I vermi conquistatori - Brian Keene

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collana Eclissi

Brian Keene

I vermi conquistatori


Edizioni XII I vermi conquistatori - versione demo Collana Eclissi, n. 12 collana diretta da Luigi Acerbi 978-88-95733-30-2 Copyright © 2011 Edizioni XII (Edizione e testo italiano) Copyright © 2005 Brian Keene pubblicato in precedenza con il titolo Earthworm Gods isbn

Titolo originale: The Conqueror Worms Leisure Books May 2006, Dorchester Publishing Co., Inc. 200 Madison Avenue New York, NY 10016, USA Tutti i diritti sono riservati per tutti i Paesi Traduzione di Luigi Musolino Revisione della traduzione di Daniele Bonfanti Copertina e progettazione grafica di collana di Jessica Angiulli e Lucio Mondini - Diramazioni Revisioni finali di Simone Corà, Valentina Erba e Strumm Impaginazione a cura di Matteo Poropat (ebookandbook.it) Prima Edizione Sito Web Brian Keene: www.briankeene.it Sito Web Edizioni XII: www.xii-online.com


Per i miei genitori, Ward e Anna Ruth Crowley, perchÊ parte di questa storia è anche loro.


Ringraziamenti Grazie a Cassandra e Sam per aver mitigato le tempeste e per aver portato il sole in una giornata nuvolosa; a Shane Ryan Staley e Don D’Auria per avermi offerto riparo dalla pioggia; ai Cabal per gli aggiornatissimi bollettini meteo; a Tim Lebbon per i bourbon sotto le stelle nel cortile dietro casa, in una notte limpida e senza nuvole; a Tracy, mamma e papà per La ballata del vecchio marinaio durante l’ora di cena; a Mark Lancaster, Matt Warner, John Urbancik e Tod Clark per aver procurato gli abiti da pioggia; e a te, caro lettore, per aver aspettato alla fine dell’arcobaleno.

Nota dell’autore Sebbene Renick, Lewisburg, Baltimora, White Sulphur Springs e molti altri luoghi citati in questo romanzo siano reali, mi sono preso alcune libertà letterarie. Quindi, se vivete laggiù, non cercate la vostra casa. Le previsioni promettono pioggia.


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Parte Prima Il verme mattutino cattura l’uccellino

C’erano giganti sulla terra in quei giorni… Genesi Capitolo 6, Versetto 4


Capitolo uno

Stava piovendo la mattina in cui i lombrichi invasero il mio garage. La pioggia era qualcosa che mi aspettavo. I vermi furono una sorpresa, e ciò che venne dopo di loro fu un inferno, puro e semplice. Ma la pioggia – quella era normale. L’ennesimo giorno piovoso. Il Quarantunesimo, per essere precisi. Mi chiamo Teddy Garnett, e credo di dovervi dire subito, prima di continuare, che non sono uno scrittore. Sono istruito, certo, molto più della maggior parte dei vecchi ragazzacci che abitano questa regione del West Virginia. Non sono mai andato oltre le scuole elementari, perché mio padre aveva bisogno di me e dei miei fratelli alla fattoria. Ma ciò che non ho imparato a scuola l’ho appreso durante i miei trentacinque anni da operatore radio nell’Aeronautica Militare. È piuttosto facile quando vieni mandato di stanza ovunque, dal Guam alla Germania. Vedere il mondo ti dà conoscenza – quel tipo di conoscenza che non puoi proprio ottenere in un’aula scolastica. Durante la seconda guerra mondiale, e negli anni successivi, ho visto buona parte del globo. E mi è sempre piaciuta la lettura, così, tra i miei viaggi e i miei libri, ho imparato tutto quello che avevo bisogno di sapere. Sono in grado di leggere, scrivere e far di conto, di discutere in tedesco, francese e persino un po’ in italiano, delle varie sfaccettature di Al di là del bene e del male di Nietzsche e della poesia di Stephen Crane. Non che ci sia qualcuno da queste parti con cui parlare di Nietzsche o Crane – anche prima che cominciasse a piovere. Se nominavi Nietzsche a Punkin’ Center la gente pensava che avevi starnutito e ti offriva un fazzoletto. La poesia? 8


Figuriamoci. La poesia era soltanto qualcosa di cui avevano sentito parlare, ma che non avevano mai sperimentato di persona. Un po’ come visitare l’Egitto o l’Iraq o un altro paese lontano. Non che la maggior parte della popolazione locale avrebbe saputo individuare uno di questi luoghi su una carta geografica. E per quanto riguarda i fatti di cronaca, se non avvenivano nella contea o al limite in cittadine come Beckley o White Sulphur Springs, allora non avevano importanza. Da queste parti la maggior parte delle persone non sapeva dell’esistenza del Vietnam o dell’Iraq prima che i loro figli e figlie fossero mandati laggiù a morire. E persino allora non sarebbero riusciti a individuarli su una carta geografica. Non voglio compiacermi, ma ero più intelligente della maggior parte della gente nei dintorni, probabilmente perché avevo visto il mondo oltre le montagne e le vallate di questo grande Stato. Eppure non mi sono mai montato la testa, nemmeno dopo il mio ottantesimo compleanno, momento in cui una persona potrebbe comportarsi da vecchio saggio. Non mi sono mai vantato, non ho mai sminuito qualcuno meno sveglio di me. Alcune sere, dopo la morte di mia moglie e prima dell’inizio della pioggia, andavo giù fino al Ponderosa, nella confinante Renick, o all’associazione americana degli ex-combattenti a Frankford, e battevo a scacchi Ernie, il figlio di Otis Whitt (Ernie Whitt era l’unica altra persona a Punkin’ Center o a Renick capace di giocare). Oppure spiegavo i fatti di attualità ai vicini, o scrivevo lettere al giornale e tentavo di mettere le cose nella giusta prospettiva per la gente di qui. Ma scrivere libri e racconti? Nossignore. Quello ho sempre preferito lasciarlo a Mark Twain, Zane Grey, Jack London e Louis L’Amour – i quattro più grandi scrittori di tutti i tempi. Non sono uno scrittore, ma posso dirvi che dev’essere davvero difficile. Io lo sto facendo a mano, qui al buio – ammassando parole in questo piccolo taccuino a spirale, e la mia artrite si fa di nuovo sentire, spietata. Sono rimasto quaggiù sdraiato 9


su un fianco, stringendo questa penna per l’ultimo paio d’ore, e adesso le mie dita sono coperte di vesciche e la mia mano si è accartocciata come una qualche specie di artiglio deforme. Non so se la colpa sia dello scrivere in sé o dell’umidità dell’aria, ma fa male. Fa veramente male. Dunque perché perdere tempo a scrivere di quanto è doloroso scrivere? Semplice, perché va fatto. È importante che sappiate quello che è successo. Potrebbe salvarvi la vita, se mai doveste trovare questo taccuino. Sono proprio contento di non sentire più nulla dalla vita in giù, perlomeno non devo fare più i conti con quel dolore. Ho guardato lì sotto, le mie gambe, una sola volta. Da allora non l’ho più fatto. Ho paura. Sento qualcosa di affilato dentro di me, che sfrega e gratta contro una parte molle. Non provo dolore, solo una sensazione strana, rivoltante. Non so cosa sia, ma di sicuro non mi illudo sia niente di buono. Sulla mia pancia c’è una grossa chiazza viola e rossa, e si sta allargando. Continuo a tossire sangue. Lo sento in fondo alla gola e in bocca avverto un gusto orribile. Dev’essere almeno la millesima volta, da quando ha cominciato a piovere, che mi ritrovo a desiderare che la linea elettrica non fosse caduta. Così potrei scendere nel seminterrato e scrivere come si deve, sulla vecchia macchina da scrivere elettrica che mi hanno regalato mio nipote e sua moglie dopo essersi comprati un computer. Stava là sotto, su una piccola scrivania di truciolato acquistata al Wal-Mart di Lewisburg. Ma l’elettricità è andata, e non tornerà più. È saltata lo stesso giorno in cui il paffuto metereologo del Today Show si è sparato in diretta tv nazionale, nel bel mezzo delle previsioni del tempo. Un minuto prima scherzava con la graziosa conduttrice, quella dal sorriso delizioso e gli occhi vacui che cerca sempre di convincere la gente a farsi controllare la prostata, e un istante dopo 10


il suo cervello era spiaccicato su quella grande cartina degli Stati Uniti alle sue spalle. Sembrano passati anni, ma non è stato poi tanto tempo fa. A quanto pare aveva ricevuto minacce di morte. Minacce di morte. Tutto a causa del maledetto tempo… Se l’è cavata facilmente. Quella povera gente al Canale Meteo non ha avuto alcuna possibilità. Un tizio si è lanciato con un camion carico di esplosivo contro l’edificio, facendolo saltare in aria. Non hanno mai catturato chi si nascondeva dietro l’attentato, ma credo che ormai non importi granché. Forse non c’era proprio nessuno dietro l’operazione. Forse l’attentatore suicida era soltanto stufo dei bollettini meteorologici. Oggi – probabilità di pioggia al cento per cento. Stanotte, la pioggia continua. Domani? Stessa solfa. Anche se la corrente elettrica fosse ancora attiva, non potrei scendere nel seminterrato. Non ora. Non dopo quello che è successo. La scrivania, la macchina da scrivere e tutto ciò che si trovava nello scantinato è andato. Laggiù ci sono solo cadaveri, che galleggiano nell’oscurità, insieme ai resti di quella – cosa. Ogni tanto sento la sua carcassa che sbatte contro ciò che resta delle scale. Sono anche sicuro che il livello dell’acqua sta salendo. Tra non molto, comincerà a filtrare sotto la porta e allora non so proprio cosa farò. Non posso uscire. Chi voglio prendere in giro? Non riesco neanche a muovere le gambe, quindi perché preoccuparsi di uscire? C’è un vecchio generatore nella veranda sul retro, ma non credo funzioni. Non l’ho più usato dalla bufera di neve del 2001. E anche se funzionasse, dovrei scendere nello scantinato per collegarlo al gruppo elettrogeno e poi uscire all’esterno per avviarlo. E come vi ho appena detto, non posso fare nessuna di queste cose. Quindi me ne sto qui disteso in una pozzanghera, desiderando la corrente elettrica, ma quello che voglio davvero è una masticata. La mia ultima scatola di Skoal è rimasta vuota il Trentesimo Giorno. Ho dovuto leccare i rimasugli di tabacco dal 11


coperchio per assumerne un po’. Da allora sto soffrendo per l’astinenza da nicotina. Una masticata rimetterebbe a posto le cose. A questo punto non importerebbe la marca: Skoal, Kodiak, Copenhagen, Hawkwen – persino una sigaretta, un sigaro (sebbene non mi sia mai piaciuto fumare) o delle foglie come il Mail Pouch andrebbero bene. Adesso un pizzico di nicotina sarebbe persino meglio della torta ai mirtilli di mia moglie. E la sua torta di mirtilli era buonissima. Davvero buonissima. Forse vi starete chiedendo come possa un vecchio come me, un vecchio ferito, trovare la forza e l’energia per scrivere tutto questo. Be’, lasciate che vi dica una cosa – lo sto facendo per distrarmi dalla voglia di nicotina. Nei miei ottanta e rotti anni di vita ho dovuto affrontare un mucchio di cose. Sono sopravvissuto al morso di un serpente a sonagli quando avevo sette anni, al vaiolo a nove, a una caduta di dieci metri da una grossa quercia a dodici. Ho attraversato la Grande Depressione con la pancia mezza piena. Ho combattuto nella seconda guerra mondiale. Ho mentito sulla mia età e sono partito per il centro addestramento reclute a quattordici anni. Pochi mesi più tardi sono arrivato fino in Europa, subito dopo lo sbarco in Normandia. Dopodiché sono stato mandato pure nel Pacifico. Non so dirvi il numero di bombardamenti a cui ho partecipato. In guerra ho ucciso i figli di altre persone senza pensarci due volte. Poi sono tornato a casa e il Vietnam ha reclamato mio figlio in cambio. L’ho sempre interpretato come il modo di Dio per appianare le cose. Ho visto i politici del periodo del boom demografico e gli ex-hippie divenuti magnati di Wall Street distruggere tutto ciò che la mia generazione aveva duramente costruito. Abbiamo consegnato loro un buon Paese e l’hanno distrutto con la loro avidità, il loro lobbismo, i loro cappuccino-bar con connessione Internet e la loro musica rap. Ho visto i miei migliori amici invecchiare e morire. Quasi tutti erano già morti, 12


ormai, tranne Carl. Uno dopo l’altro si sono arresi all’Alzheimer, al cancro, alla solitudine o, semplicemente, alla vecchiaia. È proprio come per una Ford o una Chevy: alla fine le nostre parti si logorano, non importa quanto bene siamo costruiti. Alcuni anni fa ho seguito in televisione la cerimonia d’inaugurazione del monumento alla seconda guerra mondiale di Washington, e sono rimasto scioccato vedendo come siamo rimasti in pochi. Mi sono sentito come se un mulo mi avesse tirato un calcio nello stomaco. Oltre a tutto questo, sono sopravvissuto a mia moglie, Rose. Lasciate che vi dica una cosa: è una situazione che nessun marito dovrebbe mai affrontare. Può suonare egoista, ma avrei voluto andarmene prima di lei. La morte di Rose è stata decisamente più di quanto potessi sopportare. Tuttavia, nonostante queste prove e tribolazioni, la cosa peggiore che ho dovuto sopportare nella mia vita è stata starmene qui seduto ad ascoltare l’incessante ticchettio di grandi, grasse gocce di pioggia che martellano le finestre e il tetto, sentendole senza posa, tutto il giorno e tutta la notte, senza nemmeno il conforto di una presa di tabacco tra la mia dentiera e le gengive. Perdonatemi. Sono un vecchio, e guardate cos’ho combinato. Non faccio altro che divagare. Ho cominciato scrivendo del Quarantunesimo Giorno e poi sono partito per la tangente, sproloquiando della storia della mia vita e del maledetto tempo. Mi sa che sono arrivato alla fine della storia della mia vita, certo. E credo che da qualche parte in fondo al cuore, l’ho saputo sin dal mio viaggio a Renick. Renick. È stato il Trentesimo Giorno. Forse dovrei partire da lì in effetti. O Signore, quanto vorrei della nicotina! Dev’essere così che si sentono gli eroinomani. Non ero mai riuscito a capire come quei ragazzi potessero diventare schiavi di quella roba, ma ero anch’io schiavo di una droga, sicuro. Solo che la mia era legale. Mi manca. Non ho realizzato quanto ne dipendessi finché non sono rimasto senza. 13


