Dedicato a Joe R. Lansdale
Ho conosciuto Richard Harold Dale a Washington, nel 1998. Quel giorno cadeva il suo ottantesimo compleanno. Un bel traguardo per un ragazzino che sessantacinque anni prima aveva visto la morte in faccia buttandosi a caccia di un gigantesco cinghiale. Aveva ucciso da solo la bestia, che infestava tutte le fattorie della zona, ed era diventato un eroe popolare, il Guglielmo Tell del Texas meridionale. Dopo aver spento le candeline con la famiglia, accorsa numerosa a festeggiarlo, il vecchio mi prese da parte e mi spiegò il perché avesse mandato una lettera a me, uno sconosciuto, chiedendomi di incontrarlo. Il suo sguardo celava una tristezza infinita. In effetti mi stavo ponendo la domanda da un paio di giorni,
quando avevo ricevuto il messaggio, ma essendo io una persona paziente non era un problema attendere che il vecchio finisse la sua fetta di torta. In barba al diabete. Dopo aver perso la moglie nel ‘54, portata via da un cancro al pancreas che aveva preceduto di due mesi il giorno del loro decimo anniversario di matrimonio, Richard si era trasformato. Aveva trentasei anni, due cavalli, una mucca, una fattoria che dopo tanti sforzi iniziava ad ingranare ed una stalla con un tetto da rimettere in ordine. Vendette tutto e usò una parte dei soldi per comprare una macchina di seconda mano. Da sedentario proprietario terriero diventò un giramondo instancabile. Viaggiò per gli Stati Uniti, da est a ovest, conquistando montagne, valicando fiumi, alzando polvere nelle deserte strade di provincia. Quindi si fermò di nuovo. Più a
nord, a Vancouver, in Canada. Era il 1969, gli anni di Richard erano saliti a cinquantuno. La prima cosa che fece fu affittare una stanzetta in una modesta pensione in periferia, in una zona abitata principalmente da immigrati cinesi. Il calore umano delle gente e i rumori delle strade lo aiutavano a sopportare il clima rigido, così distante dall’assolato caldo del suo amato Texas. Anche il cibo, a base di salmone e spezie orientali, era molto differente da quello a cui era abituato. Da giovane era magro, come chiunque cresca in una famiglia che deve far quadrare i conti con pochi spiccioli. Oggi aveva dovuto aggiungere due buchi alla cintura, colpa di una pessima dieta a base di troppe calorie e bicchierini di whisky trangugiati d’un fiato. Aveva preso l’abitudine di portare la camicia di flanella a quadroni fuori dai pantaloni per nascondere la pancia incipiente, ma anche
così non ingannava nessuno. Si sarebbe potuto dire che i chilometri macinati avessero accelerato il suo invecchiamento: i capelli erano argentei e andavano diradandosi, lasciando spazio alla fronte rugosa; gli occhi azzurri appannati dalla stanchezza. Richard aveva individuato a Vancouver il suo obiettivo. Non saprei dire se fosse ciò che stava cercando sin dal principio o se si trattò un’idea del momento. Trovò lavoro presso una fabbrica di legname ai margini dalla città. Se la cavava con i numeri e riuscì ad improvvisarsi contabile. A fine mese elargiva paghe e buoni consigli ad un branco di bifolchi che spendeva gran parte dei dollari guadagnati la sera stessa, ubriacandosi con la scusa di combattere il freddo. Alcune volte Richard li imitava, unendosi a loro, altre volte preferiva rimanere da solo. In quelle serate
parcheggiava la macchina poco lontano dalla pensione, in uno spiazzo alberato che si affacciava sulla foce del fiume Fraser. Da lì poteva ammirare il placido specchio d’acqua, così diverso dal tempestoso Sabine, giù dalle sue parti, e ripensare al passato, ai ricordi, alle emozioni mai sbiadite. I giorni si susseguirono monotoni per due anni. Tornando dal lavoro in quell’umile alberghetto che si rifiutava di chiamare casa passava ogni volta davanti alla bottega di un orologiaio. All’interno, ben visibile dalla vetrina, faceva bella mostra di sé un enorme tappeto. Era ricavato dalla pelle di un animale, uno di quei drappi folkloristici tipici delle baite di montagna. Il pelo era marrone scuro, con qualche striatura di grigio, e ricopriva gran parte del pavimento di parquet. La pelliccia non
