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uesta frase è fatta per essere letta. Così come la copertina del volume che hai fra le mani, che probabilmente hai guardato prima di iniziarne la lettura. Camminando per la tua città è presumibile che tu abbia letto una scritta su un muro e non abbia fatto caso a un’altra poco distante. Momenti come questi sono una costante nella Storia e la contribuiscono a scrivere. Proprio “scrivere”, o, in questo caso, “disegnare” un messaggio è parte fondamentale della sua progettazione. “Progettare” un messaggio significa renderlo chiaro e interessante.

una tavola di ne: dettaglio di gi di pa te es qu In un manifesto an; dettaglio di ti. en im Seth Tobocm ov m nazionale dei un’assemblea 9


La soluzione visiva operata dal grafico che si è occupato dell’impaginazione di questo libro, ad esempio, ha influito sull’impressione che la copertina ha prodotto su di te. Dalla sua scelta è dipesa la quantità di tempo spesa nell’aspettare di aprirlo. Ciò che si pensa osservando una copertina influisce, a volte tacitamente, sulla decisione in merito al libro che questa presenta, determinandone l’acquisto. La copertina di un libro come la scritta su un muro sono momenti di comunicazione che possono essere tesi al cambiamento sociale dell’esistente. La comunicazione visiva, quando pensata in questo senso, non si accontenta di catturare l’attenzione: essa lancia un messaggio che cambia il modo stesso di vedere, e quindi di interpretare, la realtà.

Dettaglio di un’Illustrazione di Michele Zerocalcare per la rioccupazione del centro sociale Anomalia. Pagine 12-13: un manifesto sovietico

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I manifesti propagandistici che era consuetudine incontrare camminando nelle città russe dell’epoca sovietica e le scritte sul muro lasciate da un qualsiasi corteo della sinistra extraparlamentare italiana degli anni ’70, pur avendo messaggi diversi nei contenuti, hanno caratteristiche comuni. In entrambi i casi, la comunicazione è realizzata in un contesto urbano, perché è chi vive all’interno di esso a svolgere la funzione di “ricevente” della comunicazione stessa. L’agire nei luoghi in cui il ricevente è effettivamente presente, infatti, permette

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a chi comunica di stabilire con esso un contatto diretto, che in quanto “diretto” può andare a costituire una buona base su cui costruire un eventuale consenso. Tutti i messaggi visivi sociali e politici volti al cambiamento presentano qualità simili perché hanno la necessità di incidere sulla realtà. In questo volume sarà possibile leggere di un documentario web interattivo realizzato per il movimento di lotta per la casa romano, conoscere il cinema di Elio Petri, la fotografia dei senza potere di Tano D’Amico e il fumetto militante americano di Seth Tobocman, solo per citare alcuni degli argomenti trattati. L’opera è divisa in tre parti, una dedicata ad esempi della comunicazione degli anni ’20, ’30 e ’40, una a quella degli anni ’70 e un’altra a quella degli anni ’00 e ‘10. “Comunicherete chiaro comunicherete tutto. La comunicazione visiva per il cambiamento sociale nella storia moderna e contemporanea” è uno strumento utile sia per gli appassionati che per gli addetti ai lavori poiché spiega il passato attraverso i media che hanno contribuito a trasformarlo. Avere memoria delle forme della comunicazione è l’unico modo per arrivare a una sintesi limpida e globale: imparare dalle forme date ai messaggi di ieri per comunicare chiaro e comunicare tutto oggi e sollecitare il cambiamento sociale del domani.

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el decennio 19101917, numerosi artisti russi aderirono o diedero vita a varie forme di avanguardia, che in comune avevano in primo luogo il rifiuto del realismo figurativo (in pittura) e delle forme metriche tradizionali (in poesia). Al di là delle molteplici differenze e divergenze, essi rifiutavano il passato ed erano ansiosi di ricostruire tutto da capo: non solo l’arte, ma anche le strutture sociali, i valori morali e le gerarchie consolidate. Pertanto, subito dopo la vittoria della rivoluzione, vari poeti e pittori si misero immediatamente a disposizione del governo, a cominciare da Vladimir Majakovskij, capo ricodi propaganda ne: manifesto gi pa te es qu In ivo di vittoria ifesto celebrat su Lenin; man mo (1945). sul nazifascis 17


nosciuto del futurismo russo, e furono collocati a guida delle istituzioni culturali più importanti, sia a livello centrale che in periferia. Ben presto, però, emersero i primi contrasti fra gli artisti più politicizzati e quelli che, pur guardando con simpatia al nuovo governo, volevano sviluppare in modo autonomo il proprio lavoro artistico. Si pensi, ad esempio, a Marc Chagall, che aveva respinto il realismo riempiendo le sue tele di animali colorati e di figure leggere, che si libravano nell’aria, oppure a Vassilij Kandinskij, con la sua arte astratta e geometrica. Nel giro di pochi anni, entrambi furono destituiti dai ruoli prestigiosi che erano stati loro affidati, rispettivamente a Vitebsk (città natale di Chagall) e a Mosca. Il problema stava nel fatto che, nella nascente Russia sovietica, governo e artisti più intransigenti erano convinti che l’arte dovesse

Interpretazione della grafica d’avanguardia russa per la copertina del libro “Simboli geometrici nell’arte di avanguardia “

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essere rigidamente subordinata alle necessitĂ politiche e ideologiche del partito-Stato, cioè trasformarsi in un efficace strumento di educazione delle masse e costruzione del consenso intorno alla rivoluzione e ai suoi obiettivi. Nei primi anni dopo la conquista del potere, i mezzi piĂš usati furono il treno e il manifesto. I due oggetti erano strettamente connessi, visto che i cosiddetti treni d’agitazione erano vistosamente decorati ed erano dei veri poster in movimento. Tramite la ferrovia, i bolscevichi cercavano di raggiungere gli ango-

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Sopra: un momento di assembramento intorno ad un treno di propaganda sovietica. Pagina 21: El Lissitzky. Pagine 22-23: un manifesto costruttivista russo. Pagine 24-25: “La fine della sua sanguinaria dittatura�, manifesto del 1945 di P.P. Sokolov-Skal’ia.

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li più sperduti del Paese, di far arrivare ovunque il messaggio del nuovo governo e di presentarsi come portatori di progresso e di modernizzazione.
 Gli artisti futuristi erano convinti che le masse fossero perfettamente in grado di comprendere il linguaggio e gli strumenti espressivi dell’avanguardia. L’esempio più famoso di questo tipo di arte – a un tempo sperimentale, politicamente schierata e comprensibile nel suo messaggio di fondo – fu “Batti il bianco con il cuneo rosso!”, un manifesto di propaganda elaborato da El Lissitzky nel

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1919, al tempo della guerra civile. Al centro dell’immagine, un enorme triangolo rosso penetrava in un cerchio bianco, a segnalare che gli eserciti comunisti avrebbero sconfitto quelli controrivoluzionari. Non sempre, tuttavia, il messaggio era altrettanto facile da cogliere; si pensi, ad esempio, al monumento dedicato alla Terza Internazionale, dello scultore Vladimir Tatlin: progettato nel 1919-1920, consisteva solo in un’ampia struttura a forma di spirale, che si innalzava verso l’alto. Ben presto, si cominciò a criticare queste opere, definendole spaventapasseri futuristi, e si smise di sostenerle finanziariamente. Intuendo l’inizio imminente di un nuovo corso, fin dal 1922, un gruppo di pittori tradizionalisti si fece avanti con un programma alternativo preciso: «Dobbiamo proporre con la nostra pittura fatti reali e non costruzioni astratte che screditano la nostra rivoluzione agli occhi della classe operaia». L’ultima mostra d’arte sperimentale si tenne nel 1923; da quel momento, accusata sempre più spesso di essere piccolo-borghese, e privata del sostegno economico statale, l’avanguardia russa iniziò rapidamente a declinare e infine si spense. Al suo posto, trionfò di nuovo la tradizione realista, ritenuta più idonea a trasmettere la propaganda del partito.

