L’esperienza drogata: cronaca dall’assoluto poteri e limiti della droga nel facilitare l’accesso al divino
di
Matteo Pratelli
L’esperienza drogata di Matteo Pratelli Droga eterna compagna dell’uomo: cenni storici sulla diffusione delle droghe nell’antichità Nietzsche: i Greci e la nascita della scissione Persona-Cosmo La nascita del culto: diffusione del culto di Dioniso nell’Antica Grecia L’indole di Dioniso: elementi caratteristici della figura di Dioniso il simposio tra i Greci Vino e carpe diem in Orazio: il vino come occasione per “cogliere l’attimo” la saggezza sta nel trovare il “giusto mezzo” Culti misterici e riti sciamanici: Albert Hofmann: la teoria dell’affinità tra i culti misterici e i riti sciamanici del mesoamerica La droga e il sublime: Kant approfondisce la teoria del sublime la “dolce atrocità”
dell’esperienza drogata, paragonata
momenti in vetta di Reinhold Messner:
ai
la droga come stare in
cima a due passi dal dirupo Come il Cristianesimo ha soppresso l’essenza dionisiaca: la Chiesa come grande proibitrice della droga e degli istinti naturali: la caccia alle streghe, ultime seguaci di Dioniso Gordon Wasson e il segreto dietro il frutto proibito della Genesi: forse era un potente allucinogeno La letteratura drogata: il rapporto stupefacente-creatività: Coleridge: The Eolian Harp, Kubla Khan De Quincey: Confessioni di un inglese mangiatore d’oppio Baudelaire e i Paradisi artificiali Jack Kerouac e On the Road: la beat generation La droga nell’arte: arte psichedelica Conclusioni
Droga eterna compagna dell’uomo Ripercorrendo a ritroso la storia della droga ci si rende conto di come, nelle sue numerosissime forme, abbia accompagnato l’esperienza umana dai primordi della civiltà. L’origine dell’uso di sostanze stupefacenti tra gli uomini sembra non sia determinabile, quasi fosse nato con l’uomo stesso. Più probabilmente però risale alle prime osservazioni del mondo animale, che gli uomini imitarono. Come molti sanno, ad esempio, i gatti sono ghiotti di Nepeta cataria, più comunemente nota come erba gatta, le cui foglie possiedono blande proprietà allucinogene. Dopo averla ingerita possiamo verderli inseguire insetti inesistenti, frutto della loro immaginazione. Oppure è noto di come i piccioni siano avidi di Cannabis, che in inglese si chiama infatti pigeon candy, dolcetto dei piccioni. Nelle Ande le bestie da soma cercavano foglie di coca ricche di proteine, carboidrati, ferro, fosforo oltre che della sostanza stimolante, e gli indigeni le imitarono. Pare vi siano tracce primitive del ricorso alle droghe, persino nei dipinti rupestri della grotta di Lascaux, in Francia, risalenti a un periodo compreso tra il 15000 e il 9000 a.C., dove un’immagine raffigurerebbe un uomo steso a terra in prossimità di una fonte di anidride carbonica, che in piccole dosi produce ubriachezza e le circostanti figurine volanti potrebbero perciò rappresentare l’allucinazione di aleggiare, tipica del consumo di molti allucinogeni. Le prime testimonianze scritte appartengono ai Sumeri, i quali indicavano con l’ideogramma Hul Gil, letteralmente “pianta della gioia”, il papavero del sonno, meglio noto come papavero da oppio, a testimonianza di come gia conoscessero le proprietà inebrianti di tale sostanza. Anche gli Egizi conoscevano l’oppio, che adoperavano essenzialmente come calmante per i bambini. Si trovano tracce del papavero persino in Omero, che nell’Odissea lo canta come pharmakon nephentes, versato da Elena nel vino dei convitati, durante il banchetto alla corte di Menelao, e che con molta probabilità era una preparazione farmacologia a base di oppio. Nel dolce Vino, di cui bevean, farmaco infuse Contrario al pianto e all'ira, e che l'obblìo Seco inducea d'ogni travaglio e cura. (Odissea, IV, 219-228) In Cina invece era noto fin dal 3000 a.C l’utilizzo della canapa indiana, (da cui derivano hashish e marijuana) come citato nel Nei Ching, il più antico testo di medicina cinese. Come non citare, poi, i reperti antichi di 3000 anni, rinvenuti nei siti archeologici mazatechi e zapotechi (precursori di Maya e Aztechi) a sud del Messico: si tratta di statuette raffiguranti figure totemiche umane o animali sormontate da un'ampio cappello di fungo. Gli studiosi sono riusciti ad associarle ai rituali magico-religiosi praticati da tali civiltà, che si servivano di una triade di piante sacre, tra cui il fungo teonanàcatl, il cactus peyotl e i semi vegetali ololiuhqui. Erano una sorta di divinitàcibo che all’interno del contesto sciamanico venivano consumate permettendo il contatto con la sfera divina. Come è facile capire, quindi, le droghe appartengono alla cultura umana; quello che risulta più oscuro al contrario è il motivo di una così larga diffusione di tale sostanze, che accomuna popoli così diversi e distanti tra loro. Per rispondere a questa domanda bisogna risalire alla più arcana delle necessità umane, quella di colmare un vuoto di fondo, l’eterna scissione Uno-Tutto, Persona-Cosmo, Uomo-Dio. Secondo Friedrich Nietzsche la civiltà Greca costituisce la culla dell’antica frattura, alla base di quello che sarà poi destinato a diventare l’emblema dell’uomo moderno, e che il medico e scrittore tedesco Gottfried Benn ha descritto come il destino nevrotico europeo. Il filosofo sosteneva infatti che fin dalle origini la mente dei Greci fosse caratterizzata dalla percezione di tale scissione della realtà. Contro chi affermava l’essenza apollinea della civiltà ellenica, intesa come regno della serenità e dell’equilibrio, egli ribatteva che, al contrario, i Greci possedevano un’estrema sensibilità dionisiaca, volta a scorgere ovunque il dramma intrinseco dell’esistenza, il carattere fragile dell’uomo, sospeso come un filo tra la vita e la morte. Per tentare di vincere il caos che sentivano cercarono perciò di sublimarlo nella forma, nell’armonia apollinea, nel culto degli dèi, modelli immortali (eppure così simili a loro) a cui contrapponevano la caducità della natura umana. Nietzsche scrive ne La nascita della tragedia: «Il Greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell’esistenza: per poter comunque vivere, egli dovette porre davanti a tutto ciò la splendida nascita sognata dagli dèi olimpici».
Tuttavia l’accettazione di una vita razionale e perfetta, circoscritta a quei canoni di bellezza e armonia delle forme, comportava non poco dolore di fronte al reale dramma dell’esistenza, fatta di sofferenza, malvagità, dubbio. L’esperienza apollinea non bastava da sola a sanare quella carenza di fondo, quel bisogno di contatto con l’ignoto, l’assoluto. Essa doveva essere completata dall’esperienza dionisiaca, in cui il divario si annullava, l’uomo sperimentava la sublime ebbrezza della totalità. La nascita del culto Dioniso appare all’alba della civiltà greca come di-wo-nu-so-yo che forse significava «fanciullo di Zeus», ma altre fonti, come Apollonio Rodio, ne attestano la provenienza da lontano: «Dioniso lasciò le genti dell’India e calcò il suolo di Tebe», dove forse India va intesa in senso generico ad indicare una derivazione asiatica. Egli per eccellenza incarnava follia ed estasi creatrice, ma tra le sue numerose qualità vi era anche quella di dio della vegetazione rigogliosa, di fiori e frutti, come pure della fertilità. La sua ampia diffusione in Grecia avvenne verso la fine dell’Età Arcaica, agli inizi del VI sec. a.C., dopo il periodo di espansione coloniale che interessò soprattutto il Mediterraneo Occidentale (Magna Grecia, Sicilia, Francia). Sul piano sociale si accesero forti dissidi tra l’aristocrazia fondiaria e il popolo, che grazie al progressivo affermarsi di un’economia basata su commercio e artigianato, si arricchiva sempre più ed esigeva un peso politico maggiore. Ciò portò politicamente alla nascita di una nuova forma di potere: la tirannide. I primi tiranni governarono col consenso del popolo, cercando di mediare tra realtà così diverse e conflittuali quali si presentavano loro. Fu allora che il culto di Dioniso si propagò a dismisura, essendo quanto mai capace di interpretare le esigenze religiose di tutta la comunità, per il suo carattere svincolante dalle cerchie elitarie e quindi adatto a proporsi come religione universale. Atene fu il grande proscenio del culto dionisiaco con le sue celebrazioni annuali note come Grandi Dionisie, istituite sotto il tiranno Pisistrato (560-528 ca. a.C.), che assieme alle Piccole Dionisie (o Dionisie Rurali) costituivano le più palesi forme celebrative. Esse si svolgevano per la durata di sette giorni tra marzo e aprile, contemplavano il succedersi di sacrifici animali, processioni, rituali sfrenati, danze ed infine rappresentazioni (gli agoni) ditirambiche (canti in onore di Dioniso) e tragiche, queste ultime suddivise a loro volta in drammi satireshi ed agoni comici. Più tardi, forse all’inizio del II secolo a.C., il culto si diffuse anche a Roma, dove Dioniso venne meglio conosciuto col nome di Bacco, legato al vino, e celebrato nei Baccanali, riti orgiastici non dissimili dai loro progenitori greci. Divennero presto elemento di discordia per i loro eccessi e per l’opportunità di cospirazioni politiche che offrivano, così che nel 186 a.C. furono soppressi con la forza per decreto del senato, per essere poi rilegittimati da Cesare poco dopo. Reprimere Dioniso si rivelò come in passato impresa ardua, essendo una forza nata con l’uomo e radicata in lui come forma più elevata di vita, desiderio di istintualità e passione. L’indole di Dioniso Dioniso era il dio delle contraddizioni fin dalla nascita. Figlio di Zeus e Semele, per metà dio e per metà mortale, egli (secondo la tradizione egizia del V secolo d.C., riportataci da Nonno) suscitò la gelosia di Hera, dea del matrimonio e moglie di Zeus, la quale spinse i Titani a mascherarsi e offrire al piccolo Dioniso uno specchio. Mentre era intento a contemplarvisi essi lo smembrarono e lo divorarorono. Zeus punì i Titani fulminandoli e dalle loro ceneri venne plasmato l’uomo, che cela in sé una particella di Dioniso. In seguito Dioniso fu ricomposto e rinacque dalla coscia di Zeus. I neoplatonici divulgarono l’interpretazione del mito in chiave cosmogonica: Dioniso, indotto nell’errore di osservare la propria immagine, si sdoppiò così il cosmo fu degradato dalle discordanze. Lo smembramento rappresenta quindi la frantumazione, nel molteplice della divina unità, nient’altro che la natura umana. Ma la ricomposizione di Dioniso costituisce per l’uomo la possibilità di recuperare quell’unità in lui, di raggiungere il Tutto, il divino. Giorgio Colli, storico della filosofia, ha letto Dioniso come chiave di conoscenza dell’essere: «Lo specchio è il simbolo dell'illusione, perché quello che vediamo nello specchio non esiste nella realtà, è soltanto un riflesso. Ma lo specchio è anche simbolo della conoscenza perché guardandomi nello specchio io mi conosco. E lo è pure in un senso più raffinato, perché tutto il conoscere è portare il mondo dentro uno specchio, ridurlo ad un riflesso che io possiedo. E ora ecco la folgorazione dell'immagine orfica: Dioniso si guarda allo specchio e vede il mondo! Il tema dell'inganno e quello della conoscenza sono congiunti, ma soltanto così vengono risolti. Il dio è attratto dallo specchio, da questo giocattolo dove si mostrano immagini sconosciute e variopinte - la visione lo inchioda ignaro del pericolo - non sa di contemplare se stesso. Eppure quello che vede è il riflesso di un dio, il modo in cui un dio si esprime nell'apparenza. Specchiarsi, manifestarsi, esprimersi: nient'altro è il conoscere. Ma questa conoscenza del dio è proprio il mondo che ci circonda, siamo noi. La nostra corposità, il pulsare del nostro sangue, ecco, è questo il riflesso del dio. Non c'è un mondo che si rifletta in uno specchio e diventi la conoscenza del mondo: quel mondo, inclusi noi che lo conosciamo, è lui già un'immagine, un riflesso, una
conoscenza. […] Solo Dioniso esiste: noi e il nostro mondo siamo un'apparenza mendace».
