Lavoro italiano nel mondo

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LAVORO ITALIANO NEL MONDO

MARIO CARLUTTI


Ponte sul fiume Moscova (Mosca, Russia)



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Mario Carlutti: un friulano nel mondo

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uando si racconta la storia della propria vita, specie se questa è stata un’avventura lunga e straordinaria, può esserci il rischio di scadere nella retorica dell’autocompiacimento. Non è il caso di Mario Carlutti. Friulano, classe 1921, industriale delle costruzioni, Cavaliere del lavoro: a novant’anni compiuti ha deciso di raccontarsi soprattutto per fermare nello scritto – con tratto deciso, ma discreto – le istantanee di quanto realizzato in oltre sessant’anni di impegno imprenditoriale. Non per vezzo narcisista, ma per il desiderio di rinnovare - come Carlutti stesso nota, ripensando le prime esperienze - “l’incanto di un bambino che scopre nel lavoro un gioco e non un peso, quasi si trattasse di un’affascinante avventura”. Sfogliando questo libro si ritrova il forte senso del lavoro, inteso come impegno concreto di vita, la correttezza e la serietà di un imprenditore che ha costruito opere significative a livello ingegneristico e tecnologico un po’ in tutto il mondo. Senza mai dimenticare la sua terra. Dopo il terremoto del 1976, infatti, Carlutti promuove la creazione del Consorzio Ricostruzione Friuli e ne assume la presidenza, contribuendo attivamente alla ricostruzione. In queste pagine, del resto, c’è una Storia nella storia, perché l’attività di Carlutti ha attraversato i momenti più cruciali della vita economica e sociale del Friuli. Il dar vita a un’impresa propria, infatti, mettendo a frutto le esperienze di direttore dei lavori in cantieri sparsi nel mondo, ha coinciso con l’industrializzazione di questa terra. Poi è arrivata l’apertura ai mercati internazionali, prima verso i paesi dell’Est - a seguito anche dell’espansione di Danieli e Cogolo, altre due importanti realtà industriali friulane – dove costruisce concerie, calzaturifici, acciaierie, autostrade, aeroporti, centri residenziali. Dopo, verso il mondo, con la partecipazione a iniziative di cooperazione allo sviluppo in Medio Oriente, Africa centrale e settentrionale, fino alla presenza negli Stati Uniti. Sempre alla ricerca di soluzioni avanzate per le opere più impegnative: una su tutte, per “importanza, prestigio, moderna e avveniristica bellezza architettonica”, il ponte pedonale sulla Moscova, lungo 215 metri, con campata di 150, realizzato con una struttura portante di acciaio e facciate curve in policarbonato e vetro, di cui Carlutti va giustamente orgoglioso. Fil rouge di questo suo operare, il senso “alto” del fare impresa, come strumento non solo di profitto, quanto piuttosto con l’obiettivo di dare il proprio contributo alla crescita e al benessere della società civile, in qualunque paese del mondo fosse. Questa è la storia di un imprenditore che, guardandosi indietro, si preoccupa solo di aver compiuto null’altro che il proprio dovere, lasciandosi quale unica aspirazione quella di trasferire un “messaggio di speranza” alle giovani generazioni. Confindustria è orgogliosa di industriali come Mario Carlutti che sanno interpretare, con l’“incanto” di un animo autentico, un mestiere affascinante: fare impresa. Oggi non è facile fare l’imprenditore. Ma ieri come oggi bisogna essere consapevoli che senza impresa non c’è possibilità di sviluppo e - soprattutto - non ci sono speranze sostenibili per i giovani. Storie di vita e di imprenditoria come quella di Mario Carlutti incoraggiano ad avere fiducia e ci spronano a costruire un futuro degno, di noi e dei nostri figli.

Emma Marcegaglia Presidente di Confindustria

Adriano Luci Presidente di Confindustria Udine

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Centinatura del viadotto sul fiume Nera

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Parte II

LAVORI IN ITALIA

Premessa L’Impresa CISA Lavori Aeroportuali Lavori Idraulici e di Bonifica Lavori Autostradali Lavori Stradali Urbanizzazioni e Infrastrutture Opere Edili

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Premessa

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on l’ausilio delle fotografie che ho gelosamente custodito per tanti anni, desidero rievocare i giorni febbrili da me vissuti per contribuire in qualche misura all’affermazione del lavoro italiano nel mondo. Sono ancora lucidissimi i ricordi e nel trasferirli in queste pagine provo un senso di orgoglio che mi auguro sia condiviso da quanti mi hanno beneficiato della loro collaborazione, manifestando sempre un alto senso del dovere e una straordinaria competenza nelle proprie mansioni: ad essi rinnovo il mio apprezzamento con profonda gratitudine. La Cisa ha rappresentato la base della mia lunga attività: l’ho fatta nascere, ho favorito la sua crescita, l’ho accompagnata nella sua evoluzione, così come un genitore fa con il figlio. Tra me e questa impresa è andata maturando un’osmosi che il tempo non riuscirà mai ad affievolire. È stato grazie all’efficienza della Cisa, da tutti riconosciuta, che opere di straordinario impegno e spesso di grande valore sociale sono state realizzate in tante parti del mondo: gli appalti acquisiti sono stati sempre più numerosi, indipendentemente dalle situazioni politiche e dai regimi insediati nei vari Paesi; ciò sta a dimostrare che il biglietto da visita della serietà, della competenza e del rispetto delle regole esibito dalla Cisa in tutte le circostanze era il migliore. Per fare fronte agli impegni sempre più numerosi, la Cisa ha tenuto il passo adeguando alle nuove necessità anche le strutture societarie. In occasione della costruzione di un’acciaieria (la più grande del tempo) nella Germania orientale per conto della Danieli di Buttrio, trasformai la ragione sociale in Cea (Compagnia europea appalti), assieme all’impresa Astaldi di Roma e ricoprii la carica di presidente. Successivamente, con l’espansione dell’attività in Russia delle Concerie Cogolo di Basaldella, per la costruzione dei nuovi opifici, la Cea – che aveva avuto l’appalto – si trasformò in Codest, società che vide l’ingresso dell’impresa De Eccher a fianco delle preesistenti Cisa e Astaldi. Le pagine che seguono vogliono essere una testimonianza del mio impegno come imprenditore durante una vita non priva di avversità, di imprevisti e purtroppo dolori, ma pur ricca di tante soddisfazioni, dovute soprattutto all’intima consapevolezza di avere compiuto il mio dovere. Spero che le mie parole possano essere anche un messaggio di speranza per i giovani che si incamminano nel terzo millennio.

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L’Impresa CISA

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egli anni ’50, dopo i tragici eventi della guerra , l’Italia si ritrovò con le città semidistrutte e piene di macerie, le industrie parzialmente inutilizzate e soprattutto con strade, ferrovie, porti, aeroporti pressoché inesistenti; anche i fiumi, per anni senza manutenzione, rappresentavano una minaccia incombente sulle genti e sul territorio. Gli italiani, con laboriosità, intraprendenza ed entusiasmo, rimboccandosi le maniche, diedero inizio a quel processo di rinascita e di ricostruzione che fu riconosciuto dal mondo intero come il “miracolo italiano”. Tra le opere che richiesero un primo grosso impegno dello Stato e che coinvolsero anche l’impresa CISA, possiamo ricordare l’aeroporto intercontinentale Leonardo da Vinci a Fiumicino, l’Autostrada del Sole Milano - Napoli e numerosi interventi sulle arginature del fiume Po per contrastare le catastrofiche alluvioni degli anni ’50, oltre ad altri lavori di ripristino sui corsi dei fiumi Reno, Samoggia e Tagliamento. Con il carattere temprato da questi importanti lavori brillantemente risolti, l’Impresa Cisa riuscì a farsi conoscere e apprezzare in tutti gli ambienti dei lavori pubblici e privati; per la sua rapidità organizzativa e di intervento in situazioni difficili è stata un punto di riferimento e soprattutto di estrema fiducia in chi, per incarichi istituzionali, aveva la responsabilità di dover affrontare certe situazioni. È anche per questi motivi che nel 1963 l’impresa Cisa venne chiamata per prestare i primi soccorsi alle popolazioni colpite dall’immane tragedia del Vajont; già il giorno dopo la frana, fummo impegnati con i nostri mezzi e uomini ad assicurare almeno le comunicazioni viarie in quel terribile e sconsolato inferno e successivamente contribuimmo ai lavori di messa in sicurezza del territorio e alle opere di ricostruzione. Durante l’altra catastrofe, il terremoto del Friuli nel 1976, la Cisa ebbe parte attiva nel soccorso alle persone e alle cose; in particolare furono determinanti, per la successiva ripresa del lavoro locale, gli interventi alle industrie di Osoppo e Majano duramente colpite. Ricordo, con orgoglio, l’impegno e la dedizione negli interventi da parte del personale dell’impresa che, in molti casi, era stato anch’esso coinvolto direttamente nella perdita della propria casa. Nei mesi che seguirono, la Cisa fu promotrice della costituzione del Consorzio per la Ricostruzione del Friuli (Corif ), del quale divenni Presidente, per realizzare le infrastrutture necessarie a dare un tetto alle persone che lo avevano perso e dedicare un particolare impegno alle opere di ricostruzione vere e proprie.

Lavori Aeroportuali Aeroporto Leonardo da Vinci di Fiumicino Roma - 1957-1960 Roma era stata scelta per lo svolgimento delle Olimpiadi del 1960 e doveva dotarsi in tempi brevi di un moderno aeroporto intercontinentale, poichè quello esistente di Ciampino era insufficiente e non adeguatamente rappresentativo di fronte agli ospiti che da tutto il mondo sarebbero arrivati a Roma. L’ubicazione del nuovo aeroporto fu scelta nei pressi di Fiumicino nei primi anni ’50 e gli appalti che seguirono portarono alla costruzione delle due piste ortogonali; i lavori si protrassero per alcuni anni tra non pochi ritardi per le cause più svariate

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fino a quando non ci si rese conto che, per giungere puntuali all’appuntamento dei Giochi, bisognava imprimere una forte accelerazione ai lavori e così il Ministero dei LL.PP. prese direttamente la gestione e conduzione delle opere (era il 1958) con una nuova direzione tecnica molto qualificata e ferrea che impose alle ditte appaltatrici severi capitolati esecutivi e tempi di esecuzione rapidissimi e molto rigidi. Furono appaltati i lavori per la costruzione della nuova aerostazione e delle opere accessorie; l’apertura dei Giochi era molto vicina. L’Impresa CISA vinse diversi appalti nel 1958 e, nel volgere di pochi mesi, completò ben sei contratti che resero funzionale e fruibile l’aeroporto. Di seguito elenco sinteticamente i lavori che, per la necessaria rapidità di esecuzione, imposero alla CISA l’organizzazione di un campo con il montaggio degli impianti per la produzione di conglomerati cementizi e bituminosi nonché un’area attrezzata per mense, dormitori e uffici: – completamento dei piazzali in calcestruzzo per la sosta degli aerei in corrispondenza della aerostazione (1957-58); – prolungamento della pista di volo n°1, pista di rullaggio e opere accessorie (1958-59); – pavimentazione rigida nei varchi predisposti per gli attraversamenti delle condotte dei carburanti nei piazzali di sosta aeromobili (1959); – completamento dei piazzali di sosta aerei in corrispondenza dei moli dell’aerostazione (1959); – ampliamento del piazzale di sosta molo ovest in corrispondenza dei magazzini doganali dell’aeroporto (1961); – esecuzione della strada della Scafa fra l’Autostrada del Mare a Ostia e l’aeroporto di Fiumicino (1963); questi lavori comportarono il superamento di notevoli difficoltà dovute ai numerosi reperti archeologici di cui era ricca l’area sulla quale era stata tracciata la strada. Aeroporto di Ronchi dei Legionari – Consorzio per l’Aeroporto Giuliano di Ronchi dei Legionari di Trieste - 1963-1964 La vertenza fra l’Italia e l’allora Jugoslavia trovò composizione in un memorandum di intesa il 5 Ottobre 1954 e Trieste rimase assegnata all’Italia; fu evidente subito la necessità, anche politica, di dare un collegamento rapido di Trieste italiana con la capitale Roma; ci volle qualche anno, ma alla fine fu deciso di trasformare l’avio-superficie di Ronchi dei Legionari in un moderno aeroporto internazionale. Al momento dell’appalto l’aeroporto aveva una pista in terra battuta rinforzata con piastre metalliche alleggerite realizzate dagli alleati anglo-americani nel periodo postbellico e l’aerostazione era una baracca. L’Impresa CISA appaltò i lavori dal Consorzio per l’Aeroporto Giuliano nell’anno 1963; prevedevano la redazione di un progetto esecutivo per il dimensionamento delle piste, sia quella flessibile di volo sia quella rigida in lastroni di calcestruzzo, erano inoltre previste opere di drenaggio e opere di scolo delle acque piovane. Eseguimmo i lavori nel rispetto dei tempi previsti e con piena soddisfazione della Stazione appaltante. Alla fine degli anni ’80 l’Impresa collaborò alla costruzione dell’attuale Aerostazione; oggi l’aeroporto ha un’efficiente pista di volo e con la nuova funzionale struttura si propone con numerosi voli diretti in tutta Italia e in Europa. Contemporaneamente la Cisa si aggiudicò i lavori per la realizzazione del nuovo stabilimento Aeritalia di Ronchi. L’azienda Aeritalia, che si occupa dello studio e della realizzazione di grandi strutture nel campo aerospaziale, aveva la necessità di disporre di un nuovo stabilimento

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dalle capacitĂ produttive molto elevate; occorrevano anche ampie aree industriali limitrofe alla zona aeroportuale, personale capace e preparato da inserire in un reale contesto di alta specializzazione tecnologica. La scelta cadde su Ronchi dei Legionari.

Ronchi dei Legionari - Stabilimento Aeritalia

Ronchi dei Legionari - Visione notturna della pista di atterraggio

Aeroporto di Elmas Cagliari - 1966-1967 Costruzione della pista di volo, rullaggio e collegamento ai piazzali. Particolarmente interessanti e impegnative furono le opere realizzate nella costruzione della pista di volo in considerazione del tipo di terreno su cui si operava: lo Stagno di Cagliari; i lavori di costruzione furono preceduti da importanti opere di bonifica e consolidamento dei terreni.

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Aeroporto di Bresso Milano - 1967-1968 Lavori di ammodernamento dell’aeroporto mediante la costruzione di una nuova pista di volo e dei piazzali di sosta dell’Aero Club. La vecchia struttura fu completamente trasformata mettendo a disposizione degli appassionati di volo un moderno ed efficiente aeroporto. Aeroporto Marco Polo di Tessera Venezia - 1973-1974 Interventi di costruzione delle pavimentazioni in conglomerato bituminoso sul prolungamento della pista di volo e rifacimento dei tappeti d’usura della pista di rullaggio e delle bretelle di collegamento.

Aeroporto Marco Polo Tessera (VE)

Lavori idraulici e di bonifica Fiume Reno – Bologna e Ferrara - 1949-1954 A seguito della rotta dell’argine del fiume Reno a Gallo (FE) dell’anno 1949 si evidenziarono le urgenti necessità di interventi per la messa in sicurezza dell’alveo e degli argini del Reno in considerazione anche dei tratti pensili del fiume e ciò a evitare ulteriori disastrose inondazioni e salvaguardare i terreni delle province di Bologna e Ferrara. Superata brillantemente la fase di intervento per la chiusura della rotta e il ripristino degli argini, l’impresa restò in zona e negli anni successivi e fino al 1954 eseguì lavori di ripristino e ampliamenti di difese frontali con gabbionate e rivestimenti in sasso trachitico, svasi, regolarizzazioni di sezioni del fiume e rialzi del corpo arginale nelle zone di Alberino di Argenta, Traghetto di Molinella, Passo Segni di Varicella, Passo Morgone alla Sinibalda. I lavori, sempre dichiarati di somma urgenza, richiedevano estrema rapidità di esecuzione anche se spesso con avverse condizioni atmosferiche; l’attenzione e la capacità organizzativa era accentrata soprattutto sui trasporti dei materiali necessari in considerazione della scarsa e poco efficiente rete

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stradale di collegamento; fu necessario insediare cantieri autonomi con alloggi e mense per il personale, stendere linee elettriche e telefoniche e aprire piste a servizio dei cantieri. L’impresa si attrezzò con i più moderni macchinari quali escavatori, bulldozer, autocarri con doppia trazione necessari per muoversi in terreni fangosi (i famosi G.M.C.), baraccamenti, gruppi elettrogeni, pompe per acqua, battipali e complete officine di riparazione dei mezzi meccanici, il tutto per assicurare ai cantieri la completa autonomia funzionale anche in zone disagiate e garantire il rispetto dei tempi di esecuzione contrattuali. Magistrato per il Po di Parma e Genio Civile di Rovigo e di Ferrara Il 14 novembre 1951 ci fu la prima e più tragica alluvione del dopoguerra in località Paviole (Vallice), in località Bosco e a Malcantone di Occhiobello dove il Po ruppe gli argini: l’acqua invase migliaia e migliaia di ettari di campagna della provincia di Rovigo. Purtroppo in quella occasione ci furono anche vittime e ingenti furono i danni al patrimonio immobiliare e all’agricoltura; una regione in ginocchio costrinse il governo a considerare la ristrutturazione idraulica del Bacino del Po per la messa in sicurezza di tutta la pianura Padana. Con interventi mirati e in collaborazione con altre imprese la Cisa partecipò attivamente alla chiusura delle rotte; i lavori presentavano difficoltà notevoli per l’approvvigionamento dei materiali e per i macchinari necessari alla loro posa in opera; in particolare, le difficoltà per far giungere in loco tutto il pietrame necessario, proveniente quasi esclusivamente dai Colli Euganei (Monselice), erano causate dalla viabilità, allora precaria, in un’area condizionata dalla vastità delle terre sommerse dall’acqua. Nel corso degli anni seguenti il Magistrato per il Po, il Genio Civile di Rovigo e di Ferrara realizzarono progetti per la sistemazione degli argini del grande fiume dalla sorgente alla foce e l’impresa CISA è sempre stata impegnata, con una sua struttura, per l’esecuzione degli appalti che via via si aggiudicava. Tutti i rami del Po sono stati interessati da interventi di rialzo, consolidamento e difesa degli argini; in particolare nella zona del Delta la nostra presenza fu pressoché continua e operammo a Coronella di Ferrara, a Pontelagoscuro, alla Coronella Baruffa e a Bergantino dove il tratto del Po era in un froldo di estrema pericolosità: fu protetto da una profonda e robustissima difesa elastica di buzzoni e pietrame che impegnò tutta la nostra esperienza idraulica e organizzativa. L’esecuzione dei lavori sulle arginature del Po richiedevano all’impresa una attenta ricerca di cave per il materiale terroso da impiegare, di solito reperito in golene del fiume, particolarmente scelte per garantire il miglior risultato tecnico dei ringrossi; tali cave, oltre a essere compatibili con la sicurezza idraulica del fiume, dovevano garantire il rispetto dell’ambiente in tutte le sue forme e, pur non essendo ancora di moda ‘ambientalisti e verdi’, i risultati che si ottenevano erano sicuramente migliori di quelli odierni ottenuti con l’imposizione di leggi ad hoc. Chiusura della rotta in sinistra del Po a Goro località Cà del Pastore. Per oltre 15 anni l’impresa fu presente nei lavori di rinforzo delle arginature del Po, in lavori di bonifica e negli interventi d’urgenza per il ripristino degli argini come nella rotta del 1957 a Cà Pastore (RO). In questa località le acque ruppero l’argine sinistro; un evento idrometeorologico di eccezionale portata determinò un notevole afflusso di acqua dai bacini lombardi e piemontesi e il perdurare delle avversità atmosferiche provocarono la forte imbibizione delle arginature con conseguente rottura delle stesse e allagamento di vaste aree; si intervenne tem-

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La rotta del Po - 1951

pestivamente con la costruzione di una banchina lungo tutta la Statale Romea e la chiusura dei canali di bonifica impedendo l’allagamento degli abitati di Taglio di Po, di Ariano Polesine e Corbola preservando dall’inondazione la metà dell’isola di Ariano; dopo aver assicurato e controllato queste opere si procedette alla chiusura della rotta. Il primo grosso problema fu quello di bloccare almeno parzialmente la fuoriuscita dell’acqua per permettere il proseguimento dei lavori di chiusura che già di per se stessi si presentavano con grosse difficoltà. Ne fece le spese una grossa imbarcazione lagunare che caricata di pietrame fu pilotata, con estrema perizia, al centro del fiume con altre barche e con argani posizionati a riva, fino al centro della rotta dove fu istantaneamente affondata; dai due tronconi dell’argine immediatamente furono scaricate tutte le decine e decine di camion GMC, residuati bellici ma potenti, che nel frattempo erano stati predisposti sugli argini e nelle vicinanze; in pochissimo tempo la rotta fu chiusa e le acque ripresero il loro corso naturale: l’operazione fu salutata da molti applausi e arrivarono i rallegramenti delle direzioni di tutto il personale e del mondo del lavoro. Canale Scolmatore tra il Po e il Reno – Cavo Napoleonico Il collegamento fra il Po e il Reno, con un canale artificiale, fu progettato allo scopo di servire da compensazione e regolazione delle acque di piena e di secca fra i due fiumi che, avendo bacini imbriferi e regime idrico diversi, avrebbero potuto aiutarsi in caso di crisi: abbassare le piene e rifornire di acqua i canali di irrigazione. Il nome ‘Cavo’ deriva dal progetto originario redatto nei primi del ’800 dal governo di Napoleone Bonaparte, poi per 150 anni fu dimenticato fino alle catastrofiche alluvioni degli anni ’50 che riaprirono i discorsi.

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Nel 1954 l’impresa Cisa acquisì l’appalto due lotti dei lavori nei pressi di Sant’Agostino in provincia di Ferrara che prevedevano l’escavo del canale con riporto della terra di risulta a formazione delle arginature e rinforzo degli argini del Reno tra Cento e S.Agostino; il materiale in esubero doveva essere trasportato e sistemato nel Bosco della Panfilia, una grande golena del Reno tra S.Agostino e S.Venanzio di Galliera; a completamento dei lavori si procedette con rivestimento di pietrame trachitico dei colli di Monselice del fondo e dei fianchi della savenella del Cavo fino alla prima banca. Il volume complessivo dei movimenti di terra superò di molto il milione di metri cubi, si rese necessario pertanto organizzare l’esecuzione delle opere con attrezzature e ritmi tali da raggiungere una produzione giornaliera di materiale spostato di oltre 5.000 metri cubi. Il cantiere fu suddiviso in tre grandi zone sulle quali si operava per l’escavazione con otto grandi escavatori e per i trasporti con tecniche diverse: sulla prima la terra veniva movimentata con vagoncini Decauville trainati da grossi locomotori Diesel, nella seconda erano gli ormai famosi G.M.C. a trazione integrale a trasportare la terra e infine, per quelle zone che lo permettevano, erano dei grossi autotreni con rimorchio a cassone ribaltabile trilateralmente a effettuare i trasporti nelle zone più lontane. Questa perfetta macchina ben organizzata e instancabile permise all’impresa Cisa di terminare i lavori con largo anticipo sui tempi contrattuali e con la piena soddisfazione della Amministrazione Appaltante. Genio Civile di Bologna Lavori di ripresa della rotta del torrente Samoggia in sinistra e a monte del ponte sulla strada provinciale “Persicetana” (1956). Negli anni ’50 a causa di periodi climatici caratterizzati da forte piovosità e per la scarsa manutenzione degli argini e degli alvei, dovuto anche agli eventi bellici, il bolognese fu interessato da rotte e conseguenti inondazioni con gravi danni, eventi funesti, e perdite di beni, bestiame e prodotti agricoli. Fu di notevole gravità e pesanti conseguenze, nell’autunno del 1956, la rotta del torrente Samoggia tra Bologna e S. Giovanni in Persiceto; il torrente, normalmente di modesta portata, nel tratto dell’agro bolognese con alveo pensile ad alte arginature, a causa di eccezionali e persistenti precipitazioni, tracimò e ruppe gli argini in sinistra al ponte sulla Persicetana. L’inondazione interessò tutta la zona di S. Giovanni in Persiceto fino oltre alla Decima e provocò gravissimi danni ai fertili campi compresi molti frutteti e altre pregiate coltivazioni. Alla rottura degli argini seguì un repentino abbassamento della quota delle acque, quasi un prosciugamento dell’alveo che causò numerosi smottamenti e frane sulle arginature; la precaria sicurezza degli argini rimasti rese necessaria la costruzione di una lunga coronella in pietrame per ristabilire l’equilibrio della struttura rimasta; il lavoro di tamponamento fu febbrile e in tre giorni fu bloccata la fuoriuscita dell’acqua con ogni mezzo e con enorme sacrificio del personale impiegato: anche questa battaglia fu vinta e vide l’impresa Cisa intervenire con opere di rifacimento degli argini e con la ricalibrazione dell’alveo del torrente Samoggia. Ente Delta Padano – Ferrara L’impresa Cisa portò la sua esperienza in opere di ingegneria idraulica a servizio della sistemazione del territorio, anche nelle terre di bonifica affidate al Delta Padano e in particolare nell’area di Comacchio, dove erano in corso imponenti opere di bonifica e di colonizzazione delle aree sottratte alle paludi.

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Furono eseguiti lavori per: – la sistemazione del Canal Bianco in comune di Mesola (FE); – l’irrigazione del Bacino Bosco Ovest a Mesola; – la costruzione della rete stradale della valle Mea a Codigoro; – la bonifica delle Valli della Sacca di Goro con canalizzazioni e strade; – la costruzione delle strade della Bonifica del Mezzano a Comacchio; – il rinforzo e il rivestimento delle arginature a mare nell’area di Rosolina. Magistrato per il Po – Parma - 1955-1960 Lavori di rafforzamento e di sistemazione dell’argine sinistro del fiume Po in comune di Bergantino (RO). Dopo le rovinose alluvioni del fiume Po, dei primi anni cinquanta, che causarono innumerevoli danni al patrimonio naturale e alle persone, nella seconda metà del decennio, anche per le capacità acquisite precedentemente, la Cisa fu chiamata per interventi di rafforzamento e di sistemazione di vari argini a scopo preventivo; questo lavoro consistette nella costruzione di lastre di cemento armato precompresso di piccolo spessore (5 cm.), successivamente posate come rivestimento e protezione delle scarpate arginali interne del fiume. Ministero dei LLPP - 1955-1960 Lavori di ricalibratura e sistemazione degli argini del Taglio di Brenta (Canale Nuovissimo) nei comuni di Campagna Lupia e Codevigo. Furono molto impegnativi a causa dell’ambiente paludoso e della scarsa viabilità disponibile. I materiali di risulta dagli scavi del Canale Nuovissimo furono utilizzati per realizzare il corpo stradale di quella che divenne la tanto agognata “Strada Romea. Genio Civile di Belluno - 1963 Il 9 Ottobre una imponente frana precipitò dal monte Toc nel bacino artificiale del Vaiont; l’enorme onda così provocata distrusse Longarone, Erto e Casso, interi paesi furono annientati in pochi secondi provocando quasi duemila morti: un’immane tragedia colpì il Veneto e il Friuli. Da subito l’impresa CISA venne chiamata a prestare la sua opera di soccorso alle popolazioni e a ripristinare i servizi essenziali; in pochi giorni venne trasportato dall’Emilia e montato un ponte di ferro tipo Bailey per permettere il ricongiungimento delle due sponde del Piave, mentre contemporaneamente vennero ripristinate alcune piste sul fiume per la movimentazione dei mezzi di soccorso. Successivamente in località Polpet di Ponte nelle Alpi si eseguirono le opere di urbanizzazione per l’allestimento di un villaggio di prefabbricati per l’alloggio provvisorio di nuclei famigliari scampati al disastro e rimasti senza abitazione. Il fiume Piave aveva perso la sua identità; praticamente tutta la vallata era diventata un immenso alveo. Un appalto del Genio Civile di Belluno prevedeva la ricostruzione di alcuni muri di contenimento idonei a ricostruire il letto del fiume. L’impresa Cisa si aggiudicò i lavori e in breve tempo, con un’attrezzatura di primissimo ordine, eseguì le opere che prevedevano la realizzazione di muri in cemento armato fondato su pali trivellati e il rivestimento in pietrame, la protezione degli stessi con scogliere di pietrame e il ripristino dei rivestimenti di sponda.

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Valle del Piave – Longarone - La gola del Vajont

Genio Civile di Udine - 1964 Lavori di costruzione di un soprassoglio al passo di Sant’Osvaldo in provincia di Udine sul versante friulano del bacino del Vaiont. Dopo la disastrosa frana dal monte Toc nel lago artificiale del Vaiont che aveva praticamente chiuso il lago sul versante a valle verso la diga, i tecnici del genio civile di Udine temevano che una nuova frana potesse creare un’onda anomala verso il versante friulano. Urgentemente progettarono di sopraelevare la quota del passo di Sant’Osvaldo di una ventina di metri al fine di contrapporre un ostacolo ad una eventuale ondata. I lavori consistettero nel costruire un muraglione di gabbioni in ferro riempiti con materiale arido e con le pareti esterne in pietra disposta a faccia vista; la particolarità dei lavori consisteva nella esecuzione di questa enorme gabbionata (all’epoca era sicuramente una delle più grandi in assoluto) a sezione trapezoidale con la disposizione dei gabbioni rientranti di un metro per ogni metro di altezza; complessivamente 19 piani con la base di 45 metri e la sommità di 6; la quota del passo di Sant’Osvaldo fu elevata da 827 a 846 mt, giudicata di sicurezza.

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Passo di S.Osvaldo (UD) - Soprassoglio - La galleria artificiale

Per permettere il passaggio dei veicoli fu costruita una galleria artificiale all’interno del muraglione di gabbioni; il tempo a disposizione per l’esecuzione delle opere era brevissimo per cui si rese necessario uno sforzo organizzativo di uomini e mezzi per arrivare alla consegna nei tempi prestabiliti; tutto il personale disponibile dell’impresa fu portato in loco e a ciascuno assegnato il proprio compito; suddivisi in squadre di carpentieri e ferraioli per costruire la galleria, di operai gabbionisiti specializzati, provenienti dalla Maccaferri di Bologna, per l’assemblaggio delle gabbionate nelle forme e nelle quote previste e di escavatoristi sul greto del fiume Cellina per selezionare e recuperare i ciottoli e il materiale idoneo al riempimento dei gabbioni di ferro. Fortunatamente non si verificarono i temuti catastrofici eventi e quarant’anni dopo un giusto provvedimento decretò la demolizione completa dell’opera di cui oggi non c’è più traccia. Consorzio di Bonifica del Basso Piave Lavori di sistemazione e costruzione delle difese dell’arenile di Jesolo. Le avverse condizioni meteorologiche dell’inverno 1966-67 avevano provocato dei gravissimi danni a tutto il litorale veneto, in modo particolare era stata la spiaggia di Jesolo a subire i danni più gravi e pertanto era necessario un energico intervento per il suo ripristino. L’appalto vinto dalla Cisa nel 1967 prevedeva tre tipologie d’intervento: la rimozione e il prolungamento a mare di alcuni pennelli in pietrame in zona Cà Gamba; la costruzione di circa 400 m. di una gradinata in c.a. con palancolata e pennelli in elementi prefabbricati in c.a. in zona Piazza Milano e una barriera interrata di palancole con pennelli in perpendicolare ogni 100 mt. per tutta la lunghezza da piazza Mazzini al faro. La parte più difficoltosa dell’opera era naturalmente la zona di piazza Milano e dell’hotel Caravelle dove le mareggiate avevano asportato quasi tutto l’arenile; bisognava pertanto operare in zone di bassi fondali, esposti a ogni più piccola mareggiata.

