Attorno al concetto di animale

Page 1

Attorno al concetto di “animale� di Animalismoevegetarianesimo.com


Ne L’animale che dunque sono, testo fondamentale per chiunque voglia indagare il rapporto della filosofia occidentale con la questione animale, il bersaglio della riflessione di Jacques Derrida - uno dei massimi pensatori dell'età contemporanea - è anzitutto “una tesi sull’animale, sull’animale privato di logos, privato del poter-avere il logos: tesi, posizione o presupposto che continua da Aristotele a Heidegger, da Descartes a Kant, Lèvinas e Lacan”. In sostanza, Derrida decostruisce diverse tesi riduzionistiche sul mondo animale formulate da alcuni fra i più importanti pensatori occidentali. Il filosofo francese offre nel libro una panoramica critica a molti dei nomi a fondamento della storia della nostra filosofia, mettendone in luce, pur nelle reciproche differenze, la comune chiusura alla questione animale.

1. Un termine problematico “L’animale, che parola!”, scrive Derrida. L’animale, la parola usata al singolare generale, contiene già in sé delle importanti indicazioni. Con lo pseudo-concetto di animale vengono racchiusi tutti gli animali conosciuti in un insieme compatto, al quale viene opposto l’uomo. Ciò comporta l’assurdo appiattimento di forme di vita uniche e diversissime in un’unica categoria, appiattimento che oltre a disconoscere le differenze macroscopiche tra gli animali, ha lo scopo di potervi contrapporre lo stesso concetto di uomo, in quanto, come argomenta Derrida, non si dà la parola “uomo” né l’identità dell’uomo al di fuori della relazione strutturale con la parola “animale”. “Tutti i filosofi che interroghiamo […] dicono tutti la stessa cosa: l’animale è senza linguaggio. O, più precisamente è senza risposta, intendendo per risposta qualcosa che si stacca nettamente dalla reazione: gli animali sono privi del diritto e della capacità di ‘rispondere’. E quindi anche di tante altre cose che sarebbero il proprio dell’uomo”. La parola “animale” costituisce quindi, per contrasto, un mezzo identificativo attraverso cui l’uomo si assicura una definizione di


sé. Tentando di eludere la violenza intrinseca nel termine “animale” al singolare generale, Derrida conia una nuova parola: “animot”, che lascia intendere il plurale (animaux) nel singolare, per rispettare l’irriducibile diversità dei viventi, e ricorda al contempo che la parola (mot) in questione resta comunque soltanto una parola. Scrive ancora Derrida: “Non si tratta solo di domandarsi se abbiamo il diritto di rifiutare questo o quel diritto all’animale […] si tratta anche di domandarsi se ciò che si chiama uomo ha il diritto di attribuirsi ciò che egli rifiuta all’animale, e se ne ha mai il concetto puro, rigoroso, indivisibile, in quanto tale”. È quindi chiaro che stiamo parlando di definizioni: definizione di uomo, definizione di animale. È bene tenere però sempre a mente che lo stesso termine "animale" è problematico, in quanto non riesce a rendere conto dell'immensa diversità delle specie viventi che vorrebbe racchiudere. È come se, volendo definire per assurdo le caratteristiche del popolo italiano rispetto agli altri, anziché imbastire un confronto con i vari popoli diversi dal nostro, si organizzasse un confronto antropologico, sociologico, storico, tra italiani e "resto del mondo". Naturalmente la fallacia dell'esempio non rende l'idea, perché fra un elefante e un lombrico (parlando in termini di biologia) la differenza è infinitamente superiore a quella che passa tra un russo e un camerunense. Il termine "animale" nasce quindi da una brutale riduzione; come questa riduzione possa arrivare a inficiare, in filosofia, intere teorie, lo vedremo in seguito.

1.1 Metodi di decostruzione Mi sembra un'aggiunta utile, in vista dei prossimi post. In che modo Derrida "smonta" le tesi filosofiche umane sulla subordinazione animale? Le decostruzioni derridiane seguano uno schema sostanzialmente ricorsivo: viene messo a nudo l’argomento o gli argomenti centrali che


sostengono il discrimine tra l’uomo e l’animale, e una volta individuati questi vengono attaccati alla radice, al fine di delinearne il fondamento dogmatico e postulatorio. Questo attacco alle fondamenta ha spesso un carattere dualistico: in un secondo momento decostruttivo, nella maggior parte dei casi, dopo essersi soffermato sull’applicazione negativa dell’argomento sull’animale, Derrida considera i criteri per cui di tale argomento\facoltà viene attribuito all’uomo. Questa sostanziale ricorsività nella procedura decostruttiva è strettamente legata alla ricorsività di fondo delle tesi sulla questione animale, che come vedremo hanno alcune (fallaci, secondo Derrida) caratteristiche comuni in tutti le teorie dei più importanti pensatori occidentali.