In sostanza l’uomo è soltanto un riflesso di Dio e l’unica strada verso il ricongiungimento dei due termini, la comprensione della vita, la verità, l’assoluto, è Dioniso stesso. Egli è la molteplicità dell’esistenza, ma allo stesso tempo annulla in sé tutti i contrari. Dioniso era conosciuto sotto molte forme: egli è il dio che muore, sia vita che morte (Eraclito lo identifica con Hades, dio dell’oltretomba), ha sembianze umane e animali (si manifesta come toro, asino, pantera, leone, serpente, capro, cervo), è la forza generatrice e la potenza distruttrice, né uomo né donna, è cacciatore e preda, belva feroce e tenero agnellino, adulto e bambino, liberazione e tormento. Plutarco lo rappresenta con una splendida metafora: «lo identifica con la cascata infranta di roccia in roccia, che rapprende in uno l’ebbrezza del volo e lo strazio della caduta» (E. Zolla, Il dio dell’ebbrezza). Era un dio democratico, anche: l’unico ad ammettere al suo culto donne e schiavi. Dioniso svincolava l’uomo greco da ogni legame col vivere civile della pòlis, lo sottraeva momentaneamente all’ordine per riportarlo ad uno stato quasi ferino, alla follia, il furor bacchico delle Mènadi, sue sacerdotesse, che durante i riti orgiastici correvano e urlavano per i pendii montuosi in preda a una danza ritmica ossessiva, ebbre di vino e forse di edera masticata. Il rito si chiudeva con la caccia di un animale selvatico e la consumazione delle sue carni crude, che coincidevano con le carni del dio stesso. Pare che in quello stato di trance fossero anche capaci di delitti efferati, la cui violenza era tuttavia priva del suo valore negativo, in quanto in quel regime di delirio scompariva la percezione del bene e del male. Chi veniva posseduto da Dioniso, ci dice Euripide, diventava profeta, era capace di predire il futuro, giungendo in una dimensione oltre lo spazio e il tempo, in cui non vi era più distinzione fra presente, passato e futuro. Ed è profeta questo Dio: ché molto profetico estro è nel furore bacchico. E quando in abbondanza alcun l'ingurgiti, fa' sí che gli ebbri dicano il futuro. (Le Baccanti, 298-301) Tuttavia non dobbiamo intendere la follia dionisiaca come un totale annullamento della coscienza, bensì come uno stato alterato di coscienza che si contrappone alla normalità del quotidiano. Le Mènadi erano donne comuni che in preda all’estasi si lasciavano trasportare lontano dalla forma, si facevano tutt’uno con il cosmo, in funzione di una rigenerazione vitale, di un rinnovamento interiore, al termine del quale l’iniziato al dionisismo aveva visto ciò che gli altri non potevano. Per fare ciò l’iniziato aveva bisogno di annullare la propria individualità, farsi altro da sé, e così pervenire all’ekstasis (letteralmente “uscita da sé”). Era questo il lato più oscuro e misterico del culto di Dioniso, aperto a chiunque eppure rivolto a quei pochi veramente in grado di comprenderne la reale profondità. Ogni civiltà si è servita di strumenti per uscire da sé, rispondendo a un richiamo profondo, una chiamata spirituale, che è intrinseca della nostra specie. Nietzsche scriverà: «O per l’influsso delle bevande narcotiche, cantate da tutti gli uomini e dai popoli primitivi, o per il poderoso avvicinarsi della primavera, che penetra gioiosamente tutta la natura, si destano quegli impulsi dionisiaci, nella cui esaltazione l’elemento soggettivo svanisce in un completo oblio di sé» (La nascita della tragedia). I Greci adorarono il vino, di cui Dioniso era epifania, dio e protettore. Secondo il mito egli l’aveva donato agli uomini per alleviarli delle loro costanti sofferenze. La storia del dio stesso è «la storia della vite, di cui si spiccano i grappoli e poi gli acini dai chicchi, per infine cuocere il mosto e ispessirlo nei forni» (Zolla). Come l’uva egli muore e poi rinasce, il ciclo della vita è incarnato in lui. Non a caso, tra le sue epifanie vi sono l’asino e il capro, entrambi divoratori della vite, ancora una volta quindi, nel segno dell’ambiguità dionisiaca, dove la vita coincide con la morte. Il vino si impose ben presto all’interno del symposion e divenne per il greco vero e proprio mezzo di liberazione. Nello stare in compagnia egli poteva esprimere liberamente i propri sentimenti personali, le proprie passioni
politiche, levare il proprio inno alle gioie della vita, dimenticando gli affanni della realtà quotidiana. Il simposio trovò i suoi cantori anche in letteratura, specialmente nella figura di Alceo; egli invita a bere senza esitazioni, perché il vino è gioia ed ottima cura ai malanni della vita. Beviamo, perchè aspettare le lucerne? Breve il tempo. O amato fanciullo, prendi le grandi tazze variopinte, perchè il figlio di Zeus e Sémele diede agli uomini il vino per dimenticare i dolori. Versa due parti di acqua e una di vino; e colma le tazze fino all'orlo: e l'una segua subito l'altra. (Trad. Salvatore Quasimodo)
Quasi sei secoli più tardi, il poeta latino Orazio riprese la poesia simposiaca nelle sue Odi, che ora andremo a vedere. Vino e carpe diem in Orazio Nel mondo latino il simposio assume caratteri meno ritualizzati rispetto a quello Greco, né si manifesta in modo evidente la valenza spirituale e socio-politica. Esso diventa il convito, è più uno stare assieme, ma sempre all’insegna del vino, la poesia, l’eros, la conversazione. Ispirandosi alla lirica di Alceo, Orazio canterà il vino, e in particolare la sua funzione liberatoria dalle preoccupazioni quotidiane. «Il convito, attraverso la pausa dei negotia, ha il compito di interrompere e cancellare le curae, sia come tensione dell'animo negli affari sia come angoscia; Orazio gli assegna la funzione di superare l'angoscia lucreziana dell'esistenza, acuita da una sensibilità particolare per il tempo come corsa ineluttabile e logoramento o distruzione: perciò il vino come causa di oblio, come droga, che assume nel convito la funzione centrale» (A. La Penna). Laggiú si staglia il Soratte, vedi?, con candido manto di neve. Stremati, faticano i rami a reggere il peso. Per il gelo tagliente, fiumi e ruscelli si sono rappresi. Dissolvi il freddo nutrendo la fiamma con larga provvista di ceppi e senza risparmio attingi, Taliarco, vino di quattr'anni, puro, dall'orcio sabino a duplice ansa. Il resto, rimettilo in mano agli dèi: bastò che abbattessero i venti in lotta sul gran ribollire marino, perché d'incanto i cipressi non piú s'agitassero, e gli orni vetusti. Che cosa t'attenda in futuro, rinuncia a indagare: qualunque altro giorno t'aggiunga il destino, tu devi segnarlo all'attivo. […] (Odi, I, 9, trad. M. Beck)
In una fredda giornata invernale, Orazio invita l’ospite a servire il vino migliore, così che i convitati potranno scrollarsi di dosso gli affanni della vita, come i rami la neve che li opprime. Al caldo e rassicurante ambiente conviviale si oppone però la potenza degli déi e la loro estraneità al destino degli uomini. Emerge quindi il pessimismo oraziano, ma allo stesso tempo egli invita al motivo del carpe diem, il non preoccuparsi del domani, il vivere la vita attimo per attimo. La funzione giuliva del vino traspare meglio dall’ode 37 del libro I, in cui il poeta invita a festeggiare con vino eccelso ora che Cleopatra, acerrima nemica di Roma, è stata sconfitta ad opera di Ottaviano. Prima, quando incombeva sulla patria il rischio della rovina, sarebbe stato un oltraggio bere festosamente, ma ora sarebbe un insulto non farlo: Brindiamo, ora! In libero tripudio, ora, i piedi percuotano il terreno! Ecco, è il momento, amici, di guarnire, con vivande degne del collegio di Marte, i cuscini con le effigi degli dèi. Prima, estrarre da cantine avite il Cècubo sarebbe stato un sacrilegio, finché quella regina tramava folli piani: diroccare il Campidoglio, seppellire il nostro impero. Cinta da un osceno gregge d'uomini infettati,
depravati, concepiva assurde, irrefrenabili speranze, dal favore della buona sorte inebriata. Ma scemò l'esaltazione quando la sua nave, essa sola, dalle fiamme a stento si salvò; […] (Odi, I, 37, trad. M. Beck)
Tutto il pensiero oraziano si riassume nell’ode dedicata a Leucònoe, quella più famosa, dove compare il carpe diem: Tu non chiedere mai, che non si può, qual destino gli dèi abbian pronto per me, per te, Leucònoe, né ti curar di oroscopi babilonesi. Meglio, quel che verrà, prender così com'è. Se molti inverni dio ci darà, o sarà questo l'ultimo che spumeggiante scaglia il Tirreno contro le rupi a infrangersi: metti giudizio, mescimi vino, le tue speranze regola giorno per giorno. Mentre parliamo, l'ora è già scorsa rapida. Cogli il tuo tempo; meno che puoi fìdati del domani. (Odi, I, 11, trad. E. Barelli)