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Jesolo - Difesa in zona p.zza Milano

Jesolo - Difesa in zona p.zza Mazzini

Jesolo - Difesa in zona Hotel Caravelle, palancolata a mare

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La prima difesa fu realizzata da una linea di palancole infisse con il sistema dell’acqua a pressione; con continui riporti di sabbia e spesso rifacimenti di lavoro già eseguito metro dopo metro, la difesa prese forma e dietro di essa il terrapieno per la costruzione della gradinata e del muretto apicale di chiusura; non fu un lavoro semplice ma con la tenacia del personale impiegato alla fine avemmo ragione del mare. Per la costruzione degli elementi prefabbricati (pali, cordoli, palancole e cravatte) era stato allestito un cantiere nell’entroterra del litorale con impianto per il calcestruzzo e piazzole di getto dei vari elementi; la posa in opera degli elementi prefabbricati costituenti la struttura dei pennelli richiese l’allestimento di una “dima” che ci permise la massima precisione nel posizionamento degli stessi, in quanto dovevano perfettamente combaciare; il problema fu risolto allestendo su un trattore Cat D7 un telaio in acciaio con la posizione fissa per 8 pali e una gruetta per il loro sollevamento e successivo posizionamento: completava l’attrezzo una pompa con relative siringhe per l’infissione; il completamento di tutte le opere previste dal progetto richiese ben due stagioni da Ottobre a Maggio, essendo impossibile lavorare nella stagione balneare estiva. Consorzio per l’acquedotto del Basso Piave – San Donà di Piave (VE) Lavori di progettazione e costruzione del raddoppio dell’impianto di potabilizzazione dell’acqua a servizio della località di Jesolo. I lavori consistevano nella costruzione di un tronco di cono rovescio di 15 mt. d’altezza in cemento armato e relative condotte e impermeabilizzazioni; la particolarità dell’opera fu l’esecuzione del getto del calcestruzzo in una unica soluzione per evitare possibili perdite. Consorzio di bonifica della Bassa Friulana - 1970-1972 Lavori di bonifica dell’area compresa tra la strada statale n°354 a Castions di Strada e la strada provinciale Teor – bivio SS14. I lavori prevedevano l’escavo di canali che scaricavano nel torrente Cormor, compresa la realizzazione di opere di difesa e tenuta. Consorzio per l’acquedotto del Friuli Centrale - 1977-1979 Lavori di ricostruzione e miglioramento dell’acquedotto del Medio Friuli Centrale, la Pedemontana e Alpi Giulie e valli del Natisone. Per la natura dei terreni attraversati di tipo roccioso, fu necessario l’uso di particolari attrezzature e strumenti per la posa delle tubazioni in ghisa sferoidale. Consorzio Ente Economia Montana – Tolmezzo - 1979-1980 Lavori di sistemazione dell’alveo del torrente Moscardo in comune di Paluzza. Il progetto prevedeva la costruzione di briglie per rallentare il corso dell’acqua durante le frequenti piene del torrente. In pratica, tutte le volte che pioveva, a causa della natura friabile e franosa del terreno e della forte pendenza dell’alveo si verificavano violente frane che interessavano spesso la strada statale 52 bis Carnica. Notevoli furono le difficoltà e il dispendio di energie; furono costruite le strade d’accesso alle briglie e in due anni (si lavorava solo durante la stagione estiva) le opere furono completate. Ancora oggi sono orgoglioso dell’operato e delle capacità del personale e del responsabile del cantiere per aver saputo risolvere tutti i problemi che, data

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l’asprezza dei luoghi, ogni giorno si presentavano e che brillantemente venivano superati. I lavori furono poi completati con la costruzione di difese a valle con scogliere e opere provvisionali in cemento armato.

Escavatori durante la posa dell’acquedotto Friuli Centrale

Opere di sbancamento

Una briglia sul torrente Moscardo

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Lavori autostradali Autostrada Venezia - Padova - 1958-1960 Costruzione del raddoppio della sede stradale - 1° lotto tra Marghera e Dolo. Esecuzione di alcuni cavalcavia completamente in opera. Rifacimento di tutte le opere di scolo in particolari condizioni di forte presenza di acqua. I lavori comprendevano anche l’esecuzione delle pavimentazioni in conglomerato bituminoso e, per l’occasione, fu montato un impianto Marini a Oriamo, che resterà nella storia dell’impresa sia per la tecnologia applicata sia per le maestranze che, altamente specializzate, diventeranno un punto di riferimento per molti enti pubblici amministrativi.

Autostrada Venezia - Padova. Lotto Mestre – Dolo

Autostrada Venezia - Padova. Lotto Mestre – Dolo

Concessioni e Costruzioni Autostrade S.p.A. Roma. Autostrada del Sole Milano – Napoli; lavori di costruzione dell’Autostrada del Sole. Zona Bologna – Firenze. Tronco Bologna - Vado Lotto n°5 Sasso Marconi – Vado (1956 – 1958). I lavori furono caratterizzati dalla costruzione di particolari muri di sostegno a contrafforti

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ad arco e difese con gabbionate metalliche di lunghi tratti di rilevato autostradale costruito nell’alveo del fiume Setta; per l’esecuzione delle opere, ci avvalemmo di particolari secchioni montati su autocarri per la movimentazione del calcestruzzo. Zona Firenze – Roma. Tronco Magliano Sabina – Roma Lotto n°10 Monterotondo (1960 –1962). Fu realizzato un cavalcavia, ponticelli, sottopassi e altre opere minori; il lotto prevedeva in massima parte rilevato e le fondazione delle opere furono eseguite su pali battuti tipo Scac. Zona Firenze – Roma. Tronco Incisa Valdarno – Magliano Sabina Lotto n°31 Orte (19611963). Questo lotto autostradale consisteva nella costruzione di due opere singolari e particolari per le loro dimensioni: – il ponte sul Fiume Nera (progetto dell’ing. Silvano Zorzi) di tre luci con struttura tipo Gerber in c.a. precompresso gettata in opera su centina in tubi tipo Innocenti, due luci laterali di 35 mt e luce centrale di 58 mt complessivi formata da una campata appoggiata di 42 mt e due sbalzi di 8 mt ciascuno; il ponte, previsto in curva, poggiava su pile fondate su pali a grande diametro gettati in alveo;

Centinatura del viadotto sul fiume Nera

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Centinatura del viadotto sul fiume Nera

Ponte sul Rio Sassone

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Ponte sul Rio Sassone


– il viadotto Sassone della luce totale di 99 mt su tre luci in cemento armato precompresso con travi di 32 mt con pile circolari cave; – un sovrappasso alla ferrovia Orte - Ancona a tre luci e muri di sostegno (controripa) eseguiti con rivestimenti in pietrame. A.N.A.S. – Direzione Generale Roma Tratto Salerno - Reggio Calabria - Lavori di costruzione dell’Autostrada Salerno - Reggio Calabria (1962–1964). Tronco IV° Campo Tenese – Cosenza. Lotto n°9 dalla stazione di Montalto Rose a Cosenza in Sinistra fiume Basento di km. 13,598. È il primo lotto appaltato dall’Anas di questa importantissima Autostrada e l’impresa CISA scende in Meridione per questa nuova esperienza con macchine e personale altamente specializzato ad affrontare le opere previste in progetto: due gallerie a due vie per complessivi. 1.920 mt; cinque ponti sui torrenti Mavigliano, Settimo, Emoli, Surdo e Campagnano; un cavalcaferrovia e un cavalcavia oltre naturalmente a una moltitudine di piccole opere di completamento. A questo lotto ne seguirono dei successivi che furono eseguiti in collaborazione con altre imprese. Autostrada del Brennero Costruzione del lotto 17 Egna-Salorno (1966-1968). Nel 1966 l’impresa si aggiudicò uno dei primi lotti appaltati sulla costruenda Autostrada del Brennero: il tronco Trento - Bolzano lotto n°17 Egna – Salorno; dieci chilometri praticamente di pianura in quanto il tracciato si sviluppava in fondo valle e per trequarti affiancava l’argine destro del fiume Adige; le opere eseguite furono quattro cavalcavia di attraversamento per altrettante strade provinciali che, per la prima volta, venivano previsti con travi in CAP con sezione a V e solette a conci prefabbricati. Il reperimento in zona dei materiali per il rilevato e le fondazioni in terre stabilizzate non rappresentavano problemi; erano ancora i tempi in cui si poteva andare sotto la montagna e prelevare dai numerosissimi coni di deiezione il materiale di cui si aveva bisogno: in quel tratto la valle dell’Adige era assai generosa. In apparenza il lavoro non preannunciava nessun problema, anche per l’esecuzione dei rilevati, ma in realtà ai primi scavi per la pulizia del piano di posa del corpo stradale ci si rese conto che una fascia di 40-50 mt, limitrofa all’argine, era terreno inconsistente e paludoso. Chi nei secoli passati aveva costruito gli argini del fiume (ricordiamo che in quel tratto l’Adige è pensile) aveva prelevato la terra necessaria dalla campagna circostante lasciando in loco terreni bassi e paludosi che poi il tempo e le piogge avevano in parte ricolmato, pertanto fondare il rilevato su quei terreni avrebbe sicuramente comportato col tempo cedimenti differenziati e pericolosi. Con la consulenza del Centro Geotecnico Veneto dell’Università di Padova si arrivò a formulare una proposta accettata dalla direzione lavori della Società che consisteva nell’asportazione, fino a una certa quota dei materiali paludosi e la costituzione di uno strato di spessore consistente a formazione di un materasso di materiale arido di granulometria particolare idoneo ad assorbire eventuali deformazioni sotto il carico del rilevato. Gli escavatori impegnati negli scavi erano costretti a operare con l’uso di enormi zatteroni sotto le cingolature per evitare di affondare; il materiale idoneo era reperito in zona e prima di essere usato era attentamente vagliato e corretto per avere la granulometria opportuna.

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Autostrada del Brennero – Lotto 17 - Scavi di bonifica

Autostrada del Brennero - Lotto 17 – Pavimentazioni

Al fine di ottenere l’effetto desiderato, particolare cura era dedicata alla posa in opera: infatti non si scaricava mai direttamente in acqua il materiale, che veniva sospinto verso il basso con l’uso di idonee ruspe; a significare che il problema era stato giustamente considerato e il lavoro eseguito correttamente è il risultato ottenuto: dopo ben 38 anni non si sono verificati cedimenti. Quasi al termine della costruzione del nostro lotto di lavori, l’impresa si propose alla Società dell’Autostrada del Brennero per l’esecuzione delle pavimentazioni in conglomerato bituminoso e, dopo lunghe trattative, ci fu aggiudicato il tratto fra Trento e Bolzano per circa 30 km. Fu montato un grosso impianto Marini a Mezzocorona sulla strada per Roverè della Luna in una cava di materiale splendido per l’esecuzione dello strato di base e di collegamento; acquistammo due finitrici e rulli idonei ai conglomerati; furono organizzate due squadre di stesa per lavorare in due turni e allestimmo un laboratorio completo per il controllo dei materiali e per le analisi dei conglomerati. Con la collaborazione della Società Autostrada del Brennero, per l’avvio e la determinazione delle varie procedure la Cisa si avvalse della consulenza degli

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Autostrada del Brennero - Travi di un cavalcavia

esperti del laboratorio milanese del Touring Club Italiano. Stendemmo una striscia di asfalto larga 3,5 mt che, essendo la prima in assoluto sull’Autostrada del Brennero, tutti gli addetti ai lavori il giorno dopo vennero a vedere e a provare. Successivamente, per i lotti che venivano approntati anche dalle altre imprese, soprattutto nella zona settentrionale dell’Autostrada, fu montato un impianto di conglomerato bituminoso a Vipiteno e così, uno dopo l’altro, furono pavimentati tutti i lotti da Bressanone al confine di Stato. Autostrada Trieste - Venezia Lotto n° 10, n°11- Tronco Palmanova – Latisana (UD) (1965 – 1967). Realizzammo alcuni cavalcavia e sottopassi, il ponte sul torrente Corniola a 1 luce con fondazioni su pali Scac, inoltre rilevati su terreni paludosi dopo aver eseguito un’accurata opera di bonifica. Costruimmo il ponte sul fiume Stella a 3 luci da 32 mt, due spalle e due pile di cui una costruita in centro alveo, pali di grande diametro da 125 cm; le travi per impalcato furono realizzate in loco e varate con un carro ponte; per l’esecuzione della pila in alveo si dovette approntare un grosso pontone per sostenere l’attrezzatura per l’esecuzione dei pali; anche per le altre opere accessorie si dovettero affrontare i problemi causati dalla falda d’acqua molto alta.

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Svincolo di Latisana

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Lotto n°19 Marcon – Musestre. Tronco Mestre - San Donà di Piave (VE). Erano nove chilometri di autostrada senza nessun particolare problema, tutta pianura, un unico rettifilo; il progetto prevedeva la realizzazione del casello di Quarto d’Altino con i relativi svincoli e il piazzale della stazione, del ponte sul fiume Sile a tre luci con la campata centrale di 30 mt con fondazioni su pali da cm. 125 e le travi costruite a piè d’opera e varate con gru, inoltre ponticelli sui canali di bonifica, tre cavalcavia e altre opere minori. Avendo in zona un impianto di conglomerati bituminosi, eseguimmo le pavimentazioni di altri due lotti contigui da Mestre a San Donà.

Autostrada Venezia – Trieste. Ponte sullo Stella. Lotto 10-11 – Varo travi

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Autostrada Venezia – Trieste. Ponte sullo Stella. Lotto 10-11 – Varo travi

Società dell’Autostrada Venezia - Padova Raccordo a doppia carreggiata tra il cavalcavia di Mestre e il casello di Villabona. (19641965). Si può considerare quest’opera “propedeutica” alla futura tangenziale e al raddoppio del cavalcavia di Mestre in quanto per la prima costituiva lo svincolo da e per Venezia e la SS. Romea e per la seconda un collegamento diretto di Mestre con l’autostrada. Il lavoro comportò la costruzione di due viadotti distinti a scavalcamento della via Trieste a Marghera; non incontrammo problemi rilevanti salvo una particolare attenzione nella bonifica di residuati bellici prima dell’esecuzione delle fondazioni delle pile e delle spalle con pali battuti tipo Scac.

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Mestre – Marghera

Mestre - Corso del Popolo

Mestre – Appalto concorso: “Costruzione del raddoppio cavalcavia di Mestre” - 1966 Con un progetto ardito ma lineare nel suo sviluppo l’impresa Cisa vince il concorso per la costruzione dell’opera: una carreggiata in direzione Venezia -Autostrada a scavalcare il vecchio ponte, di cui era previsto l’allargamento, e da questa uno svincolo che dal punto di maggior altezza scendeva a sinistra verso via Fratelli Bandiera di Marghera. L’allargamento del vecchio ponte e la carreggiata alta presentavano le loro fondamenta nel sottostante parco ferroviario, pertanto dovemmo conciliare le esigenze ferroviarie con quelle stradali e la cosa non era facile, ma l’importanza dell’opera e le capacità delle maestranze impegnate superarono ogni ostacolo. Con una organizzazione che ora posso dire perfetta, l’impresa, impegnando ogni risorsa di uomini e mezzi, riuscì a portare a termine le opere con notevole anticipo sui tempi contrattuali meritandosi il relativo premio previsto.

Mestre - Raddoppio Cavalcavia per Venezia

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Autostrada Venezia - Padova Tangenziale di Mestre – Lotto n° 1 (Est) (1970 - 1972). Anche la Cisa partecipa alla costruzione di quest’opera che in quel momento, come ora, era considerata la più necessaria e urgente per risolvere i problemi creati dal traffico di attraversamento di Mestre. Il lotto assegnato all’impresa iniziava dall’autostrada di Trieste e arrivava alla rotatoria della Castellana compresa; erano lavori consistenti che comprendevano diverse opere importanti tra cui il viadotto sulla rotatoria della S.S. 14 bis, il viadotto Terraglio, il sottopasso di via Borgo Pezzana, il viadotto Castellana con relative rampe di svincolo sostenute da importanti muri di sostegno, la rotatoria e altre opere complementari. Le Imprese impegnate nell’opera erano 4 e la progettazione dei manufatti era stata standardizzata per cui alla fine tutte le opere si presentavano con lo stesso aspetto; i tempi contrattuali fissati erano molto stretti, ma anche in questa occasione il carattere organizzativo dei friulani si espresse al meglio e, trascinati da un superbo capocantiere, i tempi furono ampiamente rispettati.

Tangenziale di Mestre - Pavimentazioni

Tangenziale di Mestre

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Tangenziale di Mestre

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Autostrada della Cisa Parma - La Spezia Lotto di Pontetaro (Parma) (1970 – 1972). Il lavoro era costituito fondamentalmente da un lungo viadotto autostradale di 500 mt che superava la via Emilia e la ferrovia BO-MI e altre strade secondarie; da un grosso scatolare sulla strada per Busseto, da un sottopasso di svincolo, da un cavalcavia per la strada di Noceto, dalla stazione di uscita di Parma Ovest da piazzali e fabbricati di servizio. Fu allestito un cantiere per la prefabbricazione delle travi in c.a.p. (132 travi da 30 mt), un impianto per il calcestruzzo, banchi per la lavorazione del ferro e per la precompressione delle travi; la movimentazione delle travi e la loro posa in opera veniva svolta a mezzo di carrelli e grosse gru.

Autostrada Parma - La Spezia - Viadotto Ponte Taro

Autostrada della Valdastico Lotto da Lisiera a Montecchio Precalcino Vicenza (1972 – 1974). Montammo il cantiere, con tutti i baraccamenti necessari, a Passo di Riva sulla statale 248; iniziammo i lavori con molte preoccupazioni e infatti i problemi subito si presentarono con mille difficoltà di espropri. Proseguimmo a rilento causa anche la grave crisi economica nazionale che attanagliava il mondo imprenditoriale e produttivo con continui aumenti dei carburanti che scarseggiavano, con scioperi e proteste sindacali. Realizzammo un cavalcavia e il viadotto sulla S.S. 248 e, nell’estate del 1975, nonostante tutte le difficoltà e i problemi incontrati, i lavori terminarono, seppur in ritardo, con grande soddisfazione di tutti.

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Lavori stradali

I

n oltre quaranta anni di attività l’impresa Cisa ha eseguito lavori stradali su tutto il territorio nazionale; i suoi rapporti con il Ministero dei Lavori Pubblici, con i Compartimenti Anas regionali, con le Amministrazioni provinciali e comunali sono stati pressoché continui e le opere realizzate sono la testimonianza delle capacità tecniche messe a disposizione. La grande specializzazione in pavimentazioni in conglomerato bituminoso che l’impresa raggiunse in anni di continuo lavoro con impianti sempre all’avanguardia e maestranze superspecializzate, che tutta la concorrenza ci ha sempre invidiato, iniziò nel 1959 con l’autostrada Venezia - Padova a Oriago (VE), dove fu montato un impianto Marini per eseguire tutte le pavimentazioni dell’autostrada; con quell’impianto, una volta terminati gli impegni diretti con la Società Autostrade, iniziammo anche un servizio di fornitura e posa per le altre imprese impegnate nell’esecuzione dei lavori. Questo glorioso impianto Marini V12 fu poi trasferito a Basaldella (UD), la nostra sede primaria, da dove forniva di conglomerato tutto il Friuli. Negli anni che seguirono furono acquistati altri impianti sempre più potenti e tecnologicamente all’avanguardia: a Tessera (VE) vicino all’aeroporto Marco Polo da cui partiva il conglomerato per i grandi lavori autostradali del Veneto; a Mezzocorona (TN) e Vipiteno (BZ) a servizio dei cantieri dell’Autostrada del Brennero. Fu così che in quegli anni si creò la leggenda degli “Uomini del Nero”.

Impianto Marini V32 per la produzione di conglomerati bituminosi

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A.N.A.S. – Strada Statale della Valsugana n°47 Costruzione della variante tra Primolano e Grigno (Trento). I lavori prevedevano la costruzione di una carreggiata di 16 m. divisa in 4 corsie prevalentemente in rilevato, due viadotti, due sottopassi e un ponte sul torrente Grigno, inoltre muri di sostegno e svincoli per i collegamenti con la viabilità ordinaria. Entrambi i viadotti hanno interessato l’attraversamento della linea ferroviaria Venezia – Trento con tutte le difficoltà che questo tipo di lavori comporta quando l’interlocutore è l’ente FF.SS.; a ogni opera comunque, anche grazie alla professionalità del nostro progettista, l’ing Marcon, fu trovata una soluzione adeguata in particolare per il viadotto Ronchi che, oltre a interessare la ferrovia, doveva salvaguardare l’ingresso della centrale Enel e incorporare le rampe di svincolo e raccordo con la SS. 47. Con un paio di squadre ben equipaggiate di uomini e mezzi e in tempi relativamente ristretti portammo a termine i lavori nonostante le quantità fossero notevoli.

SS. 47 della Valsugana - Viadotto Ronchi

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SS. 47 Valsugana - Struttura del cavalcavia ferroviario

Amministrazione Provinciale di Venezia Lavori di costruzione della strada Romea nel tratto da Dolo verso Chioggia (1957-1961). Con i materiali di risulta dagli scavi del Canale Nuovissimo fu realizzato il corpo stradale di quella che divenne la tanto agognata “Strada Romea”. Lavori di costruzione di cavalcavia a tre luci a Chioggia (1961). I lavori di costruzione della strada Romea nell’area di Chioggia non erano ancora iniziati e già l’Ente pensava di realizzare il raccordo stradale che avrebbe permesso un rapido collegamento della città lagunare con la futura viabilità. L’impresa si aggiudicò il lavoro che prevedeva l’impalcato interamente gettato in opera. Alla sua realizzazione il manufatto si trovava in aperta campagna, ora è integrato perfettamente al tessuto urbano.

Il cavalcavia di Chioggia

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Lavori di ammodernamento della viabilità di Cavarzere Loreo, Ponte Passetto e Pettorazza Grimani (anni ’60). Lavori di ammodernamento della viabilità di Monselice Granze, Camponogara Calcroci e Piombino Dese (anni ’60). Questi lavori furono eseguiti a seguito della Legge n°126 che aiutava le amministrazioni provinciali a intervenire con ammodernamenti sulla viabilità precaria del tempo. Lavori di costruzione del cavalcavia in località Portegrande (1967); sistemazione dell’incrocio tra la strada Jesolana e la statale Triestina. I lavori consistettero nella realizzazione di un sovrappasso sulla strada provinciale e di un ponte a tre luci sul fiume Sile, completato da rampe di svincolo e rilevati.

Ponte sul fiume Sile a Portegrande

Amministrazione Provinciale di Padova Lavori di costruzione del raccordo stradale di Piove di Sacco con la strada Romea (1961). Comune di Padova – Nuova circonvallazione Ovest Lavori di costruzione della circonvallazione di Padova dalla S.S. 47 Valsugana presso il casello di Pd Ovest alla S.S. 11 (PD-VI). I lavori previsti furono un cavalcaferrovia sulla PD-MI, un sottopasso alla S.S. 11, con la posa in opera di un ponte Bailey provvisorio. A.N.A.S. – Strada Statale di Postumia n°53 Lavori di costruzione della tangenziale Sud di Treviso (1974). Il progetto prevedeva la costruzione di un tronco di superstrada raccordato con la viabilità ordinaria della città di Treviso sulla S.S. 53 e la circonvallazione da est a ovest per eliminare il traffico pesante dal centro. Per difficoltà sopravvenute negli espropri dei terreni, i lavori subirono molte interruzioni e il progetto delle variazioni alle opere che alla fine vennero realizzate per il settanta per cento in

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Tangenziale di Treviso - Viadotto Terraglio

Tangenziale di Treviso - Varo travi

Tangenziale di Treviso – Varo travi viadotto Sile

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Tangenziale di Treviso - Impalcato viadotto Terraglio

Tangenziale di Treviso – Varo travi viadotto Sile – Carro di varo

quanto il viadotto Terraglio restò privo di due campate e il tratto tra la Noalese e la S.S. 53 a Paese non fu realizzato. Con la costruzione del ponte sul fiume Sile a Silea e il completamento del tracciato da Lanzago al Terraglio il tronco risultò funzionale e, completate tutte le opere compreso i sottopassi di S.Antonino e Silea, finalmente fu aperto al traffico. Completammo in seguito le opere previste a ovest compreso il Viadotto S.Angelo e l’innesto con la strada Noalese; rimase incompleto solo un breve tratto di viadotto sul Terraglio; eseguimmo anche tutte le pavimentazioni bituminose. A.N.A.S. – Strada Statale Adriatica n°16 Lavori di costruzione della variante di Loreto. I lavori erano di somma urgenza per la costruzione di un nuovo ponte sul fiume Musone, in comune di Loreto, per ovviare alle piene del fiume ma in realtà hanno dato la possibilità all’Anas di costruire una variante della S.S. n°16 Adriatica per migliorare la viabilità in corrispondenza dell’abitato di Loreto e del casello dell’autostrada in fase di costruzione. Oltre ai rilevati il progetto prevedeva la costruzione di un ponte a quattro campate da 32 mt con fondazioni su pali da 125 cm e 35 mt di altezza,

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impalcato con travi prefabbricate in loco e varate con gru; inoltre un sottopasso allo svicolo per Loreto, un cavalcavia alla S.S. 16 e muri di sostegno. In quel periodo ci furono scioperi dei cementifici che durarono diversi mesi e che ci procurarono notevoli difficoltĂ nel reperimento del calcestruzzo e dei materiali per la costruzione dei rilevati. Amministrazione Provinciale di Udine – Strada Provinciale Cedarchis-Paularo. Lavori di costruzione della nuova strada provinciale Cedarchis-Paularo. L’opera si presentava impegnativa per i luoghi attraversati, per la natura dei terreni e per il tipo di opere in progetto: due ponti sul torrente Chiarsò a tre luci di 25 mt con fondazioni eseguite in micropali; un viadotto sul rio Molini a due luci da 28 mt e pila di 15 mt di altezza; gallerie artificiali paramassi con impalcato costruito fuori opera con travi varate; due gallerie naturali di 630 + 170

Galleria di Paularo

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mt di lunghezza eseguite in metodo tradizionale con un avanzamento di 3,5 mt al giorno, la centinatura di putrelle di ferro sagomate e il rivestimento in calcestruzzo gettato entro casseri con la sagoma della galleria; muri di controripa e di sostegno gettati in opera e vari altri piccoli manufatti di completamento come canne e ponticelli. Al termine di questi lavori l’Amministrazione Provinciale assegnò all’Impresa anche i lavori di allargamento e sistemazione della strada da Paularo a Duron, che consistevano nell’esecuzione di movimenti di terra, muri con il sistema delle terre armate e pavimentazioni bituminose. C.A.S.I.C. Consorzio per lo Sviluppo Industriale di Cagliari Costruzione di un asse attrezzato nella zona industriale di Cagliari in località Macchiareddu – Strada a scorrimento veloce congiungente la S.S. 195 alla S.S. 130 e 196 nel comune di Assemini. I lavori si sviluppavano principalmente all’interno della zona paludosa dello stagno di Cagliari per cui si scelse la tecnica del rilevato costruito su teli di tessuto non tessuto stesi su tutta la superficie di posa dei materiali inerti; in questo modo si sono eliminati tutti i cedimenti dovuti a piani di posa inconsistenti; questa tipologia d’intervento era nuova in Italia ma molto in uso nei paesi nordici: i rotoli di tessuto venivano posati sulla superficie dell’acqua con barche attrezzate e affondavano col materiale arido che veniva steso al di sopra comprimendo il fondo argilloso eliminando così ogni possibilità di cedimento futuro. A più di trenta anni dalla costruzione e nonostante il notevole aumento di traffico nella zona industriale la strada si presenta ancora in perfette condizioni.

SS.145 Sorrentina - Viadotto S. Marco Castellamare di Stabia

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A.N.A.S. – Strada Statale Sorrentina n°145 Lavori di costruzione della variante alla statale per l’attraversamento dell’abitato di Castellamare di Stabia (Napoli) dal casello dell’autostrada (A 3) all’incrocio con la strada per Gragnano (1982-1984). Il progetto iniziale prevedeva la costruzione della strada in rilevato alla periferia di Castellamare in una zona ricca di orti, vivai e frutteti; allo scopo di arrecare meno danno possibile al territorio fu studiata con l’Anas e i nostri progettisti, tra cui l’ing. Zorzi, la realizzazione in viadotto almeno per la parte più pregiata del territorio. Il viadotto costruito, lungo 1.800 mt (viadotto S.Marco), fu realizzato usando la tecnica della centina autoportante a cassaforma per l’intera campata di 20 mt. Particolare cura fu riservata all’aspetto delle strutture in elevazione di calcestruzzo in considerazione anche del pregio del territorio attraversato e del suggestivo paesaggio; l’area, infatti, oltre a essere rigogliosamente coltivata a orti e a floricoltura intensiva, si presenta ricca di reperti archeologici derivanti da splendide ville romane rimaste sepolte dall’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. I lavori prevedevano inoltre una galleria artificiale di 800 mt e altre opere accessorie. Con appalti successivi realizzammo altri tratti di ammodernamento della statale Sorrentina fino al congiungimento con la strada Amalfitana. A.N.A.S. – Strada Statale della Pontebbana n°13 - anni sessanta Lavori di costruzione della circonvallazione di Pordenone in sede nuova per una lunghezza complessiva di Km. 6. Lavori di costruzione della variante alla strada statale per l’eliminazione degli attraversamenti degli abitati di Portis, Chiusaforte e Resiutta. Lavori di costruzione della variante esterna all’abitato di Fontanafredda Lavori di allargamento e sistemazione con rifacimento delle pavimentazioni di viale Venezia nella città di Udine da Santa Caterina al centro città.

SS.13 Pontebbana - Galleria di Coccau

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SS.13 Pontebbana - Viadotto Camporosso

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SS.13 Pontebbana - Viadotto di Coccau

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SS.13 Pontebbana - Galleria di Coccau

SS. di Monte Croce Carnico - Galleria artificiale

Lavori di costruzione della variante alla strada statale per eliminare l’attraversamento dell’abitato di Camporosso. Viadotto per oltrepassare la ferrovia Udine Tarvisio e la statale. Lavori di costruzione della variante all’abitato di Codroipo con l’eliminazione del passaggio a livello e costruzione del nuovo cavalcaferrovia.

