'intelligenza e dell'impegno produttivo prolungato nel tempo. Questo duplice carattere che coniuga natura e artificio sciogliendone l'apparente dualismo, conferisce al materiale ceramico una qualità umana e intima riscontrabile sia nei singoli elementi - la ceramica così piacevole ai sensi, al tatto, ancor prima che alla vista -, quanto nel progetto architettonico che vede nella loro composizione una somma di effetti minuti, modulari e perfettamente proporzionati all'uomo nelle dimensioni, ma capace di aspirare alla grandezza e monumentalità d'insieme quando adottata in forma totalizzante.

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La storia del lavoro umano con l'argilla, cultura materiale senza tempo e come tale difficilmente riassumibile a parole, trova un momento di sintesi e di alta qualità rappresentativa nella collaborazione sinergica tra il maestro giapponese Kengo Kuma e una delle realtà produttive più fertili e illuminate del distretto ceramico di Sassuolo-Casalgrande, l'azienda Casalgrande Padana. Prima con l'opera Casalgrande Ceramic Cloud poi con la realizzazione della Old House, conclusasi in chiusura dell'anno 2011, grazie all'interpretazione dell'architetto giapponese, assistiamo al racconto del rapporto esemplare dell'Azienda - del patrimonio che essa porta con sè e riflette sulla cultura del territorio - con il proprio materiale d'elezione, la ceramica. Come nel caso della CCCloud, Kengo Kuma anche in occasione del progetto per la Old House fa uso di elementi prodotti in serie già presenti nel catalogo di Casalgrande Padana, rifuggendo l'idea percorsa talvolta da taluni protagonisti dell'architettura di firmare appositamente anche gli elementi della costruzione, ponendo attenzione su di sè piuttosto che sul progetto. La scelta di Kuma si indirizza verso il rispetto e l'accoglienza delle condizioni insite nel progetto, lavorando sui vincoli posti dall'esistente - la vecchia casa colonica - e valorizzando al massimo i prodotti stessi dall'azienda. La mente del progettista è consapevolmente ispirata e resa fertile dalla natura del materiale ceramico. Ne studia con attenzione le potenzialità e qualità affinchè dal progetto risulti valorizzato al meglio il knowhowtecnologico della realtà produttiva del committente. Ancora una volta il lavoro di Kuma parte dalla riflessione su alcune coppie dialettiche proposte dalla natura del materiale e dalla sua interazione con lo spazio architettonico e l'uomo: luce/ombra, semplice/complesso, opaco/trasparente, massivo/leggero, provvisorio/permanente, ripetuto/variato, superficiale/profondo. Il racconto che si spiega tra le stanze dell'edificio è proprio il dialogo che va a tessersi tra materie, forme e spazi messi alla prova, sfidati attraverso da tali polarità. La magia della Old House è celata da un involucro di casa colonica dalla forme tradizionali ove possenti mura in laterizio, tetto a falde, aperture regolari sui prospetti, cercano conciliazione con il passato contadino ancor presente entro l'area di pertinenza degli stabilimenti produttivi di Casalgrande Padana. Filari di mele posti al suo esterno e percorsi verdi geometricamente strutturati, consolidano il rapporto tra tradizione e contemporaneità, conducendo il fruitore, attraverso un disegno fatto di sottili lastre pavimentali che bianche emergono dal suolo, alla rotonda stradale della Casalgrande Ceramic Cloud. L'edificio silenzioso della Old House dialoga infatti con l'opera situata a pochi passi da esso. Insieme alla CCCloud, la grande struttura ordita in lastre bianche di grès porcellanato e collocata a tagliare come una lunga lama la superficie della rotonda stradale, formano un sistema spazioambientale compiuto, ricco di significati e passibile di interpretazioni. Le medesime lastre che accoppiate costruiscono la struttura verticale della CCCloud, le ritroviamo singole e sottili posizionate al suolo a condurci sino all'interno della Old House. Sono lastre di grès Bianco assoluto, ancor più evidenti nella luminosità del colore scelto perchè, proprio negli ambienti di maggior frequenza, si staccano dal suolo fra ciottoli di ghiaia informi e grezzi, creando un contrasto evidente con la