CARTESIO In Cartesio la differenza che passa tra l'uomo e l'altro-Animale è presto detta: “Il rapporto con sé dell’anima e del pensiero, l’essere stesso della sostanza pensante vi implicava il concetto di un animale-macchina privato di ciò che tutto sommato non è nient’altro che l’ego come ego cogito, ‘io penso’. Tale automa viene privato dell’‘io’, del ‘sé’, e a fortiori di ogni riflessione, cioè di ogni nota o riflessione autobiografica della propria vita”. L'animale di Cartesio risulta privato della possibilità di autoposizionamento derivante dal famoso "Cogito ergo sum". L'uomo definisce se stesso tramite l'ego cogito, l'animale no. Su quale base Cartesio ritiene che l'animale non possa essere apparentato all'uomo da un suo proprio, magari a seconda delle specie, "io penso"? Non si sa. La base è un certo "senso comune". Derrida sottolinea in Cartesio, come nella maggior parte dei grandi filosofi occidentali occupatisi della questione, il nesso che collega la condizione animale a una capacità di reazione ma non di risposta: gli animali sono “quegli automi che comunque non sarebbero mai in grado di rispondere o, anche se fossero in grado di ‘dire delle parole come noi’, sarebbero del tutto incapaci di farlo ‘attestando’ che pensano quello che dicono”. Gli animali come automi, quindi: macchine prive della capacità di provare la propria capacità di pensiero. Certi volatili possono ripetere parole umane, ma questo non vuol dire che "ragionino". D'altronde non può essere solo questo il dato su cui ci si basa. Allora ci si chiederà nuovamente: su cosa fonda Cartesio l'affermazione per cui l'animale non è provvisto di "io penso" e "senso del sé"? Derrida evidenzia qui, come seguiterà a fare, una generale dogmaticità nella definizione della natura animale (e ricordiamo per inciso l’importanza di tale procedimento nella elaborazione della propria identità e superiorità da parte dell’uomo): “Valore equivoco della testimonianza, attestazioni di cui Descartes forse abusa […] Con tutti questi ‘si vede’, che molto spesso si rifanno a una pretesa evidenza condivisa, allo stesso buon senso, la parola


‘testimonianza’ appare ancora più equivoca […] Quando qualcuno invoca un’infinità di esperienze che ‘attestano’, di cui si può testimoniare, ma ‘che non è qui il caso di riportare’, a un animale che conosco bene si drizzano le orecchie. Perché non è il caso di riportarle?”. Già, perché? Per Cartesio è evidente la subordinazione animale (sulla base del suo non aver l'"io" e il "sé"): si potrebbero citare testimonianze su testimonianze a riprova del fatto. Poi però non riporta nessuna di queste testimonianze, né tenta di spiegarsi in alcun modo. Quindi risulta evidente il carattere postulatorio di una simile affermazione. Mi fermo un attimo per sottolineare, a scanso di equivoci, come questioni simili non siano solo "chiacchiere da filosofi". Sono delle spie della formazione di certi schemi mentali nel rapporto dell'uomo quell'"altro-da-sé" che è l'Animale, che hanno conseguenze pratiche spaventose.

L'affermazione di base è: tutti gli esseri appartenenti al regno animale sono diversi dall'uomo, sono altro rispetto all'uomo. Il che significa: questi esseri non sono al pari dell'uomo. La conseguenza è: se gli animali non sono al pari dell'uomo ma sono mere "macchine" come dice Cartesio, allora sono "cose" di cui l'uomo può fare quello che vuole, che può sfruttare a suo completo piacimento senza rimorsi. Attraverso l’analisi di una lettera del 1638[1] Derrida arriva a sintetizzare quanto segue: “Descartes propone due criteri di discernimento […] due criteri che dovremo tenere a memoria perché determineranno tutta la tradizione dei discorsi che vorrei situare più tardi, fino a Heidegger e Lacan: 1) la non-risposta, l’incapacità di rispondere alle domande […] 2) una deficienza non specificata”.


Quanto letto in Cartesio, spiega Derrida, è senza dubbio correlato all’autofondazione dell’io attraverso il pensiero, il pensiero e non il respiro, potremmo dire, il pensiero e non la vita. Derrida pone in luce un certo numero di ‘assiomi’ o ‘credenze’ che Cartesio, Kant, Heidegger, Lacan e Lèvinas condividono nei confronti degli animali: la mancanza di parola o risposta, l’incapacità al simbolo, l’incapacità di un’organizzazione segnica superiore non programmata. Nonostante alcune modalità comuni, tuttavia, le singole teorie dei vari filosofi danno sempre adito a riflessioni significative, come vedremo fra poco... [1] R. Descartes, Lettera al Padre Vatier, 22 febbraio 1638, Oeuvres et Lettres, p. 991.


KANT Nei confronti di Kant, Derrida sviluppa la sua analisi riprendendo il cogito cartesiano nell’io penso del filosofo tedesco. Nell’Antropologia dal punto di vista pragmatico l’uomo è definito come colui che può avere l’io nella sua rappresentazione. “È un potere, non dimentichiamolo. Questo potere, questo poter-avere l’Io porta in alto, dirige, eleva l’uomo infinitamente al di sopra degli altri viventi sulla Terra”. Kant scrive: “… tutte le lingue, quando parlano in prima persona debbono pensare l’io anche se non lo esprimono con una particolare parola”. E se Kant concede agli uomini e alle lingue senza la parola per dire “Io” ciò che nega agli animali, è perché, scrive Derrida, “questo ‘Io’ che prima di essere sulla lingua è nel pensiero non è nient’altro che il pensiero stesso, il potere di pensare, quell’intelletto che manca all’animale. […] Ciò che viene contestato all’animale è il potere di far riferimento a sé in forma deittica, autodeittica, di volgere almeno virtualmente il dito verso di sé per dire: sono io". L’“io penso” si delinea quindi in questa autoreferenza come condizione del pensiero. La decostruzione derridiana dell’impostazione dogmatica di tali riflessioni sottolinea un’ambiguità, come se da una parte “non è assolutamente certo che questa autodeitticità non sia all’opera […] in ogni sistema genetico in generale, dal momento che ogni elemento della scrittura genetica deve identificare se stesso, […] per acquistare significato nella catena genetica”, dall’altra non è affatto detto che tale autodeitticità non sia presente in forme complesse in molti fenomeni sociali osservabili nell’“animot”, come nelle danze seduttorie o nella “guerra sessuale”, e su questo secondo punto


non ci dilunghiamo perché è argomento che verrà approfondito nello spazio dedicato a Lacan.