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Lavori di costruzione della variante tra Tarvisio e confine di Stato con sistemazione della strada statale nei tratti non compresi dalle grandi opere. Lavori di costruzione della circonvallazione di Udine da Pasian di Prato a Tavagnacco con costruzione del ponte sul Cormor. Costruzione della strada a scorrimento veloce di collegamento tra l’Autostrada Pordenone Portogruaro e la S.S. 13 Pontebbana in località Cimpello. A.N.A.S. – Strada Statale dell’Abetone e del Brennero n°12 Costruzione della variante alla strada statale per l’eliminazione degli attraversamenti degli abitati di Ceraino, Volargne e Dolcè (1962). A.N.A.S. – Strada Statale Napoleonica n°252 Lavori di allargamento e di adeguamento del vecchio tracciato da Codroipo a Palmanova per complessivi 34 Km e una larghezza uniforme a. 7,50 mt. A.N.A.S. – Strada Statale di Cividale n°356 Lavori di costruzione della variante di Cividale con la realizzazione del nuovo ponte sul fiume Natisone. A.N.A.S. – Strada Statale di Cavazzo n°512 Lavori di costruzione di una galleria artificiale paramassi in corrispondenza del lago di Cavazzo a Interneppo. A.N.A.S. – Strada Statale di Lignano n°354 Lavori di ammodernamento e adeguamento della strada statale congiungente il casello della A4 di Latisana con la località balneare di Lignano Sabbiadoro e costruzione dello svincolo con la S.S. 14 Triestina in località Crosere di Latisana. A.N.A.S. – Strada Statale Triestina n°14 Lavori di costruzione della circonvallazione di San Giorgio di Nogaro. A.N.A.S. – Strada Statale Gardesana Occidentale n°45 bis Lavori di allargamento (adeguamento alla sagoma CE) delle gallerie in roccia naturale nel tratto della Gardesana in Comune di Gargnano (1973). A.N.A.S. – Strada Statale Caltanissetta – Gela n°191 Lavori di costruzione della strada a scorrimento veloce Caltanissetta - Gela 1° lotto. Provincia di Udine – Strada Provinciale Udine - Maniago Lavori di costruzione della variante alla strada provinciale tra Spilimbergo, Madonna di Strada e Maniago per l’eliminazione degli attraversamenti dei centri abitati di Colle, Sequals, Cavasso e Fanna.

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Urbanizzazioni e infrastrutture Ho sempre nutrito un particolare interesse a operare nel campo delle urbanizzazioni in generale, ma soprattutto in quelle di carattere turistico dove l’impegno era costruire tutto fin dall’inizio, dove la fantasia umana interveniva a cambiare un territorio e metterlo a disposizione dell’uomo, dove il rischio imprenditoriale è sempre stato alto, dove queste realizzazioni, una volta ultimate, sarebbero state motori economici di lavoro e di sviluppo. Consorzio per lo sviluppo dell’Alpe del Nevegal (BL) Entrai nel consorzio con lo scopo di valorizzare e di promuovere il centro sciistico dell’Alpe del Nevegal (1960). La prima realizzazione fu la costruzione della strada di collegamento tra il piazzale del Nevegal e la località Faverghera con un anello terminale dove, secondo il progetto originario, doveva sorgere il centro residenziale e commerciale, il tutto nel massimo rispetto dell’ambiente: a tutt’oggi è evidente la cura prestata per realizzare le opere con particolari accorgimenti, come i muri in pietra a vista.

Alpe del Nevegal

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Lignano e il litorale dalla laguna di Marano al Tagliamento (UD) Ho già ricordato quando giovanissimo seguivo mio padre che si interessava, quale funzionario del Genio Civile, ai lavori di bonifica della bassa friulana e alla manutenzione delle vie navigabili dal Tagliamento alla laguna di Marano e Grado. Sono sempre stato affezionato a quei luoghi e quando nacque la mia impresa di costruzioni, la CISA, mi interessai subito ai molti lavori che erano indispensabili, urgenti e decisivi per lo sviluppo della penisola di Lignano portandoli sempre a buon fine. Volendo fare una rapida descrizione delle opere eseguite, devo partire dalle vie d’accesso alla penisola e di seguito elencare anche quelle che hanno permesso lo sviluppo di Sabbiadoro, la nascita e la crescita degli insediamenti abitativi di Pineta e Riviera: – l’autostrada Venezia Trieste, tronco Latisana – Palmanova , costruzione dei lotti 10 e 11 e del casello di Latisana; – il collegamento stradale dal casello di Latisana alla S.S.14 Triestina con corsie di svincolo a quadrifoglio in località Crosere; – la costruzione della strada a 4 corsie Crosere - Lignano passando per le località Paludo, Gorgo, Pertegada, Bevazzana fino alla rotatoria di svincolo di Pineta con lavori di sistemazione della parte idraulica, allargamenti del corpo stradale, risanamenti del fondo stradale e pavimentazioni in conglomerato bituminoso. A proposito della costruzione della rotatoria, fu un intervento che ci impegnò particolarmente per la presenza di profonde fosse, tipo sabbie mobili, di carattere prettamente lagunare, che ci costrinse a voluminosi riporti di ghiaia per ottenere una portanza del terreno atta a realizzare la strada. Ricordo ancora quella telefonata mattiniera di mio fratello Gigi che mi diceva: “Mario, la ruspa è scomparsa, è sprofondata in una fossa lagunare!!” Il suo recupero ci stremò all’inverosimile. Dalla rotatoria, unico ingresso e snodo per raggiungere le località turistiche di Lignano, ripercorro le più significative realizzazioni effettuate in circa un ventennio, quello del boom e dello sviluppo urbanistico ed economico: gli anni sessanta e settanta: – viale Europa: nuova strada d’accesso a due corsie per Sabbiadoro; – viale Tarvisio: sistemazione della vecchia strada per Sabbiadoro; – via Tagliamento: nuova strada, costeggiando il Tagliamento per raggiunge la darsena di Marina Uno;

Lignano - Il municipio

Lignano - Residence “Ai Pini”

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Lignano - La Terrazza a Mare.

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Lignano – Planimetria generale

1

a - Viale Europa b - Via Tarvisio c - Viale centrale d - Via Tagliamento e - Urbanizzazione di Riviera

2

a

1 - Terrazza a Mare 2 - Municipio 3 - Residenza tra i pini 4 - Darsena Marina Uno 5 - Rotatoria d'ingresso

c b

5 e 3 d

4 Darsena di Marina 1 sul Tagliamento

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e poi: – viale Centrale: nuovo asse di collegamento tra Pineta e Sabbiadoro, che taglia la pineta dell’EFA; – l’intera urbanizzazione di Riviera: successivamente a Pineta, agli inizi degli anni sessanta, realizzammo, in un ambiente ostico e selvaggio di bosco e pineta dove tra i rovi vivevano lepri, volpi, caprioli, fagiani e una moltitudine di volatili, tutte le strade della nuova località su progetto dell’arch. Piccinato, professore all’Università di Roma; – la costruzione di una nuova darsena da diporto, Marina Uno, sul fiume Tagliamento in prossimità della foce, in un sito facilmente raggiungibile dal mare, tanto che ancora oggi è un punto di riferimento per molti diportisti. Il contributo della Cisa alla crescita di Lignano è continuato negli anni e si è sviluppato nella realizzazione anche di opere edili sia in campo pubblico che privato come la nuova ‘Terrazza a Mare’ a Lignano Sabbiadoro su progetto dell’ arch. Aldo Bernardis di Udine e dell’ing. Silvano Zorzi di Milano per le strutture; la nuova terrazza a mare, opera che è tutt’ora un punto di attrazione e simbolo della località turistica in sostituzione della precedente completamente in legno; la nuova costruzione, invece, completamente in calcestruzzo armato, dal disegno armonico, con forme leggiadre e curve, ci impegnò per i lavori di carpenteria in legno e per le casserature in listelli piallati disposti a ventaglio per la realizzazione delle coperture a volta (merito vuole, che l’impresa poteva contare su maestri carpentieri di eccezionale professionalità); il nuovo Municipio comunale su progetto dell’arch. Aldo Bernardis, possente e monolitica architettura in cemento armato dai richiami orientali; i condomini Ai Pini, Girasole, S. Carlo. Consorzio Costa Smeralda – S. Teresa di Gallura Sardegna. Realizzazione di un insediamento turistico residenziale a Santa Reparata. Negli anni ’60 iniziò l’interessamento turistico alle spiagge della Sardegna; il Consorzio Costa Smeralda, con un gruppo di imprenditori italiani e stranieri, si propose, con investimenti di notevoli capitali, per la realizzazione di un insediamento abitativo su un’area costiera di quasi

Santa Teresa di Gallura - La baia e i primi insediamenti di Santa Reparata

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5.000 ettari nel nord della Sardegna: il progetto prevedeva la realizzazione di alberghi e villaggi arricchiti da servizi di prim’ordine con porti turistici e campi da golf. Imprenditori emiliani mi chiamarono per partecipare, con la mia impresa, alla progettazione e alla realizzazione di alcune di queste opere a Santa Reparata, in comune di Santa Teresa di Gallura, a pochi chilometri da Capo Testa, punta estrema dell’isola. Ricordo ancora con emozione e ammirazione le bellezze naturali che mi si presentarono la prima volta: una costa selvaggia, ricchissima di vegetazione e coloratissima, dalla miriade di fiori e un mare smeraldino dalla trasparenza impressionante; c’era, senza mezzi termini, da pensare di realizzare una iniziativa straordinaria adeguata alla magnificenza dei luoghi. La progettazione che ne seguì fu all’insegna di questi principi, rapida, rispettosa dell’ambiente e i lavori, nonostante le difficoltà incontrate, dovute principalmente alla natura rocciosa dei terreni, si svolsero nel migliore dei modi e secondo i tempi prefissati. Comune di Grado (UD) Grado, antica cittadina di mare, sita su un’isola della laguna di Marano, è da sempre un importante centro di pescatori e, dai primi del novecento, anche turistico; deve le sue fortune alle origini romane: era infatti lo sbocco al mare dell’antica Aquileia, città tra le più importanti dell’Impero Romano. Numerosi sono i resti archeologici e monumentali che con i loro richia-

Posa delle fognature nel centro di Grado

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mi hanno fatto conoscere anche le bellezze di carattere naturale, come la spiaggia dalla sabbia dorata, la pineta dall’intricata vegetazione, la laguna dall’inospitale ambiente, a un pubblico sempre più numeroso, tanto da diventare, ai nostri giorni, una delle località turistiche di mare più frequentate e amate d’Italia. Importanti interventi di bonifica della laguna insalubre e paludosa, soprattutto durante il periodo che precedette la prima guerra mondiale, la costruzione di nuove strade di comunicazione, la realizzazione di nuovi porti e di nuove infrastrutture turistiche hanno cambiato, con un crescente e continuo sviluppo, questa ridente cittadina. Anch’io posso annoverarmi tra coloro che hanno contribuito a questa trasformazione con l’urbanizzazione del Bosco di Grado, gli studi e le analisi per l’isola della Schiusa, la sistemazione generale dell’asse viario partente da Cervignano, la realizzazione delle opere idrauliche della porta grande del canale e la costruzione delle opere fognarie del centro cittadino. Comune di Caorle (VE) Costruzione del Porto Santa Margherita a Caorle (VE) (1962). Realizzata nei primi anni sessanta è ancora oggi una delle più interessanti, e nonostante l’età, moderne e organizzate darsene dell’alto Adriatico: Marina 4 ovvero Porto S. Margherita. Situata alla foce del fiume Livenza è ritenuta, per il suo particolare sviluppo in pianta, un approdo molto sicuro e di facile accesso con qualsiasi condizione meteorologica e uno dei maggiori centri per il diporto nautico dell’alto Adriatico. La sua costruzione ha richiesto particolari attrezzature per la posa in opera delle palancole in cemento armato, in considerazione della natura paludosa del terreno, e per il successivo completamento delle pareti di banchinaggio; completano l’opera la realizzazione delle porte vinciane per l’eventuale chiusura, in caso di particolari condizioni, delle acque interne della darsena.

Darsena di Porto Santa Margherita

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Comune di San Gregorio Magno (SA) Costruzione delle strade e delle infrastrutture del Comune di San Gregorio Magno in Campania (1984). A seguito del disastroso terremoto dell’Irpinia del novembre 1980, riuscimmo ad aggiudicarci questo importante lavoro in concessione: in una cittadina di novemila abitanti quasi completamente distrutta, sita tra le montagne della Campania ai confini con la Basilicata. C’era da realizzare ex novo le infrastrutture urbanistiche, rimettere in sesto tutte le vie cittadine e costruire nuove strade di scorrimento tangenziale.

Opere Edili

L’

Impresa Cisa nel 1962 ritenne opportuno ampliare la propria attività sviluppando un settore che in quel momento offriva notevoli opportunità: fu così costituita una struttura indipendente che si occupava esclusivamente di edilizia, impegnata sia in campo privato che pubblico, sia civile che industriale, sia in Italia che all’estero in costruzioni importanti e prestigiose. Di seguito elenco alcune delle opere più significative realizzate. Edifici alberghieri Costruzione di alberghi sui litorali di Lignano Sabbiadoro e Bibione. In momenti favorevoli, negli anni ’60 e ’70 così detti del ‘boom economico’, ci fu una notevole espansione dell’edilizia turistico-alberghiera e anche in questo settore contribuimmo ad accrescere la ricettività delle importanti stazioni turistiche dell’alto Adriatico. Edifici residenziali Realizzazione di edifici residenziali anche di grandi volumetrie nelle province di Udine, Pordenone, Treviso e Venezia.

Udine - Sede della Banca Cattolica del Veneto

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Banca Cattolica del Veneto Nuova sede della Banca Cattolica del Veneto a Udine. Nei primi anni settanta realizzammo per l’Istituto bancario ora denominato Friul-Adria, la nuova sede di Udine, situata all’inizio di via Vittorio Veneto e prospiciente piazza Libertà; fu uno dei primi nuovi edifici del centro città inseriti architettonicamente nel contesto storico artistico cittadino. Istituto Tecnico Industriale “A. Malignani” di Udine Nuova sede dell’Istituto Tecnico Industriale “A.Malignani” (lotto C) in via Leonardo da Vinci a Udine. L’Istituto, forse una delle scuole cittadine più importanti e conosciute a livello internazionale, nei primi anni settanta dovette essere ampliato per accogliere il sempre più alto numero di studenti. Fu decisa la costruzione di una nuova sede e la Cisa si aggiudicò una parte dei lavori. Società Sidercomit di Milano Costruzione del nuovo stabilimento magazzino di Lodi (MI). Società Autostrade S.p.A. Realizzazione di edifici in muratura e piazzali di parcheggio del Nuovo Centro Doganale di Tolmezzo a Coccau (UD).

Coccau - Nuovi edifici Doganali

Industria Snaidero S.p.A. Majano (UD) Realizzazione del nuovo stabilimento Snaidero e la costruzione di una palazzina per gli uffici tecnico-amministrativi.

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Industria Fantoni S.p.A. Osoppo (UD) Realizzazione del nuovo stabilimento Fantoni su progetto dell’arch. Valle di Udine. Regione Friuli Venezia Giulia Costruzione del nuovo Ospedale di Gemona del Friuli. In fase di costruzione, non si potè completare a causa del terremoto del 1976 che colpì in maniera gravissima la cittadina; l’edificio subì notevoli danni, tanto da renderlo inagibile e venne successivamente demolito. Comune di Cividale (UD) Costruzione del nuovo palazzo Municipale. Comune di Tolmezzo (UD) Ampliamento del Tribunale di Tolmezzo. Comune di Aviano (PN) Realizzazione del nuovo Palazzo del Ghiaccio della stazione sciistica di Piancavallo.

Piancavallo (PN) - Palazzo del Ghiaccio

Acciaierie Safau – Bertoli (UD) Costruzione del nuovo stabilimento industriale acciaieria e laminatoio a Cargnacco (UD). I lavori iniziati nel 1974 si sono conclusi nel 1976 e hanno interessato tutte le lavorazioni in c.a. per le fondazioni del laminatoio, dei forni fusori, della stazione elettrica, della cabina dei trasformatori e dell’area per la depurazione dei fanghi.

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Cargnacco - Stabilimento industriale Safau - Bertoli

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Acciaierie A.B.S. (Safau – Danieli) (UD) Costruzione dell’ampliamento dello stabilimento industriale acciaieria e laminatoio a Cargnacco (UD). Con l’arrivo della Danieli nella Safau, nel 1989 fui chiamato per l’ampliamento del laminatoio, che si raddoppiò per la costruzione di una nuova vasca di lento raffreddamento del laminatoio e le fondazioni per le macchine di laminazione, di colata continua, di affinazione fuori forno, del forno ‘Dog House’ e dell’area di depurazione fumi. Acciaierie Danieli Buttrio (UD) Tra il 1988 e il 1991 realizzammo per l’Acciaieria Danieli presso la sede a Buttrio, diverse costruzioni a cominciare dal fabbricato uffici, in seguito i capannoni ‘Montaggio 2 e Carpenteria’ , i nuovi locali mensa, l’ampliamento dei capannoni ‘Officina 1’ e il nuovo fabbricato uffici di 3.600 mq.

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Silos per lo stoccaggio di cereali

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Parte III

LAVORI IN AFRICA

Burkina Faso Kenia Tanzania Uganda Angola (1째 periodo) Congo Arabia Saudita Egitto Libya Somalia Nigeria Algeria Angola (2째 periodo)

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Cartina generale dell'Africa

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Ubicazione dei cantieri

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Burkina Faso

N

el 1958, la CISA, che faceva parte di un consorzio d’imprese costituito in Veneto, aveva inviato proprio personale in un Paese africano, che allora si chiamava Alto Volta. In quel Paese, che ora si chiama Burkina Faso e la cui capitale ha un nome strano da pronunciare ma nello stesso tempo simpatico: Ouagadougou, il gruppo di cui faceva parte la CISA costruì una serie di sbarramenti di corsi d’acqua per la realizzazione di laghi artificiali. Tali sbarramenti venivano utilizzati durante la stagione secca per consentire l’irrigazione dei terreni agricoli circostanti. Questa, seppur modesta, fu la prima esperienza di lavoro all’estero!

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Kenya

F

orte dell’esperienza e della capacità organizzativa già da tempo riconosciuta, sia dai vari committenti che dalle maggiori imprese italiane del settore, per l'attività svolta unicamente in Italia, agli inizi degli anni settanta i tempi erano maturi per svolgere queste attività anche all’estero: fu così che la CISA acquisì il suo primo grande appalto in terra d’Africa nell’anno 1970, in Kenya. Sbarcata con tutti i suoi uomini, mezzi e attrezzature, si accingeva a iniziare la sua prima, vera, diretta attività in terra africana con la realizzazione della “Lunga Lunga Road”.

Lunga Lunga Road

Lunga Lunga Road – Impianto bitumati

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Il contratto, il cui committente era la Municipalità di Mombasa, prevedeva il rifacimento della strada di collegamento tra Mombasa e il confine con la Tanzania in direzione Dar-es-Salam e comprendeva l’esecuzione della pavimentazione bituminosa, il rifacimento e la reintegrazione delle opere di drenaggio esistenti, le rettifiche di tracciato e l’esecuzione di diversi tratti in variante. Il personale raccontava dell’impatto positivo avuto all’arrivo in quella terra lontana e misteriosa, grazie anche alla buona accoglienza ricevuta da parte della popolazione locale e ad un cantiere inserito in una natura unica per la sua bellezza. Lungo tutto il percorso, lontano dai centri abitati, oltre ad attraversare luoghi dalla natura splendida e completamente diversa dalla nostra, era normale incontrare ogni sorta di animali selvatici, quelli che in Italia si vedevano solo sui libri di scuola. Alla meraviglia e alla piacevole sorpresa del personale faceva da contrasto la difficoltà di avere a disposizione, durante la notte, i guardiani incaricati di proteggere i macchinari e le attrezzature, poiché si rifiutavano di montare la guardia per paura degli animali feroci: le cave destinate all’opera si chiamavano, in lingua locale, “cave dei leoni”! Nel 1975 ritornammo in Kenya per la realizzazione di altri due importanti contratti affidatici dalla Stirling Astaldi che era una delle maggiori imprese operanti nell’East Africa in quel momento. Il primo era relativo alla costruzione della pista principale, della pista di rullaggio, delle bretelle e dei piazzali di stazionamento degli aerei del nuovo aeroporto internazionale di Mombasa, comprese le strade di avvicinamento all’aerostazione; il secondo riguardava la pavimentazione flessibile dell’aereoporto di “Chache Chache”, capoluogo della piccola isola di Pemba, in Tanzania, non molto distante da Mombasa. Entrambi i lavori furono eseguiti nei tempi previsti. Contemporaneamente ai lavori degli aeroporti, l’impresa ottenne l’appalto per la realizzazione della strada di Nyeri sul Monte Kenya che prevedeva la realizzazione di opere civili, idrauliche, la pavimentazione con triplo strato di pietrischetto steso su letto di bitume a caldo e la costruzione di un ponte in calcestruzzo in un’area tra le più belle del Kenya, ai limiti e dentro il parco nazionale. A Nyeri, molti di noi si recarono a rendere omaggio al principe Amedeo di Savoia terzo Duca d’Aosta “eroe dell’Amba Alagi” vicerè dell’allora Africa Orientale Italiana, sepolto nel sacrario militare assieme a 676 suoi soldati. Nel 1977 ci fu affidato il progetto stradale per la realizzazione della Nyeri-Kirianini Road che consisteva nella realizzazione di opere civili, idrauliche e della pavimentazione del secondo lotto della “Tea Road” (la strada del thé); particolare era l’esecuzione della fondazione stradale

Aeroporto di Mombasa

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Impianto bitumati


in ciottoli, di pezzatura di 20 cm, posati a mano e ricoperti con un triplo strato bituminoso di pietrischetto di tre diverse pezzature: questo fu l’ultimo progetto realizzato in Kenya dalla CISA, eravamo nel 1978. Nuovi mercati si stavano aprendo e l’impresa era pronta ad affrontare altre avventure.

Nyeri-Kirianini Road – Strada del Monte Kenya

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Nyeri-Kirianini Road – Strada del Monte Kenya

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Tanzania

L’

isola di Pemba, pur facendo parte della Tanzania è distante solamente una sessantina di km dalle coste del Kenya, è chiamata l’isola “sempreverde” per la sua vegetazione rigogliosa, ha un territorio collinoso con una costa molto frastagliata ed è famosa per la produzione di chiodi di garofano. Il lavoro prevedeva, oltre alla pavimentazione in asfalto della pista dell’aereoporto, anche la realizzazione della superstrada che collegava la cittadina di “Chake-Chake” al porto principale dell’isola. Le difficoltà che incontrammo erano dovute alla totale mancanza di infrastrutture sull’isola, ai difficili collegamenti con la terra ferma, che avvenivano solo con l’impiego di chiatte di portata limitata e incerta affidabilità, e alla presenza di un gran numero di cinesi, tanto da far pensare che l’isola fosse un loro protettorato. Anche questa volta superammo gli ostacoli ed eseguimmo i lavori a perfetta regola d’arte. Nei cantieri all’estero, in particolare in quelli africani, durante tutta la durata dei lavori si verificava un grande ricambio di personale che penalizzava la regolarità dell’esecuzione e pregiudicava il rispetto dei tempi e il risultato finale: non ci si poteva infatti nascondere le difficoltà di chi lavorava lontano da casa e dagli affetti; i lati negativi erano quasi sempre la comunicazione, il trasporto, la lontananza dai centri abitati, le malattie tropicali che rallentavano l’ambientamento e l’inserimento, nonostante il paesaggio naturale fosse magnifico. Anche con questo continuo turn-over l’Impresa poteva sempre scegliere tra i suoi quadri dirigenti e operatori per formare quel nucleo minimo di persone fidate, di altissima professionalità, che permetteva di sostituire per periodi più o meno lunghi lo staff assente dal cantiere e aiutare il personale di nuova assunzione. Questa capacità di formare il personale, di insegnare un mestiere agli abitanti locali, era propria delle principali imprese italiane di allora e anche della CISA e rap-

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Pemba

presenta forse una delle maggiori differenze tra l’approccio “colonialista” di allora degli inglesi e dei francesi, e quello di noi “italiani brava gente”, da sempre improntato a umanità e spirito di collaborazione. Gli inglesi in Est Africa avevano dato prova di grande efficienza, sapevano comandare e farsi ubbidire, erano rispettati ma soprattutto temuti, mantenevano un altezzoso distacco rispetto agli indigeni e ottenevano i risultati desiderati soprattutto attraverso il classico metodo del bastone e della carota (più bastone che carota a dire il vero…!).

L’italiano, invece, insegnava soprattutto con l’esempio: i nostri tecnici erano molto spesso exoperai che non si vergognavano di mettersi alla guida di automezzi o escavatori, rimboccarsi le maniche e mostrare manualmente il modo migliore di impastare la malta, lisciare un intonaco o posare a regola d’arte un pavimento di piastrelle, il tutto senza disdegnare una buona mangiata o una buona bevuta allo stesso tavolo degli operai locali: era questa condivisione che creava stima e confidenza e consentiva di crearci degli amici in ogni parte del mondo. In Kenya e in Uganda eravamo riusciti a formare due squadre complete di operai e operatori, specializzati nella stesa dei conglomerati bituminosi, così valide e affidabili che finimmo per portarcele dietro nella realizzazione di successivi progetti in Angola e Arabia Saudita; quelli che fino a pochi mesi prima erano dei “selvaggi” (d’altronde non era ancora di moda il linguaggio “politicamente corretto”) fecero il loro primo viaggio in aereo e impararono ad aprire un conto in banca per poter inviare lo stipendio alle loro famiglie: questa sì era “educazione allo sviluppo”…!

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Uganda

D

urante la costruzione della “Lunga Lunga Road” in Kenya, la CISA Estero ottenne l’appalto dalla Ferrobeton-Rizzani (uno dei più grossi gruppi d’impresa del periodo) per la realizzazione delle pavimentazioni rigide e flessibili delle piste, delle bretelle e dei piazzali di stazionamento degli aerei del nuovo aeroporto internazionale di Entebbe in Uganda. Per comprendere bene le difficoltà di questo lavoro, bisogna ricordare cos’era l’Uganda in quegli anni. Nella primavera del 1972, il presidente Idi Amin Dada, senza alcun preavviso, aveva deciso l’espulsione immediata dal Paese di tutti gli israeliani i quali svolgevano principalmente la funzione di istruttori dell’esercito e in particolare del personale dell’aviazione militare. In quel momento i lavori nell’aeroporto erano in pieno svolgimento e le piste erano utilizzabili solo in caso di emergenza ma, a seguito dell’azione del Presidente, l’impresa fu costretta a sospendere le lavorazioni previste per permettere l’evacuazione degli israeliani per via aerea e rivedere pertanto i programmi di lavoro. Ma non era finita! Durante l’estate dello stesso anno, ci fu l’espulsione di tutti gli Indiani i quali da decenni controllavano il commercio interno, mentre gli ugandesi si occupavano solo delle attività meno ambite e meno redditizie. In un periodo di circa quattro mesi, migliaia di persone furono espulse potendo portare con sè solo un bagaglio a mano; decine di voli charter in partenza ogni giorno causarono gravi ripercussioni e ritardi all’andamento dei lavori. Nell’aeroporto regnava la più totale confusione: centinaia di persone in partenza, assillanti controlli militari che interferivano anche sul nostro personale, molteplici richieste di aiuto da parte di persone che, ricche e potenti fino a qualche giorno prima, dovevano lasciare forzatamente il Paese. Stessa sorte capitò al responsa-

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Aeroporto di Entebbe

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bile del progetto del nuovo aeroporto di Entebbe, un indiano di etnia Singh, spesso presente in cantiere e quindi conosciuto dal nostro personale con il quale aveva sempre mantenuto un rapporto cordiale, tanto da destare commozione il giorno in cui si presentò per annunciare la sua forzata partenza; di lui, squisita persona e validissimo tecnico non ho più avuto notizie. Il presidente Amin, oltre all’espulsione degli stranieri, aveva provveduto ad eliminare anche i suoi oppositori politici ed è in questa particolare situazione che si inserisce l’episodio del salvataggio dell’ex-Ministro dei lavori pubblici da parte del nostro tecnico Giovanni Pasianotto che, riconosciutolo, lo caricò velocemente sulla propria auto e lo portò fin sotto la scaletta dell’aereo evitando i controlli che gli avrebbero impedito la partenza e fatto fare probabilmente una brutta fine. Tornando al punto di vista tecnico, l’opera da realizzare consisteva nell’esecuzione di una fondazione rigida in doppio strato di stabilizzato cementizio di 20 cm di spessore e la stesa di una pavimentazione flessibile in conglomerato bituminoso in tre strati dello spessore totale di 150 mm.; riuscimmo a rispettare il programma pur operando in condizioni non prevedibili e particolarmente difficili. Alla fine del 1972 i lavori erano completati con il superamento di tutti i test previsti dal contratto che, essendo l’Uganda una ex-colonia britannica, aveva tutte le specifiche tecniche e condizioni contrattuali inglesi. A questo proposito, ricordo la difficoltà di comprensione con la Direzione Lavori inglese su una soluzione tecnica da noi proposta che consideravamo più valida della loro; dopo tante discussioni in cantiere senza risultato, decisi di andare a Londra presso la sede centrale della Direzione Lavori dove, avvalendomi della consulenza del prof. Matteotti dell’Università di Padova, esposi con dati inconfutabili la bontà della nostra proposta, d’altronde già adottata su altre piste aeroportuali in Africa; a seguito di estenuanti ragionamenti, fu accettata in quanto garantiva una migliore qualità dell’opera a parità di costi.