poteva che appartenere ad un grosso orso, ma fin dal primo giorno in cui l’aveva vista, fermatosi al bar di fronte per un bicchiere di vino prima di ripartire, Richard si era convinto che fosse la cotenna del cinghiale che aveva colpito a morte da ragazzo, la terribile bestia del demonio di cui tutti avevano avuto paura. – È lei – ripeteva tra sé e sé, come ossessionato. Non sapeva che il giorno successivo alla sua gloriosa impresa suo padre aveva bruciato il cadavere dell’animale, pelliccia compresa. Una sera, complice qualche sorso di troppo dalla fiaschetta che non mancava mai nella tasca interna del giaccone, decise che doveva agire. Accostò la macchina al marciapiede opposto alla vetrina, spense i fari. Il sole era già tramontato, in giro non si vedeva anima viva. Prese una torcia, la accese e frugò nell’ampio bagagliaio. Trovò ciò che faceva al caso suo, lo
soppesò nella mano destra, quindi si diresse a passo spedito verso l’altro lato della strada e scagliò il cric con violenza contro la vetrina della gioielleria, mandandola in frantumi. Il proprietario del negozio, che come ogni giorno si era fermato dopo la chiusura nel magazzino sul retro per riparare una vecchia pendola il cui cucù si era stancato di cantare in orario, si era dimenticato di abbassare la serranda. Richard si infilò goffamente all’interno del negozio, strappandosi un lembo della manica contro una scheggia. Afferrò il tappeto e cominciò ad arrotolarlo in fretta e furia. Sulla fronte rossa dell’uomo, imperlata di sudore a dispetto del vento freddo che come lui ora poteva introdursi liberamente nel locale, una vena pulsava selvaggiamente. – Cosa ci fa lei qui? Richard si stava caricando il bottino in spalla quando vide un ometto calvo uscire
da una porta dietro il bancone e puntargli contro il dito indice. Sull’altra mano brillava la fede dorata. Erano entrambi spaventati. Per un istante rimasero immobili, indecisi su chi dovesse fare la prima mossa. Il negoziante ruppe gli indugi ed accennò un passo verso il telefono a muro. Ma Richard fu altrettanto lesto e gli scagliò addosso il tappeto. Cinque chili di furia ferina si abbatterono sul collo dell’uomo, che perse l’equilibrio e cadde all’indietro. Le braccia si agitavano nel vuoto cercando un appiglio. Fu un istante lungo un’eternità, prima del tonfo. L’adrenalina riportò Richard ai bei tempi in cui era un ragazzino che correva veloce. Raccolse la pelle da terra, fece dietrofront e con un balzò uscì da dove era entrato. Quando atterrò sul marciapiede una fitta al ginocchio lo rallentò per un momento ma non gli impedì di precipitarsi alla macchina.
Partì sgommando, lasciando una striscia nera sull’asfalto. Corse a tutta birra verso l’autostrada, dritto verso il confine con gli Stati Uniti. Non fece mai più ritorno in Canada. – Cosa vuole da me? – gli urlai in faccia dopo aver ascoltato la storia. Mi tremavano le mani. – Chiederti scusa – fu la risposta. Quella sera mio padre sembrava tramortito. Invece, crollando al suolo, si ruppe la schiena. Finì su una sedia a rotelle, cadde in depressione, iniziò a bere. Non riusciva più a riparare gli orologi, figurarsi se era in grado di rimettere insieme i frantumi della sua vita. Si suicidò qualche mese dopo, con una pallottola in testa, un pallido ricordo della persona vitale che era stato. Avevo da poco compiuto sette anni. – Ho letto sul giornale cosa era successo – le lacrime rigavano gli occhi del
vecchio. – Ho cercato più volte il coraggio di venire da te. Mi alzai facendo cadere le sedia e me ne andai, sbattendo la porta. Richard Harold Dale morì esattamente una settimana dopo. La polizia trovò il corpo nel soggiorno, steso inerme sulla pelle d’orso. Sembrava che dormisse ma era stato stroncato da un infarto. Ancora oggi nel sud del Texas qualcuno racconta la leggenda del quindicenne coraggioso che da solo abbatté il cinghiale del demonio. Nessuno, però, crede sul serio che si tratti di una storia vera.