Ad ogni modo, la problematizzazione non riguarda solo la visione kantiana dell’animale, in quanto è necessario interrogarsi sull’assioma che accorda tranquillamente all’uomo ciò di cui si considera l’animale privo: “Se l’autoposizione, l’autotelia automostrativa dell’io implicasse l’io come un altro e dovesse accogliere in sé qualche etero-affezione irriducibile, […] allora questa autonomia dell’io non sarebbe né pura né rigorosa; non sarebbe in grado di dar luogo a una delimitazione semplice e lineare tra l’uomo e l’animale”. L’animale kantiano privo dell’“io penso”, a causa della sua mancanza di libertà e autonomia, non può diventare soggetto implicato nella dialettica diritti\doveri. L’animale infatti, continua Derrida, “non [può] accedere ad alcun diritto, ad alcun dovere, e resta estraneo al regno dei fini. L’animale, e anche l’animale nell’uomo non può essere ritenuto un fine in sé, ma solamente un mezzo. […] Ciò di cui è privato l’animale non razionale, con la soggettività, è ciò che Kant chiama la ‘dignità’, cioè un valore interno e senza prezzo, il valore di un fine in sé […] Ci può essere un prezzo commerciale e negoziabile per l’animale, come per tutti i mezzi che non possono divenire un fine in sé”.

Fra i pensatori che hanno maggiormente criticato la morale kantiana troviamo Theodor W. Adorno. Nella Filosofia della musica moderna egli avanza non pochi sospetti sulla nozione kantiana di dignità, di cui si fa beneficiario soltanto l’essere umano; sottolineando come l’autodestinazione morale che l’uomo si adduce diventa in Kant lo stesso privilegio assoluto che ne assicura il dominio sulla natura, e in particolare “contro gli animali”.


Già Adorno quindi, oltre a criticare le affermazioni kantiane, le inquadra come una prospettiva di comodo. Questa guerra mossa dall’uomo all’Altro da sé che è l’“animot”, “non è un modo di applicare la tecnoscienza all’animale mentre sarebbe possibile e ammissibile un altro modo”, scrive Derrida, ma piuttosto “questa violenza o questa guerra sono state fino ad ora costitutive del progetto o della possibilità stessa del sapere tecnoscientifico nel processo di umanizzazione o di appropriazione dell’uomo attraverso l’uomo”. Con questo capitolo dedicato a Kant si conclude la prima parte dell'indagine. I prossimi capitoli interesseranno autori più recenti, balzeremo infatti nel novecento, secolo di cui analizzeremo almeno tre voci di rilievo. A breve vedremo come un filosofo attento al rispetto dell'"Altro-uomo" possa restare interdetto se interrogato direttamente sull'"Altro-animale", vedremo come il fatto stesso che gli animali sognino possa minare un'intera teoria discriminatoria, e molto altro ancora.


LEVINAS

Come accennato, riprendiamo facendo un notevole salto in avanti nel tempo per trattare la questione animale in Emmanuel Lévinas (19051995). In questa seconda parte dello studio non seguiremo un preciso ordine cronologico, passeremo da Lévinas a Lacan per poi tornare indietro (come fa Derrida ne “L’animale che dunque sono") fino a Heidegger. Le note riflessioni di Lévinas sul volto umano, il volto dell’altro, del fratello che anzitutto dice “non uccidere”, se sottoposte all’ipotesi di un Altro-animale (anziché umano) danno esiti problematici. Particolarmente evidenti proprio perché l'applicazione avviene sulle basi teoriche di un pensatore così felicemente immerso nella delicata questione del rapporto con l’alterità e del suo rispetto. Derrida scrive che Lévinas, “non si sente riguardato, se si può dire, dall’animot, e non gli riconosce nessuno dei tratti attribuiti al volto umano […] mai che io sappia Lévinas evoca lo sguardo dell’animot come sguardo di un volto nudo e vulnerabile cui ha consacrato tante analisi così belle e toccanti”[1], e in effetti Lévinas sostanzialmente tralascia, non si occupa, nei suoi splendidi studi, della questione animale. Ci si domanda quindi se il primo comandamento levinasiano, il non uccidere, sia evocato o meno dal volto dell’Altro-animale. Ovvero, vale anche per una mucca, un topo, un pesce? John Llewelyn pose questa interessante domanda a Lévinas nel 1986. Lévinas rispose: “Il volto umano è assolutamente differente ed è solo dopo che noi scopriamo il volto animale. Non so se il serpente ha un volto. Non sono in grado di rispondere a questa domanda. È necessaria un’analisi più specifica”[2].


Anche in questo caso la problematica animale funge da questione trasversale in grado di raggiungere le basi costitutive di un intero sistema di pensiero, facendolo traballare. Perché per Lévinas non essere in grado di rispondere alla domanda di Llewelyn significa non conoscere appieno (filosoficamente parlando) il concetto alla base di molte delle sue riflessioni, non conoscere appieno cos’è un volto. Si chiede allora Derrida, questo non sapere “non è forse un rimettere in discussione tutta la legittimità del discorso e dell’etica del ‘volto’ dell’altro, la legittimità e anche il senso di tutta la proposizione dell’altro, sull’altro come mio prossimo, mio fratello, ecc.? [3]” Torniamo alle parole di Lévinas: "“Il volto umano è assolutamente differente ed è solo dopo che noi scopriamo il volto animale". Cosa vuol dire "il volto umano è assolutamente differente"? E soprattutto quale conseguenze se ne potrebbero trarre? Impossibile rispondere senza mettere in bocca a Lévinas idee che non ha mai specificato di avere. Difficile inoltre poter obiettare alle parole successive (appaiono d'una verità evidente): a quale essere umano oggi giorno parlando di volto del fratello non verrebbe subito in mente il volto di un altro essere umano? "Non so se il serpente ha un volto. Non sono in grado di rispondere a questa domanda. È necessaria un’analisi più specifica". Tuttavia Lévinas, interrogato direttamente sulla questione animale, non apporta tesi dell'ultimo minuto e non nega che un discorso sul rispetto della vita dell'altro possa essere imbastito anche nei confronti degli animali. Sospende sostanzialmente il giudizio: "Non sono in grado di rispondere a questa domanda". Ora, la stima di Derrida nei confronti di Lévinas la si può evincere già dalle parole citate nel mezzo del post. Quello che preme sottolineare qui, insieme a Derrida, è come la questione animale sia in grado di mettere in crisi una straordinaria quantità di teorie filosofiche, che di essa non si sono curate,


oppure che l'hanno affrontata e messa sbrigativamente da parte tramite giudizi dogmatici. E proprio di giudizi su basi dogmatiche torneremo a parlare nel prossimo, lungo post dedicato a Lacan, che ci permetterà di toccare le questioni della sessualità, dell’inconscio e del simbolico nell’animale. E di avanzare alcune suggestive obiezioni.