Al centro tra i collaboratori all’aeroporto di Entebbe

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Gheddafi stringe la mano a Merluzzi

Gheddafi e Amin Dada

Aeroporto di Entebbe

Sette giorni prima dell’inaugurazione dell’aeroporto di Entebbe, in Uganda, mi trovavo a Tarvisio in occasione della visita del Sottosegretario dei LLPP ai lavori di costruzione della tangenziale di Camporosso e del collegamento di Tarvisio con il confine di stato. Mi raggiunse una telefonata del ministro ugandese Sikusoka, che mi esprimeva il suo desiderio di incontrarmi il giorno dopo presso il suo ufficio di Kampala; egli, oltre che tecnico preparato, era una persona gentile e corretta, ma quella telefonata mi lasciò sorpreso e perplesso in quanto il tono della sua voce non era il solito, ma ansioso e preoccupato. Lasciato in gran fretta il cantiere di Tarvisio, mi precipitai a Udine e quindi a Venezia per prendere il volo verso Roma e da lì raggiungere la capitale dell’Uganda. Nonostante i tempi ridotti e i consueti intoppi alle dogane, arrivai puntuale alle ore 10 nell’ufficio di Sikusoka. “I momenti politici del Paese sono molto critici…c’è l’assoluta necessità di garantire che l’inaugurazione dell’aeroporto di Entebbe avvenga nel migliore dei modi

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…dobbiamo dimostrare l’efficienza dell’Uganda a tutti i capi di Stato invitati alla cerimonia, a tutto il mondo africano…per questo l’ho chiamata…per dirigere gli ultimi lavori in tempo!”. Rassicurai il ministro e congedatomi da lui, raggiunsi in gran fretta la nostra sede operativa per organizzare un incontro con tutti i capi e responsabili del cantiere a Entebbe. Con i geometri Roggiano e Merluzzi predisposi tutta la fase finale dei lavori che comunque stavano già rispettando i tempi. Ero talmente sicuro che tutto si stava compiendo secondo il programma che, il giorno prima dell’inaugurazione, lasciai Entebbe per raggiungere Nairobi in Kenia, un volo di poco più di due ore e pertanto sarei ritornato comodamente in tempo per la cerimonia: avevo alcune formalità da dirimere nel nostro ufficio della capitale keniota, le avrei risolte in tempi velocissimi e sarei ripartito immediatamente. E così feci ma, al momento dell’imbarco, mi fecero sapere che per motivi di sicurezza tutti i voli per Entebbe erano stati sospesi e pertanto dovevo pensare a trovare un mezzo di trasporto alternativo. Le nostre conoscenze locali in brevissimo tempo ci permisero di contattare un pilota che effettuava trasporti aerei privati nel centro Africa. Egli accettò subito, era australiano, una specie di mercenario, parlava anche l’italiano e per me non fu difficile comprenderlo, tanto che, come prima condizione, capii che dovevo fare il pieno di carburante al suo piccolo aereo. Partimmo, in due ore avremmo dovuto essere ad Entebbe, ma poco prima di arrivare all’aeroporto dalla torre di controllo ricevemmo l’ordine di cambiare rotta e atterrare in un aeroporto a circa mezz’ora dalla mia destinazione. L’ora dell’inaugurazione si stava avvicinando e io mi trovavo ancora lontano dalla sospirata meta. Mi prese un grande sconforto e la rabbia per non riuscire ad essere in tempo all’inaugurazione. Il piccolo aereo aveva da poco toccato terra che dalla polvere della pista sbucò un’auto nera dai cui finestrini si agitavano braccia e mani frenetiche e man mano che si avvicinava una voce urlava il mio nome. Era Giovanin, (Giovanni Pasianotto) il nostro caposquadra asfalti all’eroporto di Entebbe da dove, appena saputo della mia disavventura e informato che sarei atterrato in questo sconosciuto aeroporto, senza esitazione era partito. Il vederlo mi fece un enorme piacere e mi diede una ulteriore speranza. “Presto! Possiamo ancora farcela!”. Salii sull’auto quasi in corsa e a folle velocità cercammo di raggiungere Entebbe ma tutto fu vano: non avevamo fatto i conti con le strade ugandesi e… il tempo. La cerimonia dell’inaugurazione era ormai terminata quando arrivammo. Ero dispiaciuto e così anche il ministro Sikusoka che, in modi spiritosi, mi ammonì. Aveva ragione! Ero stato imprevidente. A ripensarci ancora oggi mi sale la stizza, mitigata però dal sapere che quella cerimonia fu un successo per l’Impresa; numerose furono le manifestazioni di stima, tra cui, oltre che dal Capo di Stato Amin Dada, divenuto poi tristemente famoso, anche dagli altri capi di stato africani tra cui il presidente libico colonnello Gheddafi che volle stringere le mani di chi mi stava in quel momento sostituendo: il geometra Merluzzi!

Aeroporto di Entebbe

Nakasangola

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Entebbe

Dopo la perfetta esecuzione delle opere principali dell’aeroporto di Entebbe, ci furono affidate anche le opere di completamento relative alla viabilità di accesso e i nuovi parcheggi; se la realizzazione delle piste era stata impegnativa, questa appendice ai lavori fu una passeggiata in quanto non c’erano più segreti da scoprire né possibilità di imprevisti, poichè il personale e i responsabili dell’impresa, oltre ad avere la massima fiducia da parte della Direzione Lavori e del committente, avevano organizzato il cantiere in maniera tale da operare senza rallentamenti. Queste esperienze acquisite, unite alla professionalità e allo spirito di adattamento dei tecnici, consentirono alla CISA di acquisire altri due appalti in Uganda, dal medesimo committente, per realizzare prima la pista e i piazzali di stazionamento del nuovo aeroporto civile di Soroti e poi l’aeroporto militare di Nakasangola, a 130 km a nord della capitale Kampala, su un altopiano, in prossimità dell’equatore, dall’ambiente naturale di rara bellezza con paesaggi disseminati di laghi e foreste. Il cantiere era situato in mezzo alla savana a circa 100 km dal primo centro abitato, vicino al lago Kjoga, uno dei tanti laghi che alimentano il grande lago Vittoria da cui nasce il Nilo. I nostri lavoratori italiani, a causa della mancanza di qualsiasi contatto con altri espatriati, dell’impossibilità di telefonare e ricevere giornali, non potevano fare altro che lavorare; l’unica fonte di notizie era la radio, ma solo quando le condizioni atmosferiche erano ottimali. Ripagava però la bellezza dell’ambiente che, vissuta nei momenti di riposo, faceva dimenticare le privazioni e le difficoltà. Tra le attività preferite vi era la pesca del “persico del Nilo” che si pescava al largo, a bordo di vecchie e insicure piroghe, e che poteva raggiungere anche i 20 kg di peso e la “tilapia”, pescata dalla riva del lago. La cosa singolare era che questo pesce abboccasse solamente a una certa ora del giorno, tra le 17 e le 18; quando scattava l’ora, non si faceva in tempo a lanciare la lenza che il pesce abboccava: sembrava proprio che a quel pesce l’appetito scattasse solo alle cinque della sera. Il pescato veniva portato alla mensa del campo per la gioia e la gola di tutti. Anche la caccia veniva praticata, con il metodo tradizionale del fucile e… del fuoristrada, unico mezzo adatto a percorrere le piste in “laterite” e, con accelerazioni in prossimità delle zone cespugliose, a spaventare le faraone e le pernici che, uscendo allo scoperto, venivano “urtate” dalla vettura in corsa: anche questi bottini venivano portati alla mensa per variare

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il menu del giorno. Questo strano modo di usare il fuoristrada come arma non era privo di conseguenze per le vetture che, al ritorno in cantiere, non avevano lo stesso aspetto di quando erano uscite e procurava lavoro suppletivo ai meccanici impegnati a sostituire fari rotti e parabrezza in frantumi; la “caccia” ai colpevoli, da parte dei “capi” invece, non è mai stata proficua.

Soroti

Durante una mia visita in cantiere che effettuai assieme a Illio Rutter, amico e dirigente di un’altra impresa italiana, fui invitato, dopo il pranzo con tutti i dipendenti, dal capocantiere geom. Marco Merluzzi a fare una piccola escursione nei dintorni per apprezzare le bellezze del luogo e conoscere il lago Kjoga dove si facevano le pesche “miracolose”. Lungo il percorso sulle polverose strade in laterite, scorgemmo un grosso serpente che si accingeva ad attraversare la pista. Alla sua vista sollecitai Merluzzi, che faceva da autista, a correre più veloce per non farci tagliare la strada, ma la manovra non riuscì e purtroppo travolgemmo il lungo rettile. Fermata la vettura, scendemmo per verificare la situazione ma il serpente, malgrado fosse tramortito, si scagliò contro la parte posteriore della vettura con nostro grande spavento e ci costrinse a risalire velocemente in macchina. Dopo un momento di esitazione, invitai Merluzzi a ripartire e a chiudere i finestrini per evitare spiacevoli sorprese; ma ci rendemmo subito conto che il serpente, dopo quella mossa repentina, non dava più segni di vita. Scendemmo con molta prudenza dal fuoristrada, ma questa volta era morto. Il fatto era stato nel frattempo notato dagli abitanti di un piccolo villaggio poco distante e alcuni di questi, incuriositi, si erano nel frattempo avvicinati. Un po’ a gesti, un po’ a parole, un po’ in lingua Swahili, orgogliosi del nostro trofeo, chiedemmo loro come si chiamasse quel grosso serpente verde: “gnoka” ci risposero tutti in coro, “si chiama gnoka” (che significa serpente in lingua Swahili). Scoppiammo a ridere di gusto e per anni, nei cantieri africani, molte battute ironiche mi venivano rivolte sul fatto che, anche in piena savana, avevo incontrato una “gran bella gnoka”.

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Illio Rutter, che era al mio fianco, raccontava spesso agli amici questo episodio e tanti altri che abbiamo vissuto. Illio era per me un fratello, perché eravamo cresciuti assieme, frequentando gli stessi amici. La sua presenza in Africa mi fu di grande aiuto: con la sua intraprendenza professionale e con la simpatia che subito ispirava, mi risolse molti problemi di varia natura. Il nostro legame era profondo, anche perché mi fu sempre grato di averlo iniziato al mondo del lavoro. La stima fu quindi reciproca e quando Illio morì nel 1990 per un incidente stradale per me fu una perdita molto dolorosa. Un altro fatto curioso mi capitò durante un viaggio di rientro a Roma da Entebbe con un volo dell’Africa Airways. In quella occasione ero accompagnato da mia moglie Nita, a bordo incontrai una cara persona che conoscevo per la sua fama eroica e che avevo avuto occasione di incontrare a Venezia come esperto in studi idraulici: si trattava di uno dei componenti del gruppo che nel 1941 aveva violato le linee di difesa britanniche e, entrato con i ‘maiali’ nel porto di Alessandria d’Egitto, aveva fatto saltare diverse navi da guerra. Sull’aereo presi posto vicino a lui e iniziammo a raccontarci le rispettive avventure di guerra. Eravamo intenti, presi e partecipi dei nostri racconti quando, sorvolando la Libya, sentimmo diversi tiri di artiglieria: erano i giorni della grande tensione politica tra la Libya di Gheddafi, l’Egitto di Sadat e gli Stati Uniti. Per allontanarsi dalla zona del pericolo, l’aereo prese a cambiare continuamente rotta variando più volte anche quota e direzione. Il comandante ci informò che aveva avuto ordini di puntare al più vicino aeroporto in Sicilia. A bordo nessuno parlava più e si sentivano solo grida di paura. La tensione durò una mezz’ora fino alla comunicazione del comandante che tutto andava bene e che non ci sarebbe stato più pericolo. Anzi, contrariamente agli ordini ricevuti di atterrare in Sicilia, si sarebbe proseguito direttamente a Roma. Durante tutto il tempo di crisi mia moglie aveva continuato a dormire serenamente e si svegliò solo una volta arrivata a Roma: di quanto era successo non si era accorta di nulla... Era il 1975 e la positiva esperienza maturata in Uganda volgeva al termine, non senza rimpianti da parte del personale che aveva operato per più di cinque anni in quel meraviglioso paese; la CISA si accingeva a ritornare in Kenya e a raggiungere Mombasa come già descritto precedentemente.

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Angola

primo periodo

L’

Angola è un Paese situato nell’Africa australe, grande cinque volte l’Italia, con una popolazione di circa 11 milioni di abitanti. Dopo l’indipendenza, proclamata nel 1975 dal Portogallo che l’aveva dominato per più di 500 anni, questo immenso paese è sempre stato, salvo brevi periodi, in guerra. In realtà non è stata una guerra contro nemici esterni, bensì una lotta senza quartiere tra le varie etnie e principalmente tra le tribù del nord e quelle del sud. Per comprendere meglio la situazione occorre sapere che al momento dell’indipendenza esistevano tre grosse aggregazioni politiche che, per semplicità, potremo definire di “centro”, di “destra” e di “sinistra”; quella di destra e quella di sinistra erano le più importanti, la prima era appoggiata dagli USA e dal Sudafrica, la seconda dall’URSS e da Cuba. Geograficamente, l’aggregazione politica di destra, guidata da Jonas Savimbi, era situata nel centro-sud del paese, mentre l’altra, guidata da Agostinho Neto, era situata nel centro-nord. É in questo contesto di instabilità, di insicurezza, di difficoltà di movimento, di mancanza di materie prime che l’impresa Cisa Estero ha operato per anni. Nonostante il massiccio controllo militare operato dai cubani a tutti i livelli, assistemmo e vivemmo diversi e ripetuti tentativi di “colpo di stato”. Anche se la massa degli angolani del centro-nord sembrava seguire il motto del neo presidente Agostinho Neto: “da Cabinda al Cunene, un solo popolo una sola nazione”, all’interno del MPLA (Movimento Popolare per la Liberazione dell’Angola) c’erano parecchie fazioni che cercavano di arrivare al potere con ogni mezzo. Nella capitale Luanda c’era un clima di tensione che i nostri percepivano dal comportamento del personale angolano che lavorava in cantiere; la stessa capitale si poteva considerare un’isola sicura ma non si poteva uscire fuori città, se non con permessi speciali, con la scorta armata e, comunque, sempre

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a rischio di attentati. La vita in città, per il personale impegnato nei lavori dell’aeroporto, scorreva più o meno regolarmente anche grazie al supporto dell’ente appaltante, delle autorità locali, che avevano grande rispetto per noi in quanto italiani, e dei militari cubani con i quali c’era un ottimo rapporto di collaborazione. Le difficoltà maggiori erano dovute all’esasperata sindacalizzazione dei lavoratori, quasi una reazione a 500 anni di colonizzazione portoghese. Infatti, le continue e improvvise riunioni sindacali, la mancanza di contratti di lavoro chiari e ben definiti, il divieto di assumere personale a tempo determinato, l’impossibilità di applicare anche minime sanzioni, creavano situazioni di conflitto che mai si erano riscontrate in Africa. La prima importante opera realizzata fu la ristrutturazione della pista principale dell’aeroporto della capitale Luanda, eseguendo un doppio strato di conglomerato bituminoso da noi prodotto direttamente con inerti estratti a circa 20 km di distanza. Il progetto in sé non avrebbe comportato grandi problemi se si fosse operato in condizioni normali (per quanto “africane”) ma la vera difficoltà consisteva nel fatto di dover lavorare mantenendo la funzionalità operativa dell’aeroporto in quanto utilizzato anche dall’aviazione militare, per giunta in stato di guerra. Immaginate pertanto il traffico – previsto e imprevisto – che gravava ogni giorno sulla pista e l’insicurezza che tutto ciò comportava. Lavorando di giorno ma soprattutto di notte, anche durante i giorni festivi, mediando tra le nostre esigenze e quelle dei militari, velocizzando al massimo le operazioni di sgombero della pista all’annuncio dell’arrivo dei grossi aerei da trasporto, il lavoro previsto venne portato a termine anche se non nei tempi previsti dal programma. Alla fine del 1977 assistemmo a un nuovo tentativo di colpo di stato che, fortunatamente, si risolse senza conseguenze. Per consentire il decollo e l’atterraggio degli aerei, le operazioni in cantiere iniziavano molto presto con l’avvio degli impianti di conglomerato bituminoso e il riscaldamento del bitume. Una mattina, come di consueto, il capocantiere Merluzzi lasciò il proprio alloggio per raggiungere il lavoro. Durante il tragitto venne fermato da una pattuglia militare che gli rivolse le solite domande, chiese i soliti documenti, fece le solite raccomandazioni sentite tante volte; sembrava tutto normale, dato che controlli e posti di blocco erano una costante in quel periodo. Anche quel giorno Merluzzi non notò nulla di anormale. Raggiunse la sede dell’impresa dove trovò tutti gli operai tranquilli che lo informarono di essere stati invitati a rimanere nei propri appartamenti perché era in corso un tentativo di colpo di stato. Telefonò immediatamente al Ministero e al responsabile del progetto il quale a sua volta lo stava cercando per informarlo della situazione e per ordinargli che, per motivi di sicurezza, tutti gli addetti dovevano rimanere nei propri alloggi e non lasciarli per nessun motivo. Rientrato nel suo alloggio, Merluzzi dalle finestre al quarto piano assistette al passaggio di carri armati e autoblindo, a scoppi di bombe e raffiche di armi leggere, all’azione di reparti armati che occupavano la vicina sede della radio-televisione. La confusione durò poche ore e in serata il tentativo di golpe era fallito. Dopo qualche giorno di sosta forzata, i lavori ripresero con rinnovato slancio, anche perché nel frattempo era migliorato il rapporto sindacale con il personale angolano, dato che i vertici del sindacato, coinvolti nel colpo di stato, erano stati azzerati dal presidente: era il caso di dire che non tutto il male veniva per nuocere! A questo lavoro ne seguì subito un altro riguardante le infrastrutture dello stesso aeroporto e precisamente l’ampliamento dei piazzali di sosta degli aerei civili, il rifacimento della pavi-

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mentazione bituminosa delle vecchie piste, la finitura dei piazzali con un prodotto antikerosene al fine di evitare il danneggiamento della pavimentazione in caso di perdita di carburante durante le operazioni di rifornimento degli aerei. Anche in questa occasione trovammo grandi difficoltà a causa dell’impossibilità a programmare la disponibilità delle aree soggette ad intervento con i responsabili dell’aeroporto, oberati dall’intenso traffico sia civile che militare in quel delicato periodo. Ci fu, al riguardo, un episodio significativo. Avevamo richiesto più volte ai responsabili dell’aeroporto di spostare alcuni vecchi aerei, ridotti oramai a rottami, che occupavano le aree interessate dai nostri lavori, ma vi era una grande confusione di ruoli tra i pochi portoghesi rimasti e i nuovi responsabili angolani e pertanto nessuno prendeva una decisione, finchè una mattina capitò in cantiere un comandante militare il quale, con fare gentile e interessato allo svolgimento delle varie operazioni all’interno dell’aeroporto, ci chiese se ci fossero delle difficoltà nell’esecuzione dei lavori e il nostro geometra Rojatti colse al volo l’occasione per sollecitare lo sgombero dei vecchi aerei, accompagnandolo sull’area in questione; si trattava di rimuovere una cinquantina di aerei, sia civili che militari, abbandonati dai portoghesi e che erano già stati oggetto di “cannibalizzazione” da parte dei meccanici dell’aeroporto e di privati che asportavano parti più o meno preziose per venderle sul mercato locale e procurarsi qualche kwanza (moneta locale). Il comandante, il cui fare garbato ma deciso incuteva soggezione ai suoi sottoposti e alla scorta armata che lo attorniava, dopo aver visto gli aerei e capito il problema, si rivolse a Rojatti chiedendogli se eravamo in grado di spostare con i nostri mezzi i rottami. “Certamente signore!.. ma solo se avremo una autorizzazione scritta da parte della direzione dell’aeroporto” rispose dopo un attimo di esitazione. Il militare diede ordine al suo sottoposto di provvedere immediatamente e di consegnare entro la giornata il documento richiesto, salutò con una stretta di mano, augurando a tutti buon lavoro e quindi salì sulla vettura, seguito dal codazzo che lo accompagnava. Prima del termine della giornata, il documento richiesto, con le indicazioni del luogo in cui depositare le carcasse dei vecchi velivoli e le precauzioni da tenere per lo svolgimento delle operazioni di sgombero, ci venne consegnato e l’indomani mattina iniziammo: piccoli caccia con sulla coda ancora le insegne del Portogallo furono caricati interi sugli autocarri mentre i bombardieri furono sezionati prima di trasportarli nel luogo indicato. In pochi giorni l’area fu sgomberata e da cimitero di gloriose macchine volanti diventò una perfetta, pulita, area di sosta per quelle più moderne e veloci. Era il 1977, e all’epoca la CISA Estero era l’unica impresa europea presente in Angola, con una struttura capace di eseguire ogni tipo di opera civile; fu così che l’Aeronautica Civile angolana ci commissionò un lavoro nell’aeroporto, allora solo militare, di Lubango, una bella cittadina situata a sud-ovest dell’Angola su un altipiano a 1800 metri sul livello del mare. Il contratto prevedeva la riparazione delle piste danneggiate dai bombardamenti per permettere il loro utilizzo ai caccia “MIG” almeno per un altro anno, periodo massimo entro il quale ritenevano che la guerra sarebbe ancora proseguita. I tempi previsti per l’ultimazione dei lavori erano estremamente brevi, tenuto conto del contesto in cui si doveva operare e della situazione di guerra del Paese. Il problema più grande era quello dei trasporti, poichè si trattava di fare arrivare in cantiere, distante più di mille chilometri dalla capitale, attraverso strade interrotte e infestate da gruppi e bande armate, centinaia di tonnellate di macchinari pesanti e materiali come il bitume, il cemento, il ferro. Il materiale minimo necessario a riparare le zone più

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Soyo – Pipe line

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Soyo – Pipe line

danneggiate e pericolose della pista fu trasportato con un aereo il cui pilota, dell’aeronautica civile angolana, era molto dinamico e coraggioso. Dopo aver effettuate le riparazioni essenziali della pista, aiutati anche dai militari locali che erano i più interessati a un rapido svolgimento dei lavori, un secondo aereo servì a trasportare le attrezzature più urgenti, mentre il resto fu portato via mare fino al porto di Namibe (città prima chiamata Moçamedes). Per fortuna, in quel periodo le operazioni militari si stavano svolgendo nel sud-est del paese e la strada di circa 180 km che collegava il porto di Namibe con la città di Lubango era considerata percorribile senza rischi e fu così possibile trasportare in cantiere, con diversi viaggi di andata e ritorno e sempre scortati da squadre di militari ben armati, tutti i materiali e le attrezzature necessari all’esecuzione dei lavori. Finita questa “avventura” nel sud dell’Angola, eravamo pronti per quella nuova di Soyo, all’estremo nord-ovest del paese, sulla immensa foce del fiume Congo. La particolarità del lavoro di Soyo era la grande varietà degli interventi da eseguire: strade in terra battuta di servizio ai pozzi petroliferi e ai relativi oleodotti, costruzione di terminali petroliferi con relative opere di stoccaggio, protezioni, basamenti, ricoveri, costruzione di un oleodotto a mare con tubi appositamente rivestiti in calcestruzzo, costruzione di un molo per l’attracco di piccole imbarcazioni da trasporto, alloggi per il personale locale, ecc. Eravamo la prima impresa civile che raggiungeva i campi petroliferi di Soyo dopo la proclamazione dell’indipendenza; c’erano tanti lavori da fare, tutti urgenti, tutti diversi, in mezzo a difficoltà logistiche di ogni tipo. L’unico dato positivo era che la guerra, al momento, era ancora lontana da Soyo. Anche in questa terra di savane, lontani 350 km dalla capitale raggiungibile solo via mare con piccole imbarcazioni o via aria con piccoli aerei, abbiamo dimostrato di poter essere sempre all’altezza anche nelle situazioni più complesse e difficili.

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Congo

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el 1979 la CISA ottenne l’appalto dei lavori per il prolungamento, il rinforzo e la pavimentazione della pista principale dell’aeroporto di Pointe Noire, finanziato dall’Angola come contropartita per gli aiuti ricevuti in passato, quando il Congo aveva aiutato, sostenuto e ospitato i maggiori esponenti del governo angolano durante gli anni della lotta per l’indipendenza. Le buone referenze acquisite dalla CISA in occasione dei lavori presso l’aeroporto di Luanda furono quindi determinanti nell’acquisizione dell’appalto che non presentava, sulla carta, difficoltà tecniche di rilievo. Eravamo sicuri che, con l’esperienza fino allora maturata, il lavoro avrebbe dovuto essere una “passeggiata” dopo le enormi difficoltà incontrate in Angola. In tutto il Congo, e a Pointe Noire in particolare, si poteva vivere in maniera quasi normale, dato che il paese non era in guerra; aveva una popolazione che viveva dignitosamente se rapportata ad altri paesi africani simili, i francesi erano ancora presenti e gestivano i nodi vitali del commercio e dei trasporti, nei mercati si trovava tutto ciò che potesse servire e anche di più: finalmente ci aspettava un lavoro da eseguire in condizioni normali. Avevamo però fatto male i conti! Dopo quattro mesi, non era stato ancora prodotto un metrocubo di ghiaia e di asfalto. Il nostro arrivo, impresa italiana proveniente dall’Angola, a Pointe Noire, capitale economica del Paese, aveva creato invidia nel potente e chiuso mondo economico franco-congolese il quale cercava di ostacolarci in tutti i modi. Conoscendo bene il carattere dei cugini francesi, grazie al buon senso, al nostro spirito di iniziativa e puntando

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anche sul nazionalismo congolese, riuscimmo finalmente a “trovare” la cava di inerti necessaria a fornirci il materiale per eseguire l’opera. A causa del ritardo accumulato, quella che doveva essere una “passeggiata” divenne una corsa veloce contro il tempo ma finimmo nei tempi previsti. Alla consegna dei lavori, non ricevemmo complimenti e ringraziamenti da parte delle autorità locali, ma i francesi dovettero cambiare il loro atteggiamento nei confronti “des italiens”. Esauriti i lavori in Congo e completati quelli nella vicina Angola, l’impresa, dopo quattro anni di presenza in questa regione, chiuse i cantieri e trasferì uomini e mezzi in altri paesi africani: era il 1980. Il personale che si accingeva a lasciare la regione sperava in cuor suo di poter ritornare un giorno in questi luoghi che ancora erano alla ricerca di una normalità politica e civile tanto sognata. Dopo le difficoltà iniziali di ambientamento, tutti apprezzavano la capacità, la disponibilità e l’allegria degli operai locali, nonostante la loro vita quotidiana fosse per niente facile. Devo ammettere che in questi Stati abbiamo dato e insegnato molto, ma abbiamo anche imparato e ricevuto molto.

Arabia Saudita

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opo il rientro dall’Angola, ottenemmo una nuova commessa in Arabia Saudita per l’esecuzione di un tratto dell’autostrada di collegamento con il Kuwait, un lotto di 30 km a partire dalla città di Damman fino ad Abu Hadriyah. Tecnicamente il progetto prevedeva l’esecuzione di una fondazione in due strati da 20 cm ognuno in materiale stabilizzato a calce, premescolato con un impianto Marini e posto in opera con

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vibrofinitrici e la pavimentazione a tre strati di conglomerato bituminoso dello spessore di 17 cm. Le pesanti condizioni atmosferiche della zona a causa del caldo e dell’umidità opprimente, i rapporti non facili con i locali ma soprattutto i pessimi rapporti con l’impresa capofila e tra questa e la Direzione Lavori, non mi hanno lasciato un piacevole ricordo di questa esperienza. In ogni caso i lavori furono ultimati e consegnati secondo contratto.

Impianto stabilizzati a Dharan Abu Hadriyah (Arabia Saudita)

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Egitto

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a crisi petrolifera conseguente alla guerra del Kippur, che costrinse gli italiani ad andare a piedi la domenica, rappresentò negli anni successivi un’opportunità di lavoro per varie imprese italiane, tra cui la CISA. Infatti, l’aumento impetuoso del prezzo del petrolio favorì gli investimenti in quel settore, spingendo alcuni Paesi a potenziare le capacità di estrazione attrezzando anche aree remote e disagiate che prima non risultava conveniente sfruttare. Così ci fu la corsa a realizzare nuovi oleodotti e impianti di estrazione, un settore nel quale alcune imprese italiane dei gruppi ENI e IRI (Saipem, Snamprogetti, CIMI, Montubi) facevano la parte del leone. La CISA riuscì a stabilire un rapporto privilegiato con la Montubi e

Alessandria d’Egitto – Teminale oleodotto

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Alessandria d’Egitto – Teminale oleodotto

ne divenne per quasi un decennio il subappaltatore di fiducia per le opere civili, lavorando in Egitto, Libya, Nigeria. Nello stesso periodo in cui eravamo impegnati in Kenya, una parte dell’impresa fu trasferita in Egitto per realizzare le opere civili del terminale petrolifero di Sidi el Kerir. Conseguenza della guerra arabo-israeliana era stata la chiusura del canale di Suez e ciò costringeva le petroliere che trasportavano il greggio del Golfo a navigare lungo il periplo dell’Africa; si rese così necessaria la realizzazione di un oleodotto per consentire l’arrivo del greggio a Suez,

Suez – Abitazioni

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Suez – Abitazioni

il porto più settentrionale del Mar Rosso, e un terminale per il carico delle navi in prossimità di Alessandria d’Egitto. In due anni, dal 1975 al 1977, l’impresa collaborò a questa importante opera, la prima nel campo delle infrastrutture petrolifere e, in particolare, eseguimmo le fondazioni per i grandi serbatoi di stoccaggio del greggio, i supporti per la posa dei tubi da 48 pollici di diametro, i basamenti per l’appoggio dei macchinari e delle attrezzature, un vascone in calcestruzzo da 60 metri di lunghezza situato a 10 m di profondità, una decina di edifici adibiti a uffici, magazzino, sala pompe, la recinzione dell’area per 4 km, la posa di tubi appesantiti in calcestruzzo per la condotta a mare e le opere relative alla linea elettrica, tra il Cairo e Helwan, di alimen-

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Oleodotto Alessandria Suez

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Oleodotto Alessandria Suez

tazione della stazione di pompaggio intermedia. Successivamente la Montubi affidò alla CISA un secondo contratto per la costruzione di 140 unità abitative nell’area di Suez, un complesso residenziale destinato a ospitare i funzionari e i tecnici addetti alla gestione dell’oleodotto. Per questa realizzazione si scelse di adottare la tecnologia “Dolmen” con l’utilizzo di elementi prefabbricati tridimensionali in cemento armato. La produzione degli elementi prefabbricati e la loro posa in opera avrebbe dovuto procedere molto speditamente una volta impiantato il cantiere di prefabbricazione con la sua pista vibrante, le piste per gli elementi a tunnel e i banchi basculanti, ma non fu così. Il committente e la Direzione Lavori apportarono talmente tante modifiche da stravolgere completamente il progetto, snaturando il concetto della prefabbricazione e danneggiandoci sia dal punto di vista economico che dei tempi di consegna. In Egitto, comunque, si lavorava e si viveva bene, i rapporti con la popolazione locale erano ottimi, eravamo ben visti, il Paese offriva molti motivi di interesse, si potevano frequentare le donne locali senza problemi, tanto che alcuni italiani sposarono donne egiziane e le portarono in Italia una volta terminati i lavori. Questo anche se l’Egitto in quegli anni era un paese profondamente segnato dalla ‘guerra dei sei giorni’ che aveva costretto milioni di persone ad abbandonare il Sinai per rifugiarsi al Cairo e ad Alessandria, i cui abitanti erano aumentati in modo impressionante senza che le città si fossero prima dotate di adeguate strutture. Al Cairo decine di migliaia di persone avevano ricavato i loro alloggi provvisori nelle tombe monumentali del cimitero, che era stato quindi soprannominato “la città dei morti”. Ad Alessandria, le condizioni igieniche erano spaventose e, in pieno XX secolo, si verificarono perfino alcuni casi di peste tra la popolazione locale; a Suez le tubazioni in “Geberit” (materiale plastico usato per gli impianti idrici e fognari nei nostri lavori) erano sistematicamente rosicchiate dai ratti che infestavano il cantiere.