Al presentarsi dell’ombra onnipresente della morte, Orazio risponde con il “non pensare al domani”, “vivi il presente”; è inutile porsi tante domande sul nostro destino, bisogna saper accettarlo comunque vada. Ciò che conta sono i piccoli momenti, le gioie della vita, il buon vino, istanti preziosi che vanno assaporati con gusto e con la giusta saggezza. Altro tema importante che Orazio introduce, è infatti quello del saper trovare il “giusto mezzo”: egli esorta la fanciulla a filtrare il vino, compito che richiede mano ferma e pazienza, doti che non si addicono molto a una giovane impaziente di ebbrezza, ma che sono i presupposti perché quello diventi un buon vino. L’invito è qui diretto a tutti gli uomini, il mescere il vino corrisponde ad esercitare un autocontrollo su sé stessi, perché solo dominando le passioni essi possono trarre il vero beneficio che sta dietro il bere. Anche i Greci sapevano quale fosse la giusta misura, e all’interno del simposio la carica eversiva del vino era convogliata all’interno di un contesto sacrale, all’insegna di una sregolatezza controllata dei sensi, che non doveva sfociare nell’eccesso. Il simposio era presieduto da un rex bibendi che dirigeva il rituale e stabiliva la giusta quantità di acqua da mescere al vino, come Dioniso stesso aveva insegnato agli uomini. Gia Esiodo, vissuto nell’VIII secolo a.C., ben prima che il vino si affermasse nel conteso simposiaco, consigliava di mescolare tre parti di acqua ad una di vino, così che il piacere della bevanda non venisse guastato dall’ubriachezza. Una leggenda greca moderna racchiude in sé la magia che si sprigiona dal “bere Dioniso” e ne rammenta i presupposti essenziali perché si tragga il meglio da tale esperienza. Un giorno, Dioniso decise di andare a far visita ad un amico pastore. Camminò per tanto tempo. Ad un tratto sentì la necessità di riposarsi un poco. Sdraiatosi vicino ad un fiume, vide un tenero virgulto. Pensò di sradicarlo e di portarlo come dono. Divelse la pianticella e per salvaguardare le tenere radici dai raggi del sole, le infilò in un ossicino di uccello; crescevano a dismisura, durante il viaggio, e pensò di ripararle ponendole in un osso di leone; ma crescevano sempre di più ed allora credette opportuno trovare un riparo maggiore: fece fare da scudo alle radici una mascella di asino. Arrivato dall'amico, Dioniso trapiantò la pianticella. Questa cresceva e, alla fine dell'estate, produsse neri grappoli che Dioniso spremette in un tino trasformandoli in una bevanda spumeggiante: era nato il vino. Gli uomini lo bevvero e si sentivano ilari come uccelli a primavera; ne bevvero ancora e divennero pieni di forza e ruggenti come leoni. Bevvero e bevvero fino a quando il loro cervello divenne ottuso e pigro come quello di un asino.
Il significato appare chiaro, eppure la sua profonda comprensione è essenziale perché Dioniso diventi per noi strumento di conoscenza e non potenza annichilente. Esso sta alla base di ogni tradizione che implicò l’uso di sostanze droganti per raggiungere il contatto con il divino. Solo quando si è in perfetta sintonia con sé stessi e l’universo attorno a sé, consapevoli delle infinite possibilità e degli immensi rischi che tale esperienza presuppone, ma solo allora, essa varrà per noi come occasione di catarsi e la sostanza da veleno diverrà farmaco. Julius Evola, pittore e filosofo romano (Roma, 1898-1974), ha descritto tutto ciò con il detto orientale cavalcare la tigre, nella sua opera dall’omonimo titolo. Cavalcare la tigre, ovvero non farsi annientare da ciò che non è possibile controllare direttamente, così da evitarne le conseguenze peggiori e ipotizzare magari una possibilita di trarne beneficio, liberazione.
Culti misterici e riti sciamanici Ormai più di cinquant’anni fa, Albert Hofmann, lo scopritore dell’LSD, notò una profonda affinità tra i culti misterici di Eleusi (in onore di Demetra, dea del grano e delle messi, e Persefone sua figlia, dea degli Inferi) e le pratiche sciamaniche (allora praticate) dei gia citati siti mazatechi e zapotechi, nelle montagne a sud del Messico. Le somiglianze che egli volle porre in risalto erano di carattere per lo più scientifico, ma le sue indagini condussero ad esiti di natura intima, sul carattere sacro proprio di questi riti, che risultarono avere uno scopo comune. Hofmann studiò a fondo l’entità, mantenuta segreta nei secoli, dei misteri eleusini (profondamente legati al culto di Dioniso) che riportò nel suo scritto I misteri di Eleusi. Molti personaggi di rilievo, tra cui Cicerone, furono iniziati a tale culto; egli ci dice: «Abbiamo conosciuto i princìpi della vita, e abbiamo ricevuto la dottrina del vivere non solo con letizia, ma anche con una speranza migliore nella morte». I riti misterici erano nati, infatti, per proporre un’alternativa gradevole alla vita in terra, la fiducia in un futuro migliore nell’oltretomba. Era probabile che il loro scopo fosse infondere negli iniziati, i mystai, una conoscenza allargata sul mistero della vita. «Nella visione delle affinità tra la vita e la morte, gli iniziati esperivano la totalità dell’essere e l’eterno fondamento della creazione. Doveva essere stato un incontro con l’indicibile, con il sublime, rappresentabile solo metaforicamente.» Pindaro, qualche secolo più vecchio di Cicerone, riporta la sua testimonianza dopo l’iniziazione: «Felice chi entra sotto la terra dopo aver visto quelle cose. Conosce la fine della vita, conosce anche il principio dato da Zeus». Insomma, proprio come nei riti dionisiaci, meta fondamentale era raggiungere quel legame con il Tutto, rompere la scissione tra «creatore e creatura». Come ci riuscissero è stato forse almeno in parte svelato. È noto che ai presenti al rito venisse somministrata una bevanda sacra, il kykeon, la quale avrebbe forse scatenato la visione illuminante. Si sa anche che tale bevanda venisse preparata con orzo e menta. «Di recente, gli studiosi hanno formulato l’ipotesi secondo cui il kykeon doveva contenere una sostanza attiva allucinogena. Questo spiegherebbe perché ai sacerdoti fosse possibile condurre centinaia di iniziati, contemporaneamente e in maniera programmata, per così dire, verso una condizione estatico-visionaria.» A questo punto Hofmann, che grazie alla scoperta dell’LSD, il potente allucinogeno, e alla ricerca sulle piante sacre del Messico aveva acquisito una notevole conoscenza in materia di droghe psicoattive, andò a fondo sulla questione. Egli aveva isolato i componenti chimici della bevanda sacra utilizzata dagli sciamani Messicani, l’ololiuhqui, dai forti poteri allucinogeni. Essi erano parenti stretti «della dietilamide dell’acido lisergico, designazione chimica dell’LSD ricavato dalla segale cornuta. […] Da questi esami venne derivata l’ipotesi che gli stessi princìpi attivi che vengono tutt’oggi impiegati nella bevanda sacra ololiuhqui fossero utilizzati nella preparazione del kykeon. I sacerdoti di Eleusi dovevano soltanto raccogliere la segale cornuta dell’erba paspali, che di sicuro esisteva in abbondanza nelle vicinanze del santuario, farne una polvere e aggiungerla al kykeon per conferirgli il potere di modificare la coscienza. Un ulteriore collegamento della segale cornuta con Eleusi potrebbe essere visto anche nel fatto che uno dei riti eleusini consisteva nel mostrare una spiga di grano per mano dei sacerdoti.» Hofmann concluse quindi che alla base di una visione mistica, un contatto con l’assoluto, anche in epoche e culture diverse, ci fossero sostanze sfruttate per la loro grande capacità di alterare la coscienza. La droga e il sublime Edmund Burke (1729-1797), politico e scrittore inglese, fu il primo a dare una definizione accurata di ciò che per l’uomo è sublime. Egli scrisse: «Whatever is fitted in any sort to excite the ideas of pain and danger […] or is conversant about terrible objects or operates in a manner analogous to terror, is a source of the sublime; that is, it is productive of the strongest emotion which the mind is capable of feeling». «Qualunque cosa sia adatta in ogni modo a suscitare i sentimenti di panico e pericolo […] o sia connessa con terribili oggetti oppure operi in una maniera analoga al terrore, è una fonte del sublime; perciò, esso è all’origine delle più forti emozioni che la mente sia in grado di percepire». (traduzione libera)
Come abbiamo detto Dioniso accostava l’iniziato al sentimento del divino, all’ignoto. Da sempre ciò che per l’uomo è oscuro, incontrollabile, al di fuori della sua portata, ha suscitato sgomento e attrazione. Elio Aristide, oratore greco del I secolo d.C., disse a proposito della propria esperienza eleusina che era «nel contempo il più atroce e più luminoso di tutto ciò che è per l’uomo sublime». Trovarsi al cospetto dell’assoluto, per mezzo della droga, significa sperimentare ciò che vi sia di più terribile e affascinante. Questo è il sublime, e la sua eterna personificazione è Dioniso. Lasciarsi travolgere completamente dalle
emozioni che la droga può darci può essere tanto estasiante quanto mostruoso. Rischiamo di perderci, e l’esperienza estraniante può diventare annichilente. I Greci sapevano che rimanere con Dioniso era terrificante se non interveniva il dio Apollo, il primo la vertigine, il senso di vuoto, il secondo la ricomposizione dello spirito, il significato ultimo. Solo chi accetta tali rischi può forse uscirne illeso e più ricco di prima. Kant approfondì il concetto di sublime e ne diede una sua spiegazione nella Critica del giudizio: «Il sentimento della nostra inadeguatezza a portarci al livello di un'idea che per noi è legge, è il rispetto. Ora, l'idea della comprensione di ogni fenomeno che può esserci dato, nell'intuizione di un tutto, è un'idea che ci è imposta da una legge della ragione che non riconosce altra misura definita, universalmente valida ed immutabile, all'infuori della assoluta totalità. La nostra immaginazione d'altra parte, anche nel suo massimo sforzo di giungere alla comprensione d'un oggetto dato in una totalità intuitiva [...], mostra i propri limiti e la propria insufficienza, ma anche al tempo stesso la propria destinazione ad adeguarsi a quell'idea come legge. Il sentimento del sublime della natura è dunque sentimento di rispetto per la nostra propria destinazione, che con una specie di sostituzione [...] rivolgiamo ad un oggetto naturale, che ci rende per così dire intuibile la superiorità della destinazione razionale delle nostre facoltà conoscitive sul massimo potere della sensibilità.»
