Lectio magistralis aldo moro bellamonte predazzo

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Il dovere di un politico di fronte al mondo Di Paolo Pombeni

A cent’anni dalla nascita di Aldo Moro possiamo iniziare a penetrare meglio la singolarità e lo spessore di un uomo politico che ha incarnato da più punti di vista il travaglio del sistema sociale e politico italiano in una fase difficile, quella fra il tramonto della centralità del modello europeo sette-ottocentesco e le avvisaglie di una crisi che sarebbe andata oltre il ripensamento stabilizzante di quel fatto epocale. Se non teniamo conto di questo contesto facciamo fatica a capire. Oggi, quando l’evoluzione storica ci ha fatto quasi toccare con mano la profondità e l’ampiezza di quella transizione, è possibile rivedere giudizi e interpretazioni che hanno sin qui penalizzato la considerazione di quest’uomo che venne impropriamente definito da molti con lo stereotipo dell’Amleto politico, se non del fumoso intellettuale che univa ad una capacità di visioni teorizzanti l’arte della costruzione del compromesso sin troppo realista. Non ci aiuta in questa lettura solo la maturazione dei tempi, ma anche, come sempre accade nel lavoro storico, la crescente disponibilità di materiale documentario e di fonti dirette. Da questo punto di vista devo subito dire che ho un privilegio: ho potuto leggere in anteprima l’importante biografia di Moro che Guido Formigoni ha scritto per Il Mulino e che sarà in libreria in autunno. Questo lavoro, che segna un punto di svolta nella ricerca, non è importante solo per la consueta finezza analitica dello storico del movimento cattolico, ma in egual misura per la enorme mole di documentazione che ha raccolto, facendo sintesi di tante ricerche settoriali, ma soprattutto esaminando molto materiale inedito e oggi disponibile, come l’archivio storico della Dc e la gran mole dei documenti diplomatici americani. Abbiamo dunque a disposizione moltissimi elementi per costruire un quadro comprendente di quel che ha significato l’opera di Aldo Moro per la storia del nostro tormentato paese. Si tratta, lo anticipo subito, di una vicenda peculiare in rapporto ad altre che pure hanno segnato in profondità il secondo Novecento italiano, peculiare persino all’interno di quella tradizione del cattolicesimo politico a cui lo statista pugliese va ascritto a pieno titolo. Ho scelto di intitolare questa riflessione al tema del dovere di un politico di fronte al mondo. Non è un omaggio alla retorica del buon ricordo che si deve ai morti, specie quando essi hanno concluso in modo drammatico la loro esistenza terrena. Vuole invece essere una chiave di lettura forte per una esperienza che non si può comprendere se non la si inquadra in quell’etica del dovere


2 di responsabilità di fronte alla storia che fu caratteristico delle grandi ideologie seguite alla Rivoluzione Francese e che nel cattolicesimo conobbe una declinazione particolare a partire dagli anni Trenta del Novecento. Non si trattava infatti più di quelli che semplicemente si chiamavano una volta “i doveri di stato”, cioè una buona e responsabile gestione dei ruoli umani e professionali che ciascuno veniva a ricoprire nella propria vita. Era piuttosto questione del dovere per il cristiano, nella sfida che inevitabilmente veniva ad affrontare con le altre ideologie interpretative dell’evoluzione storica, di essere lui a dover capire dove si indirizzava l’evoluzione degli eventi per agire in positivo su di essi e per orientarli verso mete di costruzione di una più piena soddisfazione dei valori ultimi che ogni essere umano porta iscritti in sé stesso. Aldo Moro si è formato dentro questo contesto, così come è avvenuto per gran parte della classe dirigente italiana cresciuta nelle organizzazioni di “Azione Cattolica”. Certo non era un contesto omogeneo quanto ad esiti ed interpretazioni, ma era un mondo che aveva da un lato messo da parte il revanchismo post rivoluzione francese (quello che scommetteva sul disastro del mondo uscito dal divorzio fra trono ed altare), ma che dall’altro intuiva come la storia stesse andando in direzione di una grande trasformazione dove potevano riaprirsi spazi per una presenza creativa degli uomini formati nell’alveo del mondo cattolico. Se posso forzare un poco l’uso dei termini, dirò, rifacendomi alla famosa “terza fase” che fu lo slogan con cui venne identificato il periodo finale della presenza pubblica di Moro, che quella che ora vado ad esaminare fu la “prima fase” della maturazione della sua coscienza politica. Essa inizia con la problematica presenza del cattolicesimo all’interno del fenomeno ambiguo del fascismo italiano, che non si sapeva in fondo se interpretare come la conferma di una deviazione del sistema politico non solo italiano dai canoni affermatisi fra Otto e Novecento oppure come una sorta di rivoluzione conservatrice a cui andavano perdonati gli eccessi degli entusiasti che non mancano mai in questi casi. Il tema riguardava in maniera forte quella futura classe dirigente che si voleva formare nei movimenti specializzati dell’Azione Cattolica, gli universitari prima e i laureati poi, perché su di essi ricadeva in maniera forte il compito di “collocarsi” dentro quella svolta storica di cui all’epoca era assolutamente comune discorrere. Tutto fu rimesso in discussione dall’evento bellico che da un lato sembrava confermare la tesi di un mondo sull’orlo di una prova finale riguardo al suo futuro e che dall’altro andava progressivamente rivelando il volto di un avvio di trasformazione verso mete che erano diverse da quelle prospettate negli anni del regime. Moro fa parte della generazione che ha compiuto il suo periodo di formazione in questa fase delicata e che lo ha fatto nel contesto della dirigenza dei movimenti cattolici, nel suo caso nei vertici romani. Non sfugga la peculiarità di questo percorso che portava coloro che vi erano coinvolti a sentirsi non solo stimolati a riflessioni di ampio