È stato lo stesso insistente desiderio che mi ha svegliato il Trentesimo Giorno. Il mio corpo mi stava supplicando, promettendomi che, se gli avessi rimediato una presa di tabacco, mal di testa, insonnia, mal di denti (perché anche quando porti la dentiera puoi ancora avere dei mal di denti fantasma), mal di gola, dolori al petto, diarrea, sudori notturni e incubi sarebbero scomparsi. Sapevo che era una bugia. Quel genere di cose non arriva soltanto per astinenza da nicotina. Arriva, allo stesso modo, con la vecchiaia. Comunque non credo che una dose di nicotina avrebbe potuto fare granché riguardo agli incubi. Sognavo Rose almeno una volta la settimana, dopo la sua morte. Stessa cosa quando il mio ragazzo, Doug, morì in Vietnam, anche se con gli anni è passata. Terribile a dirsi, ma adesso ci sono volte in cui devo guardare la sua foto per ricordarmi veramente che faccia aveva. E non riesco nemmeno a rammentare il suono della sua voce. Credo sia tutta colpa dell’età. In ogni caso, non aveva importanza. Anche se la nicotina avesse potuto scacciare i sogni, il posto più vicino per comprare una lattina di tabacco era la stazione di rifornimento del Ponderosa giù a Renick. Renick è la prima cittadina dopo Punkin’ Center. Erano tre quarti d’ora di viaggio giù per il versante della montagna su una strada bagnata e scivolosa. Avevo evitato di compiere quel tragitto sin da quando aveva cominciato a piovere. Ma il Trentesimo Giorno, in preda a certi terribili sintomi dell’astinenza da nicotina, uscii nell’acquazzone. Mi ci volle un intero minuto per raggiungere il mio pick-up Ford (non ho più guidato la Taurus dalla morte di Rose), e quando riuscii a entrarci ero già bagnato fradicio. Asciugai gli occhiali con un panno trovato nel cassetto del cruscotto. Poi armeggiai con le chiavi, incrociai le dita, recitai una preghiera e avviai il motore. Il camioncino prese vita, sputacchiando e tossendo, per nulla felice della situazione, ma comunque funzionante. Controllai l’indicatore della benzina e vidi che c’erano ancora tre quarti di serbatoio. Sarebbero bastati per andare in paese e tornare. 14


Ormai la maggior parte dei ciottoli del nostro vialetto di ghiaia era stata trascinata via dall’acqua, lasciando unicamente fango e solchi nel terreno. Persino dopo aver impostato il cambio sulla trazione integrale, gli pneumatici affondavano e slittavano. Non pensavo di farcela a raggiungere la strada principale, ma alla fine ci riuscii. Sospirando di sollievo, cominciai a discendere la strada di montagna che portava a Renick. Smanettai con la radio, sperando di sentire un’altra voce o anche della musica, ma c’erano solo scariche statiche. Mi ero chiesto per diverse settimane come stessero andando le cose, sin da quando l’elettricità e le linee telefoniche erano saltate. Era passato un bel po’ di tempo dall’ultima volta che avevo udito la voce di qualcuno, e mi sentivo solo. Avevo cominciato a vagare per la casa, parlando tra me per alleviare il senso di vuoto, e non ne potevo più del suono della mia stessa voce. Sarebbe stato il benvenuto persino uno di quegli svitati da talk-show che negli ultimi anni sembravano essersi impadroniti delle radio. Invece gli unici suoni che mi tenevano compagnia, oltre alle scariche statiche, erano quelli della pioggia e dei tergicristalli, entrambi battevano un ritmo costante mentre guidavo. Sapevo che se Rose fosse stata ancora viva, avrebbe detto che mi stavo comportando da testone. Un vecchio ostinato che faceva qualcosa di stupido – tutto perché era dipendente dal tabacco. Ma è proprio questo il punto. Quando invecchi, quando diventi come si dice “anziano”, perdi il controllo di ogni cosa. Tutto ciò che ti circonda non è più tuo. Il tuo mondo, il tuo corpo e qualche volta persino la tua mente. Questo ti rende ostinato riguardo alle cose che puoi ancora controllare. Sembrerà una frase fatta, ma affrontai buona parte del tragitto con il cuore in gola. Negli anni precedenti la pioggia, quando l’inverno veniva a farci visita e la neve si ammucchiava abbondante, Rose e io non andavamo a Renick. Per gente della nostra età, quella strada tortuosa a una sola corsia era infida anche in 15


condizioni ottimali. Ma dopo trenta giorni di pioggia era un incubo, peggiore della più rigida tormenta di neve del West Virginia. Da un lato della strada c’erano sempre stati soltanto campi di grano e pascoli. L’altro versante era un ripido dirupo boschivo sul fianco della montagna, protetto unicamente da un guardrail d’acciaio. Ora, la pioggia aveva allagato i campi e i pascoli, spazzando via non solo il grano e l’erba, ma anche lo strato superficiale del suolo. Ruscelli d’acqua marrone scorrevano lungo la montagna ed enormi rocce grigie emergevano dalla fanghiglia come le ossa dissotterrate di un dinosauro. Diversi alberi sradicati giacevano sparsi sulla strada, ed ero costretto a guidare lungo i lati della carreggiata per evitarli. Il più grande, una vecchia quercia, bloccava completamente il passaggio. Notai l’albero mentre affrontavo una curva. Pestai sul pedale dei freni e il veicolo sbandò di coda, scivolando verso il guardrail. Strinsi forte il volante, urlando, e feci ciò che avrebbe fatto Rose – mi rimproverai per non essere altro che uno stupido, ostinato vecchio testone. Il pick-up andò in testacoda. Il paraurti anteriore cozzò contro l’albero e quello posteriore accartocciò il guardrail. Chiusi gli occhi, trattenendo il respiro e aspettando che il veicolo cadesse giù per il pendio. Il mio cuore batteva all’impazzata e avvertii una fitta di dolore al petto. Era un modo stupido di morire e immaginai che Rose mi avrebbe atteso dall’altra parte, scuotendo la testa come suo solito quando pensava che stessi facendo una fesseria. Ma non sfondai il guardrail e non rotolai giù per la montagna. Invece, il furgoncino mi si spense. Aprii gli occhi e mi ritrovai a guardare nella direzione da cui ero venuto. Mi strinsi il torace, tentando di tenere sotto controllo la respirazione. Le mie pillole erano rimaste a casa. Se avessi avuto un attacco di cuore laggiù, non ci sarebbe stato nessuno nei paraggi per darmi una mano. Mi parve quasi di poter sentire Rose sgridarmi dall’alto dei cieli. 16


«Lo so», dissi a voce alta. «Me l’hai già detto, tesoro. Mi sto comportando da stupido». Finalmente, i dolori al petto cessarono. Uscii dal veicolo per controllare i danni, pregando di non avere una gomma a terra. Non era tanto grave; alcune ammaccature e vernice graffiata via. Se fossi andato più veloce, sarebbe finita molto peggio. Ero quasi sicuro che il pick-up sarebbe ripartito e di fatto ero lieto che non avesse gli airbag, perché guidare fino a casa con uno di quegli affari esploso sarebbe stato impossibile. Ero realista. Alla mia età, non sarei mai riuscito a risalire lungo la montagna a piedi sotto la pioggia. Sarei morto prima di aver percorso due miglia. La morte. Alla mia età, ero abituato all’idea. Era imminente. Alcune mattine mi ero svegliato meravigliandomi di essere ancora qui. Ma quando ripensai alla mia vita, mi chiesi qual era stato il suo scopo. Tutte le gioie e gli affanni, ne era valsa la pena? Che senso aveva avuto tutto quanto, se doveva condurre a questo – un vecchio che affogava da solo in un mondo allagato? In piedi sotto l’acquazzone, udii uno stormo di oche che volava da qualche parte sopra la mia testa. Piegai il collo all’indietro, guardando il cielo, ma non riuscii a vederle. Erano nascoste dietro la perpetua foschia bianca che avvolgeva la terra. Il banco di nebbia cominciava appena sopra le cime degli alberi e proseguiva fino al cielo, offuscando la luna e le stelle. Lo starnazzare incorporeo risuonò lugubre e mi fece sentire più solo che mai. Mi chiesi dove stessero andando, e augurai loro buon viaggio. Felice che il pick-up fosse ancora funzionante, contemplai i dintorni. Pochi alberi logori punteggiavano qua e là il pendio, e guardai in basso verso Renick attraverso uno spazio tra le loro cime. O forse dovrei dire che guardai dove un tempo si trovava Renick, perché il paese era andato. Il fiume Greenbrier aveva inghiottito l’intera valle. Dove prima sorgeva Renick adesso c’era un oceano. 17


La città era situata ai piedi della montagna, annidata nella valle. Oltre, c’era la strada statale per Lewisburg (quella era una vera strada, con due corsie e una linea divisoria gialla al centro). Provenendo da Renick, lungo la strada dalla quale ero arrivato, avreste puntato dritti verso la montagna, passando alcune case e baracche, ciascuna dotata di regolamentare auto arrugginita puntellata su blocchi di calcestruzzo, e antenna parabolica nuova di zecca sul tetto. Il West Virginia era uno degli Stati, nell’intera nazione, con più gente che riceveva sussidi di disoccupazione, ma tutti possedevano un’antenna parabolica. Poi sareste arrivati a Punkin’ Center, costituita da nient’altro che sette case, la combinazione tra ufficio postale e negozio di mangimi (gestita dal mio buon amico Carl Seaton), e quindi numerose fattorie. Proseguendo ancora avreste superato alcuni capanni da caccia, l’abitazione di Dave e Nancy Simmons, la stamberga di quel pazzo di Earl Harper e la stradina che riportava a casa mia, e poi miglia di foreste dello Stato del West Virginia. In quel punto la strada si restringeva, trasformandosi in una pista di terra battuta che conduceva su a Bald Knob. Terminava presso la torretta di osservazione che le guardie forestali usavano d’estate per individuare gli incendi boschivi, e la loro stazione sottostante. Quando effettuai la mia escursione giù per la montagna, tutti questi luoghi erano deserti e devastati dall’acqua. Alcune settimane prima la Guardia Nazionale aveva evacuato tutti da Punkin’ Center. Io, tuttavia, ero rimasto, anche quando avevano insistito perché me ne andassi. Oh, credo che sarebbero riusciti a farmi andar via, se si fossero impegnati un po’ di più. Non è troppo difficile costringere un vecchio a lasciare la propria casa. Ma non lo fecero. Forse è stato qualcosa nei miei occhi o il tono della mia voce, ma quei giovani soldati se ne andarono in fretta. Questo è il posto in cui ho vissuto negli ultimi trent’anni e non sarei certo partito a causa del tempo. 18