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Con l’avvento di Stalin al potere, l’emarginazione degli artisti d’avanguardia divenne condanna senza appello. A partire dal 1934, fu imposto a tutti i pittori e gli scrittori di attenersi a un unico canone, molto legato alla tradizione e denominato «realismo socialista». Nell’agosto 1934 il realismo socialista venne formulato in modo definitivo in un discorso tenuto da Andrej Zdanov al Congresso generale degli scrittori sovietici. Zdanov, un funzionario il cui nome fu implicato in tutte le grandi epurazioni di personaggi della cultura sovietica negli anni Trenta e Quaranta, lo impose come una conseguenza delle sagge indicazioni di Stalin: «Il compagno Stalin ha definito i nostri scrittori ingegneri dell’animo umano. Cosa vuol dire? Che obblighi implica? Prima di tutto vuol dire che dovete conoscere la vita per poterla rappresentare fedelmente nella produzione artistica, per rappresentarla non accademicamente, come una cosa morta, non semplicemente come un fatto oggettivo, ma interpretando la realizzazione nel suo sviluppo rivoluzionario. La fedeltà e la concretezza storica della rappresentazione artistica devono conciliarsi nel contempo col compito di plasmare ideologicamente e istruire il popolo a operare nello spirito

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del socialismo. Questo metodo è ciò che noi chiamiamo realismo socialista nella letteratura artistica e nella critica letteraria». Cosa singolare, Zdanov, benché si rivolgesse a un pubblico di scrittori, si servì più volte dei termini rappresentare e rappresentazione, nonostante questo termine sembri meno applicabile alla letteratura che alle arti visive. Ma è improbabile che si sia trattato di una svista. In questo periodo decisivo la politica culturale in Germania si occupò soprattutto delle arti visive, mentre in URSS si occupò soprattutto di letteratura. Nella prima fase ebbero particolare importanza i metodi di condizionamento delle masse e, sotto questo aspetto, la pittura, il disegno e la scultura presentavano alcuni vantaggi sulla letteratura. Nel 1918 Lenin partì da questo presupposto, facendo del suo piano di propaganda scultoreo monumentale il perno della politica cultu-

Stalin in un manifesto del realismo socialista. Pagine 28-29-30-31: manifesti sovietici.

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rale sovietica. Negli anni Trenta, però, le arti visive erano già state adattate, sotto molti aspetti, a servire le esigenze del regime: gran parte degli artisti sovietici avevano già adottato quale loro credo una fedele rappresentazione della realtà sovietica molto prima del realismo socialista. Ora era necessario allineare anche la letteratura. Non deve quindi sorprendere se il metodo universale della cultura sovietica venne proclamato a un’assemblea di scrittori anziché di pittori o architetti. Il primo Congresso generale degli scrittori sovietici, tenutosi a Mosca dal 17 al

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31 agosto 1934, venne messo in scena secondo principi che sarebbero diventati vincolanti per tutti i congressi e i convegni successivi. Proprio in questo congresso furono elaborati per la prima volta i concetti fondamentali del realismo socialista. Merita quindi un esame un po’ più approfondito. Il compito principale del congresso fu di incensare il capo. Ogni delibera, ogni candidatura dei futuri dirigenti del mondo letterario, ogni ordine del giorno fu approvato all’unanimità; nessuno dei seicento delegati votò contro, o si astenne, su qualcosa per tutta la durata del congresso. I principi del realismo socialista, destinati, secondo gli oratori principali, ad apportare mutamenti radicali nella cultura sovietica – e forse anche mondiale – erano fuori discussione. Tutto era già stato predisposto e ratificato, e gli ingegneri dell’animo umano non dovevano fare altro che alzare la mano e orientare i propri interventi secondo le sagge direttive di Stalin, Zdanov e Gor ́kij. Il congresso celebrò il culto di Stalin in un modo che non aveva precedenti. Tutti gli oratori principali gli attribuirono il ruolo di timoniere di tutti i settori della vita sovietica, ivi comprese l’arte e la letteratura. In apertura venne indirizzato a Stalin un saluto che, a nome di tutti i convenuti, esprimeva l’essenza reale dell’estetica to-

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talitaria: «La parola è la nostra arma. Noi mettiamo quest’arma a disposizione dell’arsenale della lotta della classe lavoratrice. Vogliamo produrre un’arte che educhi i costruttori del socialismo e instilli nel cuore delle masse certezza e fiducia, che le renda felici e ne faccia i veri eredi della cultura mondiale». Il messaggio terminava con le parole: «Evviva la classe operaia che ti ha generato, e il partito che ti ha istruito per la felicità dei lavoratori di tutto il mondo». I sentimenti di lealtà arrivarono al punto di attribuire alla classe operaia e al partito solo il merito di aver generato e istruito il compagno Stalin. Anche la letteratura sovietica aveva bisogno di un capo, e il partito propose Gor ́kij. Quest’ultimo inaugurò il congresso e poi, dopo Zdanov, fece un intervento lungo e magniloquente, parlando di sé e del congresso come di un tutt’uno in grado di giudicare l’umanità da una posizione di verità assoluta: «Siamo i giudici di un mondo destinato a scomparire, siamo i difensori del vero umanesimo, l’umanesimo del proletariato rivoluzionario, l’umanesimo della forza chiamato dalla storia a liberare tutto il mondo dei lavoratori». Gor ́kij e Zdanov, indossando le vesti dei giudici, pronunciarono sulla cultura contemporanea la stessa drastica sentenza pronunciata da Hitler e Rosen-

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berg. Zdanov definì degenerata e decadente la situazione della letteratura borghese, riferendosi al modernismo nel suo complesso. Gor ́kij si scagliò contro i modernisti russi, suoi vecchi nemici di prima della rivoluzione: «Il pensiero russo del periodo tra il 1907 e il 1917 fu uno dei più irresponsabili e oscuri, saturo della cosiddetta libertà creativa. Questa libertà si esprimeva nella diffusione delle idee più conservatrici della borghesia occidentale... Nel complesso il decennio 1907-1917 merita in tutto e per tutto di essere definito il più vergognoso e spregevole di tutta la storia dell’intelligencija [degli intellettuali, n.d.r.] russa». Con quest’ultima frase, che doveva costituire l’elemento di riferimento per ogni successiva valutazione della storia sovietica, Gor ́kij bollava d’infamia quello che di fatto era stato il periodo argenteo della poesia russa, la prima esplosione creativa dell’avanguardia nelle arti figurative e – soprattutto – lo spirito di libertà, di rinnovamento ed esplorazione che permeò questo decennio più di ogni altro periodo nella storia della Russia.

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Dettaglio di un manifesto costruttivista di propaganda sovietica.