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Meta di pellegrinaggio da parte dei nostri impiegati italiani, era la località di El-Alamein, dove una stele al Km 42 della “pista dell’acqua” ricorda il cimitero dei combattenti della Folgore, protagonisti di una delle pagine più tristemente eroiche della 2^ Guerra Mondiale

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Libya

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opo l’Egitto venne la Libya dove, in cinque anni, la CISA realizzò altrettanti importanti progetti nel settore petrolifero, sempre come impresa di fiducia della Montubi. La situazione in Libya era completamente diversa dall’Egitto in quanto già da alcuni anni stava montando nel paese un costante risentimento verso tutti gli stranieri, in particolare gli italiani (salvo aver bisogno di loro per la realizzazione della maggior parte dei lavori). Doveva essere chiaro a tutti che eravamo a casa loro e che lì comandavano loro. Tutte le iscrizioni in caratteri latini erano state tolte e sostituite con iscrizioni in arabo, perfino quelle della segnaletica stradale; non era possibile rivolgersi direttamente ad alcun ufficio se non tramite un “ufficiale di collegamento” che veniva scelto dalle autorità locali e doveva essere assunto dall’impresa straniera che cosi finiva per stipendiare proprio quello che era incaricato di sorvegliarla, di spiare e riferire alla polizia locale tutto quello che succedeva in cantiere. Non vi era alcuna certezza del diritto e non esistevano nemmeno norme scritte che potessero rappresentare una chiara indicazione di quali fossero i nostri diritti e doveri, solo “gentili concessioni” che di volta in volta venivano elargite. Qualsiasi funzionario si sentiva in diritto di interpretare a modo suo le norme (ovviamente scritte solo in arabo) o di imporre a suo piacimento ulteriori limitazioni o prescrizioni. Ogni volta, sia per entrare che per uscire dal Paese, era necessario il visto ma, fino a quando non si aveva in mano il passaporto e la carta di imbarco, non vi era certezza. Ci fu impossibile reclutare personale locale; contrariamente all’Egitto popoloso e con mano d’opera a basso costo valida, volonterosa e desiderosa di imparare, i libici erano tutti impiegati pubblici, commercianti, militari: operaio nessuno e questo ci costrinse a portare dall’Italia tutta la forza lavoro, compresi i manovali e gli sguatteri. Le norme sul pagamento delle tasse o sui contributi da pagare potevano cambiare improvvisamente, le prenotazioni

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aeree potevano essere cancellate senza preavviso per fare posto a cittadini libici che avevano più diritto a viaggiare, i divieti sul consumo di alcool, sesso e carne di maiale erano rigidi e questo per sottolineare la loro autorità e per soddisfare il loro sottile piacere di vedere gli stranieri sottomessi, ma…passi per la carne di maiale, che poteva benissimo essere sostituita, passi per il sesso, per cui chi decideva di firmare il contratto di lavoro firmava anche per tre mesi di completa astinenza, ma la mancanza di vino e delle bevande alcoliche per i friulani e i carnici era un sacrificio troppo grande da sopportare. Alcuni, in previsione dell’astinenza forzata, facevano “il pieno” prima di partire, tanto da arrivare in cantiere in condizioni di semi incoscienza; altri studiavano i rimedi più ingegnosi per alleviare lo stato di astinenza non desiderato ma imposto. ‘Uno scatolone pieno di sabbia’, era stata definita la Libya al tempo della conquista nel 1912; sabbia onnipresente, ovunque, troppa e… inutile, perché troppo polverosa, troppo sporca per essere usata nei calcestruzzi e negli intonaci tanto da giungere al paradosso di avere cantieri in pieno deserto, come Zellah, Sabah, Hamada el Hamra, con la sabbia presente dappertutto, anche dentro i letti e, ciononostante, per poter lavorare si doveva far arrivare la sabbia dalle cave sulla costa, a oltre 400 km di distanza. Ogni giorno arrivavano in cantiere vecchi gloriosi FIAT 682 con rimorchio, che impiegavano due giorni di viaggio. Ad ogni arrivo c’era la solita litigata con gli autisti per la quantità di sabbia trasportata che non corrispondeva mai alla quantità indicata sulla bolla di accompagnamento. Era insomma un paese difficile e lontano, anche se si affaccia sul Mediterraneo di fronte alle isole di Malta e Lampedusa, per le difficoltà legate all’ottenimento dei visti, per la totale mancanza di comunicazioni: le telefonate internazionali erano una rarità, si potevano effettuare solo dagli uffici postali locali, affrontando estenuanti code di molte ore senza avere la certezza di riuscire a ottenere la linea; le comunicazioni di lavoro tra il cantiere e l’Italia avvenivano attraverso assurde triangolazioni: il cantiere comunicava con la sede di Tripoli attraverso un ponte radio che poteva essere utilizzato solo due volte al giorno a ore fisse, dato che solo la Montubi aveva ottenuto l’autorizzazione a installare l’apparecchio ricetrasmittente; la sede di Tripoli trasmetteva i messaggi alla sede di Udine con la telescrivente o telex che non era altro che una sorta di macchina da scrivere che inviava messaggi in base a nastri perforati, quasi un alfabeto morse, che venivano poi decifrati dalla corrispondente macchina ricevente, sempre in base alla perforazione del nastro. Il primo lavoro in Libya fu eseguito e portato a termine nel 1977. Si trattava delle fondazioni in calcestruzzo e le opere accessorie per gli impianti di estrazione e primo trattamento del gas naturale presso i pozzi di gas della Esso situati ad Hateyba, località a 90 km a sud di MarsaBrega. In seguito ci trasferimmo nella concessione petrolifera C74 a Zellah e Sabah. Anche qui si trattava di opere civili in muratura e in calcestruzzo a protezione dei pozzi di petrolio e alle varie strutture di raccolta e distribuzione, ma gli interventi erano molto più importanti e numerosi. Nel 1980 la CISA acquisì contemporaneamente due contratti molto importanti sia come importo che come impegno organizzativo. Il primo prevedeva la costruzione delle opere civili della stazione di pompaggio e stoccaggio di kerosene nei pressi di Zawiyah, cittadina a 50 km a ovest di Tripoli verso la frontiera Tunisina, da dove il kerosene, mediante l’oleodotto denominato W1-W2, veniva trasferito a due aeroporti militari situati all’interno. Il lavoro era relativamente complesso anche per la difficoltà di avere disponibile la progettazione esecutiva e per le continue modifiche che la Direzione Lavori apportava ai disegni.

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Hamada al Hamrah NC8 – Minareto e moschea

Hamada al Hamrah NC8 – Uffici del personale

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Hamada al Hamrah NC8 – Oleodotto

Il cantiere era situato vicino al mare e questo ammorbidiva almeno l’umore del personale messo alla prova dalle innumerevoli problematiche legate al lavoro. Il secondo contratto prevedeva che, a monte dell'oleodotto, in località Hamada el Hamran, in pieno deserto libico, a 500 km a sud di Tripoli, si eseguisse il progetto W.L.P.P., cosi chiamato dalla sigla del nome dato all’oleodotto, prevedeva l’esecuzione delle opere civili relative agli impianti di raccolta, distribuzione, degassificazione e stoccaggio del petrolio proveniente da un centinaio di pozzi distribuiti in una vasta area circostante. Si trattava di un grosso impianto che, una volta in funzione, avrebbe occupato in permanenza un centinaio di tecnici e per questi era prevista la realizzazione di un piccolo villaggio, completamente autonomo, che permetteva loro di lavorare e svolgere una vita normale anche in pieno deserto; comprendeva alloggi di varia tipologia, un ristorante, un supermercato, l’officina, il magazzino, la moschea e gli impianti necessari come condizionamento, trattamento acque, energia elettrica, e le infrastrutture come fognature, strade, parcheggi, illuminazione pubblica, linee antincendio. Hamada el Hamrah in lingua araba significa spianata, pianura, zona “color ambra” e, realmente, al tramonto del sole, questa caratteristica colorazione ambrata, sempre più intensa con il passare delle ore, avvolgeva il paesaggio. Il terreno era sabbioso e l’azione del vento faceva apparire ed evidenziare in superficie delle pietre di diversa dimensione, da pochi millimetri fino a 5, 6 cm di diametro, di colorazione “granata”; leggere ondulazioni formavano piccole vallette dove minuscoli e rari cespugli cercavano di sopravvivere catturando la poca umidità disponibile. L’area del lavoro era totalmente piatta e senza alcuna macchia di verde: se ci si alzava di qualche metro da terra e si girava la testa a 360 gradi, si vedeva solo sabbia, pietre e alcune sagome in lontananza che non erano altro che i pozzi di petrolio e se questo lo si faceva dopo il passaggio del “ghibli” (vento tipico del deserto), si aveva l’impressione di essere i primi umani

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a metter piede, tanto la forza della natura aveva cancellato ogni traccia del passaggio degli uomini, anche sulla pista ogni giorno battuta dagli automezzi pesanti. Ad aumentare le già note difficoltà ambientali del deserto, durante il periodo natalizio del 1980 ci fu una ondata di freddo anomalo che di notte arrivò a meno 7 gradi, tanto che cinque autocarri subirono la rottura del blocco motore: ovviamente nessuno aveva pensato all’antigelo!... in Africa! A differenza del precedente lavoro, la progettazione esecutiva era di una tale precisione e dovizia di particolari che, per tutta la durata dei lavori, non venne mai riscontrata alcuna divergenza con la direzione lavori olandese; non fu effettuata alcuna variante rispetto alle specifiche contrattuali, nemmeno a nostre proposte di impiego di materiali alternativi ma di migliore qualità; ad esempio, per i pavimenti erano previste delle modestissime piastrelle in graniglia colorata del tipo ‘case popolari anni 50’ e alla nostra proposta di usare piastrelle in grès di ben migliore qualità, prodotte in Italia, principale produttore mondiale del settore, fummo costretti ad acquistare le “terrazzo tiles” in Inghilterra per avere il certificato di conformità alle specifiche britanniche e fu così anche per i sanitari dei bagni, e altrettanto per le tubazioni in PVC delle fognature, acquistate addirittura negli Stati Uniti! Così diceva il contratto e così si doveva fare! Credo sia stata l’unica volta, in tanti anni di attività all’estero, nella quale non sia stato possibile impiegare materiale italiano, per cui, dal punto di vista del contributo all’esportazione questo lavoro non mi lasciò per niente soddisfatto se non per avere rispettato i tempi e i patti contrattuali.

Avevo annunciato la mia visita in cantiere in occasione del capodanno del 1981 e il geom. Rojatti, capocantiere, mi disse che ciò era considerato da tutti i lavoratori un grande avvenimento e un grande onore e andava pertanto festeggiato, ma, nonostante l’impegno degli impiegati di Tripoli, i cibi e i vini tipici del Natale inviati dalla sede di Udine, erano rimasti bloccati dentro l’area doganale. A quei tempi in Libya, paese musulmano, non si poteva festeggiare il Natale e le nostre

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feste ‘consacrate’, ma la mia presenza e la mia condivisione dei disagi, in quel particolare periodo dell’anno, alleviò un po’ a tutti la nostalgia di casa. Alla mancanza del panettone si ovviò con l’arte culinaria dei cuochi che confezionarono una serie di torte e dolcetti da soddisfare anche i palati più delicati, mentre per le bevande si ovviò correggendo le bibite analcoliche in dotazione, con un liquido bianco dal forte “profumo” che nessuno osava chiamare per nome ma di cui i nostri meccanici conoscevano benissimo la provenienza. A tal proposito, mi era stato riferito che da alcuni giorni prima del Natale c’era stato un grande e strano consumo di frutta da parte dei meccanici, da far pensare ad un attacco complessivo di scorbuto, ma, poiché non si rilevarono giorni di malattia e il loro aspetto si presentava più sano che mai, la cosa sembrava un mistero…svelato a capodanno! Non era altro che un distillato derivato dalla fermentazione della frutta e prodotto utilizzando come alambicchi le pentole a pressione modificate. A cena finita e all’avvicinarsi della mezzanotte, si manifestò una delusione generale perché, oltre a quella specie di grappa prodotta da alcuni ingegnosi friulani, non c’era alcun liquido degno per brindare e festeggiare il nuovo anno; allora mi alzai in piedi e ringraziai i presenti, che nel frattempo si erano fatti silenziosi, per l’accoglienza ricevuta, feci i complimenti per lo stato dei lavori, detti alcuni consigli per quanto restava da fare e chiusi il discorso invitando tutti a fare un brindisi al nuovo anno. Increduli tutti si guardarono l’un l’altro ammutoliti e fu in quel momento che da sotto il tavolo presi una bottiglia che elevai per mostrarla agli astanti: una bottiglia di whisky si era materializzata tra le mie mani! Meraviglia e incredulità da parte di tutti: “Come avrà fatto ‘Penna Bianca’ (cosi venivo affettuosamente chiamato per via del mio passato da ufficiale degli alpini) a procurarsi in Libya, in pieno deserto, una merce così impossibile!?” Poi, resisi conto che era una vera bottiglia di whisky, iniziarono a esultare mentre io, tra gli applausi, distribuivo centellinando quella miracolosa bevanda perchè tutti potessero festeggiare degnamente l’arrivo del nuovo anno: per molti anni nei cantieri della CISA si parlò del “miracolo di Penna Bianca”. Ma oggi posso raccontare la verità! Prima della cena mi si avvicinò il geometra Rizzalli che, avvisatomi della mancanza di alcolici, mi disse che Rojatti gli aveva lasciato una bottiglia di whisky per consegnarla a “Penna Bianca” per il brindisi di capodanno. La preziosa bevanda gli era stata donata un mese prima da un autista locale da lui conosciuto alla fine degli anni sessanta a Tripoli durante il regno di “re Idriss”, prima dell’avvento del colonnello Gheddafi, a ricordo dell’amicizia di quegli anni, nonostante la proibizione della sua religione a possedere liquori. Gli sono ancora riconoscente per il generoso gesto che ha voluto rivolgere a tutti i suoi compagni di lavoro e… per avermi fatto fare proprio una ‘bella figura’!!

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Somalia

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a Cisa ebbe modo di farsi notare anche nell’altra ex-colonia italiana: la Somalia, dove i ricordi del nostro passato erano più vivi e privi di quell’astio che invece si respirava nella Libya del colonnello Gheddafi. Nel centro di Mogadiscio un arco di trionfo continuava a salutare “romanamente” il principe Umberto e nei villaggi vicini si potevano ancora trovare delle vecchie trattorie con i sedili impagliati, le tovaglie cerate a quadretti bianchi e rossi oltre a un buon piatto di tagliatelle alla bolognese. L’italiano era lingua largamente diffusa nella popolazione al punto che molte parole erano entrate a pieno titolo nel linguaggio comune. La cosa buffa della lingua somala è che sembra fatta apposta per perpetrare lo stereotipo del “bovero negro”: infatti al ristorante si poteva ordinare “bollo”, per imbucare una lettera si cercava la cassetta con scritto “boosta” e le macchine dei gendarmi erano targate “boolizia”. La CISA partecipò, in associazione con la Edilter di Bologna, alla costruzione del tratto terminale del sistema fognario che collegava il centro di Mogadiscio con l’aeroporto internazionale. Un lavoro abbastanza semplice ma che si protrasse per ben tre anni, dal 1982 al 1985, a causa delle frequenti interruzioni nell’erogazione dei finanziamenti da

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parte della Banca Africana di Sviluppo. Nei due anni successivi, realizzammo gli edifici del centro di sviluppo agricolo “Afgoy-Mordile” a pochi chilometri dalla capitale. Quelli erano anni tranquilli per la Somalia, i numerosi italiani residenti si ritrovavano nell’accogliente e affollata “Casa Italia” e nel negozio di alimentari di Caputo, dove si potevano trovare le specialità gastronomiche italiane, ma entro cinque anni il paese sarebbe stato sconvolto dalla guerra civile, gli italiani espropriati dei loro beni e la strada dell’aeroporto teatro dell’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.

Nigeria

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a prima esperienza in Nigeria fu a Jos e a Gombe nel 1979. Stavamo terminando i cantieri in Libya di Sabah e Zellah quando la Montubi chiese alla CISA di inviare in questo nuovo paese una squadra operativa per eseguire delle opere civili; sostanzialmente una richiesta di aiuto per risolvere, con una certa urgenza, un problema sorto in quel cantiere ma anche un implicito riconoscimento alle nostre capacità organizzative e all’efficienza fino allora dimostrata negli altri cantieri. La squadra, divisa in due parti operative, doveva realizzare le stazioni di pompaggio lungo l’oleodotto denominato N.P.C.O.P. (Nigeria Petroleum Crude Oil Pipeline) e contemporaneamente le opere civili all’interno della raffineria di Kaduna, seconda città del paese. Il personale, dopo la permanenza in Libya, si risollevò nel morale in quanto il clima era sì caldo ma temperato, le colline verdi, la birra e gli alcolici liberi di essere consumati e la compagnia femminile sempre disponibile: erano passati da un eccesso all’altro! La Nigeria, che molti ricordavano solo per i servizi giornalistici del Biafra, associandola con le immagini sulla miseria, la fame e la morte, si rivelò invece un meraviglioso paese, molto popolato, vivo e

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composito. La particolarità di questa popolazione era la grande voglia di divertirsi, di cantare, di ballare e di prendere la vita non troppo sul serio. Si assisteva, con frequenza allarmante, a incidenti automobilistici raccapriccianti, quasi tutti mortali, scontri frontali tra auto, poi lasciate accartocciate per settimane ai margini della strada: la prudenza nella guida non veniva mai presa in considerazione. Vecchi automezzi viaggiavano sempre stracarichi di merci e persone che solitamente si sistemavano sopra di esse, per mancanza di spazio. Un autista aveva caricato il suo mezzo oltre ogni limite e sistemato sopra la merce anche un gruppo di una decina di persone. Mentre viaggiava a velocità sostenuta, passando sotto un ponte, spazzò via, letteralmente, tutti i passeggeri che si trovavano sopra, provocando una carneficina. Durante i nostri trasferimenti, capitava spesso di vedere sul ciglio della strada il corpo seminudo di qualche indigeno abbandonato da giorni, senza che nessuno si fosse preoccupato di recuperare il corpo, a parte gli avvoltoi. Il tragico, per noi europei, era che questi fatti venivano accettati dalla popolazione con una grande rassegnazione e una forte dose di fatalismo. I lavori furono portati a termine in meno di otto mesi, dopodichè le squadre rientrarono in Italia. Ritornammo due anni dopo. Fummo chiamati dalla Danieli di Buttrio per la costruzione, chiavi in mano, di un laminatoio per ferro tondo nella località di Eket, una cittadina situata sulla sponda destra del fiume Kwa River (da cui il nome Kwa Steel della società proprietaria dell’impianto), nel sud-est del paese, tra la città di Port Harcourt alla foce del fiume Niger e il confine con il Camerun. In città furono sistemati gli uffici e gli alloggi, mentre il cantiere di costruzione si trovava a circa tre km di distanza in una zona disabitata, ricca di vegetazione, simile alla savana. Per eseguire l’opera fu necessario portare dall’Italia tutti i macchinari e le attrezzature. Incontrammo difficoltà per l’insufficienza di infrastrutture legate alla comunica-

Eket - Laminatoio

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zione, le poche strade erano per giunta mal ridotte, senza pavimentazione, i ponti malsicuri e inoltre occorrevano doti non indifferenti per sbloccare i mezzi che venivano fermati da ogni sorta di forze dell’ordine che, con la scusa dei controlli, approfittavano per chiedere mance e, man mano che i convogli passavano, l’arroganza si faceva più pressante: il tutto in un paese molto abitato tanto da essere il più popoloso dell’intera Africa. Furono installati tre grossi generatori da 1000 kW che, data l’assenza di linee elettriche di potenza adeguata, dovevano alimentare l’impianto continuativamente, per trasportarli fummo costretti a rinforzare alcuni ponti lungo il percorso da Port Harcourt a Eket. Una volta completato il rifornimento del cantiere, i lavori iniziarono con grande impegno e, grazie anche ad una progettazione precisa e puntuale, furono portati a termine nei tempi previsti. Una grande festa fu organizzata alla fine dei lavori alla quale partecipò la compianta dottoressa Cecilia Danieli e i tecnici, oltre alle più alte autorità locali presentatisi con i loro costumi tradizionali, ricchi di sgargianti colori e originali fantasie: allegria e divertimento, tanti discorsi, cibo squisito e bibite in quantità (eravamo in una regione cristiana), musiche tradizionali e balli folcloristici per tutta la notte fino al momento dei saluti e dei ringraziamenti. Lasciammo la Nigeria per trasferirci in Algeria.

Eket - Laminatoio

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Algeria

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el 1983 il governo Algerino ci commissionò la costruzione di 5 complessi scolastici da realizzare in 5 villaggi della regione di Tiaret. Il capoluogo, Tiaret, si trova a 150 km a sud-ovest di Algeri e del mar Mediterraneo e a 250 km a sud-est della seconda città del paese, Orano. Dopo che un forte terremoto aveva colpito la regione di “El Asnan”, il governo Algerino aveva deciso di ricostruire gli edifici pubblici, le scuole in particolare, con una tecnologia industrializzata, per velocizzare le costruzioni, con un sistema di prefabbricazione pesante per rendere gli edifici antisismici. Il progetto era studiato con accuratezza e faceva tesoro dell’esperienza di edifici realizzati dopo il terremoto del 1976 in Friuli. Il progetto era “chiavi in mano”, vale a dire che i cinque complessi scolastici dovevano essere consegnati completi di arredi e attrezzature, pronti a ricevere gli studenti e ad alloggiare gli insegnanti dal primo giorno di scuola. La sfida da affrontare era quella di riuscire a costruire una trentina di edifici in cinque località diverse, lontane decine di km una dall’altra, consegnando il primo complesso in soli 9 mesi e gli altri quattro nei successivi, uno al mese, per completare il tutto in quattordici mesi. I tempi di esecuzione erano stati calcolati da noi senza tenere conto di eventuali imprevisti che in Italia sono purtroppo una costante fissa mentre all’estero possono capitare ma, a differenza dei cantieri italiani, i tempi di recupero sono più veloci, sia per un maggior spirito di collaborazione tra gli impiegati, sia per un minore e quasi inesistente assenteismo. In questo appalto, a noi si era associata la Rizzani de Eccher, impresa friulana alla sua prima esperienza all’estero. Grande fu l’impegno di tutti gli operatori che dimostrarono una dedizione al lavoro che rara-

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Tiaret – Complesso scolastico

mente ho riscontrato in altri cantieri; questo ci permise di consegnare le scuole nei tempi stabiliti dal contratto. Vincemmo la sfida anche perchè le due imprese avevano messo a disposizione il loro migliore personale, non avevano mai lesinato sulle risorse, le rispettive dirigenze erano periodicamente presenti ad infondere ottimismo e mai avevano lasciato che il cantiere potesse sentirsi abbandonato: qui si è dimostrato che si può ottenere dai singoli qualsiasi sacrificio per vincere e uscire da situazioni difficili se anche tu dimostri abnegazione, determinazione, competenza e rispetto del lavoro.

Silos per lo stoccaggio di cereali visti dall'alto

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Silos per lo stoccaggio di cereali

A quello di Tiaret seguì un altro importante lavoro a 200 km a sud di Orano, in associazione con due imprese italiane che disponevano della tecnologia e della esperienza necessarie. Si trattava della realizzazione, in quattro centri a vocazione agricola, di una serie di grandi silos in calcestruzzo per lo stoccaggio dei cereali prodotti nella zona. Il lavoro fu completato nel migliore dei modi senza incontrare particolari problemi e con grande soddisfazione – anche economica – delle imprese associate; il merito fu pure dell’ambiente sociale che incontrammo, improntato alla massima tolleranza sia da parte delle autorità locali, sia della popolazione che contribuiva a rendere la vita serena, libera da restrizioni e vincoli, a parte il nostro doveroso rispetto per gli usi e costumi locali. Ritornammo, per l’ultima volta, nel 1989 per realizzare le infrastrutture (rete antincendio, fognature, cavidotti, pavimentazioni bitumate e in calcestruzzo, posa dei binari ferroviari) a completamento del nuovo grande porto di Jijel, cittadina a 300 km a est di Algeri e 150 km a nord di Constantine. Il nuovo porto era stato costruito a sostegno dei trasporti via mare della produzione industriale di quell’area, che era molto florida. Non avremmo dovuto operare direttamente, poiché face-

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vamo parte di un consorzio e i lavori avrebbero dovuto essere eseguiti dall’impresa capofila ma, a causa dell’inesperienza del loro personale, non abituato a operare in Algeria, intervenimmo, a lavoro iniziato, inviando i nostri tecnici che monitorarono per un certo periodo il cantiere, suggerendo le modifiche da apportare per cercare di recuperare i tempi ormai dilatati, ma la situazione era ormai compromessa e non fu più possibile recuperare il forte ritardo accumulato. Il lavoro fu comunque portato a termine, ma ci furono applicate pesanti penali previste per il ritardo nella consegna. A parziale giustificazione di questo insuccesso va ricordata la situazione sociopolitica del Paese, cambiata notevolmente rispetto a quella vissuta a Tiaret circa sei anni prima; si cominciava già a notare una certa diffidenza della gente locale nei confronti degli stranieri e una rigida applicazione delle tradizioni e consuetudini locali, legate soprattutto alla religione; questa atmosfera non aiutò le nostre maestranze a lavorare serenamente.

Silos per lo stoccaggio di cereali

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Angola

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el 1988, dopo circa otto anni di assenza, l’impresa ritornò in Angola in maniera stabile e autonoma anche se sotto un diverso nome: C.E.A. Compagnia Europea Appalti. Il primo lavoro fu la costruzione di un grande complesso scolastico denominato “Instituto Medio Agrario de Malanje” finanziato dalla Banca Africana di Sviluppo, (BAD). Malanje è una ridente cittadina posta su un altopiano a 1100 m di altitudine, a circa 500 km a est della capitale Luanda; il lavoro era poco fuori la città, vicino ad una suggestiva azienda agricola gestita da una congregazione religiosa svedese. La zona godeva di un clima sempre mite e leggermente ventilato ed era famosa per la sua terra generosa e votata all’agricoltura fin dal tempo dei coloni portoghesi; inoltre, trattandosi della città più importante a est del Paese, era la porta obbligata del transito delle merci verso le ricche aree di sfruttamento dei diamanti. Le opere da realizzare, oltre alle aule scolastiche, erano gli alloggi per gli insegnanti e gli studenti, la mensa, le cucine e dispense, le officine, i laboratori, i magazzini, la centrale elettrica, i pozzi per l’acqua potabile, le opere di urbanizzazione esterne e la recinzione di tutto il complesso. L’appalto comprendeva anche la fornitura completa delle attrezzature, degli arredi e accessori: praticamente un piccolo villaggio chiavi in mano. Fin dall’inizio incontrammo delle difficoltà, situazioni delicate di carattere politico, poichè nella regione operavano reparti militari antigovernativi che ci impedivano di svolgere il lavoro in modo continuativo. Con molta frequenza le autorità locali ci invitavano a non lasciare la città per la possibile presenza dei “nemici” e queste soste obbligate potevano durare mezza giornata, come due o tre giorni o anche settimane. Nel 1990 subimmo un grave incidente; infatti un nostro convoglio, formato da cinque autoarticolati carichi di containers pieni di attrezzature per la scuola, fu attaccato da truppe

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antigovernative e dato alle fiamme. I trasporti pesanti erano effettuati su gomma dal porto di Luanda fino a Malanje, c’era anche una linea ferroviaria, sulla quale però non si poteva fare affidamento, in quanto era sovente danneggiata e i mezzi per riparare i danni erano limitati o usati in ritardo, quindi si utilizzava regolarmente la strada e alla segnalazione di una situazione di rischio, gli autisti si fermavano nelle località dove c’era la presenza di militari e polizia, aspettando altri convogli che andavano nella stessa direzione e poi, sotto scorta, ripartivano: un viaggio di 500 km poteva durare anche una settimana!

Malanje

L’attacco avvenne di sorpresa, poichè non erano state segnalate nella zona situazioni di pericolo e fu effettuato quando i mezzi erano fermi per la notte in un villaggio dotato di posto di polizia. Il risultato fu pesante in quanto i cinque nuovi autoarticolati erano indispensabili per il nostro sistema di trasporto; due autisti furono feriti e il carico distrutto o rapinato dagli assalitori. Nessun italiano era presente: la ricostruzione dei fatti venne fatta dagli autisti e dalla polizia locale, per cui la verità su quanto successo non si saprà mai e resteranno sempre i dubbi. Il nostro tecnico, che si recò sul posto due giorni dopo l’accaduto, descrisse i mezzi ridotti a rottame ancora caldo e fumante e i containers svuotati completamente distrutti. Questo episodio, come altri ancora, non fermò i lavori che, anche se con giustificato ritardo, vennero portati a termine fin nei più piccoli dettagli e consegnati all’autorità locale alla presenza del Capo di Stato angolano, con la classica cerimonia di rito alla quale seguì il tradizionale “mangia e bevi” per tutti. Oltre a questo lavoro, l’impresa ne acquisì altri per conto delle autorità ecclesiastiche locali e

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di alcune congregazioni religiose presenti a Malanje: si trattava della realizzazione di scuole, alloggi, chiese, uffici, collegi dei quali la città aveva un grande bisogno. Credo che nessun altro lavoro sia stato eseguito più volentieri e con più applicazione di quelli per i missionari. A tutti rimase impressa la straordinaria dedizione dei missionari cattolici, uomini e donne, i quali, in mezzo a una miseria indescrivibile, alla presenza di malattie di ogni genere, sporcizia, con pochi mezzi, armati di una volontà unica e tanta fede, riuscivano ad alleviare le pene della sfortunata popolazione, coinvolta in una guerra di cui avrebbe volentieri fatto a meno. Era la fine del 1992 e la situazione politica del paese si stava deteriorando tanto velocemente da obbligare l’impresa ad abbandonare Malanje. Tutto avvenne in modo avventuroso e fortunato il sette di novembre, quando i disordini in città avevano raggiunto un grado di pericolosità troppo elevato per gli italiani presenti. Con un aereo privato e un impavido pilota (molti altri avevano rifiutato) da Luanda fu effettuato il viaggio di salvataggio dei nostri dipendenti che abbandonarono Malanje per raggiungere la capitale, dove un aereo inviato dall’ “unità di crisi” del Ministero degli Esteri italiano, li aspettava per ricondurli in Italia. Cosi si concludeva un periodo di cinque anni di presenza in Angola, nel quale era stato impostato un nostro serio inserimento lavorativo di tipo continuativo, che però venne interrotto per colpa della guerra, di cui ricordo un ultimo triste episodio. L’istituto Medio Agrario di Malanje, pronto a ospitare gli allievi e gli insegnanti per iniziare il nuovo anno scolastico, con le aule nuove e ben attrezzate, i laboratori completi di strumenti nuovi, come pure le officine, gli alloggi, la grande cucina in acciaio inossidabile, la mensa con i tavoli e le sedie allineate non è servito a nessuno; infatti, poco prima dell’inizio dell’anno scolastico l’intera scuola fu bombardata durante un’azione di guerra e ciò che non venne distrutto dai bombardamenti, venne rubato, bruciato, danneggiato dai militi di entrambe le fazioni antagoniste. Lavoro, sacrificio, speranza e orgoglio andati distrutti a causa di una stupida guerra.