Riabbassai lo sguardo verso Renick. Dal nostro versante della montagna il paese era raggiungibile solo tramite un ponte di cemento e acciaio che attraversava il Greenbrier. Da un lato del ponte c’era la strada sulla quale mi trovavo bloccato. La cittadina era dall’altra parte. Quella mattina, il Trentesimo Giorno, il ponte era andato. Attenzione, non era semplicemente distrutto. Il ponte era andato. Scomparso con il resto del mondo, abbandonando la nostra montagna nel bel mezzo di un nuovo oceano. Ecco cosa sembrava. O il Greenbrier si era parecchio ingrossato, oppure l’Oceano Atlantico si era parecchio smarrito e aveva deciso di spostarsi nell’entroterra per magia. Ogni cosa era sommersa – tutte le case e i negozi e la scuola. Tutto, tranne il campanile della Chiesa Presbiteriana e il silo per il grano del vecchio Fred Laudermilk, che spuntavano dall’acqua come vette solitarie. Fu in quell’istante che la portata di ciò che era accaduto mi investì in pieno. Quest’anno non ci sarebbe stata nessuna Fiera Statale giù a Lewisburg, né focacce di granturco e zuppe di fagioli all’associazione americana degli ex-combattenti. Lo sgangherato scuolabus giallo non si sarebbe inerpicato su per la montagna per caricare i pochi bambini di Punkin’ Center e in autunno il vecchio Fred Laudermilk non avrebbe dovuto portare al coperto il suo fieno. Stesso discorso per lo stravagante raccolto di Daniel Ortel (sapevamo tutti che coltivava l’erba, ma nessuno diceva niente) e per il grano di Clive Clendenon. Il mio vicino fuori di testa, Earl Harper, non si sarebbe dovuto preoccupare della cospirazione governativa della settimana, e io non avrei dovuto preoccuparmi dei bracconieri nella mia proprietà durante la prossima stagione di caccia al cervo. Dicevano sempre che qualcosa del genere sarebbe accaduto per via del buco nell’ozono. Dicevano che i gas serra avrebbero disciolto le calotte polari, allagando il mondo. Ma non è andata affatto così. 19


Un giorno, un giorno come tutti gli altri, ha semplicemente cominciato a piovere e non ha smesso. Tutto qui. Di certo non ce l’aspettavamo. Era un giorno di pioggia, ma l’indomani avrebbe riportato la luce del sole. Eppure l’indomani non arrivava mai. Il giorno seguente pioveva ancora. E anche il giorno dopo. Ogni giorno le previsioni erano le stesse; pioggia, non importava dove abitavi. A parte che non ci sono più dei veri e propri giorni – solo differenti tonalità di grigio e nero. È passato un bel po’ di tempo dall’ultima volta che ho visto il sole o la luna. Sono ridotti a vaghi profili, nascosti dietro le nuvole come sbiaditi dollari d’argento. Ognuno aveva le sue teorie. I meteorologi dispensavano un mucchio di paroloni, e i politici litigavano, e poi i leader mondiali cominciarono a incolparsi l’un l’altro. Qui negli Stati Uniti se ne andarono per prime le aree costiere, insieme alle loro città. Luoghi come San Francisco, Los Angeles, San Diego, Atlantic City, New York, Miami e Norfolk. Il “becco d’anatra” della Florida e l’intera Costa del Golfo furono spazzati via all’istante quando onde alte come palazzi a dieci piani si schiantarono su di loro, spinte verso riva da una colossale tempesta e da venti superiori alle duecento miglia orarie. Città come Grand Isle, New Orleans, Apalachicola e Pensacola erano svanite in un battito di ciglia, sommerse insieme ai due milioni di persone che ci vivevano, e che non ebbero alcuna possibilità di essere evacuate. Quando accadde, l’autostrada Sessantacinque, vicino alla costa dell’Alabama, era imbottigliata da un ingorgo. Tutta quella gente morì sotto le acque impetuose, intrappolata nelle vetture. I tornado si scatenarono per le aree interne, abbattendo edifici e alberi, e poi anche quelle zone furono sommerse, flagellate senza sosta dalla pioggia. Una volta ho visto un programma televisivo sugli uragani. Spiegava che i ricercatori meteorologici catalogavano i tornado in differenti classi; la classe numero uno era poco superiore 20


a una tempesta tropicale, la numero cinque era la peggiore in assoluto. Be’, lasciate che vi dica una cosa: la super-tempesta che ha devastato il pianeta era oltre ogni classificazione. Sarebbe stata un dieci. L’agenzia federale per la gestione delle emergenze era impreparata ad affrontare il disastro, però mi sa che nessun livello di preparazione avrebbe potuto salvarci, nemmeno se l’avessimo prevista. Nell’arco di sette giorni, tutte le città costiere degli Stati Uniti furono obliterate, e il resto della nazione cominciò ad allagarsi. E questo era solo l’inizio. Dopo è peggiorata. La pioggia continuava a cadere. Qualche svitato, in Indiana, si mise a costruire un’arca, proprio come quella utilizzata da Noè, e girava voce che numerosi governi avessero fatto lo stesso, trasferendo la loro élite e i potenti su corazzate e transatlantici di lusso, insieme con animali e piante. La Guardia Nazionale cominciò a evacuare le persone prima che le restanti città nell’entroterra scomparissero sotto le onde, ma in realtà non c’era alcun posto in cui andare. L’intera dannata nazione si stava allagando. Poi le acque defluirono velocemente sul resto, fino in Arizona verso ovest, e su fino alla valle del fiume Ohio a est. Potrebbero essersi spinte anche più lontano, ma da quel momento la televisione satellitare smise di funzionare. L’ultima cosa che vidi trasmettere fu il filmato di un lago dove prima c’era il Mississippi. Anche il Potomac uscì dagli argini, portandosi via la capitale della nazione. A quanto pareva le Montagne Rocciose, le Fumose, gli Appalachi e pochi altri luoghi remoti erano ancora sopra il livello dell’acqua, proprio come la mia montagna, ma non credo che la vita fosse troppo piacevole da quelle parti. Mi domandavo se c’era un altro vecchio come me, intrappolato sulla sua cima in Colorado, ad aspettare che le acque salissero e lo ingoiassero. I cari, vecchi Stati Uniti d’America erano un’area disastrata di proporzioni bibliche, e altrove non se la passavano tanto meglio. 21


Posti come l’Isola di Pasqua, le Filippine, lo Sri Lanka, l’Indonesia e l’isola di Diego Garcia erano andati. Non allagati: andati. Cuba, la Giamaica e le altre isole caraibiche erano state spazzate via nella stessa ondata di tempesta che aveva distrutto il Sud degli Stati Uniti. Le Hawaii erano state ridotte a pochi picchi vulcanici solitari. Ricordo di aver visto in diretta alla cnn la Nuova Scozia che veniva cancellata, prima che il satellite smettesse di funzionare. Asia, Europa, Africa, Australia – non so quale sia stato il risultato finale, ma i filmati in televisione non erano promettenti. Ormai la catena dell’Himalaya e il Kilimangiaro dovevano essere diventate località marittime. E adesso anche Renick era andata. Sebbene avessi visto i danni in televisione, c’era voluta quella scena per rendermi conto realmente di come stavano le cose. Perché questa era casa mia. Renick era andata, come tutto il resto, inghiottita dal fiume Greenbrier. E il fiume era andato, perso tra le acque dell’alluvione. Giù a Lewisburg, l’autostrada Sessantaquattro era andata, e con lei la possibilità di raggiungere casa di mia figlia, in Pennsylvania. La Pennsylvania era andata. New York era andata. Avevo visto anche quello alla tv, prima che saltasse la corrente. Era stato orribile; Manhattan sepolta sotto una nebbia impenetrabile, mentre l’acqua sgorgava dalle grate e dai tombini delle fognature. Centinaia di senzatetto affogarono nei tunnel della metropolitana quando l’evacuazione non era nemmeno iniziata. Quando finì, la Guardia Nazionale e la polizia dovevano pattugliare le strade di Manhattan con le barche. Ricordo di aver visto i filmati di certi tizi che saccheggiavano in acquascooter il negozio di Saks sulla Fith Avenue, inseguiti da un motoscafo della polizia newyorchese. L’acqua, nera di sporcizia e rifiuti, strisciò su fino al terzo e quarto piano di quasi ogni edificio della città, ricoprendo tutto sotto una patina di fanghiglia. La cosa peggiore erano i ratti. 22


Ovunque si posasse la telecamera era un brulicare di quelle bestiacce. L’acqua li aveva spinti, a frotte e inferociti, fuori dal loro regno sotterraneo. Erano affamati, e non ci volle molto prima che cominciassero a mangiare i corpi morti e gonfi che galleggiavano per le strade. E quando non bastarono più, iniziarono ad attaccare i vivi. Le piogge avevano spinto i ratti in superficie. Mi chiesi quali altre cose avrebbero spinto in superficie, e se anche queste sarebbero state affamate. Lanciai un’ultima occhiata al campanile e al silo che spuntavano dall’acqua agitata. Non riuscivo proprio a credere a ciò che stavo vedendo. Rose e io avevamo passato un sacco di bei momenti insieme in quel paesino, momenti che non sarebbero mai ritornati – attimi che erano sfumati, proprio come cominciavano a fare i miei ricordi. Fui improvvisamente felice che Rose non fosse sopravvissuta per vedere tutto questo. La mia Rose aveva amato la sua Bibbia, e senza dubbio avrebbe avuto una lettura pronta per quell’occasione, come per tutto il resto. Nella Bibbia, Dio mandava a Noè una colomba. Avevo fatto tutto ciò che Dio mi aveva chiesto per più di ottant’anni, ma non arrivò nessuna colomba. L’unica cosa che arrivò, quel giorno, fu un’altra crisi di astinenza da nicotina. Grondante, rimontai sul furgoncino. La testa mi faceva male, e tremavo tenendo le mani davanti al bocchettone del riscaldamento. Avevo bisogno di una masticata. Impostai il cambio automatico e tornai a casa, zuppo, depresso, senza tabacco e con un pick-up ammaccato a testimonianza dei miei sforzi. Il mio mondo – la mia casa in cima alla montagna – era ormai un’isola che spuntava da un oceano nuovo di zecca. Era il Trentesimo Giorno. Dopo, ogni giorno è stato sempre peggio. E anche le notti. La cosa peggiore in assoluto. Le notti, da queste parti, possono farti sentire molto solo. 23


Non ci sono lampioni o automobili, e se la luna è nascosta non ti resta altro che il coro degli insetti. Una volta cominciata la pioggia, tutti gli insetti morirono e la luna e le stelle vennero inghiottite da nubi di tempesta. Ora, le nottate non erano più soltanto solitarie – erano a dir poco spaventose. Senza la luce delle stelle e la corrente elettrica, l’oscurità era una cosa potente, quasi solida. Me ne stavo nel letto smaniando per una masticata, senza riuscire a vedermi le mani davanti alla faccia, e ascoltavo la pioggia. Izaak Walton una volta ha detto che il Signore ha due dimore: una nei cieli, l’altra in un cuore mite e riconoscente. Be’, Dio doveva trovarsi in cielo, perché per come mi sentivo non avrebbe certo potuto dimorare dentro di me. Ogni notte, pregavo Dio e Gli chiedevo di lasciarmi morire. Gli chiedevo di riunirmi con mia moglie. E ogni notte, Dio ignorava la mia preghiera. Il firmamento piangeva le Sue lacrime. Piangevo anch’io, ma le mie lacrime erano davvero piccole cose paragonate a quelle che cadevano dal cielo.