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l e fi t r a e h n h jo ROSSO IL DADAISTA

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ohn Heartfield (pseudonimo di Helmut Herzefeld), nasce il 19 giugno 1891 a Schmargendorf, Berlino. È pittore, tipografo ed esperto in montaggi fotografici. Suo padre era lo scrittore socialista Franz Herzfeld. A soli sette anni perde i genitori. Nel 1905 inizia a lavorare commerciando libri a Wiesbaden. Tra il 1907 e il 1914 frequenta dapprima la scuola d’arte di Monaco e in seguito la scuola d’arte e artigianato di Charlottenburg, Berlino. Nel 1915, in seguito ad una malattia di nervi, viene esonerato dal servizio militare e l’anno seguente per protesta contro la persecuzione anti-britannica, cambia il suo nome in lla copertina ne: dettaglio de gi pa te es qu In o, il mondo Z “l’uomo nuov della rivista AI sti della lista 5. nuovo”; manife 35


John Heartfield. Nel 1914 fonda la casa editrice Malik insieme al fratello, e alcuni anni dopo fonda la rivista “Newe Jugend” ed inizia ad eseguire creazioni tipografiche. In questi anni fa anche amicizia con Grosz (disegnatore e pittore tedesco, di formazione espressionista-futurista, autore di satira politica), Jung (psichiatra svizzero, fondatore della psicologia analitica) e Huelsenbeck (pittore, poeta e scrittore tedesco, che partecipò al dada zurighese e berlinese). Alla fine del 1917 si dedica all’attività cinematografica alla UFA (casa cinematografica tedesca) e produce diversi film d’animazione. Nello stesso anno distrugge tutto il lavoro compiuto finora e si dedica completamente alla realizzazione di montaggi tipografici. Nel 1918 si iscrive al partito comunista e dall’anno dopo partecipa al dadaismo berlinese con serate, pubblicazioni e manifesti sino a diventare uno degli or-

Dettaglio di “Diagnosi” manifesto antifascista.

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ganizzatori principali della Prima Fiera Internazionale Dada. Nel movimento è conosciuto come “Dada monteur”. Nel 1921 subisce un processo a causa della provocazione al nazionalismo tedesco nel plastico “l’arcangelo prussiano”. Tra il 1921 e il 1923 cura la grafica e il design dei libri della sua casa editrice e collabora al periodico “Der Knuppel” (il manganello). Negli stessi anni è anche direttore artistico delle messinscene del teatro di Renhardt. Dopo la fine del Dada a Berlino si dedica quasi completamente alla politica eseguendo molti fotomon-

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Sopra: opera dadaista in un dettaglio di una pagina della rivista Newe Jugend. Pagina 39: John Heartfield. Pagina 40-41: Milioni dietro a me (1932). Pagina 42-43: La conquista delle macchine.

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taggi. Nel 1929 tiene la sua prima grande mostra nell’ambito dell’Esposizione Internazionale “Film und Photo” a Stoccarda. Nel 1933 è costretto a rifugiarsi a Praga e in seguito a Londra perseguitato dal nazismo tedesco. In Unione Sovietica è promosso a far parte del gruppo di propaganda per mezzo del fotomontaggio politico insieme a grandi grafici, come Klucis e El Lissitzky. Nel 1939 organizza la mostra “One man’s war against Hitler” (guerra personale contro Hitler). In seguito si trasferisce a Lipsia e lavora in collaborazione con Brecht. Nel 1957

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compie un importante viaggio in Cina e nel 1968 muore a Berlino. Negli anni venti Heartfield era diventato un artista di tipo nuovo, un artista che interviene, l’artista militante. Egli non solo si rifiuta di lavorare estraniato dagli eventi reali, ma vuole intervenire sugli eventi stessi con i mezzi artistici a sua disposizione per modificare la direzione: fare politica, non giudicarla. Presupposti necessari sono un linguaggio altamente sviluppato e comprensibile alle masse, un procedimento artistico che consenta lavori rapidi e un mezzo che garantisca la veloce diffusione dell’arte tra le masse, proprio con questo scopo Heartfield usa il fotomontaggio. Con l’opera Milioni dietro a me (16 ottobre 1932) Heartfield denuncia l’appoggio dato a Hitler dalla grande industria e dai latifondisti agrari, ripetendo un motto che lo stesso Hitler aveva largamente usato prima di arrivare al potere per indicare la massa dei suoi sostenitori. Heartfield annuncia ironicamente: “Il significato del saluto di Hitler: un piccolo uomo che chiede grandi regali” e mostra la mano destra di Hitler accettare una mazzetta di banconote da un gigantesco borghese che sta dietro di lui. Ovviamente il finanziatore occulto non vuole

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farsi notare, motivo per cui il suo volto resta nascosto. Contemporaneamente all’ascesa del nazismo, Heartfield compone la prima serie dei suoi più alti capolavori, come ad esempio il manifesto per le elezioni del 20 maggio 1928, “La mano ha 5 dita, con il 5 espugnerai il nemico! Votate la lista 5, partito comunista!” La presa sulla realtà, l’oggettività garantita dal documento fotografico, insieme alla fantasia fanno di questi fotomontaggi, nell’epoca in cui sono stai eseguiti, il caso unico di una ideologia critica della società, risolta appieno nell’evidenza immediata dell’immagine figurativa. La situazione tedesca, per gli artisti, era gità diventata difficile prima ancora che il nazismo prendesse definitivamente il potere. Non era nemmeno necessario che si trattasse di opere esplicitamente rivoluzionarie. Bastava che in qualche modo proponessero un’immagine non convenzionale o retorica della Germania o della sua storia perché i nuovi filistei gridassero allo scandalo. Dopo l’ascesa di Hitler al potere, le persecuzioni contro gli artisti di avanguardia, contro i così detti “artisti degenerati”, aumentarono d’intensità, si fecero spietate, si spinsero fino all’arresto e al falò delle opere. Ormai dunque, in Germania, l’arte e la cultura erano state

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ridotte al silenzio. Comunque l’opposizione degli intelletuali e degli artisti continuò all’estero, e così fu anche per Heartfield, costretto a lasciare la Germania sin dal 1933, pur restando collegato idealmente al movimento operaio internazionale. Tuttavia il suo lavoro rallentò anche se non mancò l’intervento delle sue immagini nelle varie fasi successive della lotta, sia nei giorni della guerra di Spagna, che in quelli decisivi dell’ultimo conflitto in cui finalmente il nazismo fu abbattuto. Ciò che è opportuno mettere in luce accanto alla descrizione degli anni della sua formazione fortemente legati alla situazione politica ed ad immagini forti e dure è il senso permanente d’attualità che l’opera di Heartfield ha mantenuto e mantiene, non solo perché i suoi temi riguardano anche il presente, bensì perché il

John Heartfield ritratto in un francobollo commemorativo della Deutsche Demokratische Republik.

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suo metodo insegna a cogliere sempre il centro casuale del problema. Inoltre un secondo aspetto che rende estremamente attuali questi fotomontaggi è l’aspetto tecnico-espressivo, infatti egli è uno dei primi artisti che ha capito la necessità di appropriarsi di un mezzo di comunicazione di massa, quale l’immagine fotografica per farne uno strumento di coscienza in senso contrario, ritorcere cioè l’arma dell’avversario contro l’avversario stesso. Heartfield come tecnica nella maggior parte delle sue opere usa il fotomontaggio, nei suoi lavori ha speri-

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mentato tutte le potenzialità espressive e le risorse che gli strumenti e le immagini del suo tempo gli consentivano. Con lui il fotomontaggio, che fino ad allora trovava impiego solo come iconografia popolare (nelle cartoline, per esempio) o come tecnica sperimentale di artisti d’avanguardia (Dada), muta indirizzo e fa un salto di qualità: si trasforma in uno strumento duttile, capace di esprimere contenuti complessi. Per comporre i propri lavori egli aveva un grande archivio di fotografie, l’artista però non lavorava direttamente con la macchina fotografica e la camera oscura, ma si avvaleva dell’aiuto di un fotografo, che a seconda delle esigenze gli preparava il materiale. Gli strumenti elementari del suo lavoro erano le forbici e la colla e l’ingranditore, con cui elaborava i materiali provenienti dai giornali e dalle agenzie giornalistiche.