LACDS, p. 159. [2] Ibid. [3] LACDS, p. 161. [1]


LACAN Come accennato, questo post sarà particolarmente lungo. Però vi invito a seguirmi, perché credo sia tra i più interessanti di tutta l'indagine. Entriamo subito in argomento: secondo Derrida, con “Sovversione del soggetto” di Jacques Lacan si passa da una negazione etica a un’altra. Derrida si propone dunque di considerare dapprima “alcuni testi anteriori di Lacan, laddove […] sembra che annuncino contemporaneamente una mutazione teorica e una conferma stagnante dell’eredità, dei suoi presupposti e dei suoi dogmi”[1]. Laddove, cioè, sembra che Lacan voglia aprirsi a una considerazione non dogmatica dell'animale. Ne “Lo stadio dello specchio”, Lacan considera la funzione speculare nella sessualizzazione dell’animale. È una riflessione nuova: la sessualità dell’“animot” era stata ignorata dalla tradizione tanto quanto l’irriducibile diversità fra le specie animali. Nonostante ciò, resta presente una fortissima limitazione: il passaggio attraverso lo specchio blocca l’animale nelle reti dell’“immaginario”, non permettendone l’accesso al simbolico, ovvero a tutto ciò che si pensa costituisca il proprio dell’uomo. La linea di demarcazione, quindi, stavolta non si chiama ego cogito, né "dignità". I termini sulla linea, stavolta, sono "simbolico" e "inconscio". Lacan porta l’esempio della colomba, ove la maturazione della gonade, come provato da “esperimenti biologici”, richiede la vista di un congenere. Questa semplice situazione, la colomba che davanti allo specchio matura la gonade,


diviene di notevole interesse se collegata alla questione dell’identificazione del proprio sé. Capita di rado di incontrare un filosofo moderno occidentale che prima di istituire la differenza tra noi e gli animali si sofferma a valutare effettivamente certi comportamenti di una specie animale. Ma Derrida ha motivo di lamentarsi, poiché tale possibile apertura viene subito frustrata dalla ferrea e consequenziale chiusura collegata all’inconscio, al linguaggio e alla soggettività. Lacan è fermamente convinto che non ci sia desiderio e dunque inconscio, nella vita animale; questo può essere “immaginato”, solo in base all’inconscio umano e a meccanismi di transfert in atto verso l’animale. In sostanza Lacan punta il dito contro le proiezioni umane nell'interpretazione della vita animale. Tutti d'accordo sul fatto che questa consuetudine esista, ma quello che afferma Lacan è: sono solo nostri transfert. Lacan non dice: l'animale ha un'individualità differente, ha un inconscio (questione fondamentale, nel pensatore francese) per noi inconoscibile. Lacan dice: sono solo nostre proiezioni. L'animale non ha inconscio, non ha "il simbolico", non ha il linguaggio, non ha un io. Al fine di distinguere la pulsione inconscia dall’istinto e dal “genetismo” animale, Lacan scrive che l’animale non può avere “in lui” l’inconscio, e che “nel tempo propedeutico, si può illustrare l’effetto di enunciazione domandando all’allievo [un ipotetico allievo] se immagina l’inconscio nell’animale senza qualche effetto di linguaggio, e del linguaggio umano”[2]. Derrida definisce “ridicola”[3] la logica di questo passaggio: “La tesi è chiara: l’animale non possiede né l’inconscio né il linguaggio, né l’altro, se non per effetto dell’ordine umano, per contagio […]”. In sostanza, privando l’animale dell’accesso al simbolico, all’inconscio e al linguaggio, e descrivendone la semiotica in modo dogmatico e tradizionale, Lacan torna ancora una volta a concedere all’animot solo reazioni e non risposte. Lacan riconosce all’Altro-animale un codice che non è propriamente linguaggio in quanto è solo un “sistema di segnalazioni” bloccato nella fissità di una codificazione.


In “Funzione e campo della parola…” attraverso l’esempio delle api, Lacan oppone espressamente la reazione alla risposta come il regno animale al regno umano, in un discorso che Derrida definisce “letteralmente cartesiano”, dove peraltro, lo ricordiamo, è sempre in ballo il nostro essere uomini, definito per contrasto subordinando gli animali.