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Capitolo due

Quindi – torniamo al Quarantunesimo Giorno. È difficile credere che sia stato solo due giorni fa. Sembrano più due anni. Come ho detto prima, è stato allora che i lombrichi hanno invaso il mio garage. Ma quel giorno è successo qualcos’altro. Quella è stata la mattina in cui il verme ha acchiappato l’uccellino. Mi sa che è meglio cominciare da lì. Fidatevi, adesso vi racconto come sono andate le cose. Tutto ciò che ho scritto fino a questo punto è stato solo un modo per evitare di parlare di quello che è successo davvero. Ma continuare così non ci servirà a nulla. E temo di non avere più molto tempo. Devo concludere questo resoconto. Cercherò di renderlo tanto aderente ai fatti quanto me lo permetteranno il tempo e i fogli del taccuino. Come disse Huck Finn nel capitolo iniziale di Huckleberry Finn, discutendo del libro precedente, Tom Sawyer, “il signor Twain ha scritto un po’ di me in quel libro, e la maggior parte delle cose era vera, o quantomeno alcune lo erano. Forse ha gonfiato un briciolo la verità, ma per lo più erano cose vere”. Tenetelo a mente mentre leggete. Perché con ogni probabilità penserete che stia gonfiando almeno un po’ la verità. Ma non è così. Questo è ciò che è successo, e giuro che è la verità così come io la ricordo. Vedete, la pioggia è stata solo l’inizio. Quarantunesimo Giorno. Quella mattina mi svegliai con una canzone di Roy Acuff piantata in testa, e di nuovo in crisi per l’astinenza da nicotina. Non era brutta come il Trentesimo Giorno, quando avevo tentato di scendere a Renick, ma mi sentivo comunque orribilmente. Aprii gli occhi, sussultando per il dolore dietro la nuca, proprio nel punto in cui la spina dorsale si congiunge col cranio. 25


Mi doleva la mandibola, la mia bocca era secca e sembrava che un cucciolo d’orso l’avesse appena usata come vasino. Al solito, la prima cosa che udii fu la pioggia che tamburellava sul tetto. Era anche l’ultimo suono che avevo sentito prima di addormentarmi. La mia camera da letto era parte di quel mondo bluastro che si trova tra la notte e l’alba, misterioso e tranquillo – a parte la pioggia. Cercai tentoni il mio orologio sul comodino, rovesciando un bicchiere d’acqua. Brontolai, infilai gli occhiali, trovai l’orologio e misi a fuoco i piccoli numeri. Le cinque in punto, come già sapevo. Sin dalla pensione mi svegliavo ogni mattina alle cinque. Una vita trascorsa nell’Aeronautica Militare ti fa questo scherzetto. Ti abitui a una routine, e niente, nemmeno la fine del mondo, può cambiarla. Rose era solita lamentarsi al riguardo, ma non c’era rimedio. Allungai una mano verso la latta di tabacco per forza d’abitudine, e imprecai, masticandomi le gengive, quando realizzai che non c’era. Sedetti sul bordo del materasso, i piedi sul pavimento freddo, il respiro affannoso nel torace scavato. Mi sentivo tanto solo e indifeso. Guardai alle mie spalle il punto che Rose aveva occupato al mio fianco e cominciai a piangere. Dopo un po’, la feci finita e mi soffiai il naso. Poi mi misi in ascolto per sentire il mio compare fuori dalla finestra. Il mio amico speciale veniva a farmi visita tutte le mattine; mi tirava su il morale. E adesso, anche se il sole non si riusciva a vedere attraverso il cielo grigio, era quasi l’alba; significava che di lì a poco l’uccellino avrebbe cominciato a cantare. Alzai le tapparelle e contemplai quel mondo cupo. Il mio cortile non era che un pantano. Una foschia bianca offuscava il filo del bucato e il capanno degli attrezzi, nascondendo gli alberi che segnavano dove finiva il mio cortile e iniziavano a distendersi miglia di foresta. Le uniche cose non celate dalla nebbia e dal 26


piovischio erano il grande abete del Colorado fuori dalla finestra e il nido del pettirosso adagiato al sicuro e all’asciutto tra i suoi larghi aghi. Il pettirosso era la sola creatura vivente che avessi visto nelle ultime tre settimane, a eccezione di un branco di cervi che avevo spiato pascolare vicino alla sorgente (e ormai la sorgente era diventata un piccolo stagno). Erano bagnati, macilenti e mezzi morti di fame, e non li avevo più adocchiati da allora. Lo stesso dicasi per cavalli, mucche, pecore e altro bestiame che allevavano alcuni dei miei vicini. Erano stati abbandonati quando la Guardia Nazionale aveva evacuato Punkin’ Center, ma durante il mio viaggio giù per il versante della montagna non ne avevo visto nemmeno uno, né avevo più udito le vacche muggire di notte. Di solito, quel suono superava le colline fino a raggiungermi. Adesso non si sentiva niente. Ora so cosa è capitato loro, probabilmente, ma allora non lo sapevo. L’uccellino era una visione gradita. Ogni mattina, mi tirava giù dal letto con la sua insistente – e assai incavolata – canzone, intonando una melodia triste per il maltempo. Il pettirosso odiava la pioggia quanto me. Abbandonava l’albero esclusivamente per acchiappare dei vermi, e solo per pochi minuti. Suonerà buffo, ma quel pennuto era il mio unico amico o conoscente da quando era saltata la corrente. Ogni volta, non vedevo l’ora che facesse la sua visita. Sciocco, forse, ma d’altra parte non ero che un vecchio sciocco. Senza dubbio Rose avrebbe avuto qualcosa da ridire, ma Rose non c’era. L’uccello, anche quella mattina, non mi deluse. Puntuale come un orologio, udii il suo familiare pigolio mentre si svegliava. All’inizio il canto fu esitante, poi divenne più sonoro, forte e arrabbiato. Intravidi un turbinare d’ali tra i rami dell’albero, poi saettò fuori, sfrecciando verso il terreno il più veloce possibile, sperando di acciuffare uno o due vermi per potersene tornare alla svelta al nido, zuppo e miserabile. 27


«Salve», gracchiai, la gola ancora secca per il sonno. «Piacere di vederti stamattina. Un po’ di caffè per accompagnare i vermetti?» Atterrò sul suolo bagnato e spugnoso, cominciando a beccare nella fanghiglia. Lanciò un’occhiata alla finestra, e giuro che mi riusciva a sentire. Forse mi aspettava tutte le mattine così come io aspettavo lui. Con un ultimo scatto della testa, si rimise al lavoro. Sorrisi, guardandolo con sincera soddisfazione mentre salterellava nei paraggi alla ricerca della colazione. Cinguettii furiosi sottolineavano ogni piccolo salto. Risi di gusto. Non aveva idea di quanto se la passava bene. Perlomeno lui non doveva preoccuparsi per l’astinenza da nicotina. Osservai meglio l’uccellino. Pareva ci fosse qualcosa di sbagliato nelle sue piume. Chiazze di quello che sembrava una specie di fungo bianco gli crescevano sul dorso e sulle ali. Mi chiesi che cosa fosse. La caccia non doveva avergli fruttato granché quella mattina, poiché avanzò allontanandosi dall’albero, quasi a metà strada per il capanno degli attrezzi, in cerca dei vermi. L’erba rimasta in cortile e la fitta nebbia che si avvolgeva in spire lo nascosero quasi del tutto. Mi spinsi gli occhiali sul naso e strizzai gli occhi, cercando di seguirlo con lo sguardo. All’improvviso, emise un fischio di trionfo e si lanciò su qualcosa che non potevo vedere. Un attimo dopo il suo cinguettio di vittoria si trasformò in uno strido spaventato, e il pettirosso schizzò su in aria, le ali che sbattevano furiose. Qualcosa si contorse nel pantano, e balzò verso l’alto inseguendolo. Urlai dalla finestra per avvisare il pettirosso, anche se l’aveva già visto. Era difficile distinguere quell’affare sul terreno attraverso la nebbia e la pioggia. Scorsi qualcosa di lungo, color bianco-brunastro. Era veloce. Si distese verso l’uccellino che fuggiva, e poi rimase solo aria dove un secondo prima c’era il pettirosso. 28


La cosa schioccò all’indietro sul terreno, simile a una di quelle molle Slinky con cui giocavano i miei nipoti da piccoli. Un secondo dopo era scomparsa anche lei, svanita giù nel fango come se non ci fosse mai stata. Chiusi le tapparelle, stordito, e restai lì in piedi, le mani e le gambe che mi tremavano per lo shock e l’incredulità. Dopo un po’, mi infilai la dentiera e raggiunsi il soggiorno. L’oscurità bluastra aveva lasciato spazio alla caligine grigio fioco dell’alba. Fissai il camino freddo e inutile. Avevo sigillato la canna fumaria per tenere fuori l’umidità. Era stata costruita in modo da non far entrare la pioggia, ma l’aria era talmente umida che ogni cosa all’interno della casa sarebbe ammuffita, se l’avessi lasciata aperta. Sopra il caminetto c’era una mensola, ricavata da una trave di legno presa dal granaio di mio padre. Era vecchia, come me. E proprio come me, era sopravvissuta a numerosi tornado e tempeste e grandinate e fulmini e incendi e siccità… e alluvioni. Tante, tante alluvioni. Sulla mensola, la mia famiglia mi restituiva lo sguardo dall’interno delle cornici. Mi persi tra loro, cercando di non pensare a ciò che avevo appena visto. Rose e io il giorno del nostro matrimonio, e la foto che ci eravamo fatti scattare il nostro cinquantesimo anniversario, al Wal-Mart di Lewisburg. Lei era persino più graziosa nella seconda immagine che nella prima, scattata mezzo secolo prima. I nostri ragazzi: Tracy e Doug, da bambini. Lì vicino c’erano delle istantanee di Tracy il giorno delle sue nozze, il lungo velo bianco disteso dietro di lei sull’erba, e un altro scatto in compagnia di suo marito, Scott, durante la luna di miele. Accanto a questa c’era una foto di Doug scattata nel 1967, con indosso il suo berretto verde, uno stemma della Prima Divisione Cavalleria orgogliosamente sul braccio, mostrato con fierezza, subito prima che partisse per il Vietnam. Non c’erano altre fotografie di Doug. Quella era stata l’ultima, e ricordavo ancora il giorno in cui Rose l’aveva scattata. 29


Avevo detto a Doug che gli volevo bene, che ero fiero di lui. Me l’aveva detto anche lui. Fu l’ultima volta che lo vedemmo. Quando tornò a casa, era in una bara quasi vuota. I Vietcong non ci avevano lasciato granché da seppellire. C’erano altre fotografie di Tracy e Scott, Rose e me, Carl Seaton, il mio migliore amico, insieme a me con il pescegatto da sette chili che avevamo tirato su dal Greenbrier undici anni fa, e noi due in piedi vicino al maschio con le corna da diciotto punte che Carl aveva abbattuto l’inverno prima che la vecchiaia ci impedisse del tutto di andare a caccia di cervi. Un’altra ritraeva il sottoscritto stringere la mano al nostro senatore di Stato, mentre mi consegnava un riconoscimento per essere un veterano della seconda guerra mondiale vissuto abbastanza a lungo da poterla raccontare. Le più numerose, però, erano quelle dei miei nipotini: Darla, Timothy e Boyd. Ormai dovevano essere tutti morti, e a questa cosa avevo cercato in tutti i modi di non pensare. Ora cominciava di nuovo a insinuarsi, perché pensare alla loro probabile morte era meglio che pensare a ciò che avevo appena visto in cortile. Tirai fuori una scatola di fiammiferi e accesi la stufa a cherosene. Il suo fievole bagliore riempì la stanza. Aprii la finestra appena uno spiraglio – abbastanza da far uscire le esalazioni, senza far entrare la pioggia. Poi poggiai il bricco di stagno sulla stufa e misi a bollire l’acqua, così da potermi preparare il mio caffè istantaneo, che ormai cominciava a scarseggiare. Mi tremavano le mani, in parte per l’artrite e in parte per il disperato bisogno di un po’ di Skoal, ma soprattutto per la paura. Sebbene non volessi, pensai a ciò cui avevo appena assistito. L’uccellino. Lui Rose era morta di polmonite tre inverni fa, spegnendosi in silenzio nella sua stanza d’ospedale a Beckley mentre io ero giù al bar a farmi una tazza di caffè. 30


Nonostante l’avessi amata con tutto il cuore, per qualche tempo, dopo la sua morte, fui arrabbiato con lei. Arrabbiato perché non mi aveva detto addio. Perché se n’era andata prima di me, lasciandomi qui a badare a me stesso senza di lei al mio fianco. Rose si era sempre occupata di cucinare, pulire e fare il bucato, non perché fossi una sorta di maschilista, ma perché le piaceva davvero. Dopo la sua morte ero un incapace – un derelitto. Non pulii la casa per più di un mese. Provai a friggere della pancetta e feci scattare tutti gli allarmi antincendio della casa. La prima volta che tentai di lavare i panni, versai mezza bottiglia di detersivo inondando di schiuma il seminterrato. Poi mi stesi contro l’asciugatrice e piansi per venti minuti buoni mentre le bolle di sapone si disintegravano tutt’intorno. In seguito, Tracy e Scott insistettero perché andassi a vivere con loro in Pennsylvania. All’epoca i loro ragazzi si erano già trasferiti, lasciando abbastanza spazio per un vecchietto come me. Darla stava partendo per Penn State, dove avrebbe studiato farmacia. Timothy si era trasferito a Rochester, New York, e lavorava con i computer. E Boyd – be’, lui si era arruolato nell’Aereonautica, proprio come suo nonno. Proprio come me. Ragazzi, quanto ne fui orgoglioso. Voleva volare. L’uccellino. Ha cercato di volare, e poi La teiera fischiò, facendomi sussultare. Riempii d’acqua calda la mia tazza e ci aggiunsi col cucchiaio qualche grano di caffè. Non riuscivo a impedire alle mie mani di tremare. Che diavolo era quella cosa? Sembrava un Per istinto, sapevo che i miei cari erano morti. Non so spiegarvelo, se non dicendo che se ci siete passati anche voi, capirete alla perfezione cosa intendo. Semplicemente, sapevo che non c’erano più – una sensazione orribile, che mi rigirava le viscere. Tuttavia, riguardo a Boyd, era stato più che una mera intuizione. All’inizio, prima che le tempeste colpissero l’America, avevo visto un reportage sull’ondata di maremoto che aveva cancellato il Giappone. Lui era di stanza laggiù. 31