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Fratelli e figli (1924).

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a d n o c e s parte ANNI ‘70

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i r t e p elio

CENSURA I N G O I D A R L DI SOP UN CINEMA A

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C

on l’aiuto del teatro di Genova, hai esordito come regista teatrale con L’orologio americano di Arthur Miller. Perchè questa scelta, dopo così tanti anni dedicati esclusivamente al cinema? Nei miei film più recenti, iniziando da “La proprietà non è più un furto”, si avverte una certa spinta verso il teatro. Per esempio, la critica ha disapprovato il mio uso del monologo in “La proprietà non è più un furto”. Ma tuttora io difendo la mia scelta, anche se fa parte di una prospettiva teatrale. Analogamente, Todo Modo rappresenta un tipo di “mistero” teatrale e politico. Il film rispetta fedelmente quelli che sono i concetti alla base di una performance

fotogrammi da ne: dettagli di gi pa te es qu In radiso” eraia va in pa “La classe op . e “Todo Modo” 51


teatrale, un certo approccio allo spazio e al tempo, un certo uso degli attori. Credo anche che siamo giunti in un momento del lavoro di produzione artistica in cui l’esperienza del regista debba diventare circolare, interdisciplinare nel senso più ampio del termine. Prendiamo il caso di Luca Ronconi. Lui lavora in teatro e in televisione e presto o tardi farà anche un film. Penso sia proficuo unire diverse esperienze, e che un regista cinematografico, ad esempio, dovrebbe condividere ciò che sa con gli attori teatrali e insegnar loro l’ “immediatezza”, ottenendo un ritorno nel costruire una performance “con le loro mani” piuttosto che rifarsi a formule prestabilite. La televisione ti consente di trasmettere un evento in diretta a milioni di persone. Sfortunatamente questa capacità è impiegata solo marginalmente, considerato che molti

Dettaglio da un fotogramma de “La proprietà non è più un furto”.

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preferiscono costruire un “evento” dalla routine, con metodi collaudati. La televisione non dovrebbe essere una scusa per fare pseudo-film, né pseudo-commedie, né pseudo-eventi sportivi. E’ per questo che trovo il teatro più interessante della televisione. Penso anche che lavorare in teatro oggigiorno richieda molte idee, molte di più di quelle che ci si aspetta da un regista cinematografico. Anche la sua esperienza televisiva con “Le mani sporche” di Sartre fu pseudo?

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Sopra: dettaglio di un’illustrazione di promozione di “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”. Pagina 55: Elio Petri. Pagine 56-57: dettaglio di una illustrazione di promozione de “La classe operaia va in paradiso”. Pagine 58-59: dettaglio di un fotogramma di “Indagine”.

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Assolutamente no, se lo considera attentamente, scoprirà che non ho provato a fare pseudo-cinema o pseudo-teatro, ma qualcosa di veramente e intrinsecamente televisivo. Per fare questo, prendo in considerazione per ogni scena le dimensioni dello schermo e lavoro con attenzione sulla precisione della ripresa. Mi ha chiesto perché ho scelto Miller. Perché è un lavoro contemporaneo. Non mi interessava fare un classico già riverito nella storia culturale e negli annali. Dirigere L’orologio americano a teatro è stato come fare un film.

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Analisi di “indagine”, film esemplare della poetica di Petri. “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” è il primo film della “trilogia della nevrosi” di Elio Petri uscito nelle sale italiane il 12 febbraio 1970, all’indomani delle bombe di Piazza Fontana e del defenestramento di Pinelli. Il film venne accolto come una “bomba” per la sua critica alle istituzioni ma subì critiche sia dagli addetti ai lavori che dai movimenti. A dimostrazione che la complessa fusione di film thriller erotico e critica sociale e politica era qualcosa realmente nuovo. Lotta Continua diede indicazione di leggere la figura del Dottore come un alter-ego di Calabresi, probabile assassino di Pinelli. Petri firma soggetto e sceneggiatura assieme a Ugo Pirro e affida il complesso ruolo del protagonista ad uno splendido Gian Maria Volonté. Gli interpreti che lo affiancano non sono da meno, come Florinda Bolkan nel fiore dei suoi anni e Salvo Randone, attore di teatro fortemente voluto dal regista. La pellicola tratta dell’indagine sull’omicidio di Augusta Terzi, amante del Dottore, capo dell’ufficio politico della questura di Roma, eseguito da quest’ultimo per dimostrare l’insospettabilità di chi detiene il potere. L’assassinio rappresenta il primo episodio del film, rivelandoci da subito

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l’ambivalenza della figura del Dottore sulla quale si struttura tutta l’opera. Gli elementi del linguaggio filmico vengono abilmente utilizzati per descrivere la psicosi del potere, la scissione tra la sfera privata, personale e quella pubblica, politica. Lo spettatore apprende i motivi dell’omicidio ed il rapporto instauratosi tra il Dottore e Augusta attraverso una serie di flashback che interrompono il corso della storia ogni qual volta il Dottore rammenta o sogna momenti passati con lei. I luoghi sono molto importanti per comprendere la turba mentale del Dottore. Lo spazio privato è rappresentato dall’appartamento della donna. L’architettura e l’arredamento liberty uniti agli abiti di Augusta e la quantità di libri gialli Mondadori danno una connotazione forte di borghesia annoiata decadente in cerca di esperienze stravaganti. Lo spazio pubblico è invece il Centro direzionale di polizia, funzionale e razionalista, dove il Dottore esercita il ruolo di comando e costruisce la sua reputazione. L’abitazione minimalista del Dottore è un luogo al centro fra queste 2 realtà. Un luogo proprio del Dottore, esternamente impeccabile e internamente “sporco”, come è egli stesso. A questi 3 riferimenti spaziali chiari si aggiungono altri am-

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bienti, quali la spiaggia e il Pantheon, collocabili nella sfera personale e cruciali nel dispiegamento del filo del racconto attraverso i flashback. Una dimensione importante e significativa che ritroviamo nei tre luoghi simbolo in diversi momenti della pellicola e che praticamente coinvolge tutti i personaggi principali è quella dell’interrogatorio. Augusta viene interrogata dal Dottore nel suo appartamento, il marito di Augusta, l’idraulico e l’anarchico Pace vengono interrogati nel Centro direzionale e infine il Dottore stesso viene interrogato nella sua abitazione. Nei primi tre casi si riproduce il regolare esercizio dei ruoli di potere, mentre negli ultimi due questi si scombinano palesando l’infantilismo del Dottore. L’interrogatorio dei colleghi al Dottore di sei minuti circa è in realtà un sogno che nel tempo della storia ne occupa circa uno.

Dettaglio di un fotogramma di “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”.