Il sublime quindi, secondo rispetto che ci deriva da una infinita, «che va al di là d’ogni soltanto l’immaginazione la che infonde immaginare una concetto di Dio. [...] L’uomo dice Kant, e lo proietta, la sublimità, il che dovrebbe la riverenza verso Dio come sente inoltre che la propria di fronte alla grandezza questa è assoluta » (Zolla). di lasciarci senza difese, sensazioni di gloria e razionalmente cerchiamo di rielaborare il tutto, ciò ci è impossibile.
Kant, nasce dal rispetto; grandezza inquantificabile, confronto e sconvolge perché concepisce. [...] Lo sgomento tale grandezza introduce al prova rispetto per se stesso, fingendo che sia rispetto per illustrare in che cosa consista grandezza massima. L’uomo immaginazione è insufficiente sublime e ne deduce che La natura del sublime è quella l’animo diventa preda delle desolazione e per quanto
Possiamo descrivere l’esperienza del sublime con le parole di Reinhold Messner, il primo ad aver scalato tutte le quattordici vette esistenti sopra gli ottomila metri. Nel suo libro Il limite della vita scrive a proposito della discesa dal Nanga Parbat (8125 m), monte dell'Himalaya occidentale, nella sua prima solitaria su un ottomila: «Con la discesa non di rado comincia ad aprirsi un vuoto dentro di me – una perduta utopia – che non può essere colmato nemmeno dalla consapevolezza del successo. Sulla vetta stessa spesso ho esperito un altro vuoto, un vuoto liberatorio che prendeva tutto il mio essere. Nel mio libro Due e un ottomila ho descritto così questo stato: “Eravamo seduti sulla vetta, al centro di un infinito spazio vuoto. Giù in fondo le valli erano velate da un vapore lattiginoso. L’orizzonte intorno cresceva come il senso di vuoto dentro di me e i miei respiri profondi si condensavano in immagini spontanee entro una pura sfera di visioni. Preso da un’indescrivibile sensazione di serena indifferenza mi risvegliai da quello stato di armonia, da quella specie di nirvana”».
L’ascesa alla vetta rappresenta per Messner, un’ascesa spirituale, verso una pace interiore che troverà solo in cima. Lì, oltre gli ottomila metri, dove il confine tra terra e cielo, tra vita e morte, si fa sottile, egli percepisce l’assoluto, diventa un tutt’uno con la montagna, annulla la propria individualità. Messner, proprio come nei misteri eleusini, ci dice di aver tratto la «conoscenza della vita conseguita per mezzo della fine, per mezzo della propria morte». Egli è sulla vetta, nel momento di estasi totale, ma appena davanti a se ha l’abisso, il vuoto più profondo. È proprio in quello stare in bilico che lo scalatore sente l’intensità massima della sua esperienza. Essa è con una parola: sublime. Come il Cristianesimo ha soppresso l’essenza dionisiaca Ci si stupisce accorgendosi di quanto la figura di Cristo sia prossima a quella di Dioniso. Gia il nome di Gesù racchiude in se l’essenza dionisiaca: dall'ebraico Yehoshuah, che significa "Jehovah è liberazione". Come Dioniso egli è la strada per la liberazione, l’illuminazione. «Gesù proclamò di essere lui la vera vite, cui aveva accudito suo Padre (Giovanni XV, I-2) e gli apostoli dovevano attaccarsi a lui come grappoli al tralcio, il Padre li avrebbe potati» (Zolla). Anche il vino rimase comune alla tradizione cristiana, che veniva bevuto come sangue di Cristo, proprio come i Greci vi ritrovavano Dioniso, il cui sangue sgorgava nella pigiatura. Il rito dell’eucarestia cristiana è tra l’altro molto affine all’omofagia praticata dalle mènadi; in entrambe le cerimonie il corpo del dio veniva consumato, nell’una sottoforma di pane, nell’altra di capro o
altro animale sacro. Inoltre pare che si possa ritrovare traccia dell’antico furor bacchico, ai primordi cristiani, quando i naasseni samaritani mescolavano mandragola allucinogena al pane eucaristico, per suscitare l’estasi. Come Dioniso, Cristo muore e risorge, la sua natura è umana e divina al contempo. Si potrebbe andare avanti a lungo, ma tutto ciò non deve sorprenderci più di tanto se si considera che l’intero culto cristiano nasce come compromesso con la radicata religione pagana. Lo stesso Giustino, vissuto nel II secolo e tra i massimi difensori del Cristianesimo, dovette ammettere che l’unico elemento puramente cristiano era la crocifissione. Col tempo la Chiesa giunse a sopprimere qualsiasi persistenza legata al culto di Dionisiaco, che venne demonizzato e condannato. Con la venerazione di un Dio Celeste così lontano e perfetto, agli uomini venne negato di raggiungere qualsiasi beatitudine in terra, il ricongiungimento con la natura. «La cristianità vietò di sprofondarsi nei deliri, di rendersi irresponsabili, imponendo sempre più la rigorosa virtù» (Zolla). Solo pochi eletti, i santi, giungevano a toccare l’assoluto, mentre ai più era promesso quel privilegio solo nell’aldilà. Tuttavia anche per la Chiesa fu difficile reprimere quello che era l’impulso più antico del mondo, e dovette tollerare un breve periodo in cui Dioniso riemergeva: il carnevale. La Chiesa non ci mise molto a monopolizzare l’accesso al divino, proibendo l'uso sacro di qualsiasi pianta psicoattiva, così come ogni altra manifestazione di approccio magico al sacro. Le uniche che perpetuarono quelle antiche arti sciamaniche furono le streghe, per questo sanguinosamente perseguitate. Esse non erano altro che le portatrici di quella remota conoscenza, che gli iniziati ai misteri possedevano. I loro riti, “guidati dal demonio”, si appoggiavano alla manipolazione di piante magiche i cui effetti erano noti da secoli, come oppio, mandragola, cicuta acquatica, belladonna (conosciuta anche come erba delle streghe), giusquiamo ed altre, capaci di indurre l’illusione del volo (che divenne il caratteristico volo sulla scopa), o di suscitare comportamenti animaleschi, favoleggiati come reali trasformazioni in bestie. Il parallelismo demonio-droga trova sostegno persino nella Genesi. Adamo ed Eva furono indotti dal serpente a mangiare il frutto dell’Albero della Conoscenza del Bene e del Male, che invece Dio aveva loro severamente proibito: Poi il Signore Iddio diede all’uomo questo ordine: «Tu puoi mangiare di ogni albero del giardino, ma dell’Albero della Conoscenza del Bene e del Male non ne mangerai, perché il giorno in cui ne mangiassi, di certo moriresti» […] E ambedue erano nudi, l’uomo e la sua donna, ma non ne avevano vergogna. (Genesi, Cap. 2.9.)
Ma dietro l’ordine divino si celava ben altro e il serpente li illuminò: Ora il serpente era astuto più di tutti gli animali selvatici che il Signore Iddio aveva fatto. Disse dunque alla donna: «Davvero Dio vi ha detto: Non mangiate di alcun albero del giardino?» Rispose la donna al serpente: «Noi possiamo mangiare del frutto degli alberi del giardino, ma quanto al frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino, Dio ci ha detto: “Non mangiatene, anzi neppure toccatelo, altrimenti morrete”». Allora il serpente disse alla donna: «No, voi non morrete, anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangerete, vi si apriranno gli occhi e sarete come Dio: conoscitori del bene e del male». (Genesi, Cap. 3.1-13.)