Adesso era di guarnigione sul fondale di un Oceano Pacifico fresco di crescita, e non ci sarebbero più stati radio, automobili, televisori o cartoni animati giapponesi per un bel po’. Per gli altri membri della famiglia, si trattava di un semplice senso di consapevolezza, un groppo di angosciosa convinzione che si stabilì nel mio stomaco rifiutando di andarsene. Come avere un nocciolo di pesca incastrato in gola. Sopravvivere al proprio coniuge è una cosa orrenda. Ma è ancora più terribile sopravvivere ai figli e ai nipoti. Un genitore non dovrebbe mai vivere più a lungo del suo bambino. Il dolore è indescrivibile. Come ho detto prima, cercavo di non pensarci. Eppure, la mattina del Quarantunesimo Giorno, me lo tenni bene a mente, grattando le croste e lasciando sanguinare le ferite. Dovevo. Era l’unico modo per smetterla di pensare al pettirosso… E all’altra cosa. La cosa che si era mangiata l’uccello. Sembrava un verme, ma nessun verme avrebbe mai potuto essere così grosso. Era impossibile. Certo, anche la pioggia e tutto il resto erano impossibili. E io ero troppo vecchio per non credere, soprattutto perché avevo visto coi miei occhi. Ma potevo fidarmi di quegli occhi? Me lo domandai. E se il verme non fosse stato reale, se stessi avendo delle allucinazioni? Forse la mia mente cominciava a perdere colpi. Questo mi spaventò. Per uno della mia età, la demenza senile è molto più terrificante di vermi giganteschi. Rimasi lì seduto nella luce fioca, a sorseggiare caffè istantaneo da una tazza sporca, smaniando per una masticata. Uno spiffero freddo soffiava dallo spiraglio della finestra. Fuori, la pioggia continuava a cadere. La nebbia calava, si alzava e poi si accumulava di nuovo. Non mi mossi per tutta la mattina. A dire il vero, la maggior parte delle mie giornate trascorrevano così. Non c’era molto altro da fare. Di tanto in tanto, provavo la radio a batteria, ma le scariche statiche mi turbavano sempre, così la spegnevo subito. 32


Mai avuta una buona ricezione radio quassù tra le montagne. Il tempo ha peggiorato le cose, come appurato nel pick-up durante il mio infelice viaggio verso Renick. La stazione radio am di Roanoke aveva continuato le trasmissioni all’incirca fino alla quarta settimana. Mark Berlitz, il conduttore maniaco di teorie della cospirazione e sempre pronto a discorsi di estrema destra, aveva vegliato in solitaria incollato al microfono. Devo ammettere che sono rimasto ad ascoltare in una sorta di orribile incantesimo la sanità mentale di Berlitz che si sgretolava a causa dell’isolamento in quella stanzetta. La sua ultima trasmissione finì con un colpo di pistola nel bel mezzo di Big Balls In Cow-Town, una vecchia canzone bluegrass dei Texas Playboys (un peccato, perché mi è sempre piaciuta la loro musica). Il pezzo terminò due minuti dopo, poi ci fu solo silenzio. Per quanto ne sapevo, ero stato l’unico ad ascoltare in diretta il suicidio del disc jockey, forse a eccezione di quel pazzo di Earl Harper, che ascoltava il programma con regolarità e chiamava in radio quasi tutte le sere. In seguito, io stesso avevo preso in considerazione il suicidio, ma avevo scartato subito l’idea. Non solo era peccato, ma dubitavo che avrei avuto il coraggio di fare una cosa simile. Per niente al mondo sarei riuscito a ficcarmi in bocca uno dei fucili da cervi e tirare il grilletto, senza dubbio. E temevo che se avessi provato con un’overdose di tranquillanti sarei rimasto paralizzato, o qualcosa di simile – paralizzato, sì, ma vivo. Il pensiero di starmene lì sdraiato ad ascoltare la pioggia, senza potermi muovere, era abbastanza per convincermi a desistere. Ma quella mattina ci pensai di nuovo, per poi accantonare l’idea ancora una volta. Il mattino passava e la pioggia continuava a cadere. Ingannai il tempo con uno dei libri di parole crociate che i ragazzi mi avevano regalato l’ultimo Natale. Quando si arriva alla mia età, i parenti non hanno più idea di cosa comprarti per Natale e per il compleanno. Dato che mi piacevano le parole crociate, ecco cos’avevano scelto. A me andava bene così. E perlomeno mi ero evitato un altro maglione o un paio di calzini. 33


Masticai tra le gengive la gomma della matita per mezz’ora, poi mi rinfilai la dentiera e cominciai a mordicchiarla, pensando tutto il tempo a una parola di cinque lettere per il termine spagnolo “peccadillo”. Sapevo, grazie al quattro orizzontale, che la lettera centrale era una L, ma io sia dannato se riuscivo a trovare la parola giusta. Il caffè era amaro e al suo posto desiderai del tè verde. Quindi, mi tirai su così in fretta da far cadere le parole crociate sul pavimento. Tè. Foglie di bacca da tè! Avevo conosciuto persone che avevano smesso di masticare tabacco sostituendolo con foglie di Gaultheria, che da queste parti chiamiamo bacca da tè. Cresceva in tutto il West Virginia e spesso avevo raccolto le bacche rosse che prosperavano nel bosco dietro casa, giù nella valle. Maledicendomi per non averci pensato prima, m’infilai nei miei abiti da pioggia e mi affrettai verso la veranda sul retro. In cucina c’erano due porte – una che dava all’esterno sul garage, e l’altra che conduceva alla veranda. Siccome la veranda era più vicina al margine della foresta, uscii da lì. Forse, se avessi optato per l’altra porta e visto cosa c’era nel garage, le cose sarebbero andate in maniera diversa. Forse non starei scrivendo queste parole. Ma ne dubito. Ormai avevo dimenticato del tutto la faccenda del pettirosso. La mia mente era concentrata su un’unica cosa: trovare delle foglie di bacca da tè da masticare. Sguazzai attraverso il cortile. Il fiato si condensava davanti al mio viso, e nel giro di pochi minuti mi ritrovai con le dita e le orecchie gelate. La nebbia aveva deciso di trattenersi ancora un pochino. Ammantava ogni cosa. Avevo una visibilità di forse cinque o sei metri, poi tutto era nascosto dalla foschia bianca. Procedevo adagio, un po’ per il tempo, ma soprattutto per l’età; infine raggiunsi il limitare del bosco e mi infilai tra gli alberi. Sotto la volta di foglie, la vegetazione aveva un aspetto 34


migliore; le piante la proteggevano dal martellamento continuo del diluvio. La pioggia colpiva le cime degli alberi e mi gocciolava addosso. Foglie e aghi di pino bagnati si appiccicavano ai miei scarponi, e rallentai ancora il passo per non scivolare. Non sarebbe stato granché rimanere là fuori nel bosco con un’anca rotta. Alcuni alberi erano stati sradicati, ma la maggior parte era ancora in piedi, le radici disperatamente aggrappate al terreno spugnoso. Notai che molti avevano uno strano fungo bianco che cresceva sui tronchi, simile a quella roba che avevo visto sul pettirosso. Non era muschio, perlomeno non di un tipo che avessi mai visto crescere su una pianta. Sembrava più una muffa, soffice e lanuginosa, e in qualche modo malsana, persino sinistra. Sinistra, pensai. Come può una muffa essere sinistra, Teddy? L’astinenza da nicotina si sta rosicchiando ciò che rimane del tuo cervello. Stai andando fuori di testa, vecchio. Prima t’immagini di aver visto un verme mangiarsi un uccello, e adesso pensi che quel muschio sia una forma di vita malevola intenzionata a impadronirsi del pianeta, come in un film di fantascienza. Ce n’era dell’altro nel sottobosco, avvinghiato alle rocce, ai tronchi caduti, ai rampicanti, addirittura sulle foglie morte e sugli aghi di pino che ricoprivano il suolo. Feci molta attenzione a non calpestarlo. Nonostante lo scempio causato dal maltempo nella vegetazione, trovai una gran quantità di piante di bacca da tè che crescevano tra le foglie del sottobosco. Mi inginocchiai per prenderne qualcuna, evitando tutte quelle che avevano addosso lo strano fungo. Mentre raccoglievo le foglie, un ramoscello si spezzò con un colpo secco. Della gente di città si sarebbe allarmata, ma quando hai trascorso tanto tempo nei boschi come me, non presti attenzione a tutti i piccoli rumori che fa la foresta. Li conosci a memoria e sei in grado di distinguere qualcosa di strano, di fuori posto, dal resto della sinfonia del bosco. 35


Fu solo dopo una serie di schiocchi che mi voltai. E sbarrai gli occhi. Il fiato mi si chiuse in gola e lo stomaco si rivoltò. C’era un cervo che mi fissava, a sette o otto metri di distanza; un giovane maschio, probabilmente di due o tre anni. Dalle sue corna gocciolava acqua. Non dimostrava paura o fame, solo curiosità. Appariva denutrito e le costole spiccavano attraverso la pelle lucida e bagnata. Ma non era per questo che rimasi di sasso. Le zampe dell’animale erano coperte dalla stessa peluria bianca che stava sugli alberi. Quella roba gli si stava diffondendo a chiazze anche sulla pancia e su fino al petto. Sembrava si fosse fusa col corpo del cervo, mangiando pelo e carne. Sconvolto, dondolai all’indietro sui talloni e, come un colpo di fucile, il cervo balzò su un ceppo e fuggì, sollevando foglie e rametti. Mentre scappava, notai che anche il suo posteriore era ricoperto di quella muffa. Disgustato, tirai su col naso e sputai un grumo di catarro per terra. Poi mi assicurai di non avere tracce del fungo sulla pelle o sui vestiti. Lasciai cadere le foglie di bacca da tè al suolo. Qualunque cosa fossa quel fungo, se poteva trasmettersi dalle piante agli animali, con ogni probabilità avrei potuto prenderlo se avessi masticato le foglie al posto del tabacco. Non potevo essere sicuro che non fossero già contaminate, così abbandonai l’idea e mi avviai lentamente verso casa. Dietro di me, da qualche parte nella nebbia, udii un altro ramo spezzarsi. Non gli diedi importanza, pensando fosse ancora il cervo. Ma poi udii qualcos’altro che senza ombra di dubbio non era un cervo. Un rumore sibilante, come quello del vento che fischia attraverso il finestrino parzialmente aperto di un’automobile. Mi voltai e scrutai attraverso i turbini di nebbia, ma lì non c’era nulla. È solo il vento, pensai. Soltanto il vento, che fischia tra gli alberi. 36


Quindi il vento esplose nella boscaglia, risuonando come un branco di elefanti in carica. A quel punto, mi affrettai verso casa. All’inizio il sibilo sfrecciò alle mie spalle, ma poi si affievolì nuovamente. Il ricordo di cos’era successo al pettirosso perseguitava ogni mio passo. Di tanto in tanto mi fermavo, in ascolto, cercando di stabilire se la fonte del rumore, qualunque cosa fosse, mi stesse seguendo. Era difficile sentirlo sopra il tamburellare della pioggia. Qualcosa si agitò ai margini del mio campo visivo, ma non riuscii a vedere cosa fosse – soltanto un lampo marrone. Una volta, credetti di sentire il suolo muoversi, ma poi decisi che me l’ero sognato. Se solo avessi saputo allora quello che so adesso… Di nuovo in casa, mi sfilai i vestiti bagnati e crollai sulla mia poltroncina. La passeggiata fino al bosco e ritorno mi aveva spossato. Un tempo camminavo tra queste valli e creste da prima dell’alba fino al tramonto, cacciando e pescando e semplicemente godendomi l’aria aperta. Ma quei giorni erano passati, scomparsi con la luce del sole. Esausto e cullato dal suono sommesso della pioggia, chiusi gli occhi e mi addormentai sulla poltrona. Sognai la torta di mirtilli di Rose. La pioggia non mollava mai. Mentre dormivo, il vento era aumentato, e fui svegliato dal suono di una violenta folata che si abbatteva sul fianco della casa. Era come se le gocce di pioggia venissero sparate dalle canne di una mitragliatrice. In qualche modo, mi ricordò la guerra. Sembrava stesse grandinando. Mi alzai, guardai fuori dalla finestra panoramica, e non riuscii a vedere per più di due spanne. La pioggia adesso veniva giù tanto fitta che pareva di guardare attraverso un muro di granito. Il vento soffiò via la pioggia dalla casa per un breve istante. Guardai attraverso gli scrosci d’acqua; poi mi allontanai con un salto dalla finestra. Movimento. 37