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Le inquadrature e il movimento della macchina da presa sono sintomatici dei contenuti che Petri vuole veicolare. Gli zoom, i particolari, i primi e i primissimi piani vanno smascherando le caricature levigate del potere evidenziando la deformità di questo nella rugosità e imperfezione della pelle. I dettagli rappresentano riferimenti simbolici e citazioni, come le iscrizioni “Giustizia” e “Scienza” sul palazzo liberty e il quadro raffigurante D’annunzio nell’ufficio del questore. Le carrellate a seguire portano lo spettatore-suddito dentro la scena mentre le

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inquadrature dall’alto in basso e viceversa alludono al rapporto repressore/represso. La camera non è quasi mai fissata su cavalletto rendendo instabile la ripresa, come se la nevrosi del Dottore permeasse anche lo stile della tecnica di regia. La fotografia vira su colori caldi e morbidi, con la luce compatta ed estesa per tutta la scena. Spesso questa è “sporcata” da oggetti che si frappongono tra la macchina da presa e l’azione limitando il campo visivo. I visi e le figure vengono tagliati da muri, cancelli e riflessi. Questo contribuisce alla costante atmosfera tesa e grottesca del film. La colonna sonora del film è un pezzo di Ennio Morricone dal ritmo sincopato. Gli strumenti utilizzati sono: uno scacciapensieri, che ad ogni pizzico ricorda le origini sicule del Dottore e allo stesso tempo aggrava la tensione; il sax soprano e contrabbasso che sottolinea i sentimenti contrastanti provati dal protagonista trasponendone la nevrosi.

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Primissimo piano del Dottore in “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto�.

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e r a n i h attacc VIMENTO O M IN A IC F A GR

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n queste pagine e in quelle a seguire vi sono raccolti una serie di grafiche, copertine di libri e perlopiù manifesti che le organizzazioni della sinistra rivoluzionaria degli anni ’70 attacchinavano per attaccare, anche attraverso l’immagine, i loro rispettivi nemici politici. A seguire un estratto da una riflessione su violenza e comunicazione di Gioacchino Toni sul libro di William Gambetta, “I muri del lungo ’68. Manifesti e comunicazione politica in Italia”, Derive Approdi, Roma, 2014.

o di un manifest ne: dettaglio gi pa te es lla qu In glio de i politici; detta per i prigionier rso. rivista Attrave 65


“Il saggio di Gambetta rappresenta uno studio sistematico di come, nel panorama politico italiano, nel corso degli anni ’70, il linguaggio dei manifesti dei partiti istituzionali si sia confrontato con i manifesti prodotti, a partire dal 1968, dai movimenti politici della sinistra radicale. Tra i vari aspetti trattati da Gambetta parlando dei manifesti degli anni ’70 c’è la questione della violenza politica. Gambetta sottolinea come l’etichetta di “anni di piombo”, applicata al decennio, riconduca tutte le pratiche in cui vi è ricorso ad una forma di violenza, all’interno di un insieme indistinto: scontri tra opposte fazioni o con la polizia, bombe stragiste, azioni di fuoco di gruppi armati ecc., tutto diviene parte di una nebulosa indistinta. Dalla ricerca dell’autore emergono tre schemi comunicativi principa-

Grafica di copertina del numero 25/26 di “Rosso” del marzo 1978

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li: l’esaltazione della forza del popolo o del partito al fine di piegare la violenza negativa dei nemici, la denuncia della violenza di Stato e l’appello alla concordia istituzionale contro un nemico estraneo alla vita democratica del paese. La forza del popolo tendenzialmente viene celebrata tanto dai manifesti dei movimenti radicali, quanto dalla sinistra istituzionale. Nel primo caso l’accento è spesso posto sul legame tra le lotte popolari internazionali e la lotta anticapitalista portata avanti all’interno del paese. Il ricorso alla violenza, anche armata,

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Sopra: grafica dell’Autonomia Operaia. Pagina 69: dettaglio di un manifesto di Potere Operaio. Pagina 70-71: dettaglio della copertina dell’opuscolo “Polizia” di Gianni Viola edito da Stampa Alternativa sulla repressione negli anni ‘60 e ‘70.

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non solo è condivisibile nei confronti delle lotte di popolo in atto (es. Vietnam), ma non è da escludere nemmeno sul fronte interno. Molti sono i manifesti in cui al pugno chiuso inizia ad essere associata l’icona dell’Ak 47. Nella sinistra istituzionale, invece, il riferimento alle armi si limita o alla celebrazione della Resistenza italiana al nazifascismo o alle guerre popolari di liberazione nel sud del mondo. Dal punto di vista “interno”, nazionale, la forza “delle masse” viene tradotta graficamente dalla sinistra parlamentare dalle immagini di un popolo

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che si mobilita riempiendo le piazze, “nei volti severi ma scoperti dei manifestanti e nelle bandiere”. Molti manifesti nel corso del “lungo Sessantotto”, adottano un sistema dicotomico ove una violenza “legittima e necessaria” si scontra con una violenza “immorale e arbitraria”: partiti costituzionali vs. “opposti estremismi”, sinistra rivoluzionaria vs. neofascisti e/o Stato borghese e/o capitalismo ecc. Non è infrequente che nei manifesti di tutte le forze politiche, istituzionali e non, il nemico venga mostrato come entità anonima, col volto celato (passamontagna o casco d’ordinanza, in base allo schieramento della forza politica), incline alla violenza cieca ed indiscriminata. Il nemico violento viene raffigurato come automa senza volto, mero simbolo o marionetta guidata da dietro le quinte. Le forze politiche istituzionali, al fine di negare legittimità agli avversari, tendono a denunciare la violenza armata o “attraverso immagini verosimili, ideate appositamente”, o “modificando profondamente le fotografie originali” al fine da enfatizzare l’impatto emotivo. Alla condanna del terrorismo (termine che ben presto diviene quasi onnicomprensivo di qualsiasi ricorso a forme di violenza), i manifesti istituzionali associano spesso l’indicazione di come sconfiggerlo. La comune “battaglia per la difesa della

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democrazia” nei manifesti Dc diviene “difesa delle istituzioni e della sua classe dirigente”, mentre nella produzione del Pci la risposta viene dalla “mobilitazione popolare”, dalla massa di lavoratori che scende in piazza e partecipa alla vita democratica del paese. Allo schema più diffuso, basato sulla semplificazione “bene vs. male”, si sottraggono le formazioni della nuova sinistra ed i radicali. La campagna referendaria (un quesito riguarda l’abolizione della Legge Reale) di questi ultimi, in pieno 1977, ne è un esempio emblematico. Vengono affissi due manifesti del tutto uguali in termini di slogan (“Disarmiamoli con la non violenza firmando gli 8 referendum”) e di grafica recanti in un caso la celebre foto del militante che spara in via De Amicis a Milano e, nell’altro, l’altrettanto celebre immagine del poliziotto travestito da manifestante che, dopo aver sparato, pistola in pugno, si ritira tra le fila delle forze dell’ordine. In questo caso di duplice manifesto, il messaggio radicale è chiaro: condannare tanto la violenza armata di piazza, quanto la violenza armata repressiva. La nuova sinistra, volendo problematizzare il ricorso alla violenza fatica a ricorrere ad un mezzo sintetico come il manifesto necessitando di una comunicazione meno “drastica”.”

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Intestazione di “OASK?!� la rivista degli indiani metropolitani.