Dal giornale locale

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Acciaieria di Brandeburgo.

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Parte IV

LAVORI IN D.D.R. E RUSSIA

Lavori in D.D.R. (ora Germania) Lo Studio Bartels di Berlino Lavori in U.R.S.S. La tragedia di Chernobyl Lavori nella Mosca sovietica Lavori nella Mosca democratica Lavori in Russia

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Lavori in D.D.R.

(ex Repubblica Democratica Tedesca ora Germania)

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el 1977, a un anno dal disastroso terremoto del Friuli, l’impresa Cisa era per la maggior parte impegnata nei lavori di ricostruzione dei numerosi paesi colpiti, ma questo non ci precluse di partecipare a importanti lavori all’estero.

Realizzazione ‘chiavi in mano’ di una acciaieria a colata continua. Brandeburgo - 1977-80 L’occasione ci fu presentata per la costruzione “chiavi in mano” di una acciaieria a colata continua a Brandeburgo nell’ex Repubblica Democratica Tedesca; allo scopo costituimmo una società, la CEA (Compagnia Europea Appalti) formata, oltre che da noi, anche dalla Astaldi di Roma. Per questa scelta, determinante era la consapevolezza di aver acquisito una buona esperienza durante la realizzazione, alle porte di Udine, della acciaieria SAFAU di Cargnacco avvenuta

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L’acciaieria di Brandeburgo a lavori ultimati

alcuni anni prima, ma la nuova avventura in D.D.R. si presentava più complessa e impegnativa: c’era da integrarsi ad un sistema politico che limitava la libertà e imponeva rigidi controlli su ogni movimento delle persone e dei beni destinati al progetto; la burocrazia ci costringeva a lente e laboriose procedure per l’approvazione dei progetti, per la scelta dei materiali, e questo ci complicò, soprattutto all’inizio, l’esecuzione dei lavori. A questo si aggiungeva il rigido e nevoso inverno e l’ostica lingua che limitava la comunicazione verbale, tutti ostacoli che dovemmo affrontare e superare il più in fretta possibile. Grazie all’innato spirito di adattamento di noi friulani, gente di emigrazione per secoli, l’ambientamento fu rapido, sia nei rapporti con il committente che con la popolazione locale e lo testimoniano i tanti, giovani e non, che ritornarono in Italia con un’amica tedesca o una moglie, con matrimoni felici e duraturi. Per l’esecuzione dei lavori furono impiegate direttamente sul cantiere tra le 800 e 900 persone provenienti da ogni parte d’Italia, che dovevano vivere assieme per lunghi periodi e in sistemazioni non sempre ottimali; il solo problema logistico, per soddisfare le minime esigenze di tutti, era già di per sé una impresa non facile: tanto per far capire l’impiego non indifferente di mezzi e di energie del cantiere di Brandenburgo, posso affermare che è stato l’unico che ha visto i maggiori responsabili delle aziende coinvolte impegnati costantemente sul posto: non mi ero mai trovato in una situazione simile! Ma questo fu anche il nostro punto di forza: la presenza costante di tanti tecnici responsabili, che hanno condiviso sulla loro pelle le difficoltà incontrate dal personale operativo, è stata l’arma vincente per superare ogni sorta di ostacolo nel raggiungimento del traguardo finale: la consegna dell’impianto nei tempi previsti dal contratto. La preoccupazione al tempo era tanta, infatti questo lavoro era il più grande e importante assunto fino ad allora dalla Danieli e per di più in un paese “oltre la cortina di ferro”; ora i tempi sono cambiati e la Danieli ha le capacità di affrontare qualsiasi situazione in ogni parte del mondo: Brandeburgo è stata la prova generale per l’esplosione delle capacità di questa grande società friulana. Anche la nostra impresa (CEA) si stava giocando il proprio futuro come impresa specializzata nei grandi complessi industriali “chiavi in mano”. Come presidente mi ero attorniato di validissimi collaboratori e mio intendimento era quello di assecondarli nelle richieste al fine di concludere il contratto nei tempi e nei modi stabiliti. Il cantiere fu dotato di mezzi e materiali mai dispiegati in tale maniera negli altri lavori; nei momenti critici sui tempi di consegna di

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Lo staff direttivo di Brandeburgo (luglio 1979)

alcune opere, furono inviati i migliori tecnici della Cisa impegnati allora nei cantieri in Italia e in Africa. Il personale operativo, messo nelle condizioni ottimali da guide esperte, produceva anche in condizioni climatiche avverse nel migliore dei modi e non mancavano le sfide tra i reparti a diminuire i tempi programmati sulla produzione: lavorava dieci ore al giorno, tutti i giorni, esclusa la domenica nella quale era impegnato mezza giornata; succedeva anche di oltrepassare le dieci ore quando il getto del calcestruzzo non si era concluso entro il suono della sirena poichĂŠ, se lasciato nella betoniera durante la notte, non si perdeva solo il calce-

Acciaieria di Brandeburgo: le strutture metalliche in fase di ultimazione

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Acciaieria di Brandeburgo: cabine elettriche e di servizio

Impianto trattamento scorie‌

e trattamento rottami

Le gallerie per il passaggio degli impianti e‌

opere interne per la colata continua

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Opere per il trattamento acqua e fumi e…

le prime fusioni

struzzo ma anche la betoniera! L’inverno del nord portava le sue prerogative: poche ore di luce naturale e rigide temperature fino a -27° (minima da noi registrata), ma i -20° erano una costante. Per ovviare queste situazioni, i vari settori erano stati dotati di potenti fari alimentati da altrettanto potenti gruppi elettrogeni e il calcestruzzo veniva impastato con acqua calda e inerti riscaldati col vapore generato da appositi impianti; prima del getto si lavavano, con apposite vaporiere semoventi, il ferro di armatura e i casseri per liberarli dal ghiaccio e dopo il getto tutto veniva ricoperto e protetto con grandi materassini e teli di plastica di grande spessore: accorgimenti, questi, che permisero di operare ininterrottamente senza perdere alcuna giornata lavorativa. L’attività si fermava solo poche ore al giorno, per il resto il cantiere sembrava un formicaio, un formicaio multilinguistico perché, oltre agli italiani, negli anni successivi impiegammo anche operai provenienti da altri paesi europei: un “mare” di gente, proveniente da tutte le latitudini, che si muoveva, come anche si muovevano continuamente i numerosi automezzi per produrre e trasportare fino a 800 mc di calcestruzzo, di cui il 90% dentro casseri già predisposti, giornalmente; arrivavano ogni giorno dall’Italia una media di sei bilici carichi di materiale e in questo formicaio, per molti mesi dell’anno imbiancato dalla neve, echeggiavano ritmicamente gli ordini secchi dei capi squadra, i colpi di martello dei carpentieri, le accelerate delle autopompe e betoniere: cantieri simili, per impegno tecnico e umano, sono avvenimenti eccezionali e capitano raramente nella vita di un imprenditore, per questa ragione Brandenburgo lo ricordo con molta soddisfazione. Dopo tre anni l’impianto fu completato e consegnato al cliente nei tempi prestabiliti: un esemplare gioco di squadra effettuato a tutti i livelli dalle ditte esecutrici, era stato determinante per lo sviluppo, lo svolgimento e la realizzazione di questo enorme e complesso progetto. A questo, nel 1980 e ’81, seguirono i lavori di completamento dell’acciaieria, anche se facenti parte di contratti separati come: Impianto per il trattamento delle scorie dell’acciaieria; Impianto trattamento rottami dell’acciaieria.

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Impianto di Bad Lausick

Impianto di Bad Lausick: opere edili in fase di esecuzione

Impianto per il trattamento di silicati – Bad Lausick - 1982 Con la ditta Salzgitter, capocommessa e fornitrice della tecnologia, la CEA, realizzò successivamente l’impianto di Bad Lausick, molto più piccolo di quello di Brandenburgo, pertanto il nostro personale, reduce dall’esperienza precedentemente maturata, portò a termine senza grandi difficoltà questo progetto anche se le opere da eseguire erano, per architettura e tecnologia, diverse. Impianto per recupero piombo da batterie esauste – Freiberg - 1982-84 L’opera era molto importante e impegnativa soprattutto per il tipo di prodotto cui era destinata; per la sua realizzazione era stata creata una joint-venture con la Snamprogetti di Milano, che era capocommessa e anche fornitrice della tecnologia, oltre ad altri partners. Il sito interessato era una vecchia miniera di piombo con tunnel di scavo nella roccia e impianti per il trattamento del minerale; poiché la vena metallifera non era più sfruttabile economicamente, le autorità locali decisero di utilizzare l’area esistente per un impianto che ottenesse il piombo dalle batterie esauste; la zona dovette quindi essere risistemata e poiché era posta in leggero pendio, vennero ricavati tre diversi livelli orizzontali con sbancamenti in roccia con l’utilizzo di mine e riporti in rilevato del materiale scavato. Il piombo è un minerale molto pericoloso sia all’uomo che all’ambiente e pertanto la progettazione fu realizzata tenendo conto di tutte le cautele per evitare ogni possibile inquinamento;

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Impianto di Freiberg: scavo nella roccia…

e costruzione dei muri di sostegno

La vasca per il trattamento delle acque…

e il recupero del piombo

infatti l’acqua piovana doveva essere trattata e depurata mentre i fumi prodotti nella fusione dovevano essere ripetutamente filtrati e le polveri, in essi contenute, raccolte per essere rese innocue con procedimenti particolari Fra le opere edili più significative di questo impianto ricordo la grande vasca in cemento armato delle dimensioni in pianta di 65 x 30 mt e una altezza di 9 mt, che doveva servire a raccogliere le batterie usate e un mulino rotante che serviva a frantumarle; il materiale ottenuto dalla frantumazione passava poi all’interno di forni fusori, posti all’interno di un grande capannone metallico, per il recupero del piombo. Gran parte dell’opera era costituita da impianti ausiliari dedicati alla protezione degli uomini e dell’ambiente: vasche in cemento armato per la decantazione e il trattamento delle acque e filtri per la depurazione dei fumi; edifici di vario genere, oltre alle strade e ai piazzali, furono realizzati a completamento dell’opera e terminati nei tempi previsti dal contratto. Era il 1984 e nuovi interessi imprenditoriali si stavano generando: il disgelo politico tra le grandi potenze economiche, tra queste la Russia, faceva intravvedere un nuovo importante,

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Impianto di Freiberg: nella vasca di raccolta delle batterie esauste

grande e ricco mercato che cercava, molto lentamente, di aprirsi all’occidente. Importanti imprese di livello internazionale già stavano sondando le opportunità che il mondo sovietico poteva offrire. Anche la CEA, attenta a questi nuovi sviluppi politico-economici, non poteva farsi sfuggire un’occasione simile.

Lo studio Bartels di Berlino

R

iguardo i lavori realizzati in Germania e in Russia, ricordo particolarmente i progettisti dello studio Bartels di Berlino che ci fornirono un valido supporto tecnico nella realizzazione delle opere e con i quali stabilii un legame di amicizia e stima reciproca. Già agli inizi dell’avventura nella Repubblica Democratica Tedesca, mi era stato consigliato, anche dal cliente, di avvalermi di tale Studio che, per la sua esperienza e conoscenza in fatto di normative e regolamenti locali, era in grado più celermente di svolgere e di ottenere le approvazioni dei progetti. Conobbi l’ing. Gerhard Bartels, titolare dell’omonimo studio di progettazione, e trovai sempre in lui e nei suoi collaboratori, oltre un notevole livello di conoscenza tecnica in ogni ramo del costruire, anche uno spirito di collaborazione e di simpatia nei miei confronti che ricordo con molto piacere. Lo Studio Bartels impiegava circa 80/100 persone, oltre i collaboratori esterni, ed era suddiviso in diversi comparti che trattavano settori della progettazione che andavano dall’architettura alle strutture di opere edili, dalle strade alle fognature, dalle infrastrutture agli impianti tecnologici.

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Dopo i buoni risultati conseguiti nella realizzazione dell’acciaieria di Brandeburgo, allo Studio vennero affidati anche altri lavori eseguiti dall’ Impresa come l’impianto per il recupero del piombo dalle batterie a Freiberg nell’ex R.D.T., l’acciaieria per la produzione di aste petrolifere a Sumy in Ucraina, la mini acciaieria e laminatoio a Eket in Nigeria e, parzialmente, le concerie di Riazan e Minsk in Russia. Con lo studio Bartels preziosa fu la collaborazione dell’ing. Antonio Franz che fungeva da tramite con la nostra struttura tecnica. Si consolidò così una grande fiducia reciproca e consapevolezza delle capacità operative dell’impresa: ricordo con simpatia un episodio che si svolse a Berlino dopo pochi mesi dalla ‘caduta del muro’ nel 1989. Mi trovavo in città, quando fui raggiunto telefonicamente dall’ing. Bartels che mi invitava a presentarmi, assieme a lui, a una riunione che si sarebbe tenuta negli uffici comunali. Mi feci brevemente spiegare gli scopi di tale riunione e, quando il mattino successivo ci presentammo al convegno, ne compresi appieno l’importanza e il grande riguardo con cui mi consideravano, in quanto unico imprenditore straniero invitato. In commissione, presenti amministratori e tecnici di primissimo livello, fui nominato presidente e moderatore su temi e problematiche per stabilire le “linee guida” di quello che sarebbe divenuto il piano urbanistico ed edificatorio della città di Berlino riunificata. Fu un giorno per me esaltante: ebbi un’ulteriore conferma che l’esperienza acquisita in Germania aveva dato i suoi frutti anche dal punto di vista dell’apprezzamento e del prestigio del lavoro italiano all’estero.

Lavori in U.R.S.S.

(ex Unione Repubbliche Socialiste Sovietiche)

La Russia e le nuove repubbliche

M

entre stavano volgendo al termine i lavori nell’allora Repubblica Democratica Tedesca, iniziammo lo studio di alcune offerte relative a lavori da eseguire in terra sovietica; a quei tempi la Russia faceva parte dell’immensa Unione Sovietica retta e governata da un regime comunista ma si stavano facendo avanti segnali di apertura

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verso l’occidente e l’istinto mi diceva che meritavano una seria considerazione unita a una prudente attenzione. Fu così che, in accordo con due grandi aziende friulane, la Danieli di Buttrio e la Cogolo di Pozzuolo che portavano la loro qualificata e specifica tecnologia, la C.E.A. si presentò alle autorità sovietiche con il bagaglio di esperienze ottenute in D.D.R. nel campo delle costruzioni industriali come impresa di alto livello tecnico tanto che, quasi in contemporanea, riuscimmo a concludere importanti contratti come la realizzazione di calzaturifici a Mosca, a Kaluga e a Togliattigrad; la realizzazione delle concerie di Rjazan e di Minsk, con a capocommessa la Cogolo, e la costruzione dell’impianto per la produzione di acciai speciali e forgiatura per la produzione di aste di perforazione di Sumy in Ucraina con a capocommessa la Danieli. Nel 1985, per affrontare tutti questi lavori edili, la C.E.A. costituì una società con un’altra grande impresa friulana, la Rizzani De Eccher; la società venne chiamata CODEST (Costruzioni dell’Est) alla quale vennero conferite le migliori maestranze, mezzi e tecnologie delle rispettive imprese. Gli inconvenienti si presentarono fin dal primo momento del nostro arrivo con la caratteristica di non essere di facile risoluzione: eravamo a Mosca, nella URSS di allora! Si prenotavano due stanze nei migliori alberghi ma capitava che potevi usufruire solo di una e allora eri costretto a cercare una alternativa che chiaramente si presentava subito difficile a causa della lingua e della nostra ancora insufficiente conoscenza degli usi locali; le comunicazioni telefoniche erano ardue e difficoltoso era anche fare una semplice fotocopia o prendere un taxi; capitava di trovarsi nel mezzo del traffico cittadino moscovita che all’improvviso svaniva in un silenzio surreale e all’improvviso venivi assordato da lunghe colonne militari, da mezzi corazzati che avanzavano lungo le strade cittadine incutendo timore in chi, come noi, non era abituato a simili realtà. Mosca mi si presentò come una magnifica città alla quale mancava il trucco, come a una bella donna appena svegliata: settant’anni di regime l’avevano ingrigita e intristita. Ora ci si trovava lì e mai avrei pensato che saremmo rimasti a lungo e diventati, nel giro di pochi anni, una delle più importanti imprese di costruzione del Paese… protagonista del profondo maquillage di questa bella città. Quando, per la prima volta, mi trovai nel centro della smisurata piazza Rossa, luogo sacro per i russi, fui colto da un iniziale smarrimento: mi sentivo turbato, piccolo, perso e solo, nonostante le numerose persone che in lunghe file aspettavano il turno per la visita al mausoleo di Lenin, ma poi felicemente sorpreso. Calzaturificio di Mosca - 1985–87 É stato il primo lavoro e come tale ha concentrato e subìto tutte le difficoltà di essere il primo in un nuovo Stato ma soprattutto in Russia: dalle difficoltà della lingua, alle abitudini locali, dal reperimento degli alloggi con un minimo di servizi essenziali, alla ricerca di beni di prima necessità: tutte le esperienze, positive e negative, sono state provate in questo cantiere che è diventato il riferimento per i successivi che stavano per cominciare e pertanto il suo funzionamento logistico assumeva un’importanza determinante per il prossimo futuro. Una particolare nota di encomio va al capocantiere ‘Pieri’ Merluzzi, che oltre a impegnarsi a mandare avanti il proprio lavoro doveva risolvere i problemi logistici degli altri cantieri che guardavano a Mosca come a un punto di riferimento e di appoggio.

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Calzaturificio di Mosca

Un container da adibire a uffico fu messo a disposizione dal committente per organizzare e predisporre le fasi di lavoro preparatorie; su un’area pianeggiante posta a fianco della via consolare Kascirskaja, si iniziarono i tracciati con mezzi meccanici sovietici, veri reperti da museo, che con lenta ma inesorabile progressione, prepararono l’area destinata alla costruzione degli edifici industriali; intanto dall’Italia erano stati spediti mezzi e materiali su numerosi autoarticolati. In agosto il campo operativo era pronto con la realizzazione degli uffici, della mensa, del capannone di prefabbricazione, della centrale termica, dei depositi e magazzini; in settembre fu completato il montaggio dell’impianto di betonaggio e così si potè dare inizio alla produzione del calcestruzzo. Il personale che formava l’ossatura portante della gerarchia del cantiere e della produzione effettiva era tutto italiano e per la maggior parte friulano: tecnici specialisti nei loro rispettivi settori e quasi tutti con esperienza già acquisita in lavori analoghi. Tutto procedette bene fino alla metà di ottobre quando la neve arrivò assieme al famoso freddo russo; problemi furono provocati dal combustibile fornito dal committente russo, adatto ai loro bruciatori per la generazione di vapore ma meno ai nostri, causa la scarsissima qualità del prodotto; problemi ci furono anche per le forniture degli inerti e del cemento che contrattualmente spettavano al cliente che, nonostante avesse voluto inserire un programma di quantità e tempi sulle forniture, difficilmente riusciva a mantenere gli impegni assunti: accadeva di avere in cantiere tanta ghiaia e poca sabbia o viceversa, o di avere entrambi gli inerti ma aspettare giorni per ricevere il cemento. Disguidi che si presentarono nel primo periodo a causa delle difficoltà di coordinamento tra il committente, le ferrovie e i fornitori ma, dopo pochi mesi, resisi conto che la nostra macchina organizzativa aveva ingranato una velocità che non si poteva fermare se non con ripercussioni molto gravi sui tempi di consegna, le cose migliorarono al punto che si dovette chiedere la sospensione delle forniture per un certo periodo, per troppa abbondanza. L’attività, grazie all’esperienza acquisita in D.D.R., proseguiva con regolarità anche in condizioni climatiche proibitive per il freddo e la neve abbondante; si riuscì a rispettare i programmi della prefabbricazione di tutti gli elementi che componevano i fabbricati, e questo fu determinante per la consegna finale nei tempi previsti: nel 1986 il fabbricato era completamente montato e tamponato, nel 1987 erano terminati i lavori esterni, la serramentistica, le impermeabilizzazioni, le pavimentazioni industriali, le pitture, e a maggio il calzaturificio fu

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consegnato ufficialmente. Nei due anni di lavoro contammo una presenza media di circa 120 unitĂ , tra personale diretto CODEST e ditte subappaltatrici. Ancora una volta il nostro personale si era distinto in professionalitĂ e dedizione in situazioni nuove e difficili, superando ogni imprevisto e per di piĂš in un Paese allora sconosciuto ma, come nelle battaglie, la logistica fu fondamentale per la buona riuscita, anche e soprattutto per gestire gli altri cantieri che erano nel frattempo iniziati. Calzaturifici di Togliatti e di Kaluga - 1985-87 Iniziarono pochi mesi dopo quello di Mosca e terminarono secondo i tempi stabiliti dal contratto. Forti delle esperienze acquisite con il cantiere di Mosca, e presentando identiche caratteristiche tecniche, i lavori proseguirono nel migliore dei modi nonostante le distanze dalla capitale, ma della parte logistica mi sono giĂ precedentemente espresso.

Kaluga

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Le concerie di Gatovo a Minsk e di Rjazan - 1985-88 Erano progetti molto più grandi dei calzaturifici, infatti la superficie coperta di una conceria era di 125.000 contro i 32.000 mq di un calzaturificio, il volume della conceria era di 1.100.000 contro i 140.000 mc di un calzaturificio e pertanto anche i cantieri erano dimensionati in proporzione. I lavori iniziarono nell’agosto del 1985 e terminarono nel settembre del 1988. La Codest in questi tre anni svolse un impegno non indifferente: ben cinque cantieri aperti contemporaneamente e per di più di grandi dimensioni sparsi per la Russia; lo sforzo organizzativo per gestire e soddisfare tutti i cantieri fu notevole e devo ancora riconoscere il grande impegno di tutte le maestranze, dirigenziali e operative che hanno saputo operare in una sintonia di intenti ammirevole; non si contano i viaggi in treno effettuati dai responsabili dei lavori per coordinare, seguire e incoraggiare gli uomini presenti nei vari cantieri; non si contano le riunioni, fatte per tutti i livelli, finalizzate all’analisi dei lavori da realizzare e a risolvere i tanti problemi che sempre si presentavano; non si contano i brindisi a base di vodka con i responsabili russi a ogni incontro, riunioni sì organizzate per dirimere le problematiche esecutive ma che servivano anche per conoscersi meglio e instaurare rapporti di fiducia che andavano tutti a vantaggio dell’obiettivo comune; infatti a differenza dei primi incontri svolti tra la tensione e la prudenza di non commettere errori con persone che non conoscevi, le successive si svolsero in un clima più disteso e sereno. Gli uomini impegnati nei cantieri avevano avuto, all’inizio, difficoltà di socializzazione con la gente del luogo, tanto che qualcuno dovette ricevere le cure dei medici causa approcci poco teneri con qualche ragazzotto locale ma, come sempre succede quando la gente è seria, in poco tempo entrambi riuscirono a capire i propri limiti e a trovare un modus vivendi improntato nel rispetto e nella tolleranza.

Rjiazan

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Rjiazan

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Rjiazan

Gatovo Minsk

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Gatovo Minsk

Impianto per la produzione di acciai speciali e forgiatura per la produzione di aste di perforazione a Sumy in Ucraina - 1985-87 Il cantiere si trovava a 250 km da Kiev, capitale dell’attuale Ucraina, ma al tempo era URSS; la città di Sumy aveva 300.000 abitanti ed era immersa in una vasta pianura, leggermente ondulata, ricca di vegetazione che esplodeva con colori intensi a primavera dopo il lungo inverno imbiancato dalla neve; l’abitato era molto esteso e il centro era caratterizzato da costruzioni prefabbricate, multipiano, anonime, di colore grigio; in periferia c’erano tante case in legno, molto vecchie, con semplici decori, spesso dipinte di colori vivaci, unici segni che si contraddistinguevano in mezzo a quella massa grigia di cemento. Alla periferia est, sorgeva la zona industriale, dove era previsto il nuovo impianto dedicato alla produzione di aste di perforazione per la ricerca e lo sfruttamento di giacimenti petroliferi. Il progetto, di cui era capocommessa la Danieli, era grande e complesso e richiedeva un gran numero di lavoratori di ogni livello di specializzazione; solo la CEA raggiunse punte di 320 persone, tutte italiane, in quanto le autorità locali permettevano di impiegare personale russo solo come interprete o autista, ed essendo agenti del Kgb, potevano, mentre lavoravano, controllarti nei movimenti e nelle comunicazioni; a quel tempo in Unione Sovietica non c’era libertà di parola e tanto meno di andartene dove volevi: infatti per trasferirsi da una città all’altra era necessaria una serie di autorizzazioni e un accompagnatore locale. Nei trentasei mesi di lavoro non ci fu nessun problema con la polizia se non pochissimi casi di sbornie smaltite al ‘fresco’: le leggi locali erano molto severe con chi guidava in stato di ubriachezza. Il lavoro era complesso ed erano presenti contemporaneamente molte imprese specializzate: quella edile civile, quelle per il montaggio delle carpenterie dei capannoni, quelle dei collegamenti elettrici ed elettronici, quelle dei montaggi meccanici, quelle dei segnali e allarmi, quelle dei trattamenti e della depurazione delle acque industriali, quelle degli impianti idraulici e dei vari fluidi di processo e altre, altamente specializzate, per il montaggio di macchinari particolari; nel momento di massima punta le presenze in cantiere superarono le 1000 unità. La Cea dovette, logicamente più delle altre, lottare contro le intemperie e il fango; infatti, dopo il gran caldo di luglio e agosto, arrivavano le intense piogge che rendevano il terreno burroso, sul quale i mezzi pesanti si bloccavano; alla fine della giornata gli operai erano irriconoscibili, ridotti a maschere di fango.

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L’inverno rigidissimo ghiacciava il terreno fino a una profondità di 60 cm rendendo difficile ogni lavoro di scavo; la temperatura scendeva fino a 36° sottozero e solo con accorgimenti dettati dall’esperienza e dalla grande volontà, gli uomini riuscivano a lavorare in quelle estreme condizioni; i russi, quando la temperatura scendeva sotto i 22 gradi, fermavano tutte le attività, comprese le scuole a differenza della nostra impresa che ha sempre lavorato, logicamente organizzando le attività da svolgere nelle aree più riparate e protette e possibilmente al coperto, ma eravamo costretti a ciò da un programma lavori che non prevedeva nessuna interruzione durante i mesi invernali. Un venerdi di una splendida giornata di sole, neve ghiacciata ovunque, cielo azzurro e pulito come raramente accadeva, temperatura –32°, dopo aver pranzato in mensa con i miei collaboratori, fui invitato dal geometra Rojatti ad assistere al getto di un muro in calcestruzzo di grande spessore e dimensione nella zona dei “servizi ausiliari” dell’acciaieria; tutto era già pronto dal mattino: l’impianto di calcestruzzo fumava vapori candidi e caldi, la struttura del muro era protetta da teli di plastica e riscaldata dall’aria calda generata dai bruciatori che funzionavano a pieno regime. Intanto, intorno al muro, gli uomini si muovevano ritmicamente battendo i piedi e le mani per sentire meno il freddo e, fumando qualche sigaretta, aspettavano l’arrivo delle autobetoniere che stavano tardando: c’era stato infatti un malinteso tra il capo dell’impianto e il responsabile del settore nel quale mi trovavo. Dalle finestre degli uffici della Committenza, dove era stata indetta la settimanale riunione di cantiere, si stava osservando la scena con una certa preoccupazione per il ritardo, che al momento era inspiegabile, poiché il mancato getto programmato per la giornata, avrebbe compromesso il programma non solo edilizio ma anche impiantistico con conseguenze a noi molto pesanti. Dopo un periodo di tempo che sembrava interminabile, il malinteso fu risolto e finalmente arrivò la prima autobetoniera seguita dal caratteristico pennacchio di vapore caldo, simile a quello delle vecchie locomotive; così ogni 15-20 minuti una betoniera lasciava il suo calcestruzzo, fino alle sei

Sumy

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di sera, a fari accesi, al completamento dell’opera. La committenza russa, meravigliata di aver visto lavorare un’impresa straniera in quelle avverse condizioni climatiche, cosa a suo dire impensabile, si complimentò con felici e sincere attestazioni. Per la CEA, quello fu il “getto” eseguito alla temperatura più fredda: gli uomini protagonisti di quella operazione ricevettero i complimenti miei e di tutta la direzione, associati a un simbolico riconoscimento; il fatto fu mitizzato nei cantieri tanto che per molto tempo se ne parlò diventando argomento di esaltazione: il “getto a meno 32° di Sumy” si affiancò così al già mitico racconto della “bottiglia di Penna Bianca” del cantiere NC8 in Libia. L’acciaieria fu completata esattamente nei tempi previsti: era stata d’aiuto quella esperienza professionale maturata negli anni precedenti nel campo delle acciaierie in Nigeria e in Germania dell’Est ma anche e soprattutto quella umana: la volontà, lo spirito di sacrificio, la capacità di adattamento ai climi difficili, l’amicizia e il rispetto verso i compagni e colleghi, la consapevolezza comune di giungere all’obiettivo finale. Non è da dimenticare anche l’affettuosa compagnia delle donne ucraine, che hanno infuso quel supplemento di determinazione e coraggio necessari a superare i momenti di nostalgia e di demoralizzazione causati dalla lontananza e dalle critiche condizioni climatiche: in quei due anni furono celebrati 43 matrimoni tra nostri dipendenti italiani e donne ucraine.