Qualcosa si era mosso, là fuori. Qualcosa di grosso. Più grosso dell’affare che avevo visto prima. Ed era vicino alla casa. Tra il filo per la biancheria e il capanno. Con cautela, sbirciai fuori di nuovo. Non c’era niente lì. Lo misi in conto alla fifa di un povero vecchio. Probabilmente solo un cervo o anche l’ombra di una nuvola. Rammentai a me stesso che non potevano esserci ombre visto che non c’era più la luce del sole, e prontamente dissi a me stesso di chiudere la boccaccia. Me stesso fu d’accordo con me. Poi me stesso spiegò a me stesso che ero giusto un po’ irrequieto in seguito a quanto era capitato all’uccellino, o quanto credevo di aver visto. A tutto questo aggiungete il fungo bianco che cresceva sul cervo e sugli alberi e il fatto che non avevo ancora scovato del tabacco; era inevitabile che fossi un filo nervoso. Mi sedetti di nuovo e tornai al mio libro di cruciverba. Una parola di cinque lettere per “peccadillo”, con una L in mezzo… Una parola di cinque lettere… L… «Oh, al diavolo!» Esasperato, buttai il libro di parole crociate per terra e presi invece la Bibbia di Rose. Era logora e sbrindellata e tenuta insieme con dei pezzi di scotch ingialliti. Era appartenuta a sua madre, e prima ancora a sua nonna. La leggevo tutti i giorni, ritagliandomi dieci minuti per una preghiera. Come la sveglia alle cinque ogni mattina, era un’abitudine di tutta una vita che non sarei riuscito a cambiare – non che avrei osato. Anche dopo la morte di Rose, sapevo che se avessi saltato una lettura della Bibbia avrei avvertito addosso il suo sguardo di rimprovero per il resto della giornata. Non avevo alcun dubbio che mi controllasse dal suo posto nel Regno dei Cieli. L’aprii. Leggerla era come stare di nuovo con lei. La grafia di Rose riempiva il libro, dove aveva segnato passaggi con l’evidenziatore e scribacchiato note per il gruppo di studio della Bibbia che presiedeva ogni mercoledì sera in chiesa. 38


Un segnalibro di cartoncino rosa che proclamava Per il signor Garnett nello scarabocchio a pastello di un bambino (un regalo della classe della Scuola Presbiteriana Domenicale di Renick) indicava dove avevo interrotto la lettura il giorno prima. Il Libro di Giobbe, capitolo quattordici, versetto undici. Lessi a voce alta, cercando il conforto della mia stessa voce, ma risuonò debole e vuota. «Possono venir meno le acque dei mari, e il fiume diventare arido e secco, ma l’uomo, se giace nella tomba, non si alza più. Le acque corrodono le pietre» All’esterno ci fu uno schianto, e mi drizzai sulla sedia, gridando per la sorpresa. Aspettai che si ripetesse, ma c’era solo il rumore della pioggia. Infine, mi alzai, le ultime parole del paragrafo che mi balenavano davanti agli occhi mentre chiudevo la Bibbia. le cose che sorgono dalla polvere della terra e annientano la speranza degli uomini. Guardando fuori dalla finestra della cucina, tutti i miei pensieri sulle sacre scritture svanirono. Urlai, fremendo stavolta non di paura, ma di rabbia. L’intensità della pioggia era diminuita ed era tornata una certa visibilità. La catasta di legna, in precedenza ammucchiata con ordine vicino al capanno degli attrezzi, era crollata. I ciocchi di legna erano disseminati nel mio melmoso cortile posteriore. Mi ci era voluto un giorno intero per accatastarli, e mi ero quasi sfiancato per riuscirci. Adesso, la legna si era rovesciata sotto la cerata blu che utilizzavo per tenerla all’asciutto. Il telo sbatacchiava al vento, minacciando di volare via. La nebbia mulinava. La legna da ardere era già fradicia. La cosa non mi turbò molto. Finché pioveva non potevo comunque utilizzare il camino. Ero più preoccupato per il cherosene. Sotto il telo avevo sistemato anche due fusti da duecento litri di quella roba, poggiati su una soletta di calcestruzzo tra la catasta di legna e il capanno. 39


Non ero riuscito a trascinarli all’interno del capanno da solo, e non c’era nessuno a darmi una mano a spostarli. La cerata mi era sembrata l’alternativa migliore. Ora un fusto giaceva su un fianco nel fango, quasi inghiottito dalla nebbia, mentre l’altro era inclinato in equilibro precario. Dalla mia posizione, non riuscivo a capire cosa avesse provocato il danno. Ipotizzai fosse stato il vento. Anche se il verme era reale, non avrebbe potuto fare questo. O sì? Non aveva importanza. Dovevo andare lì fuori e mettere a posto. L’inverno era in arrivo, e senza cherosene tanto valeva che mi preparassi a incontrare il Creatore o a ingoiare una pallottola come il disc jockey. Aprii l’armadio dell’ingresso, mi ficcai nell’impermeabile, e, con più difficoltà di quanto voglia ammettere, mi allacciai gli scarponi. Quella mattina le mie dita erano gonfie d’artrite, e riuscii a stento a serrarle sul pomello della porta e a girarlo. Prima che potessi mettere piede nel garage, uno scroscio di pioggia s’insinuò oltre la porta spalancata, investendo la mia faccia di gocce pesanti e fredde. Il vento mi frustò. Attento a non scivolare, mossi un passo verso la veranda, un piede sospeso sopra il cemento. Poi il garage si mosse. Mentre il mio piede si bloccava a mezz’aria, accadde di nuovo. La base di cemento si contorse a pochi centimetri dal tacco del mio scarpone. Poi notai il tanfo, una mistura elettrica di ozono, pesce marcio e melma. Quell’aroma terroso ristagnava nell’aria, addensandosi sotto il tetto del garage. Era l’odore di un mattino primaverile dopo un temporale. Profumo di lombrichi su un marciapiede bagnato. Il pavimento del garage sussultò di nuovo e allora capii. Era ricoperto di vermi, il cemento nascosto sotto una massa sinuosa e tremolante di corpi oblunghi. Piccoli vermi da pesca marroni e paffuti lombrichi rossastri. Ce n’erano di varie lunghezze, i più 40


grossi spessi quanto il pollice di un uomo. Mi presi un colpo, vi giuro. Immaginai di usare uno di quei cosi come esca per una trota o un pesce gatto, e rabbrividii. Gesù, mi venne da sbattere la porta. I vermi erano dappertutto. Letteralmente. Il garage era annesso a un lato della casa, e la soletta di cemento era abbastanza grande per il pick-up e la Taurus, oltre a un vecchio tavolino rosso con la vernice scrostata che aveva visto anni migliori. La Taurus era in cortile, coperta da un telo di plastica e sepolta nella fanghiglia fino ai paraurti, ma il tavolo e il mio furgoncino scassato sembravano isole, perse in un mare ribollente di corpi che si contorcevano. In alcuni punti ce n’era uno strato di quasi dieci centimetri, che si attorcigliavano e scivolavano l’uno sull’altro. Brancolanti, lucidi, ciechi, viscidi… Vermi. Era colpa della pioggia, ovvio. L’acqua li aveva spinti in superficie, come sempre succede durante un temporale. Solo che questa volta sembrava che ogni lombrico nel raggio di tre chilometri avesse scoperto che il mio garage era l’unico luogo rimasto all’asciutto in tutta la contea di Pocahontas. Il mio fiato si condensava nell’aria davanti alla faccia e le mie dita stavano già diventando fredde. Restai lì, metà dentro e metà fuori casa. Non riuscivo a distogliere gli occhi dai vermi. Con ogni probabilità sarei rimasto così tutto il giorno, fissando a bocca aperta i lombrichi con un piede alzato, se non avessi sentito il motore in lontananza. Lo sferragliare straziante dei pistoni annunciò il Dodge del ’79 giallo piscio e conciato da sbattere via appartenente a Carl Seaton molto prima che raggiungesse la cima della collina e comparisse alla fine del viottolo, spuntando da un banco di nebbia. Sbandò lungo il passo carraio, i copertoni a sguazzare nel terreno fradicio mentre i tergicristalli battevano un ritmo ipnotico. Il furgoncino slittò fino a fermarsi. Il viso pallido e familiare di Carl guardava fuori dal finestrino striato di pioggia. 41


Rimasi sulla soglia, e il mio cuore cantava. Non solo era rimasto ancora qualcun altro, ma saltava fuori che si trattava del mio migliore amico. Il motore, più che spegnersi, soffocò a morte. Del fumo bluastro eruttò dal tubo di scappamento arrugginito, dissolvendosi nell’aria umida. Carl girò la manovella abbassando il finestrino dal lato del guidatore e valutò la situazione, fissando il mio garage con disgusto. Il suo naso era un bulbo venato di rosso, e aveva gli occhi iniettati di sangue. «Salve, Teddy», urlò, coprendo il ticchettio della pioggia. «’Giorno, Carl». «Amico, sono così felice di vederti! Pensavo te ne fossi già andato. Partito per posti più asciutti con i ragazzi della Guardia Nazionale». «No, sono ancora qui. Volevano che me ne andassi, ma ho detto loro che sarei rimasto». «Anch’io». Accennò ai vermi. «A quanto pare ti stai preparando per un giretto di pesca». «Sto solo badando al mio gregge. Sto diventando troppo vecchio per allevare bestiame. Ho pensato che magari potevo provare con i vermi». «Mai vista una roba del genere». «Già», acconsentii, «è piuttosto strano». Non riusciva a staccare gli occhi dalla massa brulicante tra noi due. «Pensi abbia qualcosa a che fare col tempo?» «Mi sa di sì. La mia teoria è che la pioggia li sta costringendo a salire in superficie». Carl aveva sempre avuto il dono di affermare l’ovvio. A metà luglio, quando la temperatura schizzava a quasi quaranta gradi e i campi diventavano marroni, accoglieva i clienti del suo ufficio postale e negozio di mangimi dicendo: «Ragazzi, certo che fa caldo là fuori, vero?» In quel momento disse: «Ragazzi, certo che è un bel mucchio di vermi». 42


Mi schiarii la gola e deviai il discorso verso qualcosa di più urgente. «Immagino tu non abbia del tabacco con te, o per caso ce l’hai, Carl? O magari del Mail Pouch, una sigaretta, un sigaro?» La sua grossa faccia da luna piena assunse un’espressione comprensiva. «Certo che no, Teddy. Sei a secco di Skoal?» Come dicevo, Carl aveva una grande abilità nel riassumere le cose. «Sì», risposi. «Da qualche settimana. Muoio dalla voglia di nicotina. Ucciderei per un po’ di tabacco». «Ti capisco. Vorrei poterti aiutare, Teddy. Anch’io sto impazzendo per la voglia di caffeina. Ho finito il caffè pochi giorni fa». «Bene, vieni dentro». Tenni aperta la porta a zanzariera. «Me n’è rimasto un mucchio. è roba liofilizzata, ma se ne vuoi un po’ sei il benvenuto». Il suo viso si illuminò alla notizia del caffè caldo. Scese con qualche difficoltà dall’abitacolo e corse verso il garage sguazzando nelle pozzanghere. L’acqua gli colava dal naso e dal mento. Poi si fermò con uno scivolone e guardò i vermi. «Io non ci passo in mezzo a quella porcheria schifosa. Aspetta un secondo». Raggiunse correndo il retro del pick-up e aprì la sponda posteriore. Il cassone del mezzo di Carl era chiuso da una copertura rigida, dunque il pianale era all’asciutto. Allungò una mano e tirò fuori una scopa, brandendola come un cacciatore di cervi trionfante avrebbe brandito il suo fucile. «Mi sa che questa può funzionare». «Carl Seaton, il valoroso uccisore di vermi», ironizzai. «Vedi quello bello lungo, laggiù, vicino al tavolino? Potresti appenderlo sul muro di casa tua, vicino alla testa dell’orso nero e del cervo da ventiquattro punte». Ignorando le mie prese in giro, si aprì un sentiero verso la porta. Erano più i vermi che raccoglieva che quelli che spazzava. 43


Le setole di paglia della scopa ne infilzavano alcuni e ne spappolavano ancora di più. Mezzi vermi, troncati a metà ma ancora vivi, si contorcevano e dibattevano nella sua scia. Quando Carl raggiunse la mia porta, era un po’ più pallido del solito. Ma sulla sua faccia, mentre mi stringeva la mano, c’era un ampio ghigno. Aveva il palmo freddo e bagnato. «Dio, è un piacere vederti, Teddy». Scosse la testa per scrollarsi l’acqua di dosso. «Sono stato tremendamente solo. Credevo di essere l’ultimo rimasto sulla montagna». «Pensavo la stessa cosa». Sorrisi. «Anche per me è bello vederti». Ed era bello vederlo. Accidenti se era bello. Avevo immaginato che fosse morto o che se ne fosse andato da tempo con gli uomini della Guardia Nazionale e il resto di Punkin’ Center. Carl si scrollò via alcuni vermi spiaccicati sulle sue galosce. Stavano già serrando i ranghi sulla sua scia, strisciando di nuovo sul sentiero che si era aperto. Entrò in casa, appesi il suo cappotto e il cappello da pioggia, e sistemai le galosce vicino alla stufa a cherosene per farle asciugare. Poi, come ho fatto sempre più spesso negli ultimi anni, mi battei una mano sulla fronte frustrato dalla mia memoria evanescente. «Gesù, dimenticherei anche la testa se non fosse attaccata. Carl, mettiti comodo. Devo tornare fuori». «Cosa c’è che non va? Ti prenderai un raffreddore a startene sotto la pioggia troppo a lungo». «Devo controllare una cosa là fuori. La catasta di legna e i bidoni di combustibile sono caduti». «Cavoli». Si rialzò e indossò gli scarponi. «Ti do una mano coi fusti. Comunque, questo è niente. Stamattina tutta la mia dannata casa è scomparsa nel terreno!» «Cosa? Ma se l’ho vista una settimana fa, mentre tornavo qui. Sembrava a posto». 44