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o c i m a ’ tano d POTERE A Z N E S I E D O IL FOTOGRAF

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ome racconteresti con un’immagine, con una foto che hai davvero scattato o anche che non hai scattato, il tuo ’77? Tano: Il ’77 lo vedo con tante immagini, con tante facce, con tante espressioni di giovani, ragazzi e ragazze, che non esistono più. Io ho visto che le facce di quel periodo sono scomparse. Sono scomparse forse perché la faccia ognuno se la fa, con le domande che si pone, e quelle domande forse non esistono più, almeno formulate in quel modo. E non esistono più le facce del 1977…

77, foto di ne “Roma 19 In queste pagi 3, rivolta 97 “1 ”; ovimento gruppo del m li”. a Regina Coe

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Più vive? Tano: Io non oso dire… Sono diverse, sono diverse. Quello che mi fa riflettere molto è perché le facce compaiano tutte quante insieme, e scompaiano tutte quante insieme. Ho visto che nel caso del ‘77 è vero che quelle facce è come se fossero scomparse tutte quante insieme. E-sistono dei periodi della storia che mi interessano molto… per esempio i volti che Caravaggio ha dipinto sono scomparsi tutti quanti insieme. Erano degli amici che si volevano bene, che non si trovavano bene nel mondo come era, avevano delle grandi aspettative e tutti quanti sono proprio scomparsi in giovane età, cioè non molto vecchi, tutti quanti prima di compiere i quaranta anni, uomini e donne, sono scomparsi. Sono rimaste le facce, di Caravaggio.

“Roma, 1977, dopo la cacciata di Lama”.

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Con l’attività di “ladro d’immagini”, qualche volta ti si sono posti dei p r o blemi, dei conflitti “di coscienza”, se pubblicare o non pubblicare delle foto in considerazione di quello che stava accadendo, del clima…? Tano: Tantissime volte. Sempre. Quando cominciai i miei lavori per Lotta Continua e per Potere Operaio del lunedì, dovevo stare molto attento a fornire delle fotografie che non mandassero in carcere delle persone. Che non voleva dire non fare vedere delle persone che compiono

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Sopra: “Roma 2000, Potere e cittadini” Pagina 79: Tano D’Amico. Pagina 80-81: “Roma, famiglia” (nella foto Militant A, cantante degli Assalti Frontali). Pagina 82-83: “Genova 2001, Piazza Alimonda”.

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reati, perchĂŠ tutti i giorni si commettevano reati. Si commettevano reati perchĂŠ c’erano delle istanze di cambiamento e quindi si incorreva spesso in piccoli reati, anche per attaccare dei tazebao, per opporsi a degli sgomberi. E dovevano essere quindi delle fotografie limpide, chiare. Io odio le immagini con le barrette sugli occhi. Quindi dovevano essere delle fotografie in cui si dovesse vedere in modo chiaro chi erano le vittime e chi i carnefici. E chiaramente è brutto mandare in carcere delle vittime. Infatti bisogna dire che pur vedendosi nelle mie

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immagini, anche quelle che ora si vedono, quelle di venticinque anni fa, delle immagini di persone che commettono reati, mai, mai una persona è stata portata davanti ai giudici per una immagine così. Qualche volta quelle immagini sono servite come prova a discolpa. Ecco, questo volevo dire, dovevano essere delle immagini molto ma molto cercate. In cui, anche in modo astratto, dalle linee, dai chiari, dagli scuri, come per esempio in teatro, sul palcoscenico, in un balletto ad esempio, si vede subito chi sono i cattivi e chi i buoni. E così nelle mie immagini si doveva vedere subito a chi doveva andare la simpatia dei lettori, degli spettatori. Allora di occupazioni delle case, a Roma in particolare, ce n’erano molte. La quantità delle occupazioni di case che c’è stata a Roma è assolutamente sproporzionata rispetto alle altre città d’Italia. Anche a Milano, Torino, non si sono mai verificate in queste dimensioni, si è sempre trattato di occupazioni di singole palazzine, da parte di gruppi politici; via Ribaldi, ecc. A Roma invece c’era proprio un movimento popolare. Come lo ricordi? Perché poi la cosa è stata lunga, dal ’68 fino a oltre gli anni ’80, quindi quasi venti anni di occupazioni di case.

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Tano: Ricordo delle notti molto molto buie, in cui mi veniva detto di trovarmi in un certo posto e poi venivo messo al buio e di fronte sentivo rumori, porte che venivano rotte, queste cose. Bisogna dire che in queste notti c’era sempre spazio per le immagini. Mi ricordo che con il flash potevo fare il giro degli appartamenti, delle stanze, aprire le porte e fare delle foto, e la mattina dopo vedere nelle foto scattate con il flash delle cose che non si potevano vedere al buio, vedere dei bambini che dormivano, delle famiglie intere che dormivano per terra, dei bambini che si svegliavano per il rumore della porta… Ecco, e le fotografie, questo volevo dire, anche se adesso a noi sembrerà strano, venivano cercate. Io venivo cercato, è stato un periodo molto bello della mia vita. Venivo cercato perché si volevano delle immagini diverse. Perché avevano visto su Lotta Continua, su Potere Operaio del lunedì, anche gli occupanti di case comparivano come delle belle persone, allora gli occupanti delle case volevano delle altre immagini. Rispetto a tutte le definizioni che sono state date poi, o anche durante, del ’77, qual è la tua definizione di quel movimento? E’ stato definito come conflitto generazionale, come embrione di guerra civile, come movimento politico o come

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movimento contro la politica, come un’ondata di creatività, come contestazione contro la politica dei sacrifici, come movimento rivoluzionario di massa… Non per definirlo e concluderlo, ma quale lettura ne daresti, come lo ricordi? Tano: Io non lo so. Forse era un pezzettino di tutto quanto. Ma quando rifletto su quell’anno della mia vita e della vita degli altri, penso che doveva essere qualcosa di molto importante. Lo è stato, come ho detto, nella mia vita e lo è stato, anche amaramente, nella vita degli altri. Perché molte persone poi hanno sofferto tantissimo, venendo escluse, loro che non volevano escludere. Venendo escluse, vivendo per vent’anni nelle carceri. E altre per esempio si sono escluse dalla vita, penso alle persone che si sono uccise, anche. C’è una mia immagine, che ricordo e mi piace, che poi non è una mia immagine, è un’immagine degli altri, infatti è una foto di gruppo del ‘77: allora si vedono delle persone che hanno fatto carriera, delle persone che si sono tirate via dalla vita. Per esempio io avevo, e ho tuttora, un amico molto molto caro, che per mesi è stato quello che ha diretto il giornale in cui lavoravo in quegli anni, Lotta Continua, che ora fa il bidello in una scuola di Bologna, con la laurea in Lettere, tutto quanto…

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“Pendolari sardi a Porto Torres 1972”.

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ominciamo con una cosa facile facile: quando hai iniziato a disegnare? Ho iniziato a disegnare da piccolissimo. In realtà, una maestra dell’asilo mi disse che i miei disegni erano orrendi, cosa che mi fece pensare che disegnare era una cosa davvero importante e che avrei dovuto imparare a farlo. Quando andavo all’asilo, con la mia famiglia passammo un anno all’estero: non capivo niente di quello che diceva la gente e passavo tutto il tempo a disegnare. Tornato negli Stati Uniti era la cosa che sapevo fare meglio e così quando scoprii, un paio di anni più tardi, i fumetti della Marvel e r un movine: disegno pe In queste pagi ifesto per an m ; he le banc mento contro tto. nerale dell’affi lo sciopero ge

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che il nome del disegnatore compariva sulla prima pagina, pensai: “Wow, disegnare fumetti è un lavoro. Ecco cosa farò da grande!”. Da un punto di vista strettamente tecnico, puoi dirci qualcosa sugli strumenti che usi per disegnare? Il tuo approccio al disegno come si è evoluto nel tempo? Generalmente parto da uno schizzo veloce poi lo espando in un disegno più grande. Inizio con la matita o con della grafite e finisco con qualche altro strumento.Oggi cerco di essere più realistico. Quindi posso anche fare schizzi partendo da una situazione reale o tenendo un modello come riferimento. I tuoi fumetti sono fin da subito molto legati all’impegno politico. Pensi che il fumetto sia un modo per raggiungere

Vignette dal fumetto “Mumia and the Multitudes”.