La tragedia di Chernobyl

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arlando dei due cantieri di Gatovo-Minsk e di Sumy, non posso tralasciare di raccontare in modo particolare e dettagliato un avvenimento importante e doloroso che accadde proprio durante l’esecuzione di tali lavori, un avvenimento che è certamente nella memoria di tutti e che ha avuto effetti emozionali nella vita di ognuno: la tragedia nucleare di Chernobyl. All’epoca in U.R.S.S. erano operanti sei cantieri, ma due di essi, la conceria di Gatovo a Minsk in Bielorussia e l’acciaieria di Sumy in Ucraina, furono maggiormente interessati dal grave incidente per la vicinanza e per la direzione del vento che, proveniente da sud, spingeva la nube radioattiva in direzione nord colpendo particolarmente la zona di Minsk. Il ricordo di quei giorni è ancora vivo e mi basta riguardare alcuni appunti di quei tempi perché tutto mi ritorni alla memoria con chiarezza. In Italia la notizia frammentaria e incerta del disastro giunse la sera di lunedì 28 aprile 1986 e ci mise tutti in uno stato di agitazione misto a sgomento e preoccupazione; ricordo che allora non c’erano i mezzi di comunicazione che esistono ai nostri giorni, il telefono cellulare non era ancora stato inventato e il mezzo più efficace risultava il telex; il mattino seguente contattammo tutti i cantieri, dai quali risultava che la situazione era normale e che la notizia di quanto accaduto era stata data anche dai media sovietici ma con poca importanza e in modo molto vago e impreciso. Contattammo allora il Ministero degli Esteri Italiano a Roma che ci assicurò il massimo interessamento per acquisire notizie esatte sull’incidente e sulle sue conse-

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Pianta della regione con dispersione della nube radioattiva.

guenze. Nel corso della giornata, e poi in quelle successive, il disastro di Chernobyl cominciò a occupare quasi totalmente l’informazione mediatica; attaccati al video e alla radio si ascoltavano tutte le notizie sugli avvenimenti, gli speciali e gli approfondimenti che rendevano note le opinioni di vari scienziati ed esperti sui pericoli della possibile radioattività. La popolazione europea, più interessata ai fatti in quanto informata a differenza di quella sovietica, seguiva con crescente timore l’evolversi degli eventi e si chiedeva quali potevano essere gli effetti sulle persone, sugli animali e sui generi alimentari esposti alle radiazioni e quali dovevano essere i comportamenti più appropriati da seguire poiché, per l’assoluta mancanza di precedenti, le risposte seppur rassicuranti non erano del tutto convincenti e univoche. In quelle ore, riflettendo con me stesso, mi ripromisi che, in ogni caso, la salute e la sicurezza dei nostri lavoratori impegnati nei luoghi vicini al disastro era prioritaria e ogni decisione doveva essere presa per quello scopo, ma dovevo basarmi su situazioni reali di pericolo e non su notizie incontrollabili o su falsi allarmismi: questo era il difficile! Mercoledì, 30 aprile, contattai personalmente l’Ambasciata Italiana a Mosca, e non ottenni notizie piu’ approfondite di quelle che erano al momento di pubblico dominio, ma una prima

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confortante notizia arrivò in giornata: tre tecnici della Danieli che rientravano da Sumy e un tecnico della Cogolo che rientrava da Gatovo, sottoposti all’aeroporto di Vienna a un controllo di radioattività non fecero rilevare niente di allarmante. La giornata seguente, 1° Maggio, giorno di festa lavorativa, fu dedicata a raccogliere più informazioni possibile dai cantieri, a sentire alcuni ministeri romani e la Prefettura di Udine; contattammo i responsabili Danieli e Cogolo per avere uno scambio di informazioni e concordare le azioni future da svolgere. In serata diramammo un comunicato all’ANSA e alla RAI, in cui si informava in particolar modo i familiari dei nostri lavoratori che la situazione nei cantieri era tranquilla e che era nostra preoccupazione seguire costantemente l’evolversi degli eventi per comportarsi di conseguenza. Il 2 Maggio il cantiere di Sumy ci informò che il giorno precedente era trascorso tranquillamente festeggiando per le strade e assieme alla popolazione locale la “Festa dei lavoratori”. Intanto anche la Protezione Civile italiana si era attivata al giungere della notizia che la nube radioattiva, per la variabilità dei venti, si stava dirigendo verso sud e pertanto anche il nostro paese veniva ad essere interessato causando disagio e timore tra la popolazione. Ci giunsero intanto dal Ministero della Protezione Civile informazioni utili: l’Ambasciata dell’U.R.S.S. a Roma aveva comunicato che, benché il reattore non fosse completamente spento, la situazione era sotto controllo e la fuoriuscita di materiale radioattivo era notevolmente diminuita; nei cantieri di Sumy e di Minsk non si era riscontrata radioattività pericolosa dell’aria; l’ENEA di Bologna si era resa disponibile a effettuare controlli sulle persone che rientravano in Italia per le ferie; la Protezione Civile era disponibile 24 ore su 24 a fornire le più aggiornate informazioni sulla situazione. Nei giorni seguenti, i lavoratori che rimpatriavano furono oggetto di scrupolosi controlli all’aeroporto di Ronchi dei Legionari e nessuno risultò contaminato. Anche le misurazioni effettuate nei due cantieri di Sumy e Gatovo diedero esito assolutamente tranquillizzante.

All'aeroporto di Ronchi dei Legionari

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Mentre in Italia l’attenzione dell’opinione pubblica era al massimo, con continui dibattiti televisivi sulle cose da fare o non fare o sui cibi che più risultavano contaminati, in URSS il lavoro nei cantieri continuò regolarmente ma con attente precauzioni sul consumo dei cibi e con continue misurazioni del livello di radioattività che risultava sempre nei limiti; la pratica della misurazione ai lavoratori che rientravano in Italia fu mantenuta a lungo nonostante l’assenza di casi particolari. Capimmo quindi che, nelle zone sufficientemente distanti dall’evento, come la nostra, gli effetti furono minimi, mentre la vera tragedia si compì nelle zone più vicine all’esplosione e alla conseguente caduta radioattiva con un tributo di vittime e ammalati gravi che ancora oggi continua. Oggi, riandando con il pensiero a quei fatti, alla grande paura e preoccupazione, ho la consapevolezza che le decisioni di quei momenti furono assunte principalmente per salvaguardare la sicurezza del personale, i timori furono più sopravvalutati che trascurati ma questo comportamento si rivelò responsabile e saggio.

Lavori nella Mosca sovietica

N

el 1988-1989, terminati con successo e puntualità i vari cantieri per la Cogolo e la Danieli, assumemmo, come CODEST general-contractor, altri lavori a Mosca, sia di ristrutturazione di importanti e artistici edifici, sia di nuove costruzioni di prestigiosi complessi commerciali e bancari che ora sinteticamente elenco: By-pass radar aeroporto Vnukovo di Mosca - 1988-89 Ampliamento del centro controllo radar; si eseguirono opere civili e impianti elettro-meccanici per l’Aeroflot – Ceselsa; l’opera non fu impegnativa tecnicamente, ma fu la prima e servì a far conoscere l’impresa anche nel settore dell’aviazione civile russa. In questo aeroporto l’impresa fu chiamata anche in tempi successivi: nel 1994 per sostituire 3400 mq di controsoffitti e nel 1996 per sostituire i pavimenti flottanti delle sale di controllo aereo con l’attività in corso.

Vnukovo

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Domodedovo


Hangar aeroporto di Domodedovo - 1989-90 Ristrutturazione degli hangar di 12.000 mq di superficie per gli aerei di linea dell’aeroporto della capitale russa con il rifacimento delle coperture, la sostituzione dei grandi portoni scorrevoli e il rifacimento degli impianti elettromeccanici per il cliente MGA URSS. Meteo center Moscow - 1989-90 Il contratto consisteva nella fornitura di materiali edili ed elettromeccanici. Perestrojka – Gnezdikovski - 1989 Riguardava la ristrutturazione edilizia e impiantistica di un edifico a uso uffici di 2.500 mq per la società J.V.Perestrojka con il progetto dell’architetto russo Kovshel.

Perestrojka

Accademia di Belle Arti - 1990-96 I lavori riguardavano la ristrutturazione e il restauro della casa di I.I.Yushkov, progettata dall’architetto B.I.Bazhnov e costruita nel 1793; dal 1844 sede dell’accademia panrussa di pittura, architettura e scultura; sotto il regime di Stalin l’edificio venne trasformato e adibito a laboratorio per i primi studi sull’energia nucleare. I lavori, su una superficie di 10.500 mq proseguirono per circa sei anni ma non furono completati per mancanza di fondi.

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Sulla rivista locale ‘Realismo’ in prima pagina pubblicarono la foto della visita al cantiere del sindaco Luzhkov accompagnato da me e dal maestro artista Glasunov progettista e supervisore dei lavori di recupero, tra l’altro si legge:

“Nella via Mijasnisckaja, 21 nel lontano 1843 viene inaugurata la scuola di pittura scultura e architettura, ma nel 1942 le autorità Sovietiche chiudono la scuola per consegnare l’intero edificio all’istituto di fisica e ingegneria nucleare, all’interno del palazzo viene installato un mini reattore, che dopo poco tempo esplose. Con l’apertura degli anni ’85 l’intero edificio viene riconsegnato all’Accademia di pittura, scultura e architettura della città di Mosca, che in brevissimo tempo una ditta italiana, seguendo gli schizzi e la supervisione del maestro Ilya Glasunov Sergeevich è riuscita a ripristinare sia le facciate che tutto l’interno, dando lo splendore di un tempo a tutta la struttura. Il sindaco Luzhkov in una sua visita all’accademia, accompagnato dal maestro Glasunov, elogiava ed esaltava l’importanza della scuola fiore all’occhiello e orgoglio della Russia”. Avevo conosciuto il Sindaco Luzkhov prima della visita che fece all’Accademia e fu proprio in quella occasione che nacque una duratura stima reciproca. Io vedevo in lui un personaggio forte e determinato, capace di far rinascere la capitale e di poterla

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Accademia di Belle Arti

mostrare al mondo dopo anni di isolamento. Era un uomo caparbio, innamorato della sua città, che aveva capito come farla grande e bella; un uomo pratico e di solidi principi, assai colto e grande lavoratore. Quando fu eletto, a chi gli chiese quale fosse il suo credo politico, rispose: “Appartengo al partito dei manager”. Dopo pochi giorni venni chiamato al Municipio di Mosca e con parole schiette mi chiese se ero disposto ad organizzare nella nostra capitale, Roma, un incontro con il mondo imprenditoriale italiano per far conoscere il suo pensiero e le potenzialità in termini di lavoro che Mosca offriva allora e che avrebbe offerto per molti anni a seguire. Ero orgoglioso di questa proposta e accettai sapendo di poter contare sull’appoggio del caro amico ing. Mario Astaldi con il quale stavo realizzando molte opere in diversi paesi e che ricordo insieme al fratello Dott. Gianfranco, con grande affetto e stima: un rapporto imprenditoriale trasformatosi in una grande e vera amicizia. L’incontro con le più importanti realtà industriali e finanziarie italiane si svolse al Grand Hotel di Roma. Ebbi il piacere di presentare agli invitati il sindaco Luzkhov che illustrò con chiarezza la sua linea di politica economica. Egli rimase colpito dalla presenza di molti imprenditori italiani e si disse fiducioso che il mondo del lavoro avrebbe accolto l’invito che sembrava utile per entrambe i paesi. Banca Internazionale del Lavoro - 1990 Furono eseguiti lavori di ristrutturazione in due edifici ad uso uffici per 2000 mq di opere civili, finiture e impianti elettromeccanici per la International Moscow Bank.

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Uffici “SZS” - 1991 Lavori di ristrutturazione generale per gli uffici di via Dubovaja per la società S.Z.S. Uffici Aerotur - 1991 Lavori di ristrutturazione civile e impiantistica degli uffici di 600 mq della ditta Aerotur. Edificio 3M - 1991-92 Gli uffici della 3M in via Samarsky furono oggetto di ampliamento oltre che di restauro e ristrutturazione della parte originaria. Il progetto degli italiani Alberton e Agostini, architetti milanesi, riguardava anche l’impiantistica generale.

Sede uffici 3M

Fungo Netz - 1991-92 Per la società Alenia Buran si ristrutturò una palazzina circolare, per uso uffici, situata sopra un rifugio antiatomico. Questi lavori furono eseguiti fino al 1992, anno di cambiamento sostanziale e politico con la destituzione di Gorbaciov e l’elezione di Eltsin: da allora le repubbliche Sovietiche acquisirono le rispettive indipendenze e non ci fu più l’URSS. I contratti non si sarebbero più stipulati direttamente con lo Stato o con gli Enti Statali Sovietici ma con clienti privati. I molti progetti realizzati avevano richiesto un grande sforzo organizzativo e importanti investimenti per dotare la direzione dell’impresa nella capitale di uffici, personale e attrezzature e ora le nuove prospettive politico-economiche richiedevano un ulteriore incremento delle capacità logistiche per far fronte alle domande sempre più numerose, provenienti anche da regioni lontane da Mosca.

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La situazione era indirizzata verso una fase di politica liberale e moderata ma quanta paura in quell’agosto 1991 e soprattutto nel periodo seguente ricco di apprensione per un futuro incerto: il mondo intero, durante quegli avvenimenti, a volte anche drammatici, tremò al crollo dell’Unione Sovietica e per un periodo sembrato lunghissimo visse nell’incertezza e nella paura non sapendo dove i nuovi politici avrebbero portato la Russia, temendo le più nefaste conseguenze in caso di una scelta estremista.

Lavori nella Mosca democratica

A

nche per la Codest le cose cambiarono: la committenza non era più lo Stato ma enti e gruppi privati; la manodopera fu lentamente liberalizzata con l’apertura di nuove prospettive sui mercati slavi come Romania e Bulgaria; i movimenti degli operatori e dei mezzi all’interno della Russia e degli stati ex sovietici diventarono più facili in un sistema di libertà fin allora inimmaginabile ed è in questo nuovo scenario che l’impresa ampliò la sua struttura tanto da diventare una delle maggiori in uno dei mercati mondiali delle costruzioni allora più emergenti; adeguandosi alle nuove procedure degli appalti e alle difficoltà rappresentate dalla nuova burocrazia e dalle nuove esigenze dei clienti, l’impresa continuò a operare senza soste in un ambiente politico e sociale strutturalmente e completamente cambiato. Altri lavori furono realizzati a Mosca dal 1992: Centro Residenziale Bim - 1992 La ristrutturazione civile e impiantistica riguardò 10 appartamenti dal 10° al 12° piano di un edificio nel centro della capitale. Mc Hugh & Mc Caffery - 1992 La televisione inglese ABC e la giapponese NHK, commissionò la ristrutturazione generale dei loro uffici a Mosca di 800 mq. Il lavoro fu interessante per la fornitura e l’installazione di speciali allestimenti. Centro Direzionale Buran - 1992-93 Gli uffici della società Buran di 1800 mq furono soggetti a ristrutturazione generale sia di opere civili che impiantistiche. IMB Internazional Moscow Bank - 1992-94 Si eseguì il progetto esecutivo della nuova sede della banca, ideata dall’arch. Skokan, e la sua completa realizzazione: una superficie di 16 mila mq e 55 mila mc di cubatura per un edificio, situato lungo il fiume Moscova, sviluppato su cinque piani fuori terra e due piani interrati sottofalda, compresi due caveau; primo ‘edificio intelligente’ destinato a una banca che venisse costruito in Russia. La Banca era stata fondata nel 1989 in periodo di regime sovietico da capitali russi e stranieri, tra i quali l’allora Banca Commerciale di Milano, e si poneva all’epoca all’avanguardia del sistema economico russo.

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IMB Banca Internazionale di Mosca

Nonostante le difficoltà per il diretto contatto dell’edificio alla sponda del fiume, i lavori sono stati portati a termine in diciotto mesi in perfetto accordo con il programma e gli impegni contrattuali. Per rendersi conto della complessità, basti ricordare che le fondazioni della nuova sede della banca sono posizionate a una quota di sette metri al di sotto del livello del fiume Moscowa. Per la realizzazione delle strutture portanti, sono stati utilizzati dei diaframmi prefabbricati in calcestruzzo con rivestimento in lamiera d’acciaio dello spessore di 15 mm che venivano successivamente saldati uno con l’altro per garantire la tenuta alle infiltrazioni. Questa tecnologia assolutamente innovativa per noi italiani e scelta dai russi per i bassi costi dell’acciaio, ha dato l’assoluta tenuta all’acqua ed è stata utilizzata successivamente per altri progetti. Per le finiture esterne e interne del palazzo, la scelta dei materiali era stata fatta direttamente dal progettista finlandese architetto Skokan, utilizzando vetri speciali e acciaio inox provenienti dall’Italia e legno di essenza pregiata proveniente nord Europa. L’abbinamento di questi materiali ha dato risultati eccellenti, molto apprezzato dagli architetti europei e soprattutto dall’Istituto Nazionale degli Architetti della città di Mosca che sovraintende e approva tutti i progetti della città. Nei primi anni ’90, con il crollo del sistema sovietico, presero il via numerosi progetti di recupero e valorizzazione di vecchi edifici, situati nei centri storici, che il regime aveva completamente trascurato. Uno di questi riguardava il recupero del complesso denominato Andreevskij, nel centro di Leningrado, da poco ribattezzata San Pietroburgo. L’intervento era caldeggiato in prima persona dal nuovo sindaco e, con la collaborazione dell’amico Lino Barone, brillante architetto di Bordighera, sviluppammo un progetto volto alla creazione di un nuovo centro commerciale, che prevedeva, nel rispetto dell’architettura esistente, lo sviluppo dell’edificio in quattro setti esterni e

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Dal Sole 24 Ore del 4 luglio 1995

Articolo su un quotidiano locale

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la realizzazione di una copertura vetrata della grande corte interna, nello spirito di uno dei più grandi “monumenti” commerciali dell’Unione Sovietica, vale a dire i “Magazzini Gum” della Piazza Rossa a Mosca. Il progetto aveva già in sè tutti quegli aspetti peculiari che racchiudono e propongono oggi i più moderni centri commerciali. Nonostante l’entusiasmo di tutti i partecipanti, le alterne vicende della burocrazia, della politica e delle forme di finanziamento fecero sì che quest’opera non potesse essere realizzata. In occasione dell’ultimo incontro, il sindaco della città manifestò tutto il suo dispiacere per la mancata conclusione dell’iniziativa e, per dimostrarci il suo apprezzamento per l’impegno da noi profuso nello studio ed elaborazione del progetto, ci invitò allo spettacolo di addio alle scene della prima ballerina del Bolshoi. Fu una serata straordinaria, di grande intensità ed eleganza, che alleviò il disappunto per l’infelice conclusione delle trattative e ci fece comunque capire come il nostro lavoro fosse stato apprezzato. Anche in questa, come in altre occasioni, ebbi modo di constatare che, quando il percorso è gradevole e positivo, l’eventuale mancato raggiungimento della meta, anche se doloroso in termini economici, non rappresenta comunque mai una perdita di tempo in quanto porta all’acquisizione di nuove esperienze e nuove conoscenze che rimangono nel tempo. Metro Airport - 1992-93 Il cliente IMB Banca Internazionale di Mosca commissionò la ristrutturazione generale dell’edificio a uso uffici in via Aviatsionnaja di 2200 mq. Centro Direzionale Robin - 1993-95 Il lavoro consisteva in opere di ristrutturazione generale e di impiantistica speciale di un edificio di dieci piani, risalente all’epoca di Stalin, adibito a uffici e spazi commerciali in un volume di 12.300 mc per la Robin Enterprise di New York.

Centro Direzionale Robin

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Mosbusinessbank

Mosbusinessbank - 1993-96 La ristrutturazione riguardava un edificio della fine dell’800 situato nel centro di Mosca e sede dell’omonima banca. Sviluppato su quattro piani, la struttura portante era costituita da muratura in pietra, mentre i solai e i divisori interni erano in legno; all’interno si presentava ricco di decorazioni di gran pregio e di notevole interesse artistico. Dopo anni di incurie la banca appaltò i lavori per il recupero statico e la ristrutturazione funzionale con adeguamenti e aggiornamenti tecnologici riferiti anche ai servizi bancari, ai sistemi di sicurezza, di sorveglianza, di comunicazione e all’impiantistica generale; sulla base di disegni e bozzetti originali e rilievi puntuali furono realizzate opere artistiche come affreschi, dorature di fregi e soffitti, pavimenti e rivestimenti di legno, fusioni in bronzo di elementi decorativi e furono forniti nuovi lampadari provenienti da Murano; la realizzazione degli arredamenti in stile fu portata a termine sotto la direzione dell’Accademia delle Belle Arti di Mosca. Centro Direzionale Trol - 1994 Il lavoro consisteva nella ristrutturazione generale di un fabbricato di nove piani pari a 12 mila mq di superficie per la Trol Investment; la destinazione era direzionale per la banca “MKB” e commerciale per la società “MMSS”. Industrial Bank - 1994-96 Per la Banca Industriale di Mosca si eseguì la progettazione esecutiva e la costruzione ‘chiavi in mano’ della nuova sede per un volume di 27.000 mc e una superficie di 7.400 mq.

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Centro Direzionale Trol

Banca Industriale di Mosca

Ducat Plaza - 1994-97 Per l’americana Brooke Cigarette Group si portò a termine il progetto dello studio newyorkese Liebman Melting partnership e la costruzione dell’edificio a destinazione uffici per clienti internazionali di dieci piani fuori terra e due piani interrati di parcheggi per 22 mila mq di superficie e 80 mila mc di volume; la nuova realizzazione andò a sostituire l’edificio preesistente che venne demolito con l’uso di dinamite e qualche preoccupazione.

Ducat Plaza

Cargo Terminal dell’aeroporto di Domodedovo - 1994-95 Nell’aeroporto di Domodedovo, dove già avevamo operato cinque anni prima, si realizzò la progettazione e la costruzione di un nuovo Cargo Terminal di 34.000 mc per una superficie di 4.500 mq con la formula del chiavi in mano.

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Surgutneftegas - 1995-96 L’edificio residenziale di lusso in vicolo Stoppani nel centro di Mosca era sotto la tutela della soprintendenza dei monumenti dal 1913; il lavoro di restauro e ristrutturazione oltre che di sopraelevazione lo portò a nuova vita con grande soddisfazione della proprietà, la società Surgutneftegas. Eurofinance - 1995-96 Il lavoro consisteva nella ricostruzione di un esistente fabbricato uso uffici di tre piani e della fornitura generale degli impianti per la K.B. Eurofinance Eurobank. Yakimanka - 1995-97 Per la Westec Development Cipro con la consulenza degli inglesi della Bovis e i tedeschi della Waterman si realizzò, con la nostra progettazione, un fabbricato di alta qualità a uso uffici che comprendeva, inoltre, le opere esterne, i piazzali pubblici e la conservazione di un piccolo fabbricato storico su una facciata del complesso; l’edificio era di cinque piani, di cui l’ultimo, coperto con un grande lucernario in cristallo.

Uffici Yakimanka

Gogoleskij G11 - 1995-97 L’edificio a uso uffici “shell & core”, con due scantinati e nove piani fuori terra di 25.000 mc prevedeva la realizzazione della facciata principale in stile primo novecento, come da progetto della Soprintendenza alla tutela dei monumenti di Mosca per la Società Krest con progetto della MMA di Londra. Nel 1995 trattammo a lungo con l’Amministrazione logistica dell’allora Presidente della Federazione Russa, Boris Eltsin, per ricevere l’incarico della ristrutturazione, delle decorazioni e dell’arredo dei locali del Presidente all’interno del Cremlino. Si trattava di un lavoro

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estremamente prestigioso, che richiedeva grandissima professionalità, competenze specifiche in materia di restauri di opere d’arte, estrema cura ed attenzione nella scelta dei materiali, degli arredi e delle soluzioni progettuali. Avevamo già preparato i disegni progettuali della ristrutturazione architettonica e decorativa, che erano stati molto apprezzati, e la bozza di contratto era già stata discussa nei dettagli. Purtroppo, quando già eravamo pronti alla firma, venni contattato da un ricco e spregiudicato uomo d’affari albanese, che risiedeva in Svizzera ed era in contatto con diverse personalità russe. Mi fece capire senza mezzi termini che aveva messo gli occhi su quel lavoro e che sarebbe stato meglio per noi ritirarci dall’offerta e così fu. Rinunciammo a un lavoro che avevamo accarezzato molto da vicino. Moscow City Ponte sulla Moscova - 1996-97 Con la nostra progettazione esecutiva si costruì il ponte pedonale sulla Moscova ideato dall’architetto Boris Thor per la City di Mosca. Il ponte, lungo 215 metri di cui la campata principale lunga 150, è situato tra i lungofiume Scevcenko e Krasnopresnkaja; in meno di due anni

Moscow City Ponte sulla Moscova

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Moscow City Ponte sulla Moscova

Il sindaco Luzhkov all’inaugurazione del Moscow City Ponte

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fu realizzato con una struttura portante in acciaio, facciate curve in policarbonato e vetro, con due edifici, uno per sponda, di cinque livelli nei quali arriva la metropolitana, completato con tre ristoranti, bar e quaranta negozi per un volume di 80.000 mc. Questo, per importanza, prestigio e moderna e avveniristica bellezza architettonica, è uno dei lavori che maggiormente mi ha lasciato il segno: con orgoglio lo ricordo e lo porto ad esempio per esaltare il lavoro italiano nel mondo. Anche la stampa locale ne parlò molto in occasione dell’inaugurazione alla quale partecipò il sindaco di Mosca Luzhkov, autore tra l’altro di un libro sulla città, sul quale cita in termini di stima la nostra presenza e partecipazione nella costruzione della moderna Capitale. Ma già prima della loro conclusione, i lavori furono oggetto di attenzione da parte del giornale “Izvestia” che pubblicò un lungo reportage a firma di Jurij Sokolov sotto il titolo “Il ponte del XXI secolo” mettendo in risalto la nostra ottima organizzazione del cantiere e la grande qualità e rifinitura dei lavori. Timura Frunze - 1997-98 Il contratto con la Westec Nicosia Cipro comprendeva la progettazione e la costruzione degli uffici “shell & core” di prima categoria distribuiti su cinque piani più mansarda per un volume di 30.000 mc e 8.700 mq di superficie.

Uffici Timura Frunze

Palascevskij Bolshoj - 1997-99 Questo lavoro riguardava la ristrutturazione di un complesso ad uso uffici di prima categoria in Bolshoj Palascevskij , sviluppato su tre piani fuori terra e scantinato; la realizzazione prevista era “shell & core” per la Too Most Group di 12.000 mq di superficie e 40.000 mc di volume.

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Uffici Sadovniceskaya

Sadovniceskaya - 1997-99 Ancora per la Westec Nicosia Cipro, ripetemmo la progettazione e la realizzazione di un altro complesso uso uffici “shell & core” di prima categoria di 17.000 mc. e 5.000 mq di superficie su sette piani. Teatro Bolshoj Era presente, tra gli amministratori della città, l’idea di costruire un nuovo Bolshoj che doveva sorgere al posto del vecchio teatro ma prima era necessario realizzare e affiancare una struttura, sempre nella grande piazza del sito, che sostituisse provvisoriamente l’edificio per dare

Teatro Bolshoj

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la possibilità di continuare l’attività teatrale. Mentre le discussioni si susseguivano, prioritario era però, in tempi immediati, intervenire sulla struttura portante dell’attuale teatro con azioni atte a scongiurare un probabile crollo poichè, soprattutto le colonne del loggiato erano pericolanti. Così acquisimmo i lavori per la loro ristrutturazione che portammo a termine in breve tempo nella speranza anche di assumere l'appalto per la nuova costruzione che mai si fece per sopraggiunti problemi economici dell’ente pubblico.

Aljba Alliance Bank

Aljba Alliance Bank - 1997-98 Il lavoro che affrontammo prevedeva la demolizione e la ricostruzione di una casa di abitazione situata nell’ex città bianca del XVII secolo sul lungo fiume Kremliovskaja, per realizzare la sede della banca commerciale Aljba Alliance di 6.500 mq di superficie; l’intervento prevedeva inoltre, il consolidamento e il restauro di due facciate e un angolo di importanza storica, la ricostruzione del fabbricato di cinque piani con un sopralzo e la realizzazione di una mansarda, due caveau di massima sicurezza oltre alle sistemazioni esterne e la recinzione in stile; il progetto era realizzato dagli architetti Pavel e Rutkovskij. Gogolevskij G5 - 1997 Dai clienti della Krest fummo chiamati a rinforzare e stabilizzare staticamente con palificazioni le facciate storiche dell’edificio che presentavano gravi problemi statici ed erano quindi pericolose per la sicurezza dei cittadini. Chisty Pereulok - 1997-98 Sempre il cliente Krest ci incaricò di restaurare e ristrutturare con la ricostruzione della facciata posteriore e della copertura, uno storico edificio di 2.400 mq destinato ad abitazioni di lusso.

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Gogolevskij G5

Chisty Pereulok

RAI Radio Televisione Italiana - 1997 Per la RAI Radio Televisione Italiana ristrutturammo completamente gli uffici e i locali tecnici per i servizi di trasmissione e registrazione. Tobacco Factory - 1997-99 Il lavoro per la Ligget Ducat prevedeva un intervento misto di demolizione, ristrutturazione, costruzione di parti in ampliamento di un fabbricato amministrativo e di un corpo per la produzione industriale di sigarette, comprese le sistemazioni esterne per un volume di 28.000 mc .

Fabbrica di tabacco Ligget

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La nuova borsa di Mosca

La Nuova Borsa di Mosca - 1997 Si trattava di un opera molto importante e ambiziosa che doveva rendere evidenti al mondo intero le nuove potenzialità economiche della Russia derivanti dallo sfruttamento delle sue enormi riserve energetiche. Il contratto, che fu firmato nel giugno del 1997, prevedeva la realizzazione “chiavi in mano” di un edificio di 34 piani fuori terra e di 5 piani interrati per una altezza di 182 metri più 20 metri di opere interrate. Erano altresì comprese nell’appalto tutte le opere impiantistiche ed elettromeccaniche fra cui 24 ascensori e 6 scale mobili. Il tutto doveva essere realizzato nel tempo molto limitato di 36 mesi. Il progetto base realizzato da una società moscovita veniva sviluppato sia a livello architettonico che strutturale da varie società di ingegneria italiane. I lavori in cantiere venivano diretti da uno staff di ingegneri con sede presso i nostri uffici di Mosca. Iniziammo con importanti opere di fondazione consistenti nella realizzazione di diaframmi sull’intero perimetro dell’edificio e di una platea in calcestruzzo dello spessore di oltre 3 metri che doveva servire da base per la sovrastante costruzione di circa 200 metri. Nel maggio del 1998 però, una improvvisa e inattesa crisi finanziaria dell’intera Russia, che portò sull’orlo del fallimento diverse banche, pose seri problemi al committente che decise di rivedere i suoi piani immobiliari. Fu così che dopo lunghi e faticosi accordi, i lavori furono sospesi nel febbraio del 1999 con la messa in sicurezza e impermeabilizzazione della sola parte interrata, in maniera tale da poter essere ultimata in seguito.

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Verso la fine del 1998, mi capitò un fatto molto singolare. Su segnalazione di un collaboratore locale decisi di andare a Baku, in Azerbaijan, con il geom. Casoni, per lo studio di un nuovo importante appalto. Partimmo da Venezia per Mosca, dove ci attendevano i responsabili del progetto; proseguimmo per Baku dove ricevemmo tutti i documenti e le spiegazioni necessarie per concorrere all'appalto. Il giorno seguente eravamo pronti per rientrare in Italia via Mosca e mai avremmo pensato di poter incorrere in problemi di natura burocratica. E invece, all’arrivo a Mosca all’aeroporto nazionale di Domodedovo, al controllo passaporti ci rendemmo conto che non avevamo provveduto a munirci del visto di ingresso, ormai necessario per rientrare a Mosca, essendo diventato l’Azerbaijan uno stato sovrano dopo la disgregazione dell’Unione Sovietica. I funzionari del controllo passaporti, sempre molto zelanti e ligi al regolamento, non vollero sentire ragioni e ci confinarono in una sala d’aspetto, sotto controllo a vista da parte delle guardie di frontiera. Erano le otto di sera, riuscii a chiamare il signor Strizzolo, che fece scattare l’allarme e mise in moto tutto lo staff e l’Ambasciata Italiana per risolvere una situazione che stava diventando delicata. Dalla base della Codest Mosca partirono subito le vettovaglie di emergenza, coperte e viveri, per consentire a noi due, reclusi, di passare la notte in condizioni accettabili. Le telefonate con l’Ambasciata si susseguirono coinvolgendo anche l’ufficio di controllo dell’immigrazione presso l’aeroporto internazionale di Sheremetevo fino a che, dopo lunghe trattative e grazie all’intervento diretto di funzionari del Comune di Mosca, alle due di notte arrivarono i visti e potemmo così uscire dall’aeroporto diventato per noi una prigione. Al momento di partire salutai comunque con una cordiale stretta di mano i militari che ci avevano custodito e che non avevano fatto altro che il loro dovere. Fui accompagnato dal signor Strizzolo alla nostra base a Mosca dove mi rifocillai e mi misi nelle condizioni di proseguire il viaggio. Alle cinque del mattino raggiunsi l’aeroporto di Sheremetevo per prendere il volo che mi avrebbe fatto rientrare in Italia.