«Giuro che è vero. A proposito, quel giorno ti ho visto. Ero seduto in casa a mangiare un po’ di carne secca ascoltando la pioggia, quando ho sentito un motore all’esterno. Sono corso alla finestra e ti ho visto passare. È così che ho scoperto che eri ancora vivo. A ogni modo, cosa stavi facendo là fuori?» «Cercavo di raggiungere Renick – ma non c’è più». «Sommersa?» Annuii. «Già, puoi ben dirlo. Il campanile della chiesa e la cima del silo del vecchio Laudermilk sono ancora sopra il livello dell’acqua, ma è tutto qui». «Be’, che mi venga un colpo. Sopravvissuti?» «Non che ne abbia visti. Mi sa che la Guardia Nazionale deve avere evacuato tutti prima che l’acqua diventasse troppo alta». Carl scosse la testa tristemente. «Lo spero proprio». «Anch’io. Allora, perché quel giorno non mi hai fatto qualche segnale?» «L’ho fatto», disse Carl, allacciandosi gli scarponi. «Ma probabilmente non mi hai visto per colpa della pioggia e della nebbia. Ho urlato più forte che potevo. Pensavo stesse per scoppiarmi una vena. Però non volevo lasciare Macy e i suoi cuccioli da soli troppo a lungo». Macy era il beagle di Carl, una vecchia cagnetta rognosa col muso da coniglio che, posso giurarlo, lui amava più di qualunque essere umano sulla faccia della terra. «Per questo non eri venuto a dare un’occhiata se ero ancora in giro?» Annuì. «Pensavo te ne fossi andato con la Guardia Nazionale, finché non ho visto il pick-up. Dopo volevo fare un salto a controllare, ma non volevo lasciarla sola. Macy e i cuccioli erano tutto ciò che mi rimaneva. Sarebbe stata una vergogna abbandonarli così. E se gli fosse successo qualcosa mentre non c’ero?» Mi strinsi nelle spalle. «Cosa poteva succedere?» La voce di Carl si ridusse a un sussurro. «Non lo so, Teddy. 45


Ma qualche volta… qualche volta sentivo delle cose di notte. Fuori, nella pioggia. Anche Macy le sentiva, e cominciava a ringhiare e abbaiare». Per qualche ragione, mi tornò in mente il versetto della Bibbia. Le cose che sorgono dalla polvere della terra e annientano la speranza degli uomini. «Che genere di cose?» domandai. «Non so come descriverle di preciso. Una specie di sciacquio, forse». «è soltanto la pioggia». Misi la mano sul pomello della porta. Carl finì di allacciarsi gli scarponi. «Nossignore, non credo proprio. C’era qualcos’altro – una specie di sibilo. Mi ha dato i brividi quando l’ho sentito». Lo fissai. Avevo visto l’Alzheimer e la demenza senile prendersi alcuni dei miei migliori amici, ma Carl non sembrava soffrirne. Né sembrava fosse vittima di un esaurimento nervoso. Era quello di sempre. In più, io stesso avevo sentito qualcosa, proprio quella mattina. E l’avevo anche visto. Qualcosa che somigliava alla versione grande quanto un cane dei vermi che si contorcevano nel mio garage. «Quello che so», continuò, «è che non era naturale». «Be’, logico, fosse stato un suono naturale l’avresti riconosciuto. Su, vieni a darmi una mano, se hai voglia». Ci spostammo di nuovo in garage. Mentre guadavamo tra i vermi e arrancavamo nella palude che aveva sostituito il cortile posteriore, Carl mi raccontò cos’era successo in seguito. Non aveva voluto abbandonare la casa perché Macy aveva appena partorito e i cuccioli non avevano nemmeno gli occhi aperti. Non voleva lasciarli soli, neanche per i pochi minuti che gli sarebbero occorsi per venire a cercarmi. Carl aveva il cuore simile a un grosso e vecchio marshmallow quando si trattava di quel bastardino. 46


La casa, l’ufficio postale e il suo negozio di mangimi facevano parte di un unico, grande edificio sgangherato. Alla fine della seconda settimana la cantina, dal pavimento in terra battuta, era già allagata, e il Trentesimo Giorno le fondamenta avevano cominciato a gemere e scricchiolare. Tuttavia, si era rifiutato di andarsene, volendo restare col suo segugio e i cagnolini. Stamattina si era alzato all’alba; probabilmente attorno all’ora in cui succedeva quella cosa all’uccellino. «Cosa ti ha svegliato?» gli chiesi, mentre attraversavamo il cortile fangoso. «Macy stava abbaiando e ululando così forte da svegliare i morti», disse Carl. «Non c’era niente che riuscisse a calmarla. E guaivano anche i cagnetti». «Be’, cos’è che li aveva fatti agitare tanto?» «La casa ha cominciato a tremare. Non me ne sono accorto subito, ma i cani sì. Avevo sentito dire su Discovery Channel che gli animali avvertono i terremoti prima che si verifichino. Mi sa che è successo qualcosa del genere». «Un terremoto?» «Be’, mi sa di sì. Di sicuro ci somigliava. Ha fatto cadere i piatti dalla credenza, e il mio mobiletto con l’impianto s’è ribaltato. S’è sfasciato quel grosso televisore che ho comprato al Wal-Mart l’anno scorso». «Mi dispiace», dissi, ed era vero. Carl aveva amato quella televisione quasi quanto amava la sua cagnetta. Fece spallucce. «Tanto non c’era più niente da vedere, con l’elettricità fuori uso e tutto il resto. Credo che quei satelliti lassù continuino a trasmettere segnali e cose del genere, ma non c’è rimasto più nessuno per guardare i programmi». «E allora cos’hai fatto?» lo incalzai, cercando di riportarlo in carreggiata. «Sbaglio o hai detto che la casa è sprofondata nel terreno?» 47


Uno scarpone di Carl affondò nella melma e lo estrasse dal pantano con un rumore di risucchio. «Tutto continuava a sbattere e tremare. Sono corso fuori per avviare il furgoncino. Pensavo di caricarci i cani e tutto ciò che riuscivo a prendere per poi venire a cercarti. Non so perché. Ero spaventato, Teddy. Non ero lucido. Non so cosa pensavo tu potessi fare per migliorare la situazione, ma mi capisci, vero?» Annuii. «Comunque, mi ero appena voltato per rientrare in casa e prendere i cani, e allora…» La sua voce s’incrinò. «Vai avanti, Carl». «Poi l’intera struttura è crollata. È proprio sprofondata nel terreno. La mia casa, i cani, il negozio, il fienile, la vecchia e grossa quercia sul retro con ancora appesa l’altalena fatta con un copertone, persino il lampione. È svanito tutto nel giro di pochi secondi, inghiottito dal suolo. La terra era così bagnata che non si è nemmeno alzata una nube di polvere o altro. È semplicemente andato tutto giù sottoterra». «Andato?» Ero sbalordito. «Andato. Il fango s’è ingoiato ogni cosa. Mi sa che doveva essere una dolina. Forse il terremoto l’ha aperta. Devo averci costruito la mia casa sopra, ed è stata lì per tutti questi anni. Anche sotto casa di Mike Rapp è pieno di cavità, e io vivo poco più a monte di lui». Considerai quella possibilità. Il West Virginia era famigerato per le doline, in particolar modo nella regione sud-orientale, dove abitavamo noi. Punteggiavano ogni collina e pascolo della contea, e le montagne erano crivellate di grotte calcaree, cave e vecchie miniere. «Ho sentito Macy», sussurrò Carl. «Ululava e mugolava laggiù sottoterra. La buca è collassata su se stessa. Le pareti l’hanno sigillata. Ma riuscivo ancora a sentirla, tanto debole, proveniente dal sottosuolo. E poi ha smesso. Ho cominciato a scavare con le mani, ma il fango continuava a riempire dove scavavo. 48


Non c’era nient’altro che potessi fare, e mi sentivo così…» Il suo viso si sgretolò e cominciò a piangere. Grosse lacrime gli solcarono la faccia resa simile a cuoio da anni di intemperie. Le sue spalle tremarono e il suo respiro si mozzò nel petto. «È morta, e non ho potuto fare niente per aiutarla». Volevo consolarlo, ma non sapevo cosa dire, così non dissi nulla. Carl e io non eravamo i tipi da abbracciarci. Non avevamo confidenza col nostro lato femminile e oserei dire che non eravamo delle donnicciole. Uomini della nostra generazione non sono stati cresciuti in quel modo. Feci l’unica cosa che potevo. Gli poggiai una mano sulla spalla. Si asciugò gli occhi. Era abbastanza. Camminammo fino alla catasta di legna, e io pensavo alle doline e mi domandavo se casa mia ci fosse stata costruita sopra. Ma ciò che scoprimmo quando sguazzammo fin là non era una dolina. Era qualcosa di molto peggio. Ed era solo l’inizio…

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Traducendo l’Apocalisse di Luigi Musolino

Mi sono imbattuto per la prima volta nell’opera di Brian Keene nel 2009. Da qualche tempo, alcuni dei maggiori blog dedicati al fantastico, vedi alla voce Malpertuis, Il blog sull’orlo del mondo e Midian, parlavano in toni entusiastici dei volumi dell’autore americano, auspicandone lo sbarco in Italia. Il tamtam degli appassionati stava creando un’aura leggendaria intorno a quest’autore, e decisi di ordinare su Amazon The Conqueror Worms, descritto come un romanzo horror-apocalittico condito da visioni lovecraftiane, personaggi memorabili e creature spaventose. Il primo impatto col volume, arrivato a mezzo posta un paio di settimane dopo, fu singolare. La copertina raffigurava un paio di lombriconi che sorgevano dalla strada asfaltata di una metropoli. Sembrava la locandina mal riuscita di un B-Movie anni ’50. A completare il tutto, la scritta: “Brian Keene is the next Stephen King!”. Ecco, sì, quello che conta di un libro è il contenuto, ma ricordo che la copertina di The Conqueror Worms mi strappò un sorriso. Poi, iniziata la lettura, dopo appena una cinquantina di pagine, capii subito di trovarmi alle prese con un lavoro meraviglioso. Impossibile non rimanere catturati senza possibilità di scampo dal folgorante incipit: Stava piovendo la mattina in cui i lombrichi invasero il mio garage. La pioggia era qualcosa che mi aspettavo. I vermi furono una 50


sorpresa, e ciò che venne dopo di loro fu un inferno, puro e semplice. Ma la pioggia – quella era normale. L’ennesimo giorno piovoso. Empatizzare con i protagonisti, finire catapultato nel mondo in rovina pennellato con incredibile maestria da Keene, fu questione di poche ore. Di rado mi era capitato di trovarmi di fronte a un autore tanto sicuro di sé nella costruzione della storia, tanto capace nel tratteggiare psicologicamente i suoi protagonisti. Tutto con uno stile asciutto e straight-in-your-face. Terminai il volume in pochi giorni, ripensai al paragone kinghiano stampigliato in copertina e mi dissi: cazzate. Due scrittori agli antipodi per quanto riguarda stile e contenuti. Keene, al contrario del suo ben più celebrato collega, ci sbatte in faccia l’orrore senza troppi giri di parole. E mostra tutto quello che c’è da mostrare, dopo aver creato la giusta suspense con una sensibilità unica. Perché? Perché questo capolavoro non è mai stato pubblicato in Italia?, ricordo che mi domandai, allibito, il tarlo di un’idea che cominciava a frugarmi nella capoccia. Poi accesi il computer e ordinai un altro blocco di volumi di Brian. Ero già in astinenza. Alcuni mesi dopo, appena terminata la traduzione di due raccolte antologiche per la Dagon Press: Rivelazioni in nero e Ritratti al chiaro di luna di Carl Jacobi, entrai nelle file dei soci di Edizioni XII. Il tempo a disposizione non mi mancava e il tarlo che si era insediato nella mia testa appena conclusa la lettura di The Conqueror Worms ricominciò a scavare con la foga dei bestioni sotterranei di Keene. E se provassi a tradurre un paio di capitoli dei Vermi e inviarli a Edizioni XII in visione? mi chiesi. 51