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politicamente più persone o è soltanto il tuo modo? Penso che per la gente sia naturale fare arte sulle cose che per loro contano: a me interessa la politica quindi faccio arte politica. Sarà la storia a giudicare se è il modo migliore per far circolare il messaggio. Gli anni ‘80 in America sono stati un periodo molto prolifico per le riviste a fumetti, anche per quelle politicamente impegnate.

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Sopra: vignetta di Seth Tobocman da “Disastri e resistenza”. Pagina 93: Seth Tobocman. Pagine 94-95: volantino senza parole dei primi anni ‘90. Pagina 96-97: copertina della graphic novel “War in the neighborhood” edita da Autonomedia.

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Puoi raccontarmi qualcosa della nascita di World War III? Pensi che abbia in qualche modo influenzato la percezione dei vostri lettori dei problemi sociali e politici del periodo? Negli anni Ottanta c’erano forse quattro riviste a fumetti che erano dirette a un pubblico di adulti: American Splendor di Harvey Pekar, Raw di Spiegelman, Picture Story di Ben Katchor e il nostro World War 3 Illustrated. Cominciammo con la nostra rivista perchÊ senza di lei non ci sarebbero stati luoghi dove pub-

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blicare fumetti politici. Ci furono una serie di eventi che ci convinsero a cominciare una rivista politica: i tumulti in seguito all’assassinio del politico gay Harvey Milk, detti White Night Riots , l’incidente alla centrale nucleare sulla Three Mile Island e il posizionamento di armi nucleari statunitensi in Europa. Ma il più significativo fu la crisi degli ostaggi in Iran o più precisamente la reazione americana a quella crisi. Per dire: entravo nel supermercato dov’ero andato per tutta la mia vita e vendevano queste spille gigantesche con su scritto “Fuck Iran”. E le vendevano alle stesse persone che mi avrebbero preso a schiaffi se da bambino avessi solo pronunciato la parola “fuck”! Quindi pensammo: “se questa gente può esprimersi liberamente, possiamo farlo anche noi: mettiamoci a fare una rivista di politica a fumetti”. Quando iniziammo, il nostro punto di vista era piuttosto liberal, del tipo “non ci piace Reagan”. Ma incominciare a stampare la rivista fu un po’ come alzare uno striscione. Diverse persone erano attratte da quello striscione e piano piano incominciarono a insegnarci e spiegarci diverse cose; la rivista diventò così la voce di una comunità ristretta, ma molto attiva, di anarchici degli Stati Uniti. Direi che i nostri lettori ci hanno influenzato tanto quanto noi abbiamo influenzato loro.

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Come nascono i tuoi libri: disegni di getto o rielabori con calma quel che ti succede? Per raccogliere le storie di cui parli: intervisti? osservi? studi altri libri? Di solito sono i piccoli dettagli a far partire la mia immaginazione. Tipo, quando ero a New Orleans la gente cominciò a segnalarmi il fatto che gli elicotteri, che giravano sopra la nostra testa, erano utilizzati da agenzie immobiliari per dei tour organizzati e a me venne immediatamente da pensare agli avvoltoi. Ed ecco il gancio per tenere insieme le mie impressioni sulla ricostruzione post uragano Katrina. Successivamente ho dovuto comunque approfondire l’idea facendo ricerche, quindi ho fatto schizzi e foto, infine, di nuovo a New York, mi sono messo addirittura a studiare gli avvoltoi dello zoo del Bronx. In alcuni casi effettuo anche interviste o qualche altro genere di ricerca utile al mio libro: dipende tutto dal soggetto anche se in generale mi piace sapere di cosa sto parlando prima di mettermi a disegnare sul serio. Per te la politica è sempre impegno in prima persona: dalla partecipazione al movimento squatter degli anni ‘80, al recente viaggio in Palestina per

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insegnare arte e inglese ai bambini. Il tuo ultimo lavoro è un’analisi delle cause e degli effetti della crisi economica negli Stati Uniti. Cosa pensi di movimenti come “Occupy Wall Street” o “We are 99%”? Credi possano influire sulla situazione attuale, e in che modo? Durante gli ultimi trent’anni il capitalismo ha trattato l’economia americana nello stesso modo in cui un eroinomane tratta le sue vene: cercando di spremere fino all’ultimo dollaro senza nessuna preoccupazione per il futuro. L’attuale collasso economico ne è una conseguenza. Ho iniziato a lavorare a Understanding the crash dopo aver fatto ritorno nel 2008 alla mia città natale, Cleveland, e aver visto le case sbarrate con le assi. “Occupy Wall Street” è solo l’ultima espressione di un movimento contro le grandi banche, iniziato nel 2007, durante

Disegno di un volantino sulla periferia in lotta.

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il quale gruppi locali protestavano contro il pignoramento delle case. In seguito si unirono i sindacati che protestavano contro il licenziamento dei lavoratori. Ma “Occupy Wall Street” ha cambiato il movimento: ha portato i giovani, la controcultura, i senza tetto e una varietà di tattiche avventurose da cui una organizzazione di lavoratori o un grande sindacato si sarebbero tenuti lontani. Penso che questa sia un’ottima escalation, necessaria. Finora l’opinione pubblica americana ha supportato “Occupy Wall Street” come non le ho mai visto fare con

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la sinistra. Quindi penso che l’idea del 99% (unire i poveri, il proletariato, la classe media, gli studenti e la controcultura) contro l’1% che controlla il sistema, stia funzionando. Cosa che mi dà speranza. E ora la domanda più difficile. Che futuro pensi che possa avere il fumetto come forma artistica? L’industria editoriale del fumetto, come quella della musica ma come l’editoria in genere, sta facendo fatica a fare soldi a causa di internet. Ma c’è una differenza: i fumetti sono molto popolari ora come ora. Per diverse generazioni, sono stati in una posizione strana: c’era l’industria che pagava bene gli artisti, ma rubava la loro proprietà intellettuale e vietava loro di fare cose per i bambini, mentre gli artisti si lamentavano perché volevano che i fumetti fossero trattati come “forma artistica”. Be’, attenzione a cosa desiderate, perché sta succedendo: i fumetti diventeranno presto più una forma artistica che una professione e questo significa che qualche artista riuscirà a viverci, ma molti altri faranno fatica. . Il fumetto come forma artistica è in ascesa, ma essere un artista non è mai stato facile.

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Vignette di un volantino per l’organizzazione antagonista metropolitana.