Analizziamo un passaggio in particolare: “[Riguardo a quanto è possibile osservare nel comportamento delle api] si tratta di un linguaggio? Possiamo dire che se ne distingue precisamente per la correlazione fissa dei suoi segni con la realtà che significano. In un linguaggio infatti i segni traggono il loro valore dal rapporto degli uni con gli altri, nella ripartizione lessicale dei semantemi così come nell’uso posizionale, o flessionale dei morfemi, che contrasta con la fissità della codificazione messa in gioco nel nostro caso. […] Per di più se il messaggio del modo qui descritto determina l’azione del socius, non è però mai ritrasmesso da quest’ultimo”. Lacan conclude: “Ciò vuol dire che esso rimane fissato alla sua funzione di relais dell’azione, da cui nessun soggetto lo distacca in quanto simbolo della comunicazione stessa”[4]. Quindi, nonostante il barlume d’apertura intravisto riguardo alla sessualità, Lacan non pensa nemmeno lontanamente d’attribuire all’altro animale una soggettività. Proviamo, insieme a Derrida, ad analizzare queste riflessioni lacaniane. Il senso di “inquietudine” che Derrida va esperendo si trova “aggravato” nelle tesi lacaniane, quando “bisogna prendere in considerazione una logica dell’inconscio che dovrebbe impedirci ogni assicurazione immediata nella coscienza della libertà che suppone la responsabilità” e soprattutto quando, in Lacan, “la logica dell’inconscio si fonda su una logica della ripetizione che, secondo me, inscrive sempre un destino di iterabilità, dunque un qualche automatismo della reazione in ogni risposta, per quanto originario, libero, decisionale e non-reazionale possa apparire”. Soffermiamoci ancora sulla questione dell’inconscio. Vorrei aggiungere una mia riflessione. Qualcosa che nella sua semplicità può forse dare l'idea della superficialità delle tesi lacaniane.


È ormai appurata in moltissimi animali un’attività cerebrale durante il sonno interpretabile come attività onirica. Ovvero: molti animali sognano. Lo sappiamo tutti e la scienza lo conferma. Prendiamo l’esempio dei cani. Durante l’attività onirica non è raro osservare dei movimenti delle zampe che generalmente fanno pensare che l’“animot” in questione stia sognando, e sognando qualcosa di specifico. Cosa starà sognando quel cane? Secondo me è una domanda davvero affascinante. In questa sede non possiamo analizzare a fondo l’argomento, ma possiamo facilmente chiederci: è più fantasioso e bizzarro, appoggiandoci a questi dati, credere che l’animale che sta sognando abbia un “inconscio”, benché inconoscibile, o credere che sia del tutto sprovvisto d’inconscio e che le manifestazioni oniriche avvengano "così", senza di esso? Se Lacan afferma che gli animali non hanno inconscio, non hanno accesso al "simbolico", perché non ci spiega com'è possibile che gli animali sognino? Come è potuto accadere che un pensatore del suo calibro non abbia considerato una simile evidenza? Lacan dice: noi umani sogniamo. Abbiamo l'inconscio, siamo degli "io". Gli animali sognano. Qual è il risultato? Che gli animali hanno un inconscio e un io? No. Lacan non prende in considerazione un simile ragionamento. Dato l’interesse delle riflessioni sollevate da Lacan, spingiamoci ad analizzare quanto scrive in “Sovversione del soggetto”. In questo testo, continua Derrida, l’affinamento dell’analisi si sposta su altre distinzioni concettuali, altrettanto problematiche. Scrive Lacan: “Osserviamo tra parentesi che questo


Altro distinto come luogo della parola s’impone anche come testimone della Verità. Senza la dimensione che esso costituisce, l’inganno della parola non si distinguerebbe dalla finta che nella lotta combattiva o nella parata sessuale ne è tuttavia ben differente”[5]. Ed ecco quindi che la figura animale viene a delinearsi nella differenza tra finta e inganno. L’animale è capace di una finta “strategica” ma è incapace di testimoniare l’inganno della parola nell’ordine del significante e della verità (questa peculiare notazione, infatti, costituirebbe una transizione verso la Soggettività). Questo inganno è la menzogna in quanto “comporta, promettendo il vero, la possibilità supplementare di dire il vero per ingannare l’altro”. L’animale è incapace di questa finta di secondo grado, di questo “potere riflessivo di secondo grado”, la capacità di fingere di fingere. Qui troviamo una nuova parziale apertura di Lacan nei confronti dell’Altro-animale: gli attribuisce la possibilità della finta, ad esempio nella danza di seduzione o nella coreografia della caccia: una capacità che definisce come la “dansità” dell’animale. Tuttavia, Lacan afferma: “Un animale non finge di fingere […] E nemmeno cancella le proprie tracce, il che per lui sarebbe farsi soggetto del significante”. Ma su cosa si fonda l’affermazione che l’animale non è in grado di fingere la finta? Come si può nel comportamento animale individuare un chiara e netta delimitazione riguardante la finta della finta? Il lettore penserà che c'è qualche porzione di testo, riguardo alla finta di secondo grado, in cui Lacan porta avanti degli esempi chiarificatori. In cui Lacan spiega tutto. Il problema è che la parte in questione non c'è. Inevitabilmente Derrida sottolinea: “Lacan qui non si rifà ad alcun sapere etologico (il cui affinamento crescente e spettacolare è proporzionale all’affinamento dell’animot) né ad alcuna esperienza, osservazione, attestazione personale degna di fede. Lo statuto dell’affermazione che rifiuta all’animale la finta di finta è di forma semplicemente dogmatica”. Negli stessi esempi lacaniani della danza seduttiva o della lotta è impossibile fornire dei criteri per distinguere una finta da una finta di finta. Lo stesso discorso vale per l’affermazione che l’animale, in generale, non cancella le sue tracce; e d’altronde, specialmente da un punto di vista psicanalitico,


neanche l’uomo è pienamente in grado di cancellare le sue tracce, in quanto la cancellazione della traccia lascia comunque una traccia il cui sintomo potrà sempre riaffiorare. Per l’analisi decostruttiva completa di Derrida rimando al testo; quello che ci premeva evidenziare, in Lacan come nei pensatori precedenti, è la costanza con la quale la "ragione" filosofica ha disconosciuto il suo stesso dogmatismo. Siamo quasi alla fine della nostra sintesi critica. Nel prossimo post, Heidegger ci aspetta. [1] LACDS, p. 174. [2] J. Lacan, “Posizione dell’inconscio”, in Scritti, Einaudi, Torino, 1974, vol. II, p.837. [3] LACDS, p. 175. [4] J. Lacan, “Funzione e campo della parola…”, in Scritti, op. cit., p. 291. [5] J. Lacan, “Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio nell’inconscio feudiano”, in Scritti, op. cit., p. 809.