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Lavori in Russia Kurksprombank a Kursk - 1994-96 Per la banca di Kursk eseguimmo la progettazione esecutiva e la costruzione di un edificio sede degli uffici di 5.500 mq; erano comprese anche opere di impiantistica e sistemi di sicurezza, i caveau, le opere esterne e i piazzali pubblici. Quando cominciò il cantiere di Kursk, il direttore della banca mi invitò a visitare la città e la sua regione. Era inverno e la temperatura costantemente –15°; il viaggio fu fatto in treno e la visita si protrasse per tre giorni, durante i quali potei ammirare musei, monasteri, chiese e altri luoghi caratteristici. Durante la visita al luogo a loro sacro, che ricordava la più grande battaglia fra mezzi corazzati contro le truppe tedesche durante la seconda guerra mondiale, ricordo l’imbarazzo che si creò con i nostri accompagnatori dopo che la direttrice del museo, illustrate le varie fasi della battaglia, si rese conto che gli italiani, al tempo, erano stati alleati dei tedeschi; il gelo che si manifestò tra noi durò momenti che ancora non so quantificare, fortuna volle che, successivamente attorno a un tavolo imbandito, brindisi a base di vodka stemperassero la tensione e non se ne parlò più. Gli abitanti di Kursk erano molto ospitali e sempre, prima di partecipare a una riunione di lavoro, erano prioritari i programmi dei pranzi e delle cene; con queste premesse i rapporti diventarono ottimi e le difficoltà si risolvevano durante le cosiddette ‘riunioni culinarie’ con protagonista la vodka che, tra un brindisi e l’altro, ci obbligava a tenere alto il nome dell’Italia anche in questo campo ma, purtroppo, con simili concorrenti, per i ‘nostri eroi’ che si sacrificavano per il buon nome dei compatrioti, la sconfitta era certa.

La banca di Kursk

In Russia nel 1998 con Casoni e Triches

Ansaldo Samara - Impianto per pulizia carri cisterna ferroviari - 1995-98 La città, di grandi dimensioni, si trova su un’ansa del fiume Volga, famosa per aver dato i natali a Lenin e per i suoi navigatori (e pirati) del fiume; alla estrema periferia è situata una grande raffineria dove viene convogliato il petrolio grezzo delle zone del Caucaso tramite ole-

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odotto per una parte e per l’altra tramite carri cisterna ferroviari che, dopo numerosi trasporti, al formarsi di depositi catramosi sul fondo dei serbatoi che limitano la portata e l’efficienza, venivano puliti in un impianto adibito a tale scopo; il contratto prevedeva la sua sostituzione in quanto obsoleto e di vecchia tecnologia che richiedeva molta manodopera e trovandosi all’aperto limitava gli interventi durante le stagioni fredde. Nel 1994 l’Ansaldo di Genova, come capocommessa, acquisì la realizzazione dell’opera e l’esecuzione delle opere civili fu affidata alla Codest. Il lavoro consisteva nella realizzazione di un grande capannone diviso in cinque settori, in ognuno dei quali entrava una dozzina di vagoni ferroviari per essere puliti internamente ed esternamente mediante insufflaggio di vapore caldo unito a trattamento chimico. Per il clima invernale molto rigido della regione e i tempi esigui di realizzazione, decidemmo di prefabbricare tutte le parti fuori terra del capannone, allestendo, pertanto, un cantiere di industrializzazione per pilastri, travi e pannelli di facciata in calcestruzzo armato che, confezionati nel periodo invernale, furono poi posati in opera nel periodo estivo, ottenendo un considerevole risparmio di tempo. Con la stessa tecnologia fu realizzato anche l’edificio che doveva essere adibito a mensa, spogliatoi e servizi per il personale addetto. La presenza di materiale infiammabile e inquinante, come i derivati petroliferi, procurò problemi alla sicurezza antincendio e alle prescrizioni normative che richiesero impianti di depurazione delle acque, sia per quelle di processo che per quelle piovane. Fu un lavoro impegnativo di particolare esecuzione sia per le tecnologie, adottate per la prima volta in questa opera, sia per le difficoltà finanziarie del cliente che ci obbligò a rallentare e a fermare i lavori a più riprese. L’impianto si trovava in uno snodo ferroviario di grande importanza che serviva anche altre industrie dall’aspetto fatiscente che rilasciavano, dagli alti camini, fumi colorati dagli odori maleodoranti, tipici delle industrie chimiche; il personale russo che collaborava con noi non parlava molto volentieri di questo argomento (era appena caduto il regime comunista e a quel tempo la zona era vietata agli stranieri) però dicevano: “quando sentite quella puzza è meglio chiudere tutte le finestre”. Il lavoro venne terminato l’anno successivo. Albergo Lastocka ad Anapa sul Mar Nero - 1994-95 Il cliente Juganskneftegas ci commissionò la progettazione esecutiva e la ristrutturazione di un ex sanatorio e di fabbricati per 7.000 mq. da trasformare in albergo per le vacanze sul Mar Nero.

Albergo Lastocka ad Anapa

La cerimonia d’inaugurazione

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Hotel PIM a Nefteyugansk in Siberia

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Parte V

LAVORI IN KAZAKISTAN, SIBERIA, IRAQ, TURCHIA E STATI UNITI Lavori in Kazakistan Lavori in Siberia Lavori in Iraq Lavori in Turchia Lavori negli Stati Uniti d’America Studi di lavori non realizzati Conclusione

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Lavori in Kazakistan

Aeroporto di Alma-Ata in Kazakhstan - 1990-97 Nell’aeroporto dell’allora capitale kazaka (ora è Astana) intervenimmo in due momenti distinti: prima per la ristrutturazione completa di un hangar per aerei di linea di 12.000 mq e successivamente per la progettazione e la realizzazione di una nuova pista di volo e la ripavimentazione di quella esistente. Con riferimento a quest’ultimo lavoro, firmammo il contratto con il ministero kazako dell’Aviazione Civile nei primi mesi dell’anno 1993 e il primo problema che si presentò fu quello logistico: si doveva far pervenire, in un posto così lontano al centro dell’Asia, attrezzature e macchinari speciali per poter svolgere tale lavoro. Delle due soluzioni possibili fra trasporto via terra con automezzi e ferrovia e trasporto via aerea, scegliemmo quest’ultima in quanto più veloce e perché l’Aviazione Kazaka ci aveva messo a disposizione aerei cargo che avrebbero fatto scalo all’aeroporto regionale di Ronchi dei Legionari. Nove furono i voli organizzati con i quali si cercava di stivare negli enormi “Iliushin” la maggior quantità di materiale e di attrezzatura come escavatori, camion, gru, camper, containers, gruppi elettrogeni e perfino un impianto di betonaggio. Ricordo uno degli ultimi voli che si rivelò alquanto travagliato a causa di una epidemia di colera verificatasi nella repubblica asiatica. Furono decise dalle nostre autorità sanitarie azioni preventive di quarantena per tutte le persone provenienti da quelle aree. Sui giornali locali titoli cubitali allarmavano senza motivo “Allarme colera a Ronchi dei Legionari per un cargo kazako”, ma dopo scrupolosi controlli tutto si risolse per il meglio e il viaggio si svolse senza problemi. I lavori di costruzione della pista, dopo la preparazione del terreno e il getto del sottofondo, furono sospesi per la mancanza dei finanziamenti del cliente. Residenza ‘Saltanat’ ad Alma-Ata in Kazakhstan - 1993-94 Per la società Saltanat eseguimmo lavori di ristrutturazione edile e impiantistica di un residence. Ero nella allora capitale kazaka per definire i dettagli del contratto di costruzione della nuova pista dell’aeroporto; dopo due giorni di incontri e riunioni, i dirigenti locali dissero che era venuto il momento di occuparsi degli ospiti da un altro e più simpatico punto di vista. Fu così che la mattina

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Cargo kazako a Ronchi dei Legionari

successiva fui invitato con i miei stretti collaboratori in una località montana non molto distante da Alma Ata, ai confini con la Cina. In un vasto spiazzo, definito da una verde e alta vegetazione, erano state erette delle ampie tende circolari simili alle ‘jurte’, le capanne dei nomadi kazaki, costruite con una solida struttura di legno, ricoperte da un tessuto bianco molto fine che pareva seta; il tutto, molto ben rifinito, dava un’immagine sobria. Fui invitato a sedermi su un basso cuscino di vivaci colori attorno ad un’ampio tavolo rotondo al centro della tenda. Quando tutti gli invitati furono sistemati, la cerimonia iniziò con la mescita di vodka in un tozzo e capiente bicchiere che, come era consuetudine, veniva alzato all’altezza degli occhi per effettuare il “tost” o brindisi generale che succedeva al breve discorso di benvenuto agli ospiti; l’alcool doveva chiaramente essere bevuto in un sol sorso. Venne il mio momento di porgere i saluti e i ringraziamenti per la calorosa accoglienza ricevuta, tradotti dall’interprete, e via con un altro “tost”. Iniziammo finalmente a consumare le pietanze locali ma non feci in tempo ad assaggiarle che un esponente locale si era già alzato per un altro “tost”, altro breve discorso di ringraziamento agli ospiti per la proficua collaborazione instauratasi tra le parti e ritornava di nuovo il mio turno. Mi alzai, ringraziai per le belle parole di apprezzamento ricevute, e fu la volta di un’altro “tost” affinchè la collaborazione continuasse senza problemi, fino al completamento dell’opera. Questa cerimonia, dagli innumerevoli “tost”, durò all’incirca due ore, durante le quali si riuscì a gustare non molto delle pietanze a base di verdure e salumi vari che si prendevano con le mani dal grande vassoio posto al centro della tavola. A quel punto fecero alzare gli ospiti e fummo accompagnati all’esterno: avevano un ironico sorriso e ci sentivamo tutti molto ‘allegri’, ma non volevamo farlo notare, pensavamo che il pranzo fosse finito, ma ci sbagliavamo. Infatti, la pausa serviva unicamente a permettere a tutti di espletare i propri bisogni fisiologici o più semplicemente fare la “pipi”. Dopo questa breve parentesi, rientrammo un po’ riluttanti al solo pensiero di affrontare un altro giro di “tost”, ma fummo subito sorpresi nel vedere su un grande piatto una spettacolare pietanza: un montone intero, completo di testa e gambe, cotto

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Aeroporto di Alma Ata

Con Marco Merluzzi

come si usa fare in Italia la porchetta. Il nostro ospite prese un grosso coltello e con un movimento lento e preciso sezionò in due parti perfettamente speculari la testa del montone, estrasse il cervello e, con grande mio stupore, me lo porse dicendomi: “il cervello è per lei presidente, perché lei è la mente e il capo”. Imbarazzato presi il cervello e accennai a mangiarlo: avrebbe dovuto essere un gesto che doveva sembrare di grande onore per aver ricevuto la parte più preziosa! Poi riprese il coltello e tagliò le due orecchie, le mise sopra un piatto e le porse ai due miei collaboratori, dicendo: “Le orecchie sono per voi perché sentite per lui e lo ascoltate sempre”. Quindi riprese a tagliare il montone distribuendolo ai vari commensali. I miei due accompagnatori intanto, avevano cominciato a masticare le orecchie che in verità non davano segno di cedimento tanto erano tenaci ed elastiche, simili al cuoio, ma loro, guardandosi negli occhi senza parlare e sempre con il sorriso sulle labbra, davano la sensazione di apprezzarle. Altre pietanze vennero servite; il mio cervello dopotutto non era proprio così sgradevole e con un pò di vodka riuscii a digerirlo ma i due collaboratori che mi accompagnavano, impegnati con le orecchie del montone, mi dissero tornando verso la capitale a pranzo compiuto, di non averle mangiate ma sputate nel fazzoletto, prontamente usato per un imprevisto raffreddore che li aveva improvvisamente colpiti. La cerimonia comunque era finita con allegria e numerosi “tost”, molto graditi per stemperare quei momenti di imbarazzo ma... ricordo anche il mal di testa che mi perseguitò nei giorni successivi. Alla fine del 1994 la Codest fu invitata a studiare un progetto per la difesa dei giacimenti petroliferi e degli impianti di estrazione nella città di Aktau, sulla riva Kazaka del Mar Caspio, dove si estrae un quarto del petrolio di quel Paese. Per proteggere gli impianti dalle sempre più frequenti inondazioni, causate dal degrado dell’ecosistema, era previsto il rinforzo di ben 32 km di argini mediante l’innalzamento degli stessi e l’esecuzione di un diaframma di impermeabilizzazione con impiego di bentonite granulare secca; si trattava inoltre di proteggere la scarpata sul lato a mare, sferzata dalle acque tempestose, con teli filtranti zavorrati in geotessile. Il progetto realizzato da un gruppo di esperti guidati dal professor Matteotti dell’Università di Padova, venne giudicato positivamente dalla Commissione Statale preposta e la Codest fu dichiarata vincitrice della gara. Tuttavia non si diede mai inizio ai lavori, sia a causa dell’insufficiente finanziamento, sia a causa della crisi politica determinata dalla disgregazione dell’ex-Unione Sovietica.

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Lavori in Siberia

Hotel Rassvet a Nefteyugansk in Siberia - 1993-95 Questo primo lavoro che acquisimmo in Siberia consisteva nella ristrutturazione completa di un albergo per stranieri, comprensivo dell’impiantistica generale. Hotel PIM a Nefteyugansk in Siberia - 1993-96 Nello stesso periodo ci fu commissionata dalla Juganskneftegas la costruzione ‘chiavi in mano’ di un albergo di lusso di 40 camere per un volume di 10.600 mc. Centro residenziale a Surgut City in Siberia - 1996-97 La Surgutneftegas ci affidò i lavori per la sistemazione generale interna di un fabbricato di appartamenti di lusso di 3500 mq.

Hotel PIM

Surgut City

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Lavori in Iraq

Acciaieria e laminatoio a Bassora - 1989-1991 Nella primavera del 1989 la dottoressa Cecilia Danieli mi chiamò per intraprendere una nuova collaborazione tra le nostre aziende dopo i brillanti risultati conseguiti in Germania Est e Russia. Il lavoro era di progettazione e realizzazione di una grande acciaieria e laminatoio nella città di Bassora in Iraq. La regione, posta sulle rive del grande fiume Tigri-Eufrate e non distante dal mare, era stata da poco teatro dell’aspra e lunga guerra fra l’Iraq e l’Iran e forti erano le tensioni socio-politiche che nuovamente stavano concentrandosi nell’area per la presenza di ricchi giacimenti petroliferi e le forti rivalità religiose musulmane. Non fu il caldo torrido a fermarci ma la politica occidentale, soprattutto gli Stati Uniti che vedevano nell’acciaieria in costruzione, un possibile futuro utilizzo militare; la situazione divenne particolarmente grave nell’estate del 1990 quando l’Iraq invase il vicino Kuwait suscitando le reazioni politiche di tutto il mondo e in particolare quelle americane, incaricate di far cessare l’occupazione ritenuta contraria al diritto internazionale. Furono momenti di apprensione: agli operatori stranieri presenti in Iraq era stato proibito di lasciare il paese e venivano trattenuti in condizioni di semilibertà, condizione questa che fu riservata anche ad alcuni nostri dipendenti. Non nascondo che fu un momento particolarmente difficile per la preoccupazione di un imminente annuncio di guerra che attanagliava il nostro personale e i loro familiari. Cercai in ogni modo di tenere alto il loro morale attraverso i possibili colloqui telefonici che ci erano concessi; tenemmo fittissimi i contatti con l’ambasciata italiana e le autorità irachene. In coincidenza del Natale 1990, a seguito delle forti pressioni internazionali

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fu consentito agli stranieri di lasciare l’Iraq: un incubo era finito e, con grande felicità e sollievo per tutti, i familiari poterono riabbracciare i loro cari. Due mesi più tardi le truppe americane liberarono il Kuwait dall’occupazione irachena invadendo parzialmente l’Iraq e a seguito di ciò i lavori per la costruzione dell’acciaieria di Bassora furono sospesi definitivamente. Ma in Iraq ero già stato negli anni settanta. A quel tempo collaboravo attivamente con la Montubi per la realizzazione di oleodotti e impianti petroliferi; era in progetto la costruzione di una importante “pipeline” e fui incaricato di studiare il lavoro in vista di una possibile acquisizione dell’appalto. Partii da Milano e appena giunto in Iraq trovai i tecnici della Montubi ad attendermi all’aeroporto. Mi fecero un quadro generale della situazione e subito dopo partimmo su una grossa macchina per ispezionare il tracciato. Lungo tutto il percorso, nella zona di confluenza tra il Tigri e l’Eufrate, continuammo a discutere sugli studi già predisposti e in parte effettuati. Le persone che mi accompagnavano erano simpatiche, molto preparate e il viaggio proseguiva regolarmente. Il vento si alzò improvvisamente con molta intensità sollevando la sabbia in tutte le direzioni rendendo fastidioso il prosieguo fino al sopraggiungere di un altro inconveniente che fermò il fuoristrada. L’autista, dopo alcuni controlli, si rese conto di non essere in grado di effettuare la riparazione tanto che per riprendere il viaggio c’era una sola speranza: proprio quel giorno sarebbe dovuta passare la squadra di vigilanza che, tre volte alla settimana, controllava lo stato della condotta. Eravamo fermi già da alcune ore e ci rimaneva solo il pensare a come affrontare la notte rigida del deserto, quando scorgemmo in lontananza la sagoma di un autocarro. Il nostro autista iniziò subito a segnalare con i fanali la nostra presenza e dopo una mezz’ora il gruppo di vigilanza ci raggiunse. Felice di aver superato una situazione pesante e di non dover trascorrere la notte all’addiaccio, scendemmo dalla macchina e subito sentimmo un grido: “Sior Carlutti, o soi jo, sono io, Vincenzino, di San Giorgio di Nogaro!” L’uomo, saltò giù dal camion, mi venne incontro e mi abbracciò. Tutti rimasero meravigliati: anche in pieno deserto mi facevo conoscere! Festeggiammo il fortunato incontro con un bicchierino di cognac, che il vento tendeva a riempire di sabbia, e ripartimmo per Bassora. In Iraq mi capitò di ritornare qualche anno più tardi quando era in corso la guerra con l’Iran dell’Ayatollah Khomeini. Avevo ricevuto un incarico di consulenza per un primo studio che riguardava un grande oleodotto. Ero accompagnato da un impiegato della Astaldi. Terminata la visita, il mattino seguente riprendemmo l’aereo diretti al Cairo. Il volo si stava svolgendo con la massima regolarità quando, giunti sui cieli della capitale egiziana, il comandante informò i passeggeri che il carrello di atterraggio non riusciva ad aprirsi regolarmente e quindi attendeva ordini dalla torre di controllo, ordini che non tardarono ad arrivare: l’aeroporto non era attrezzato a gestire atterraggi di emergenza e pertanto l’aereo doveva invertire la rotta. Il panico non tardò a diffondersi tra i passeggeri che cominciarono a piangere e a urlare. Stavo commentando negativamente l’atteggiamento di queste persone, che improvvisamente il mio accompagnatore cominciò a maledire l’ora in cui aveva accettato di partire e imprecando mi rinfacciava di averlo portato a morire. Dopo due ore passate tra pianti e urla, l’aereo sorvolò con grandi sobbalzi una pista ripetendo più volte l’operazione: penso che le brusche manovre avessero lo scopo di creare le condizioni per l’atterraggio. L’aereo infatti riprese quota e poi, quasi in picchiata, discese verso la pista. Intanto le scene di panico tra i passeggeri si intensificavano. Dopo alcuni tentativi con salite di quota e picchiate il carrello uscì,

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tanto da permettere all’aereo di atterrare tra le urla sempre più alte dei passeggeri ormai ridotti allo stremo. Quando finalmente si aprì il portellone dell’aereo, tirammo un sospiro di sollievo. Ma non era finita! A causa della guerra, l’aerostazione era stata bombardata durante la notte; il personale addetto, prevedendo un nuovo attacco, ci fece stendere tutti quanti ventre a terra e, strisciando, ci fece riparare in un capannone che era rimasto ancora intatto. Il mio accompagnatore era entrato in un mutismo che continuò per tutta l’avventura. Attendemmo sdraiati a terra, con il cuore in gola, per molte ore l’ordine tanto atteso di ripartire. Molti anni dopo il fatto, rincontrai a Roma negli uffici dell’Impresa Astaldi, la persona che mi aveva accompagnato in quella tragica giornata. Appena mi ebbe riconosciuto, non potendo nascondersi, mi si avvicinò e con manifesto timore cominciò a scusarsi del suo comportamento in quella occasione. Capii il suo stato d’animo, d'altronde non tutti hanno la stessa reazione di fronte alla paura.

Lavori in Turchia

Costruzione di viadotti sull’asse autostradale Tarsus - Mersin - 1993-1997 Il contratto fu acquisito dal Consorzio Contur, una associazione tra la Rizzani de Eccher e la CEA, per la costruzione di cinque viadotti sull’autostrada della Turchia meridionale fra Tarsus e Mersin. I lavori iniziarono nel novembre 1993 e proseguirono per ben quattro anni con periodi di lavoro rallentato a causa dei problemi finanziari del governo locale. Tecnicamente il lavoro dava molte soddisfazioni senza particolari problemi: si procedeva alla prefabbricazione, in un apposito cantiere, di travi in calcestruzzo precompresso della lunghezza di 36 metri e del peso di circa 150 tonn. cadauna che venivano poste in opera con un carro ponte di lunghezza superiore ai 120 metri; successivamente sulle quattro travi che costituivano una campata veniva eseguito il getto della soletta in opera. Il mestiere dell’imprenditore ci porta ad essere in molti posti, a viaggiare anche in ogni angolo del mondo ma questo non vuol dire necessariamente che si abbia la possibilità di poter visitare in termini turistici le località dove invece siamo presenti per lavorare. Presi dal tempo sempre tiranno, nonostante le promesse che ci facciamo al momento della partenza di dedicare un po’ di tempo

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Autostrada Tarsus - Mersin

anche allo svago, una volta sul lavoro ci facciamo rapire dal nostro mestiere. È quasi sempre così, quasi perché per nostra fortuna arriva l’inconveniente e nel mio caso si presentò come disguido aereo. Dovevo atterrare a Istanbul proveniente da Roma, ma intense perturbazioni meteorologiche presenti sulla capitale turca costrinsero l’aereo a dirottare il volo ad Antalya, una località sul mediterraneo a circa seicento chilometri dal cantiere che dovevo raggiungere. Una volta atterrato chiamai telefonicamente il rag. Egidi che fungeva da dirigente dei lavori per conto dell’impresa e ci accordammo per incontrarci a metà strada. Partii con un taxi mentre lui mi veniva incontro con la sua auto. Il viaggio lungo la costa meridionale della Turchia fu meraviglioso e rappresentò per me una vera sorpresa. Bellissimo era il panorama della costa e del mare. Lungo il percorso arrivai in località con resti di antiche città ellenistiche con i loro teatri magnificamente conservati, i palazzi signorili, i resti di porti e di antichi cimiteri che mi portarono alla memoria vecchi ricordi scolastici. Ho visitato il teatro di Aspendos, le tombe scavate nella roccia a Mira fino ad arrivare a notte inoltrata al cantiere di Mersin. Il giorno successivo, visitato il cantiere e avuto i colloqui con i miei collaboratori e la direzione lavori, decisi di ritornare sempre in macchina attraversando la Cappadocia, regione che mi era stata descritta come una notevole area storica e archeologica, una delle più importanti e interessanti al mondo. Visitai Goreme, Urgup e Avanos, città antiche e magnifiche di cui conservo ancora in maniera nitida il ricordo. In seguito raggiunsi Smirne ed Efeso ove visitai la “casa della Madonna” per poi rientrare in Italia da Istanbul.

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Lavori negli Stati Uniti d’America

Impianto di Colata Continua a Kokomo, Illinois - 1984-85 Nei primi mesi del 1984, la Danieli di Buttrio, dopo le fattive collaborazioni svolte nella Germania dell’Est a Brandeburgo, a Bad Lausick e a Freiberg, mi propose un contratto nell’Illinois, negli Stati Uniti, per la ristrutturazione di un opificio esistente e la costruzione al suo interno di un impianto di Colata Continua da fornire alla Continental Steel Corporation di Kokomo, centro vicino a Indianapolis e a cento chilometri a sud da Chicago, lungo la US High Way 31. I lavori di demolizione delle vecchie fondazioni riservarono le prime sorprese con il rinvenimento di consistenti fondazioni non riportate sui disegni di progetto e la scoperta di strati di roccia a vari livelli che fecero rallentare i tempi di esecuzione. Fummo costretti ad operare negli strati di roccia a mezzo di cariche esplosive controllate per lasciare intatte le strutture circostanti. Seguirono poi la realizzazione delle nuove fondazioni per la struttura metallica dell’edificio ma soprattutto le fondazioni per il nuovo macchinario Danieli che doveva arrivare dall’Italia. A metà dicembre il clima cambiò repentinamente e la temperatura scese di molto sotto lo zero bloccando di fatto i lavori fino a febbraio, quando il gelo che aveva bloccato l’intera regione per oltre un mese con punte di meno 32 gradi, si attenuò consentendo una lenta ripresa dei lavori. I macchinari e le strutture provenienti dall’Italia arrivarono ma pochi tra gli americani erano pronti a scommettere che “l’italian’s job” avrebbe terminato i lavori nei tempi contrattuali. Da febbraio i lavoratori italiani aumentarono considerevolmente come pure le parti tecnologiche e così da fine marzo a metà maggio si concretizzò il miracolo, lavorando a turno per ventiquattro ore al giorno per sette giorni la settimana. Grande fu la nostra soddisfazione nel dimostrare la capacità del lavoro italiano agli americani che apprezzarono con una grande festa alla quale parteciparono tutti gli operai e i dirigenti italiani e statunitensi. Tra le molte opere realizzate dalla mia impresa in tutto il mondo, un posto particolare occupano quelle eseguite in collaborazione e su commissione della Danieli di Buttrio, un’industria affermatasi in tutti i continenti per la sua intraprendenza nell’innovazione. Avevo un rapporto particolare con l’ingegnere Luigi, il fondatore, e con la figlia, la dottoressa Cecilia, che subentrò al padre e tenne saldamente in mano le redini dell’azienda fino alla sua prematura scomparsa.

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L’ingegnere Luigi era una persona molto riservata e il suo interesse era totalmente rivolto al lavoro. Ricordo, a questo proposito, un viaggio che compimmo assieme sul suo aereo privato. Eravamo appena decollati e lui estrasse dalla cartella alcuni documenti che lesse attentamente per tutto il viaggio senza distrarsi neppure per poco. Questa stessa determinazione ha contrassegnato l’attività della dottoressa Cecilia, dapprima collaborando con il padre e, dopo la sua dipartita, condividendo la responsabilità con il dott. Benedetti. Furono anni di forte impegno, che consentì loro di dimostrare uno straordinario valore imprenditoriale, consolidando e sviluppando la realtà avviata dell’ingegner Luigi. La loro scomparsa mi ha segnato profondamente e ha lasciato in me un grande vuoto, perchè al di là dei rapporti professionali protrattisi per circa vent’anni, si era consolidata tra noi una schietta amicizia che coinvolgeva anche i reciproci rapporti personali e umani. Voglio ricordare anche l’ing. Roberto Triches che per quasi trent’anni è stato al mio fianco. Abbiamo lavorato assieme, abbiamo vissuto vicini una profonda, continua e attiva collaborazione, piena di entusiasmo. Un entusiasmo che scaturiva dalla consapevolezza che il nostro lavoro era prima di tutto una gioia di vivere. Da giovane ingegnere fresco di studi, l’ho seguito fino alla piena maturità del grande professionista. Straordinaria era la sua capacità di creare attorno a sé stima e fiducia con una semplicità e una forza che gli erano naturali. Intelligenza, intuizione e straordinaria competenza si fondevano in Lui con una forte carica di umanità.

Impianto Colata Continua a Kokomo

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Con Prodi a Mosca

Con Candolini (sindaco di Udine) e Comelli (pres. Reg. Friuli V.G.)

Con Melzi e Valduga (presidenti Industriali di Udine e Cavalieri del Lavoro)

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N

elle pagine che seguono sono rievocati momenti significativi della mia vita: dal virtuale balcone del nuovo Millennio guardo alle spalle e ripercorro quella parte del Novecento che oggi arricchisce il bagaglio della mia memoria. Persone care, emozioni, stati d’animo riaffiorano come pietre miliari del mio cammino. Questo libro non vuole essere un’autocelebrazione personale, bensì una testimonianza della mia gratitudine verso coloro che mi hanno accompagnato nel viaggio meraviglioso della vita e verso quanti ancora mi stanno accanto, perpetuando sentimenti d’affetto, di stima, e di amicizia. È a costoro che io devo un ringraziamento anche per avermi indotto a scrivere: accogliendo le loro sollecitazioni ho potuto constatare che davvero – come ho letto in un saggio – annotando i propri ricordi la mente avverte un risveglio e ripropone con toccante attualità situazioni che sembrano sepolte nel tempo. Così in questo percorso a ritroso ho reincontrato i miei cari, dai quali ho attinto i dati caratteriali dell’attaccamento alla famiglia, del rispetto delle persone, della dedizione al lavoro; ho poi rivissuto gli anni della mia attività, svolta con particolare fervore dal 1935 al 1998, un sessantennio durante il quale ho condiviso con i miei straordinari collaboratori italiani e stranieri fatiche e soddisfazioni in tanti angoli del mondo, con la parentesi della seconda guerra mondiale, alle cui terribili vicende ho partecipato. Questo libro, dunque, è come parte di me, come un ramo del frondoso albero della mia vita.

Mario Carlutti

Lavoro Italiano nel Mondo Progetto ed editing Stefano Carlutti Hanno collaborato Augusto Burtulo Franco Cremonini Antonio Franz Luigi Lozer Marco Merluzzi Pietro Merluzzi Gianni Nascè Gianni Rojatti

Con il patrocinio di


Copia n째

/300

Stampato in 300 copie nel mese di marzo 2011 carta Gardamatt 150 gr. per Edizioni Selekta


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