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rudezza del terreno originario e la levigatezza della superficie lavorata dall'uomo. Posizionate a distanza tra loro, le lastre delineano percorsi come isole per disvelare ambienti mai finiti che si osservano tra loro attraverso orchestrate aperture, dove il vuoto assume il medesimo ruolo del silenzio e delle pause nella musica e puntuali elementi dal passato la Old House è archivio e centro di documentazione per l'Azienda e conserva macchine, campioni, documenti - ne costituiscono gli accenti. Lo spazio del piano inferiore si armonizza con i piani successivi attraverso un moderno raumplan, reso possibile da leggere e quasi trasparenti scale quali elementi di connessione. Sono esse infatti costituite da sottili lastre in acciaio a sbalzo rivestite da lastre ceramiche che mimano la brillantezza dei metalli attraverso le tonalità del bronzo. Ad ogni ambiente che si incontra nel percorso che si dipana in ascesa verso il vuoto del sottotetto, corrisponde una sorpresa, sia essa una soluzione architettonico-spaziale che un opera di design integrato con la costruzione, ciascuna realizzata assolutamente in grès porcellanato. Cura e invenzione per ogni dettaglio raggiungono persino il vano ascensore e i servizi. La parete della Library room vede una sequenza di piani orizzontali allineati sul fondo di muratura a vista attraverso setti verticali in grès bianchi, piano per piano dello scaffale orientati in gradazioni leggermente mutevoli come fossero essi stessi dorsi di volumi inclinati. Si ritrova qui il fenomeno del dinamismo percettivo che in scala maggiore è avvertibile muovendosi attorno alla CCCloud. Un ambiente gradonato discende da tale spazio formando la Projection room, luogo ideale per rappresentazioni multimediali sulle bianche pareti, trovandosi in penombra anche in pieno giorno perchè il bianco totalizzante è mitigato dai tradizionali trafori in laterizio delle finestre esterne. Le lastre della pavimentazione, rigorosamente anch'esse bianche, si sposano con un letto di ciottoli, questa volta i medesimi che circondano la CCCloud. In grès anche il rivestimento delle sedute gradonate che incontrano nell'alzata lastre bianche questa volta traforate lungo tutta la superficie, per consentire il ricambio dell'aria dell'impianto di climatizzazione e alcontempo creare una trama che alleggerisce l'atmosfera.Scende a pioggia dal soffitto fino a raggiungere la Projection room l'istallazione elegante e leggera che con maggiore intensità svela il volto sottile del materiale ceramico e porta al cuore del percorso all'interno della Old House. Una moltitudine di elementi ceramici rettangolari pencolano dall'alto, sospesi a cavetti quasi invisibili; fluttuano vibrando mossi dalle minime correnti d'aria, ruotano, si mostrano attraverso le facce affilate della bidimensionalità. Proiettando un effetto di luci e ombre sulle pareti, creando densità ove sarebbe il vuoto, Kuma mostra come attraverso l'artificio del design sia possibile manipolare emozionalmente il reale e, superando il comune sentire, apportare una reale ri-sensualizzazione al progetto. Veronica Dal Buono

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Old House di Casalgrande Padana vista dalla CCCloud

CREDITI committente Casalgrande Padana S.p.a. luogo: Casalgrande, Reggio Emilia, Italia design team: Kengo Kuma & associates progettisti: Kengo Kuma, Javier Villar Ruiz, Ryuya Umezawa project & construction manager: Mauro Filippini (Casalgrande Padana S.p.a.)

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project coordinator: Angelo Silingardi (C.C. Prog.) strutture: Enrico Rombi, Alberto Zen (C.C. Prog.) consulenti per le strutture: Norihiro Ejiri, Takuma Sato (Ejiri Structural Engineers) dati dimensionali Superficie Old House 572 mq Giardino circostante 480 mq cronologia settembre 2009-agosto 2011

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1 Old House, vista esterna. (ph. marco introini) 2 - 8 Ambienti interni alla Old House, piano terra. (ph. marco introini) 9 - 10 Ambienti interni alla Old House. (ph. marco introini)

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1 Library room. (ph. marco introini) 2 Scale d'accesso ai piani superiori. (ph. marco introini) 3 Library room. (ph. marco introini) 4 Library room e projection room. (ph. marco introini) 5 La projection room. (ph. marco introini) 6 Ambienti interni alla Old House, piano terra. (ph. marco introini) 7 Scale d'accesso ai piani superiori. (ph. marco introini) 8 - 9 La projection room. (ph. marco introini)

1 - 2 I progettisti dall'alto della Old House. (ph. marco introini) 3 Inaugurazione della Old House. (ph. marco introini) 4 - 5 Team di progetto. (ph. marco introini) 6 Kengo Kuma. (ph. marco introini)

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VII

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autori

Veronica Dal Buono Architetto, Dottore di ricerca in Tecnologia dell’Architettura, Ricercatore in Disegno Industriale, Dipartimento di Architettura dell’Università di Ferrara, Italia. Emanuela Ferretti Architetto, Dottore di ricerca in Storia dell’Architettura, docente a contratto di Storia dell’Architettura presso l’Università di Firenze. Vincenzo Pavan Architetto, Studioso dei linguaggi dei materiali costruttivi, curatore delle manifestazioni scientifico-culturali di Veronafiere per il marmo e l’architettura, docente a contratto presso il Dipartimento di Architettura di Ferrara, Italia. Davide Turrini Architetto, Dottore di ricerca in Tecnologia dell’Architettura, Ricercatore in Disegno Industriale, Dipartimento di Architettura dell’Università di Ferrara, Italia. Theo Zaffagnini Architetto, Dottore di ricerca in Tecnologia dell’Architettura, Ricercatore in Tecnologia dell’Architettura presso il Dipartimento di Architettura dell’Università di Ferrara, Italia. Sergio Zanichelli Architetto, progettista, ha svolto attività quale docente a contratto presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia e il Dipartimento di Architettura di Ferrara.

Annali MD, 2012 [ III]


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