HEIDEGGER Siamo arrivati alla fine del nostro studio. L'ultimo capitolo è dedicato alla questione animale in Heidegger, filosofo fra i più grandi di sempre, la cui influenza sul pensiero contemporaneo è incalcolabile. Pensatore noto anche per la non facile fruibilità delle sue opere. Alcuni concetti heideggeriani saranno semplificati (cioè ridotti) in questo post, e credo non si possa fare altrimenti. Passiamo allora a considerare quanto scrive Heidegger in merito all’animale in Essere e Tempo e nel successivo seminario Concetti fondamentali della metafisica1. Scrive Derrida in Quale Domani?2: “Tutti i tentativi di decostruzione che ho cercato di compiere su testi filosofici, su quelli di Heidegger in particolare, consistono nella messa in discussione di quell’atteggiamento di consapevole negligenza nei confronti di ciò che si chiama genericamente l’Animale e del modo in cui questi testi interpretano il confine tra Uomo e Animale”. Come vedremo, Heidegger ha tentato di fornire dei criteri discriminatori per esplicare la differenza ontologica fra uomo e animale; ma al contempo, a un livello più profondo, la questione dell’Animale (come esplicitamente asserito in Essere e tempo) resta un problema aperto per il filosofo tedesco. Nel seminario sui Concetti Heidegger scrive che l’animale ha rapporto con l’ente, ma non con l’ente “in quanto tale”. Questo “in quanto tale” non dipende dal linguaggio: l’animale infatti non ha il logos in quanto non ha l’“in quanto tale” che fonda il logos. La nostra indagine, quindi, seguendo Heidegger, si sposta su un piano radicalmente ontologico. Questo passaggio del seminario heideggeriano è interessante: “Il comportamento dell’animale non è mai l’apprendere qualcosa in quanto qualcosa. Se definiamo questa possibilità, considerare qualcosa in quanto qualcosa come un elemento caratteristico del fenomeno del mondo, la struttura dell’“in quanto” è una determinazione essenziale della struttura del


mondo. In tal modo l’“in quanto” viene dato come una possibile impostazione del problema del mondo”3. Questa possibilità strutturale dell’apprendere è riservata all’uomo, è “una forma normale del discorso umano”. Come ricorda Derrida, “Heidegger tenta di andare oltre l’alternativa meccanicismo/finalismo”, affermando di volersi sottrarre alle opposizioni dottrinali che hanno caratterizzato i discorsi sull’animale nella storia della filosofia occidentale. In Essere e tempo la questione è pressoché assente; la incontriamo solo nel capitolo dell’Essere-per-la-morte, dove l’animale che “non muore” [che non muore come l'uomo, con la consapevolezza dell'uomo] è escluso dal discorso e differenziato dal Dasein [l'"uomo heideggeriano"] in quanto Essere-per-la-morte; e poi in una breve ma interessante nota, dove Heidegger sottolinea come, ad ogni modo, la questione di sapere se l’animale ha un tempo oppure no, resta un problema in sospeso; una nota che getta una chiara luce sulle difficoltà incontrate nell’affrontare la questione. Soffermiamoci ora su una delle tre tesi del seminario sui Concetti fondamentali: la pietra è senza mondo, l’animale è povero di mondo, l’uomo è formatore di mondo. Che vuol dire che l'animale è povero di mondo? Il seminario all’inizio tratta la determinazione della filosofia a partire da se stessa, e ciò che interessa particolarmente Heidegger in tutto questo è la “tonalità fondamentale”, la Grundstimmung, ovvero la nostalgia4. “Non è senza importanza”, scrive Derrida, “che la questione dell’animale si vada affermando in una riflessione sulla tonalità fondamentale. […] Una volta ancora si tratta di rispondere alla domanda: ‘Che cos’è l’uomo?’”, e per farlo bisognerà rispondere alla domanda: “Che cos’è il mondo?”. Derrida prosegue: “[C]iò che mi interessa mostrare, in modo naturalmente provocatorio, è che il discorso heideggeriano è ancora cartesiano5”, nonostante Descartes sia il primo a essere preso di mira e bastonato tanto in Essere e Tempo quanto nel seminario del ’29-’30. Riportiamo alcune righe da una delle citazioni proposte da Derrida: “Descartes ebbe fondamentalmente l’intuizione di fare della filosofia una conoscenza assoluta. E proprio in lui possiamo osservare un fatto singolare. Il filosofare inizia con il dubbio, e sembra che tutto venga posto in questione. Ma è solo apparenza. L’esistenza, l’io non viene affatto posto in questione6”.