Dunque era questo il segreto che quella grave disobbedienza li punì mortale, nel timore che potessero della Vita ed ottenere così la vita quell’albero Adamo ed Eva accorsero di essere nudi. Essi bene e del male, affacciandosi alla questo furono castigati e allontanati coscienza scissa della realtà che è interessante notare come la Chiesa probabilmente fuorviando a proprio originaria degli scritti sacri, per ambizione umana all’assoluto, che Il Serpente divenne il Diavolo (dal malvagio ingannatore, persuasore al
Dio aveva tenuto nascosto loro e per entrambi costringendoli ad una vita mangiare anche il frutto dell’Albero eterna. Per aver mangiato di acquisirono coscienza di sé, e si avevano acquisito la percezione del conoscenza della vita; ma per dal dio, così che ebbe origine la tipicamente umana. Ora, è si sia servita della Bibbia, piacimento dall’interpretazione condannare e demolire qualsiasi fosse in questa e non nell’altra vita. greco diabolós, "calunniatore"), peccato. Ma il serpente era anche
animale sacro a Dioniso e sua epifania. Non è più facile quindi che il Cristianesimo abbia tentato riuscendoci, di far coincidere le due figure? Non a caso nel Medioevo Satana venne spesso raffigurato con le sembianze di un capro, proprio come Dioniso. Gordon Wasson, etnomicologo e collaboratore di Hofmann, avanzò un ipotesi avvalorata da diverse prove, tra cui la più eclatante, un affresco nell’abbazia di Plaincourault in Francia. Egli sostenne che l’albero di cui mangiarono Adamo ed Eva, altro non era che l’Amanita muscaria, un fungo velenosissimo anche conosciuto come “ovulo malefico”. Se assunto con i dovuti accorgimenti esso rappresentò uno dei più antichi e potenti allucinogeni naturali mai utilizzati dall’uomo. C’è di più: Wasson suppose che l’Albero della Conoscenza del Bene e del Male le l’Albero della Vita, che nella Bibbia appaiono come due entità distinte, potessero invece essere identificati. «In vari luoghi dell’Eurasia dove si è scoperto che l’uomo primitivo venerava un Albero della Vita, lo vediamo puntare il suo interesse su alberi che mantengono un rapporto micorrizico con l’Amanita muscaria, il fungo enteogenico [dal greco entheos, che significa “divinamente ispirato, pieno di divino furore”, Nda]» (G. Wasson). Quindi possiamo concludere che il frutto proibito era difatti una forma superiore di allucinogeno, capace di spalancare all’uomo le strade per l’immortalità, il ricongiungimento con Dio. La letteratura drogata: il rapporto stupefacente-creatività La storia della droga in Occidente ha origini poco lontane. A partire dalla rivoluzione copernicana, ma soprattutto dalla prima metà del '600, l’uso clandestino di stupefacenti, limitato a streghe e alchimisti venne progressivamente soppiantato da uno di tipo medico-scientifico. Con il rinnovato interesse dell’uomo all’indagine naturale dopo il periodo oscurantista della Chiesa, la classe medica (e con essa l’interesse verso la droga), assunse un ruolo preminente all’interno della società, conquistando spazi maggiori e quindi maggiori attenzioni da parte della sfera politica ed economica, che prima erano di sola competenza della Chiesa. In particolare, fu a partire dalla Campagna di Napoleone in Egitto nel 1798, che cominciò la «vicenda moderna della droga» (Zolla), con la diffusione della cannabis, vera protagonista tra i narcotici dell'800. Non bisogna trascurare, comunque, il ruolo dell’Inghilterra in questa faccenda, che gia nel '700 possedeva il primato europeo del consumo di oppio, e di conseguenza il ricco mercato che vi era cresciuto attorno premeva per ottenere la giustificazione e la promozione del suo uso da parte dei medici. Per proteggere i propri interessi, gli Inglesi non esitarono a scatenare i propri eserciti contro la Cina, responsabile di volersi salvaguardare da un consumo ormai indiscriminato di oppio tra la propria gente, che stava diventando un vero problema sociale. Ovviamente l’Inghilterra, che deteneva l’esclusiva sulla vendita di papavero in Cina, non fu d’accordo e, per ben due volte nel 1839 e nel 1856, ebbe la meglio in quelle che vennero chiamate le Guerre dell’oppio. Non serve dire come ben presto la libera diffusione dei narcotici ebbe ripercussioni profonde in ambito culturale, influenzando le menti romantiche che non esitarono a fare uso di tali sostanze in qualità di stimolanti della propria creatività, letteraria o artistica che fosse. Sicuramente i pionieri della letteratura drogata furono Samuel Taylor Coleridge, Thomas De Quincey e Edgar Allan Poe. Io tratterò i primi due. Coleridge Nato nel 1772, egli fu probabilmente il primo caso di drogato moderno. Fin dall’adolescenza si affezionò al laudano, una tintura di oppio in alcol, liberamente venduto nelle farmacie inglesi, per poi passare all’oppio vero e proprio e divenirne dipendente all’età di 31 anni. Nella poesia The Eolian Harp, che compose il 20 agosto 1975, gia si intravedono i primi giochi di sinestesie probabilmente indotti dalla sostanza. Egli parla di un’arpa eolia che lui e la moglie avevano installato nella loro casa di campagna. Quando di sera «guardavano dileguare le nubi nell’oscurità mentre fiutavano l’odore dei fagioli fioriti sul mormorio del
mare lontano […] l’arpa prendeva a gemere come una fanciulla che ceda e non ceda all’innamorato, con un gioco di note costanti e variabili, il sussurío d’un popolo d’elfi» (Zolla). E continua nei versi: Which meets all motion and becomes its soul, A light in sound, a sound-like powe in light Rhythm in all thought, and joyance everywhere. Che s’accorda a ogni moto e ne diviene la sua anima, Luce nel suono, energia sonora nella luce, Ritmo in ogni pensiero, e gioia d’ogni attorno.
Sensazioni uditive e visive sono accostate assieme risultando quasi intraducibili per chi realmente non stia vivendo l’esperienza oppiacea. Poi prosegue: And what if all of animated nature Be but organic Harps diversely framed That tremble into thought, as o’er them sweeps Plastic and vast, one intellectual breeze At once the Soul of each, and God of all? E che dir poi se tutte le cose della natura animate Non fossero che arpe vere e proprie, di diversa foggia, Il cui brivido si traducesse in pensiero, mentre sovr’esse passasse, Plastico e immenso, lo stesso soffio intelligibile, Anima di ciascuno e nel contempo Dio di tutti?
La natura intera potrebbe quindi essere formata di tante arpe, ognuna delle quali vibrando suscita in noi una diversa reazione, e si tramuta in pensiero non appena, come il vento sull’arpa, un flusso intellettuale plastico e indefinito ci attraversa. È la natura stessa che gli parla, è Dio. L’oppio gli sta fornendo una nuova sensibilità, lo sta ricongiungendo con il Tutto, «così dalla sinestesia di suono e movimento visibile si balza all’intuizione intellettuale dell’intervento divino che plasma la natura». (Zolla) Qualche anno dopo, forse nell’autunno del 1797, Coleridge compose Kubla Khan, quella che lui definì «una sorta di fantasia provocata da due grani d'oppio ingeriti per curare una dissenteria, in una fattoria fra Porlock e Linton, a un quarto di miglio da Culborne Church». Quello che ne uscì fuori ha le caratteristiche di una visione onirica: paesaggi fantastici, atmosfere sublimi, tutto mischiato assieme a formare versi di un’intensita unica. Pare che il poeta fosse caduto in un sogno ipnotico e al suo risveglio avesse vividi nella mente i versi da comporre, ne avesse stesi una cinquantina, ma fosse stato poi interrotto da una visita inattesa. Ritornato al testo «scoprii con non poca sorpresa e mortificazione» racconta lo stesso Coleridge, «che se anche serbavo vagamente la forma generale della visione, il resto, salvo una decina di versi sciolti, era sparito come le immagini sulla superficie del fiume quando si getta una pietra nell'acqua». In realtà la maggior parte dei critici tende oggi a considerare l’opera come frutto di una stesura successiva e non di un “dettato dell’oppio”, altrimenti non si spiegherebbe la grande accuratezza stilistica che in quello stato “annebbiato” era difficilmente possibile. Secondo J.S.Hill «l'intenzione del poeta e' quella di catturare le visioni e tradurle in parole, ma in tale tentativo egli incontra due serie difficoltà: in primo luogo, il linguaggio è un mezzo inadeguato che permette solo un'approssimazione della visione che si intende descrivere, e, in secondo luogo, le visioni stesse, nel momento in cui il poeta tenta di trascriverle sbiadiscono e devono essere ricostruite dalla memoria». Coleridge fece insomma, con il suo poema, la «prima esposizione particolareggiata di un’interiorità travolta dall’oppio» (Zolla). Presto per il poeta l’oppio da servitore si trasformerà in padrone. Era giunto ad uno squilibrio intollerabile di corpo e mente che richiedevano la sostanza, e i pochi versi che riuscì a produrre riassumevano perfettamente il suo stato d’animo: A Grief without a pang, void, dark and drear A stifling, drowsy, unimpassion’d Grief. Un’Angoscia senza fitta, vacua, tenebrosa e tetra Una soffocante, indolente, inerte Angoscia.
De Quincey Amico di Coleridge e come lui caduto nelle brame dell’oppio, Thomas De Quincey nel suo Confessioni di un inglese mangiatore d’oppio – dove inglese sta per gentleman, consumatore d'oppio ma pur sempre uomo di cultura – ci ha lasciato una delle più lucide ed eleganti testimonianze di una tossicodipendenza, vissuta in maniera totalizzante. L’autore descrive possibilità e limiti che l’oppio implica, gli concede lodi e
maledizioni. scoperta del
Sono succo di
senz’altro papavero,
illuminanti le pagine in cui esalta la capace di regalargli estasi e conforto:
«Il grande segreto della felicità su cui i filosofi avevano discusso per tanti secoli era dunque certamente scoperto! Si poteva comperare la felicità con un penny e portarsela via nel taschino del gilè; l’estasi si sarebbe potuta spedire con la diligenza!»
Ma subito precisa che chiunque sperimenti quel mondo, non possa prenderlo alla leggera: «Il lettore crederà forse che io voglia ridere, ma quella di scherzare nel dolore è una mia vecchia abitudine, e posso affermare che non riderà a lungo chi conosce qualcosa dell’oppio. I suoi piaceri sono anzi di natura grave e solenne, e anche nel suo stato più felice il mangiatore d’oppio non può presentarsi con il carattere dell’allegro; anche allora parla e pensa come si addice al pensieroso.»