Non ne ebbi il tempo. La casa editrice aveva già comprato i diritti del libro, e qualche giorno dopo mi arrivò una mail di Daniele Bonfanti e Luigi Acerbi. Te la senti di tradurre The Conqueror Worms di Brian Keene? Traduci il primo capitolo e ce lo invii per una valutazione? Detto, fatto. E così è iniziata quest’avventura. La prima fase, il lavoro di traduzione “puro”, ha richiesto circa cinque mesi. È stata un’esperienza emozionante far “crescere” nella nostra lingua il romanzo di Brian Keene, giorno dopo giorno. Senza dubbio la parte più complicata della trasposizione è stata quella riguardante i dialoghi e le espressioni colloquiali. All’interno di The Conqueror Worms si muovono numerosi personaggi, diversissimi per quanto riguarda età e ceto sociale di provenienza: arzilli vecchietti di campagna si affiancano a giovani di città, rapper provenienti dalla strada interagiscono con ex-insegnanti e con yuppie scampati al Diluvio che flagella il mondo; per ognuno di questi soggetti è stato necessario cogliere le sfumature – a volte quasi dialettiche – della loro parlata, insistere sulle espressioni caratterizzanti. I dialoghi dei ragazzi di colore, ad esempio, con la loro terminologia da gangsta, sono stati tra i più difficili da rendere in italiano. Prima accennavo allo stile asciutto e diretto dell’autore americano: da una parte può essere un vantaggio avere a che fare con frasi semplici e lineari, ma può anche rivelarsi un’arma a doppio taglio. Non sempre è stato facile riprodurre lo stile essenziale di Keene rispettandone la metrica e il senso del ritmo, cogliere il suo gusto per la sintesi che si esplica in periodi e sequenze action diretti come un cazzotto. Il lavoro, che ha richiesto per forza di cose un’analisi dettagliata del testo, mi è stato poi utilissimo per sviscerare le logiche che si nascondono dietro alla creazione di un romanzo. 52


La storia di The Conqueror Worms si snoda principalmente su due piani spaziali-temporali, ed è chiaro che il lavoro di preparazione di Keene è stato molto dettagliato: ogni personaggio, ogni capitolo è storia a sé, ed è possibile analizzarli singolarmente come tasselli di un puzzle che s’incastrano alla perfezione per riprodurre l’apocalittico disegno complessivo di The Conqueror Worms. Oltre che come traduttore, dunque, credo che questa esperienza mi abbia fatto crescere molto anche come scrittore. Conclusa la traduzione vera e propria, siamo passati alla seconda fase, quella di revisione e contro-revisione. Dico “siamo” perché sono stato affiancato dall’editor in chief di Edizioni XII, Daniele Bonfanti – e qui è indispensabile un inchino – che con la sua professionalità ha rivisto la traduzione ed effettuato le manovre di editing. Io e Daniele ci siamo “rimpallati” i capitoli, confrontandoci sui dubbi e sugli eventuali aggiustamenti per rendere migliore possibile la forma finale. La sensibilità e la padronanza del linguaggio di Daniele sono state indispensabili per cogliere tutte le sfaccettature della versione inglese, e non posso che ringraziarlo di cuore, anche perché con lui il lavoro di review si è trasformato in un processo gratificante e divertente. Daniele ha un dono immenso: ti cazzia quando sbagli, ti fa capire le cose e allo stesso tempo riesce ad ammazzarti dalle risate, con un senso dell’humour tutto suo. Affrontare un lavoro impegnativo come la traduzione di un romanzo riuscendo anche a divertirmi è stato più di quanto potessi desiderare. Thanks dude, I reckon you’re the best! ;) La palla è poi passata a Simone Corà, Strumm e Valentina Erba, che hanno rivisto ulteriormente il testo per gli ultimi aggiustamenti e controlli, concentrandosi soprattutto sulla forma italiana e sulla corretta interpretazione di tutte le espressioni colloquiali. 53


Si è trattato quindi di un lavoro corale, in cui ognuno ha messo ai servigi dei Vermi conquistatori le sue capacità: credo che il meccanismo abbia funzionato alla perfezione e il risultato finale mi soddisfa appieno. E sono sicuro potranno dire lo stesso i lettori che si avvicineranno per la prima volta a questo gigante dell’horror moderno. Tenetevi pronti. L’era dei Vermi – e di Brian Keene – sta per cominciare.

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Brian Keene e il fantastico apocalittico: parla Danilo Arona di Fabrizio Vercelli

[La Tela Nera]: Considerando il carattere soprattutto apocalittico de I vermi conquistatori, il libro di Brian Keene pubblicato a breve da Edizioni XII, quali ritieni siano le motivazioni che portano il pubblico e gli stessi autori ad avvicinarsi così tanto a opere di questo taglio? Concordi ci sia una maggiore attenzione, e una maggiore profondità, per questi temi tanto vicini all’horror? Se sì: pensi che gli autori del fantastico (fantascienza, horror, mistero) stiano in qualche modo cogliendo segnali d’allarme “reali”, oppure si tratta solo di una tendenza momentanea? [Danilo Arona]: Concordo, ovvio. E il leit-motiv è semplice quanto inquietante: la tendenza del momento – una tendenza condivisa (tra scrittori e scrittori, tra gli stessi e il pubblico) – è quella di cogliere, direi meglio di “percepire” segnali di allarme concreti e reali. Concedimi una spudorata autocitazione che però esprime al meglio la mia opinione. In un’intervista di qualche mese fa, rilasciata all’amico Francesco Cascione di mentelocale.it in merito alle tematiche “sottotraccia” de L’estate di Montebuio, dichiaravo quanto segue: «L’inconscio collettivo del pianeta è in fibrillazione per un catastrofico giro di boa che un geniale sistema di convenzioni (anche commerciali) ha datato all’anno 2012, speculandoci alla grande tra film e libri. Da qui al fatto che sta per accadere veramente qualcosa ce ne passa e forse alla fine il tutto potrebbe ridursi alla constatazione post 55


11/09 che viviamo in un limbo inconsapevole di aspettativa quotidiana della catastrofe. Però il pianeta non sta bene, il cosmo non sta meglio e la tecnologia là fuori è sempre meno affidabile. Gli scrittori autentici, quelli che hanno un terzo occhio aperto in “altre” dimensioni, in qualche modo ricevono messaggi su tanta precarietà – da dove?... se ne può discutere - alla loro maniera li traducono in fiction.» Il fatto è che tutti ci portiamo dentro una sorta di “informazione sepolta” dell’Apocalisse, una sorta di traccia filogenetica, trasmessa a livello cellulare ai posteri sin dai primordi dell’umanità. Dall’altro viviamo in una costante condizione di “preallarme”: in tutto il mondo si applicano misure antiterrorismo che limitano i nostri spostamenti e ogni giorno gli schermi televisivi ci propongono disastri, attentati e carne umana macellata. Questo bolo mediatico ci dispone, come sottolineavo prima, in un’aspettativa quotidiana della catastrofe... Così radicata che, quando arriva (in qualsiasi forma), la cosa non ci sorprende più di tanto. Ecco, secondo me, proprio di questo dovrebbe trattare il gotico moderno: della percezione dell’Apocalisse in atto... Anche perché siamo circondati da un’Apocalisse più subdola, ma non meno pericolosa. Quella delle menti. Se poi più cervelli taroccati si coalizzano, c’è ben poco da sperare. L’Apocalisse economica di due anni fa è un discreto esempio di quel che dico. Ma anche la più recente cronaca nera. Non si capisce bene da qui come stiano messe le altre nazioni (a naso, non bene...), ma ogni giorno sfogliare i giornali è uno slittamento progressivo nel collo di un imbuto che emana caos, delirio e sofferenza. Non faccio riferimenti specifici, li 56


conosciamo tutti bene, ma il vero scandalo “morale” in Italia è l’indifferenza generale con cui questa sorta di “guerra” sociale viene in genere recepita. Se il pianeta è percorso in lungo e in largo da barbari allucinanti che risolvono i loro problemi stuprando ragazzine o uccidendo vittime a casaccio o infilzando gatti e cani randagi, è giusto che lo stesso pianeta venga fagocitato “dall’interno” dai vermi conquistatori di Brian Keene. Certo che la tentazione per uno scrittore come me, per quanto agnostico e felicemente laico, è quello di cedere alla possibilità – sempre affrontata e reputata “reale” nei miei scritti – di un’energia demoniaca in grado di “entrare dentro” e di “possederti” al pari di un qualsiasi Pazuzu sumerico. L’ho battezzata in tanti modi: Eggregoro, Sale Nero, Black Magic Woman... ma sempre quella è. Una frequenza mostruosa, forse “quantica”, una vibrazione planetaria che spinge chi la ode tra le braccia dell’Ingiustizia. Forse è bene che cominciamo a ragionarci su – tutti assieme, quelli che li vogliono fare, ma a Edizioni XII già lo stanno facendo da quel bel dì, lo so bene... – non più in termini di fiction, ma di “Reami del Possibile”. A queste considerazioni mi spingono le letture di tanti, recenti romanzi di autori horror, ma non solo (e sono soprattutto quelli “esterni” a risultare per paradosso più significativi: gente come Tullio Avoledo, Valter Binaghi, Sandro veronesi, Thomas Glavinic, José Saramago, con lavori fulminanti che ti raccontano la possibilità di una “Fine”....), quelli che lo stesso Avoledo chiama “Rabdomanti del Male”. Ecco, forse qui il cerchio si chiude. Perché se anche il mercato editoriale mainstream inizia a usare gli identici strumenti del 57


gotico e dell’horror per allarmare il “lettore non di genere”, là fuori – nell’Infosfera o nella “Tanatosfera” – qualcosa sta sul serio imputridendo. La puzza giusta per dei vermi giganti... Danilo Arona è giornalista, scrittore, romanziere, saggista, musicista, critico cinematografico e letterario, instancabile “nomade” editoriale e anche ricercatore sul campo di “storie ai confini della realtà”. Sito personale: DaniloArona.com Intervista pubblicata su La Tela Nera il 27/01/2011: http://www.latelanera.com/editoria/news/notizia.asp?id=2082

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Brian Keene e l’Apocalisse: la parola agli altri protagonisti del fantastico italiano

Clicca sui link nell’elenco per leggere le interviste di Fabrizio Vercelli, pubblicate sul portale La Tela Nera, ad alcuni dei più importanti autori del panorama fantastico italiano. L’intervista a Massimo Mongai L’intervista a Barbara Baraldi L’intervista a Alessandro Girola L’intervista a Samuel Marolla L’intervista a Gianfranco de Turris L’intervista a Francesco Dimitri L’intervista a Gianfranco Manfredi L’intervista a Giovanni De Matteo L’intervista a Andrea G. Colombo

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Indice della demo Parte Prima Il verme mattutino cattura l’uccellino Capitolo uno Capitolo due Traducendo l’apocalisse di Luigi Musolino

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Brian Keene e il fantastico apocalittico: parla Danilo Arona di Fabrizio Vercelli 55 Brian Keene e l’Apocalisse: la parola agli altri protagonisti del fantastico italiano 59


Indice del libro integrale Parte Prima Il verme mattutino cattura l’uccellino Capitolo uno

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Capitolo due

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Capitolo tre

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Capitolo quattro

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Capitolo cinque

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Capitolo sei Parte seconda Su tutti noi deve cadere un po’ di pioggia Capitolo sette

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Capitolo otto

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Capitolo nove

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Capitolo dieci

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Parte terza Il verme si arrabbia Capitolo undici

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Capitolo dodici

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Capitolo tredici

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Capitolo quattordici

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- Eclissi Si deve imparare a vedere nell’ombra dell’Immaginario, poiché il debole sole della Realtà non sorge tutti i giorni collana diretta da Luigi Acerbi Melodia di Daniele Bonfanti Abattoir di Ian Delacroix La corsa selvatica di Riccardo Coltri Ritorno a Bassavilla di Danilo Arona Six Shots di Alfredo Mogavero Raimondo Mirabile, futurista di Graziano Versace I ragni zingari di Nicola Lombardi

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Nelle altre collane Archetipi raccolta a cura di Luigi Acerbi e Daniele Bonfanti in collaborazione con La Tela Nera Carnevale raccolta a cura di Daniele Bonfanti e David Riva Inferno 17 di Davide Cassia Diario Pulp di Strumm In due si uccide meglio di Giuseppe Pastore e Stefano Valbonesi Opera sei di David Riva Il segreto del Morbillaio di Danilo Giovanelli La clessidra d’avorio di Davide Cassia e Stefano Sampietro Maledette zanzare di Simone Corà Corti raccolta a cura di Francesco Angelo Lanza Corti - Seconda Stagione raccolta a cura di Raffaele Serafini


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