L’ego sum cartesiano resta dogmatico. Nonostante questo, secondo Derrida, quando Heidegger avanza in direzione di un nuovo interrogarsi sull’animale il suo gesto resta malgrado tutto, “profondamente cartesiano”. Il suo gesto resterà tale in quanto riproporrà un demarcazione centrata sul concetto di “in quanto tale”. Ma procediamo con ordine: “Non si tratterà per Heidegger di legare l’“in quanto tale” semplicemente a una struttura della coscienza o della rappresentazione. Si tratterà di una profondità più radicale”, legata, in termini heideggeriani, a “un far svegliare ciò che dorme”. E “svegliare” è un “lasciar destare ciò che dorme”. Mi rendo conto delle difficoltà intrinseche alla lettura di questi piccoli estratti, ma lo studio delle considerazioni heideggeriane è estremamente interessante in quanto ci permette di assistere a un tentativo di “definire l’essenza dell’uomo in altro modo che non attraverso la coscienza, in altro modo che non attraverso la ragione […] e non più attraverso l’Io…”7. Proseguiamo con il testo dei Concetti: “… se destiamo uno stato d’animo, ciò implica che esso c’era già, e tuttavia non c’era […] se lo stato d’animo è qualcosa che fa parte dell’uomo, che, come si dice, è in lui, che l’uomo ha [...] non ci avvicineremo ad esso fintantoché continueremo a considerare l’uomo come un qualcosa che si differenzia dalle cose materiali per il fatto di avere una coscienza, di essere un animale dotato di ragione, un animal rationale o un io con delle pure esperienze vissute, ma legato a un corpo. […] Questa concezione dell’uomo come essere vivente che in più ha la ragione ha condotto a un totale misconoscimento dell’essenza della tonalità”8. Per Heidegger superare la concezione cartesiana dell’uomo è fondamentale al punto che “il destare una tonalità” e il farsi veramente strada verso questo “essere singolare” - l'uomo -, vengono a coincidere con l’esigenza di un mutamento radicale nella concezione dell’uomo stesso. Ecco, in termini heideggeriani, la problematica di fondo su cui tutti i pensatori esaminati finora hanno operato la loro scelta: “Tale problema è intrinsecamente connesso con la questione della struttura ontologica di queste diverse specie di enti: pietra, pianta, animale, uomo”. Le tesi sulla pietra, l’animale e l’uomo sono tesi sul mondo e per poterne parlare bisognerebbe sapere che cos’è il mondo. Derrida scrive che Heidegger “dice, in qualche modo: alla fine non si sa che cos’è il mondo! È un concetto molto oscuro!”9.


Bene, ora voi starete pensando: ma allora, quando si arriva al sodo? Eppure, a ben vedere, siamo assai vicini al cuore stesso del nostro problema, siamo anzi arrivati a concepire la cosa come “puro” problema. Fermiamoci un attimo. Finora abbiamo accumulato domande e non risposte. Perché siamo vicini al cuore del problema? Perché siamo sia già arrivati a qualcosa di importante? Finora, le conseguenze delle riflessioni filosofiche che abbiamo analizzato sono state (salvo parziali eccezioni): noi possiamo usare violenza a chi è diverso perché noi siamo altro, noi siamo superiori. Se arriviamo invece a realizzare che noi non sappiamo in effetti cosa è il mondo, non sappiamo dare risposte alle "grandi domande" e in un certo senso siamo immersi nel "mistero", le cose cambiano. Uccidere è facile. Uccidere o usare violenza a un essere diverso da noi dopo che si è compreso che noi non abbiamo certezze non è facile. Un'etica più accettabile, più evoluta, può partire da problemi, da dubbi e domande, anziché risposte. Esaminiamo il passo che precede le tre tesi: Heidegger si chiede, se “l’uomo ha il mondo” , si chiede come stanno le cose riguardo agli “animali, le piante, le cose materiali”. Anche l’animale “ha il mondo”? Il discorso viene impostato sul modo in cui è possibile concepire queste alterità. Heidegger presenta le tesi e sceglie di “entrare” attraverso la seconda, l’animale povero di mondo. Si caratterizza allora la differenza tra l’essenza dell’animalità dell’animale e dell’umanità dell’uomo. Il discorso ruota attorno alla possibilità di morire. L'importanza della morte risiede nel fatto che la nostra vita si definisce sul nostro dover morire. Se noi non morissimo, ma vivessimo all'infinito, ovviamente le scelte compiute non avrebbero lo stesso peso: hanno una rilevanza particolare poiché gli anni che ci sono dati da vivere sono limitati e noi ne siamo consci. Qui, a differenza di quanto fatto in precedenza, Heidegger unisce uomo e animale attraverso la possibilità di morire che definisce la vitalità del vivente10, e da qui passa a definire il Dasein come un esistente che non è


essenzialmente un vivente. Tuttavia nel seminario che stiamo esaminando questa problematizzazione sfocia in un insistente sentimento di vertigine. Heidegger afferma poco dopo che la povertà dell’animale non si delinea in una gerarchia, che non c’è un vero e proprio “meno”, perché non c’è un ordine di valori: la povertà dell’animale viene discussa come una “privazione”, che non è un sentimento semplicemente-negativo, poiché affermare ch’esso è povero di mondo significa mostrare che ha il mondo, poiché la sua privazione implica “un modo di sentirsi essere” povero, una tonalità. L’animale resta imprigionato nella privazione, ma (e questo non deve essere sottovalutato), questa povertà non significa un meno: evidenziando il fatto che l’animale possa soffrire, lo si distingue dalla pietra. Ciò nonostante, alla lucertola stesa su una pietra, comunque le cose attorno non appaiono “in quanto tali”. Quindi: l'animale è povero di mondo perché ha il mondo eppure non lo ha come lo ha l'uomo, poiché all'uomo le cose appaiono in quanto tali. All'animale no. Come dice ancora Heidegger più avanti nel testo, all’animale manca la capacità di lasciar-essere l’ente in quanto tale, ovvero, esso non lascia che l’oggetto sia quel che è, che “appaia tale senza un progetto guidato da un ‘tubo’ stretto di pulsioni, di desiderio”12. L'animale non ha l'"in quanto tale" perché non lascia che l'oggetto sia quel che è ma ci si rapporta sempre tramite un tubo di pulsioni. Ma (e vediamo ancora in azione il solito movimento decostruttivo derridiano), si può forse sciogliere il rapporto del Dasein (dell'uomo in quanto essere gettato nel mondo) dal suo stato di progetto vivente? Davvero l’uomo lascia essere l’ente? In fin dei conti, nonostante l'interesse suscitato dal tentativo heideggeriano di riproporre il discorso partendo da una profondità più radicale (che si pone oltre le distinzioni generate, per esempio, dal linguaggio), anche qui ritroviamo delle considerazioni fondate su una struttura oppositiva, benché accompagnate da una percezione più profonda delle difficoltà delle scelte operate: ricordiamo il “problema aperto” della temporalità animale in Essere e Tempo, il senso di vertigine nel seminario sui Concetti, le evidenti debolezze intrinseche alla distinzione infine proposta e criticata da Derrida, nonché il tentativo di organizzare l’opposizione su una scala non gerarchica.