Lo scrittore fa anche un paragone tra gli effetti del vino e quelli dell’oppio: mentre il primo priva l’uomo del controllo di sé, turba le facoltà mentali, disperde l’energia intellettuale, il secondo introduce ordine e armonia, migliora il controllo e le capacità intellettive. Gli attribuisce inoltre la capacità di «asservire a sé tutti i sentimenti e di regolarli secondo il suo diapason», come l’ape «che trae indifferentemente i suoi materiali dalla rosa e dalla fuliggine dei camini». Ora spostiamoci sul potere psicotropo vero e proprio della sostanza, quello di amplificare la coscienza; De Quincey, abbiamo detto, è convinto della facoltà dell’oppio di stimolare l’intelletto, ma questo coincide con la natura propria di chi ne faccia uso. Egli crede che al massimo esso possa rendere, in maniera dilatata e distorta, le immagini, le passioni, le ambizioni personali del consumatore. Ci dice a tal proposito: «Se un uomo che si occupa di buoi dovesse darsi all’oppio è molto probabile che, se non fosse troppo ottuso per sognare affatto, sognerebbe di buoi: laddove nel caso presente il lettore troverà che l’oppiomane si vanta di essere un filosofo.» Abbiamo appreso dunque un altro aspetto importante: De Quincey assimila gli effetti dell’oppio ai processi del sogno. Similmente al sogno, infatti, l’oppio è in grado di trasfigurare le immagini, annullare la percezione dello spazio e del tempo, rivivere, quasi toccandole, le impressioni dell’infanzia, stimolare il processo creativo. Tuttavia lo scrittore non ne fu sempre convinto, e in dato periodo della sua vita sperimentò quelle torture dell’oppio, che anche Coleridge conosceva bene. Affermò che le capacità evocative del sogno, nell’oppio si annullavano per «lo splendore insopportabile delle apparizioni […] che riempiva di fremiti il mio cuore» e finivano per l’essere sostituite da «una profonda ansietà» e una «funerea malinconia». Il sentimento post-oppio è dunque quello di un’afflizione d’animo, un’angoscia che gli da l’impressione di «sprofondare in burroni ed abissi senza sole, in voragini dopo voragini senza fondo», fino nella più «nera malinconia che accompagnava quelle mie solenni visioni e che alfine mi gettava in un assoluto ottenebramento, in una disperazione di suicidio». Un altro aspetto della sostanza, che De Quincey vuole approfondire, è quello dell’annullamento della volontà: «Il consumatore d’oppio non perde, infatti, né la sua sensibilità morale né le sue ispirazioni. Desidera, agogna, ardentemente come non mai, di attuare ciò che gli sembra possibile, ciò che sente comandato dal proprio senso del dovere; ma la sua capacità, non d’agire soltanto, ma, addirittura, di tentar d’agire, è infinitamente inferiore al suo apprezzamento astratto del possibile. Egli giace sotto il peso immane d’un incubo; vede tutto ciò che sarebbe felice di compiere, ma è come un uomo inchiodato al letto dal languore mortale d’una paralisi e costretto a evadere insultare e oltraggiare l’oggetto del suo più tenero amore; darebbe la vita per alzarsi in piedi, per camminare, ma è impotente come un infante e non può nemmeno tentare di muoversi.»
Quella di De Quincey è, in conclusione, sicuramente un’esperienza autobiografica, ma assume valore di modello per chiunque volesse immergersi nell’universo dell’oppio, o delle droghe più in generale, fatto di compromessi inevitabili, di connubio tra piacere e dolore.
Baudelaire e i paradisi artificiali
Sulla scia dell’Inghilterra, e in particolare grazie alla spedizione napoleonica, anche in Francia le droghe raggiunsero presto il mondo della cultura, insinuandosi nei circoli culturali più eminenti. Tra questi il più famoso fu senza dubbio il Club degli Hashishins, in cui la crème intellettuale e artistica francese si riuniva per fumare, sia a scopo di svago che con il preciso obbiettivo di stimolare le facoltà artistiche e immaginative. Tra i suoi membri troviamo Gautier (uno dei fondatori), Hugo, Delacroix, Dumas padre e il giovane Charles Baudelaire. e i meno sciocchi, arditi amanti della Demenza, che fuggendo il grande gregge recintato dal Destino, si rifugiano nell'oppio senza fine (C. Baudelaire, frammento tratto dalla poesia Il Viaggio) Potremmo iniziare con questo breve frammento, tratto dalla raccolta di poesie I Fiori del male, a raccontare la vicenda drogata del poeta francese. Baudelaire è sicuramente uno dei primi poeti maledetti, aggettivo che vale per il loro totale anticonformismo, il rifiuto dei valori di una società fondata sulla logica del profitto e del falso perbenismo, ormai cieca alla fame dello spirito. Il poeta, chiuso in questo contesto, si sente sradicato e incapace di agire. L’unica alternativa allo squallore del mondo è quella di rifugiarsi nei paradisi artificiali, come li chiamerà Baudelaire, le oasi di salvezza offerte dal vino, dalla droga. Grazie ad essi il poeta può rompere i vincoli del razionale, avvicinarsi all’indefinito, al significato dell’esistenza, che non potrebbe essere raggiunto altrimenti. Solo così Baudelaire poteva percepire quelle corrispondences che si celavano dietro alla realtà quotidiana, coglierne l’essenza. Quello che la droga può donargli è quello stesso principio poetico descritto da Rimbaud, per cui il poeta: «si fa veggente attraverso un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di follia; cerca egli stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non serbarne che la quintessenza. Ineffabile tortura in cui ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale lui diventa il grande malato, il grande criminale, il grande maledetto, - e il supremo Saggio! - Perché arriva all’ignoto!»
Ma i veleni di cui parla Rimbaud non potrebbero essere le droghe? Il poetà potrebbe dunque trarre il massimo da tale esperienza, cogliere il beneficio dall’uso di tali sostanze, assumere veleno e uscirne indenni, anzi più forti. Anche Baudelaire usa lo stesso termine per riferirsi ad esse nell’omonima poesia: Veleno La bettola più cupa sa rivestire il vino d'un lusso da miracolo, e nell'oro del suo rosso vapore fa sorgere una fiaba di colonne, come un tramonto acceso nella bruma. L'oppio ingrandisce ciò che non ha fine l'illimitato estende, il tempo fa più cavo, più profondo il piacere, e di nere e di cupe voluttà l'anima sa colmare a dismisura.[…]
Il poeta conobbe l’esperienza personale di De Quincey (di cui tradusse l’opera) e ne condivise in parte l’opinione. Come lui ritiene che l’effetto della droga sia paragonabile a quello del sogno e rappresenti il processo archetipico della creazione artistica. Egli distingue due categorie di sogno: uno è il sogno naturale, che rispecchia a pieno la vita quotidiana, l’altro è il sogno geroglifico, assurdo, imprevisto, sconnesso. Questo sogno, dice Baudelaire «che io chiamo sogno geroglifico, rappresenta evidentemente il lato sovrannaturale della vita, ed è proprio per la sua assurdità che gli antichi lo credevano divino. […] si tratta di un vocabolario che è necessario studiare, di una lingua della quale i saggi possono scoprire la chiave». La creazione artistica imita quindi i processi e le forme di tale sogno geroglifico, ma solo il saggio (e quindi il poeta), colui che è dotato, più degli altri, di sensibilità, è in grado di interpretare i suoi elementi simbolici. Baudelaire insiste particolarmente nell’ ammonire chiunque volesse partire sprovvisto di tale sensibilità, di tale predisposizione alla veggenza: «sappiano dunque la gente di mondo e gli ignoranti, curiosi di conoscere gioie eccezionali, sappiano che non troveranno nell’hashish nulla di miracoloso, assolutamente nulla che non sia la loro natura portata all’eccesso. Il cervello e l’organismo sui
quali opera l’hashish non produrranno altro se non i loro fenomeni ordinari, individuali – accresciuti, è vero, in quantità ed energia -, ma pur sempre fedeli alla loro origine. L’uomo non sfuggirà alla fatalità del suo temperamento fisico e morale: l’hashish sarà, per le impressioni e i pensieri familiari dell’uomo, uno specchio ingranditore, ma pur sempre uno specchio.» Anch’egli è concorde sull’aspetto più nefasto della droga, il potere di indebolire fino quasi ad annullare la volontà propria, la facoltà di tradurre in atto pensieri e intuizioni. Così scrive: «E' vero che tale individuo è per così dire sublimato e trasfigurato fino al limite, e poiché è ugualmente certo che il ricordo delle impressioni sopravvive all'orgia, la speranza di questi utilitaristi non appare, a prima vista, del tutto priva di ragione. Ma li pregherò di osservare che i pensieri, dai quali contano trarre gran profitto, non sono in realtà così belli quanto appaiono sotto il loro momentaneo travestimento e coperti di magici orpelli. Appartengono più alla terra che al cielo, e devono gran parte della loro bellezza all'eccitazione nervosa, all'avidità con cui la mente vi si getta sopra. In più, questa speranza è un circolo vizioso: ammettiamo per un istante che l'hascisc dia, o almeno aumenti la genialità; essi dimenticano che è proprio dell'hascisc diminuire la volontà, e che, di conseguenza, essa concede da un lato quanto sottrae dall'altro, cioè l'immaginazione senza facoltà di approfittarne. Colui che avrà fatto ricorso a un veleno per pensare, presto non potrà più pensare senza veleno. Riusciamo a immaginare la terribile sorte di un uomo la cui immaginazione paralizzata non saprebbe più funzionare senza l'aiuto dell'hascisc o dell'oppio?»