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l e t o h 4stelle PER LA CASA A T T O L A L L DE IL WEB-DOC

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F

ino al dicembre del 2011 il nome completo era “Eurostars Roma Congress Hotel & Convention Center“, su TripAdvisor si trovano ancora le recensioni. L’ultima di queste s’intitola “Hotel occupato”. Dal 2012, infatti, oltre 200 famiglie hanno trasformato questo spazio abbandonato in un’occupazione abitativa che, oggi, significa un tetto sopra la testa per 500 famiglie provenienti da tutto il mondo. Un universo multiculturale in cui il giovane freelance Paolo Palermo, in questi due anni, ha realizzato il web-doc “4 Stelle Hotel” attualmente fruibile gratuitamente sulla rete.

lie ni delle famig ne: due bambi gi pa l te de es le qu rti In nel co mbini giocano occupanti; ba 4 Stelle. 103


Paolo, come sei arrivato al 4 stelle? Quando è nata l’idea di questo web-doc? «Era il secondo giorno di occupazione quando sono andato a bussare al cancello dell’albergo di Via Prenestina, non si chiamava ancora ‘4stelle’. Avevo una telecamera in mano e tanta voglia di conoscere una nuova realtà. Il mio intento principale era documentare la costruzione di un’occupazione. Ho iniziato a scoprire un universo di persone provenienti da ogni continente, ognuno con un passato diverso, ma con in comune la necessità di una casa e la voglia di riscatto. Valerio Muscella, coautore di ‘4 Stelle Hotel’, mi ha raggiunto il giorno successivo e dopo un mese abbiamo deciso che questa storia andava raccontata».

Un abitante del 4Stelle Hotel nel suo appartamento.

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Raccontaci un po’ di più cos’è oggi il “4 Stelle Hotel”? «Il 4stelle è una delle centinaia di occupazioni abitative a Roma le quali, sostenute dai movimenti di lotta per la casa, sono una risposta al problema abitativo. L’emergenza abitativa, nell’ultimo anno è stata sotto i riflettori in seguito all’attuazione del cosiddetto Piano Casa del Ministro delle Infrastrutture Lupi e agli arresti di alcuni attivisti dei movimenti di lotta per la casa.

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Sopra: Il 4Stelle hotel di notte in una immagine del documentario. Pagina 107: Paolo Palermo, coautore del doc. con un bambino dell’occupazione. Pagina 108-109: un bambino corre nell’atrio dell’hotel. Pagina 110-111: la festa collettiva per la pasqua ortodossa.

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Il 4stelle è un’occupazione dei Blocchi Precari Metropolitani, tra le più grandi e popolate di Roma, nonché una tra le più multietniche. Abitata da duecento nuclei familiari, il suo fascino sta nella sua grande mescolanza di persone, provenienti da ogni continente, che si sono trovate ad abitare allo stesso momento nello stesso luogo e a cercare di creare una nuova comunità. L’occupazione mostra come la convivenza tra persone di culture diverse è possibile, e arricchisce la vita di ognuno.

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Certo al ‘4stelle’ non mancano i conflitti interni ma noi abbiamo scelto di raccontare l’eccezionalità della vita quotidiana in un luogo dove si lotta ogni giorno per il diritto fondamentale alla casa». Hai scelto di utilizzare la forma del webdoc, cos’è esattamente? Con chi lo hai realizzato e quanto tempo è durato il tuo lavoro? «Per raccontare questa storia abbiamo scelto di utilizzare un mezzo di narrazione ancora poco diffuso in Italia, il documentario interattivo e cross-mediale, fruibile sul web. La forza di questo new media è nel permettere a tutti, gratuitamente e in qualunque momento, di guardare on-line del documentario. Il web doc permette all’utente di approfondire gli aspetti della storia che lo incuriosiscono di più. L’utente è così libero di scegliere i tempi e i modi della navigazione. ‘4Stelle Hotel’ è un mosaico di persone, paesi, esperienze, emozioni, e storie di lotta, raccontato attraverso diversi supporti – video, foto, testi, suoni, musiche, e grafica. Ho realizzato il web doc con Valerio Muscella, fotografo e valido supporto alla camera, e con gli altri compagni di Paz (Produzioni Audiovisive Zavattini) che ci hanno sostenuto con le loro competenze in ogni

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fase della realizzazione, e con il supporto dell’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico (www.aamod. it) e di Kinesis Film. Durante le riprese durate circa un anno – il 4stelle è stato per noi un luogo di incontro e di passione, per questo con il webdoc abbiamo cercato di raccontare alcuni momenti di quella che è stata la nostra esperienza nell’albergo occupato. Non ho ancora capito bene quale sia stato il confine tra le riprese e la relazione con le persone che abbiamo incontrato e che oggi sono amici. Spero solo che dal webdoc emerga la grande franchezza con cui io, Valerio e gli occupanti ci siamo messi attorno alla camera. La grande sfida di questo progetto è anche nella programmazione Html 5 e nell’interfaccia grafica. Un nuovo linguaggio di programmazione e la pianificazione di una User Experience sono state un’ulteriore stimolo a questo grande esperimento. In questo è stato indispensabile l’aiuto del nostro web-designer Martino Bresin». C’è un aneddoto, un ricordo al quale sei particolarmente legato in questa esperienza? «Ci sono tanti ricordi che non potrò mai dimenticare del 4stelle. Credo che i momenti più emozionanti siano stati i grandi eventi collettivi, molti legati alle feste religiose: per esempio la

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pasqua ortodossa festeggiata da Etiopi, Eritrei e Ucraini, Russi, Moldavi – è stata condivisa anche con arabi, latinoamericani e italiani. Mangiavano e ballavano tutti assieme al ritmo di musiche tradizionali etiopi o della disco romena. Un altro grande evento collettivo è stato la difesa dell’occupazione, minacciata di sgombero dalla presenza di numerosi blindati della polizia, il 2 maggio dell’anno scorso. In quei momenti di una mattina qualunque a Roma sul tetto dell’albergo erano tutti fratelli, non c’erano più antipatie o conflitti, tutti assieme difendevano la propria casa!»

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Bambine occupanti in uno degli appartamenti del 4Stelle hotel.

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Di Mattia Pagl

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coautore olo Palermo, C.O.R.E. Intervista di Pa per il giornale ci da ar C co ar M da ta li za realiz nze Editoria izzati Resiste Circuiti Organ

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Comunicherete chiaro comunicherete tutto. La comunicazione visiva per il cambiamento sociale nella storia moderna e contemporanea. In copertina: pittogramma di Gerd Arntz Nel retro di copertina: dettaglio del manifesto di un’assemblea nazionale dei movimenti (2013) Immagine del sommario: illustrazione NO TAV Immagine della parte prima: “Evviva, il burro è finito!” di John Heartfield (1935) immagine della parte seconda: grafica di copertina del libro “AUT.OP. La storia e i documenti” immagine della parte terza: foto di Valerio Muscella per il web-doc 4Stelle Hotel Immagine della bibliografia: “Palermo, donne al balcone” di Tano D’amico Progetto di Mattia Pagliarulo Esame di Graphic Design 2 Prof. Maurizio Di Lella A.A. 14/15 Graphic Design e Multimedia Laba Firenze



cambiavisiva per il municazione co a per gli si La . ile ut tto tu to uno strumen municherete è co a ne ro e hanra ia ch ch po ia te verso i med na e contem Comunichere il passato attra storia moder modo ga lla co ie ni ne sp l’u e è al hĂŠ ci ic mento so comunicazione tti ai lavori po de lla ad de i e ri per gl ie r rm di fo pe che messaggi emoria delle appassionati forme date ai arlo. Avere m ani. lle m m da or do sf re l ra tra de a pa e al to e globale: im no contribui amento soci da bi pi m ca lim i il es re nt ta una si gi e solleci per arrivare a icare tutto og iaro e comun ch e ar ic un m co

M A T T I A PAGLIARULO


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