Derrida nelle ultime righe de L'animale che dunque sono parla di una strategia etica che consisterebbe “nel moltiplicare l’‘in quanto tale’ e, invece di rendere semplicemente la parola all’animale, o dare all’animale ciò di cui in qualche modo l’uomo lo priva, nel segnalare che anche l’uomo ne è in qualche modo ‘privato’, una privazione che non è una privazione, e che non c’è un ‘in quanto tale’ puro e semplice”13. Data l’importanza della questione, come abbiamo visto nel corso della nostra carrellata, tutto ciò porta a una radicale reinterpretazione del vivente: ne va della “differenza ontologica”, scrive Derrida, “della ‘questione dell’essere’, di tutta l’impalcatura del discorso heideggeriano”. Il filosofo francese si rende conto che problematizzando l’inamovibilità della linea di confine tra l'Uomo e l'Animale, si rischia di precipitare in una generale messa in questione di qualsiasi responsabilità ed “elaborazione etica”. Si preoccupa allora di richiamare alcuni capisaldi teorici indispensabili per qualunque considerazione etica che voglia porsi in un’ottica non oppositiva o suprematistica nei confronti dell'Altro, e in particolar modo dell'Altro-Animale. Riassumendoli: 1) Dubitare della responsabilità, della decisione, “del proprio esser-etico”, può e deve restare “l’essenza irrecedibile dell'etica, della decisione e della responsabilità”. 2) “Senza cancellare la differenza, una differenza non di opposizione e infinitamente differenziata […] tra reazione e risposta”, si tratta di riconsiderarla “in tutto l'ambito differenziato dell'esperienza e di un mondo della vita”. 3) “Infine, si tratterebbe di elaborare un’altra ‘logica’ della decisione, della risposta, dell'evento [...] di riscrivere questa differenza dalla reazione alla risposta, e dunque la storicità della responsabilità etica, giuridica o politica, in un altro pensiero della vita, dei viventi”. Da questo coacervo di questioni vengono fuori alcuni punti che possono essere di interesse come base per una nuova riflessione sul rapporto uomo-animale. I) L'uomo muore e definisce la sua vita sulla base del suo dover morire. Anche per l'animale è così? Oppure no? A partire da questo potremmo tracciare una


linea di uguaglianza che anziché partire dal nostro vivere parte dal nostro comune dover morire. II) Se la linea di demarcazione portata avanti dai vari filosofi si basa solo su dogmatismi allora su cosa si basa il nostro essere più in alto rispetto agli "Altri"? III) Se, seguendo Heidegger, non sappiamo cos'è il mondo, se siamo immersi nella nostra possibilità e problematicità fino al collo, da dove viene tutta la nostra tranquillità nel compiere atti di violenze verso gli "Altri"? Domande. Perché se forse prima non sembrava difficile stringere il corno di un bovino fra grandi tenaglie e ruotare e strappare facendo volare il sangue, forse dopo essersi posti alcune domande sarà più difficile. Perché certe volte, come dicevamo prima, le domande contano più delle risposte. Ma non voglio chiudere questo studio con delle domande, nonostante tutto. Vorrei chiuderlo con un bel furto. Niente ci impedisce di appropriarci di alcune geniali espressioni heideggeriane per farci quel che ci pare. E allora pensiamo un attimo a questa espressione, fondamentale nel definire l'uomo: l'uomo è un essere gettato nel mondo. L'espressione è davvero potente. Chi non si è mai sentito, qualunque sia il suo carattere e la sua situazione di vita, "gettato" in questo mondo? Con tutto quello che consegue, un certo senso di insicurezza, una certa "tonalità"... E se gli animali fossero gettati nel mondo come noi? Sembra una cosa da poco ma non lo è. Non vuol dire solo condividere lo stesso pianeta, e nemmeno sottostare alle stesse leggi fisiche. Comprendere che gli "Altri" sono esseri gettati nel mondo come noi vuol dire comprendere che non solo condividiamo lo stesso luogo, ma anche la vita, il fatto di "ritrovarci a vivere" in questo mondo. Vuol dire porsi in uno stato d'animo che ci apre alla solidarietà. Che si tratti di uomini diversi da noi, o di animali, è la stessa cosa. Se pensiamo agli "Altri" come a esseri gettati come lo siamo noi, non siamo a metà strada verso una migliore sensibilità etica. Siamo più avanti.


______________________________________________________________ __________________ 1 M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, Il melangolo, Genova, 1999 (D’ora in poi, CFM). 2 J. Derrida, E. Roudinesco, Quale domani?, Bollati Boringhieri, 2004, p. 93. 3 CFM, p. 397. 4 Il termine è ripreso da Novalis: “La filosofia è propriamente nostalgia, un impulso ad essere a casa propria ovunque”. Citato in LACDS, p. 204. 5 LACDS, p. 205. 6 CFM, p. 30. 7 LACDS, p. 207. 8 CFM, p. 84. 9 LACDS, p. 211. 10 Questa concezione trova una disperata incarnazione nel pioniere boero Jacobus Coetzee, protagonista della seconda sezione di Terre al Crepuscolo. Cfr. anche L. Fiorella, Figure del Male nella narrativa di J.M. Coetzee, pp. 131-163. 11 LACDS, p. 217. 12 CFM, p. 247. 13 LACDS, p. 222.

NOTA: i testi qui riportati sono originariamente apparsi sul blog Animalismoevegetarianesimo.com, ormai defunto. Parte del materiale un tempo presente sul blog verrà ripubblicato, col tempo, sul portale letterario http://librinews.it.


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.