Baudelaire vuole poi esprimere la difficoltà che il poeta trova nell’esprimere quelle che sono le visioni indotte dalla droga. Durante il processo creativo, infatti, il soggetto deve necessariamente trovarsi in una posizione distante dall’oggetto che vuole rappresentare, poiché rappresentare significa comprendere e descrivere una realtà da un qualche punto di vista, e ciò implica che il soggetto sia esterno ad essa. Perciò, se stiamo vivendo in un preciso istante un’esperienza di qualche tipo, ci risulterà impossibile darne una qualche rappresentazione, poiché in quel momento desideriamo viverla, il nostro essere coincide con essa. Allo stesso modo, Baudelaire ritiene che quanto si è immersi nell’estasi da hashish: «Accade, talvolta, che la personalità scompaia e che l’oggettività […] si sviluppi in voi in misura tanto anormale che la contemplazione degli oggetti esterni vi faccia dimenticare la vostra stessa esistenza, tanto da sentirvi ben presto confusi con essi. Il vostro occhio si fissa su un albero armonioso piegato dal vento; entro pochi secondi, quella che sarebbe nel cervello del poeta soltanto una similitudine naturalissima diverrà, nel vostro, una realtà. Presterete, in un primo tempo, all’albero le vostre passioni, i vostri desideri o la vostra malinconia; i suoi gemiti e le sue oscillazioni saranno le vostre e, ben presto, voi diventerete l’albero stesso. Parimenti l’uccello che si libra nell’azzurro rappresenta all’inizio il desiderio immortale d’innalzarsi al di sopra delle cose umane; ma ecco che voi siete già diventato l’uccello. Vi immagino seduto a fumare. […] vi sentirete come qualcosa di evaporante, e attribuirete alla vostra pipa (dentro la quale vi sentite accoccolato e raccolto come il tabacco) la strana facoltà di fumarvi».
Di fronte a questo così radicale annullamento dell’oggettività, il soggetto viene privato di qualsiasi possibilità di controllo sul mondo esterno e la creatività ne risulta, dunque, gravemente danneggiata. Continua il poeta: «Non siete forse simile a un romanzo fantastico, un romanzo vivente anziché scritto? Non esiste più alcuna equazione tra gli organi e i godimenti; ed è soprattutto da questa considerazione che scaturisce la condanna, verso questo esercizio pericoloso, nel quale scompare ogni libertà.» Insomma, Baudelaire ha voluto fornire una chiara delucidazione su ciò che la droga concede e toglie a chi ne usufruisca. Tuttavia il poeta esprime una ferrea convinzione riguardo l’abisso che divide quelli come lui dagli uomini comuni. Egli si eleva al di sopra del volgo, perché lui, grazie alle sue doti naturali, ma soprattutto all’impegno incessante, il sacrificio, la sofferenza, è in grado di servirsi del narcotico come chiave di conoscenza, solo lui è capace di cavalcare la tigre. Il poeta è quindi lo sciamano, colui che parla con la divinità. L’uomo comune non può che restare a guardare, perché se proverà a fare altrettanto ne verrà travolto. Questa è sicuramente una visione aristocratica, ma resta il suo pensiero. Ecco le sue parole: «Io immagino un uomo situato sull’arduo Olimpo della spiritualità; attorno a lui le Muse di Raffaello o di Mantenga, per consolarlo dei lunghi digiuni e delle assidue preghiere intrecciano le più nobili danze, lo guardano con gli occhi più dolci e i più luminosi sorrisi; il divino Apollo, maestro in ogni sapere ([…] Non v’è forse un Apollo per ogni uomo che lo merita?), accarezza con l’archetto le sue corde più vibranti. Sotto di lui, ai piedi della montagna, tra i rovi e in mezzo al fango, la folla degli umani, la schiera degli iloti, simula smorfie della gioia e lancia gli urli che gli strappa il morso del veleno; e il poeta si dice: "Questi sventurati che non hanno né digiunato né pregato, e che hanno rifiutato la redenzione tramite il lavoro, chiedono alla magia nera i mezzi per elevarsi, d’un sol colpo, all’esistenza soprannaturale. La magia li inganna e accende per loro una falsa felicità e una falsa luce; mentre noi, poeti e filosofi, abbiamo rigenerato la nostra anima col lavoro continuo e la contemplazione; con l’assiduo esercizio della volontà e la costante nobiltà dell’intenzione, abbiamo creato per noi un giardino di vera bellezza. […]"»
Kerouac e la beat generation Nel secondo dopoguerra il diffuso malessere, la mancanza di fiducia nel mondo, favorì il diffondersi, tra i giovani americani, di uno stile di vita all’insegna dell’emarginazione, il vagabondaggio, la violenza, la promiscuità sessuale, l’alcol, le droghe; erano la beat generation, la gioventù bruciata, i “battuti” dalla vita come li definivano in senso spregiativo. La loro non era una forma di contestazione, bensì un desiderio di estraniamento vero e proprio dalla società, di rifiuto delle idee e dei valori imposti, per scprirne altri da sé. Beat fu anche un fenomeno letterario e poetico che si distanziò dall’aspetto più crudo del fenomeno; esso vide emergere tra gli altri la figura di Jack Kerouac, autore di On the Road (scritto sotto l’effetto della benzedrina), e coniatore del termine: «Beat vuol dire beatitudine, non battuto», diceva. Egli crede ancora nella creatività artistica come strumento per rendere consapevole la gente della condizione alienata in cui vive. Crede anche nell’esperienza mistica, nello spiritualismo, e si serve della droga come mezzo per scrutare il significato dell’esistenza. In un passo del libro emerge questa natura allo sbando eppure carica della fede che si possa trovare un’alternativa, bisogna cercarla: - Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati - Dove andiamo? - Non lo so , ma dobbiamo andare
Nel suo romanzo si ritrova un forte sperimentalismo, giustificato dall'autore come ricerca di una verità misteriosa attraverso la scrittura; egli teorizzò la tecnica della prosa spontanea, uno stile singolare, che rispecchia la musica jazz: «Kerouac individua nella struttura dell'improvvisazione jazzista, con le sue deviazioni e i suoi ritorni rispetto al tema centrale, l'impostazione di quella che egli ha chiamato la sua prosa spontanea [...] riferendosi proprio alle possibilità di improvvisazione del jazz [...] Se appena si fa un piccolo sforzo per addestrare l'orecchio a questa struttura compositiva [...] si percepiscono le pause, proprio intese in senso musicale; quelle che Kerouac nel suo decalogo ha chiamato gli spacchi e, per i jazzisti, le prese di fiato tra le varie frasi; l'intensità del tema centrale sarà solo sottolineata dalle distrazioni, dalle sospensioni, dagli indugi creati dai temi laterali» (F. Pivano). Egli stesso espose i fondamenti della sua tecnica: «FONDAMENTI DELLA PROSA SPONTANEA DISPOSIZIONE L’oggetto è posto di fronte alla mente, nella realtà, come in un disegno [...] PROCEDIMENTO Essendo il tempo fondamentale nella purezza del discorso, il linguaggio che disegna è un flusso imperturbato della mente di segrete parole-idea personali, che soffiano (come nel caso del musicista jazz) sul soggetto dell'immagine METODO Niente punti a separare strutture-frase già rese arbitrariamente enigmatiche da ingannevoli due punti e timide virgole di solito inutili ma il vigoroso trattino a separare il respiro retorico [...] RAGGIO DAZIONE Niente selettività di espressione ma seguire la libera deviazione della mente negli illimitati soffia-sulsoggetto mari di pensiero [...] INDUGI NEL PROCEDIMENTO Niente pause per pensare alla parola giusta ma l'accumulo infantile di un concentrato scatologico di parole finché non si ottiene soddisfazione, che si rivelerà come un grande ritmo [...] CENTRO DI INTERESSE Non partire da un'idea preconcetta di cosa dire su un'immagine ma dal gioiello centrale di interesse nel soggetto dell'immagine al momento di scrivere [...] STATO MENTALE Se possibile scrivi senza coscienza in semitrance permettendo all'inconscio di far entrare il proprio linguaggio non inibito interessante necessario e dunque moderno cosa che l'arte cosciente censura, e scrivi con eccitazione, rapidità, con crampi da scrittura o battitura, secondo le leggi dell'orgasmo, l'offuscamento della coscienza di Reich. Vieni da dentro, fuori al rilassato e al detto.»
Tema fondamentale del romanzo risulta essere senz’altro quello del viaggio, rispecchiando la sua personale esperienza degli spostamenti coast to coast; il viaggio è inteso come elemento che rompe la monotonia della vita e porta l’individuo a confrontarsi con sempre nuove realtà, assumendo la funzione portante di vero e proprio maestro di vita per tutti i personaggi: non è inteso solo nella sua forma materiale di spostamento fisico, ma anche come viaggio "virtuale" tramite l’uso di sostanze stupefacenti e l’abbandono ai piaceri. Dean, il protagonista, è espressione di energia allo stato puro, di una forza primitiva soppressa, è l’anima selvaggia dell'uomo che rifiuta la respectability della società contemporanea, è «un ragazzo tremendamente eccitato di vita». Egli, potremmo dire, incarna quell’essenza dionisiaca che ci spinge alla ricerca di una verità spirituale, della nostra essenza, anche grazie al potere dell’alcol e delle droghe. «Non ero ancora sulla piattaforma che l'autotreno partì rombando; barcollai, uno dei viaggiatori mi afferrò, e mi sedetti. Qualcuno fece passare una bottiglia di whisky d'infima qualità, che era alla fine. Ne buttai giù un lungo sorso nella esaltante, poetica, piovigginosa aria del Nebraska. - Urrà: ecco che andiamo - urlò un ragazzo con un berretto da
baseball, e quelli lanciarono la macchina a più di cento all'ora e superarono tutti lungo la strada. - Stiamo viaggiando su questo schifoso arnese fino da Des Moines. Questi tipi non si fermano mai. Di quando in quando bisogna urlare per fare una pisciata, altrimenti ti tocca di farla a mezz'aria, e aggrappati, fratello, aggrappati.»
«Tutto questo comunque è presentato non come un processo di degrado, bensì come riconquista dell’istinto primitivo dell’innocenza e della creatività umana oramai perdute e soffocate nel conformismo dell’uomo "moderno".» Anche Kerouac sente, a un certo punto del romanzo, di doversi fermare, per cercare risposte: «tra momenti di estasi e abissi di sgomento, euforia e disperazione, sembra approdare ad un interrogativo senza risposta sul significato ultimo di tutto l’andirivieni e l'agitarsi del mondo americano: Non si può andare avanti continuamente [...] tutta questa frenesia e questo saltare qua e là. Dobbiamo arrivare in qualche punto, trovare qualcosa». Nella conclusione del romanzo la ricerca disperata di quella pienezza della vita, appare in tutta la sua crudeltà, impossibilitata dalla dura realtà del mondo esterno; i protagonisti sono portati a disilludersi di aver fruito veramente della libertà, e alla loro continua fuga dalla società si oppone il destino inesorabile della morte. «Così in America quando il sole va giù e io siedo sul vecchio diroccato molo sul fiume a guardare i lunghi, lunghissimi cieli sopra il New Jersey e avverto tutta quella terra nuda che si svolge in un'unica incredibile enorme massa fino alla Costa Occidentale, e tutta quella strada che va, tutta la gente che sogna nell'immensità di esse e so che nello Iowa a quell'ora i bambini stanno certo piangendo nella terra in cui lasciano piangere i bambini, e che stanotte usciranno le stelle, e non sapete che Dio è l'Orsa Maggiore?, e la stella della sera deve star tramontando e spargendo il suo fioco scintillio sulla prateria, il che avviene proprio prima dell'arrivo della notte completa che benedice la terra, oscura tutti i fiumi, avvolge i picchi e rimbocca le ultime spiagge, e nessuno, nessuno sa quel che succederà di nessun altro se non il desolato stillicidio del diventar vecchi, allora penso a Dean Moriarty, penso persino al vecchio Dean Moriarty, il padre che mai trovammo, penso a Dean Moriarty.»
La droga nell’arte: arte psichedelica L'assunzione di droghe, allucinogene in special modo, ha in genere la prerogativa di potenziare le capacità percettive del soggetto, amplificando le sensazioni, permettendogli di compiere esperienze interiori più profonde di quelle normali e facendogli quindi acquisire delle "conoscenze", seppure anomale ed innaturali, che arricchiranno le sue capacità espressive, confluendo nel prodotto artistico. «Ma - dice Fausto Petrella (autore di Follia e creatività) - l'attività artistica poi richiede un momento di formalizzazione. Quindi, se uno è confuso, più che porcherie non riesce a fare, dal punto di vista strettamente artistico. Non è che la confusione sia un buon sistema. Quindi bisogna che l'io che dipinge guardi, con tutta la sua capacità costruttiva, all'esperienza fatta […] La creatività implica un certo grado di lucidità dell'io. Qualcuno ha parlato di un io regredito, cioè di una regressione a servizio dell'io. Cioè occorre che l'io sia in grado di maneggiare la sua regressione. Se ne è sommerso, ovviamente non riesce a produrre gran che.»
L'Arte Psichedelica si sviluppa negli anni '60, diramandosi dalle grandi metropoli dell'America del nord, San Francisco, Los Angeles, New York, Chicago, e da lì espandendosi in tutto il mondo. E' un'arte prevalentemente grafica, che deve l’influenza della pop art e delle sue incursioni nel mondo dei fumetti, con radici culturali nella grafica orientale. La Psichedelia è un fenomeno a vasto raggio, che contamina molte forme espressive, la musica, ad esempio, che in questo periodo vede la nascita dello stile rock più duro e radicale (tra i massimi esponenti i Doors), a stretto contatto con l'arte visiva, tanto che molti artisti psichedelici disegnano copertine, locandine e marchi per i dischi più famosi. L'Arte Psichedelica produce con tecniche raffinate e ricercate, opere di grande abilità grafica, in cui la linea contorta introduce effetti di voluta distorsione dell'immagine o della scritta, al limite della visione allucinatoria prodotta in stato di alterata percezione sensoriale: non è infatti da escludere, né da sottovalutare, il fatto che al risultato artistico finale partecipi l'alterazione mentale prodotta dal consumo di LSD ed altre droghe allucinogene. Secondo la teoria psichedelica all’assunzione di una sostanza psicoattiva corrisponde un cambiamento della percezione sensoriale, che può portare dal riso allo sgomento, può illuminare o impressionare. Si raggiunge un elevato senso di chiarezza e reazione emotiva. I colori acquistano brillantezza, la trama geometrica delle cose si rivela, le superfici si increspano e ondeggiano, qualsiasi barriera al passaggio del “viaggiatore” si curva. Si provano effetti sinestetici, il senso del tempo e dello spazio si allungano all’infinito, i confini tra se e non-se sfumano all’infinito fino a originare un senso di fusione con l’universo. La cultura psichedelica non indugia, quindi, ad appoggiare l'uso di droghe in grado di provocare una espansione della coscienza finalizzata a generare esperienze creative al di fuori della norma, al tempo
stesso manifestando in tal modo una presa di posizione non solo in campo artistico, ma anche sociale, intellettuale, con intento provocatorio nei confronti del puritanesimo delle classi borghesi americane. Tra gli americani, va citato Rick Griffin (1944-1991), artista visionario, autore di celebri copertine di album discografici e manifesti per concerti o pellicole cinematografiche, disegni eleganti e veloci eseguiti con il rapidograph, uno strumento ritenuto estremamente tecnico, minutamente dettagliati e pervasi da una surreale vena favolistica. In Italia la corrente psichedelica ha i suoi rappresentanti di spicco nei personaggi di Matteo Guarnaccia e Guido Daniele (che rispolvera l'uso dell'aerografo). Rick Griffin
Matteo Guarnaccia
Guido Daniele GINEPRI di MONTALBO Trittico composti da: una fotografia in bianco e nero, la foto dipinta ad olio ed una tela ad acrilico con le stesse forme ma astratte . Si tratta di una mostra didattica che permette di comprendere il rapporto tra la realtĂ (il bianco e nero), l'interpretazione della realtĂ (la foto dipinta) e l'astrazione della realtĂ nella fantasia (la tela dipinta).
“NUDIPINTO� Fotografia in bianco e nero scattata e stampata a mano dall'autore nei formati cm 30x40 e cm 50x70, dipinta poi con colori ad olio con tecnica tradizionale.
VEDUTA NOTTURNA DI NEW YORK
Conclusioni Cosa possiamo dedurre infine? Abbiamo percorso, in modo per quanto riduttivo, la storia della droga e il suo significato all’interno della civiltà umana. Gli antichi ci hanno insegnato che un uso saggio delle sostanze psicotrope, inserito all’interno di un contesto spirituale, e asservito da una ferrea preparazione dell’animo a tale esperienza, nonché da una profonda conoscenza delle droghe impiegate, potrebbe portare ai risultati sperati. Lo sciamano sapeva perfettamente che quello con cui aveva a che fare era un “cibo sacro” dalle enormi potenzialità, lo temeva e lo rispettava. L’uomo moderno non sembra aver fatto tesoro di tali insegnamenti. La figura della droga nell’immaginario collettivo si è decisamente spostata dal divino al profano, è diventata cibo per il corpo anziché per lo spirito. Negli ultimi decenni ci sono stati sempre meno sciamani e sempre più semplici e sprovveduti “iniziati” al mondo delle droghe. La sua diffusione specialmente tra i giovani è diventato un problema sociale; secondo Julius Evola si tratta soprattutto di ragazzi che percepiscono la vacuità dell’esistenza, la monotonia della civiltà moderna, e cercano in essa una possibilità di evasione. L’impulso verso le droghe può degenerare in fenomeni contagiosi, trasformarsi in vizio inutile e dannoso, specie in quelle persone dalla personalità di per sé debole. Quello che resta dell’antico uso, è soltanto un impulso sfrenato, sragionato, che imita malamente la ricerca di Dioniso e ne assorbe solo il lato più animalesco, istintuale, senza che vi sia alcuna possibilità di ricomposizione per lo spirito. L’uomo non sa più cavalcare la tigre, trasformare quello che di per sé è veleno in farmaco. La droga sembra ribellarsi, dice Zolla, preparare una punizione all’uomo frivolo, avventato. Possiamo dire di esserci allontanati da Dio? Uno sciamano di una tribù di nativi americani disse un giorno che loro, grandi conoscitori delle piante sacre, parlavano con Dio, mentre noi, occidentali, non facevamo altro che parlare di Dio! Forse nell’epoca moderna solo l’artista, o il poeta, o colui che ha compreso a pieno la serietà e la profondità dell’esperienza a cui va in contro, hanno ancora i requisiti giusti per toccare l’assoluto, ricongiungersi con il Tutto. Tuttavia, l’uso di tali sostanze dovrebbe sempre avvenire entro spazi e tempi definiti, così che, gradualmente, il corpo stesso del “viaggiatore” raggiunga quel grado di spiritualità per ottenere gli stessi effetti anche senza l’ausilio esterno. La dionisiaca sospensione dell’ordine, se avviene in modo regolato e temporaneo può essere benefica per l’individuo, dargli nuova linfa. Semel in anno licet insanire, “una sola volta l’anno è lecito far follie”, ammonivano gli antichi. Il problema centrale è quello di
trovare una “via mediana”, un centro di equilibrio in sé stessi, comune a tutte le religioni e culture, la giusta misura tra caos ed ordine, Dioniso ed Apollo, essere e non essere, vivere pienamente la vita e adattarsi ai limiti imposti dalla società. Baudelaire sostenne che forse la droga non fosse il rimedio per tutti i mali: «All'inizio ho parlato di questo meraviglioso stato, in cui a volte la mente umana si trova gettata come per una grazia speciale; ho detto che aspirando senza posa ad accendere le proprie speranze e innalzarsi verso l'infinito ha mostrato, in ogni tempo e in ogni luogo, un gusto frenetico per tutte le sostanze, anche pericolose, che esaltando la sua personalità potevano suscitare per qualche istante, davanti al suo sguardo, questo paradiso a buon mercato, oggetto di ogni suo desiderio, e in fine che questa mente temeraria che spinge, senza saperlo, fino all'inferno, testimoniava pure la sua originaria grandezza. Ma l'uomo non è così derelitto, così privo di mezzi onesti per conquistarsi il cielo, da sentirsi obbligato a invocare la farmaceutica e la stregoneria;»
Questo è vero, ma è anche vero che da sempre nei secoli e ancora oggi, le droghe rimangono il più potente strumento in grado di aprirci le porte della percezione, come Blake le definì, di farci sentire meno piccoli e lontani da quel Tutto che è tanto un mistero.