3 spessore, ma partecipi di un contesto che aveva la capacità oltre che l’ambizione di “pesare” da protagonista nell’evoluzione della storia. La “mentalità costituente” di molti uomini e donne di questa generazione si forma in questo frangente e verrà poi consolidata e resa operante dalla loro partecipazione, diretta o indiretta, alla fase costituente vera e propria del 1946-48. Il ruolo di Aldo Moro nell’assemblea che aveva il compito di scrivere la Carta fondamentale della repubblica è noto, ma qui, per spiegare l’ampiezza di quanto accennavo ricorderò che il lavoro degli uomini che elaboravano il nostro testo fondamentale fu seguito con passione da molti giovani, fra cui posso citare come emblematici due personaggi che avranno un ruolo nella vicenda successiva dello statista pugliese e che allora erano giovani dirigenti della Fuci: il fratello Alfredo Carlo e Leopoldo Elia. Ciò a testimonianza di come la fase costituente non fu, come scrissero all’epoca e dopo distratti osservatori, opera di “Soloni” chiusi a discettare fra loro, ma visse del coinvolgimento di una quota importante della gioventù che era uscita dal trauma delle presunte rivoluzioni avvenute fra le due guerre. Aldo Moro costituente era un giovane trentenne. L’uomo sotto la cui leadership agì in quel frangente e in frangenti successivi, Giuseppe Dossetti, aveva 33 anni. Lo ricordo a chi pensa che il nostro paese sia destinato sempre a non poter far spazio alle energie di generazioni giovani che portano sensibilità, certo non sempre raffinate come piacciono ai maitre à penser delle varie epoche, ma intrise dello spirito dei tempi. Per questi costituenti il compito che li attendeva era, come disse Giorgio La Pira in un celebre intervento, il riscatto storico di una componente della società, quella cattolica, che era stata esclusa dall’elaborazione del costituzionalismo moderno fra Sette ed Ottocento e che ora poteva assumere un ruolo da protagonista nella scrittura del nuovo costituzionalismo del Novecento. Moro fu pienamente coinvolto in questo Zeitgeist e in Costituente lo rappresentò con passione. Va ricordato qui il suo particolare insistere sul fatto che la nuova Carta doveva essere un documento pedagogico per il popolo prima ancora che un documento giuridico. Per questo egli, che per la sua collocazione geografica non aveva avuto alcuna esperienza della lotta resistenziale, insistette spesso sulla chiara natura antifascista che doveva connotare il nuovo testo. Non si trattò certo di un tributo alla moda dell’ora. Se noi leggiamo la serie dei discorsi di Moro vediamo ritornare in continuazione il richiamo alla fedeltà antifascista della Democrazia Cristiana, la chiusura ad ogni legittimazione della destra estrema: parole forti in epoche in cui non mancavano nel mondo cattolico e nelle stesse gerarchie nostalgie per ammucchiate conservatrici in cui non si andava tanto per il sottile. Non può stupire che seguendo l’impostazione di una chiamata alla politica che veniva dal dovere di responsabilità che una personalità della classe dirigente aveva verso la storia del suo


4 paese e del mondo Moro si collocasse nel gruppo dossettiano. Si è spesso disquisito sulla profondità o meno della sua adesione a quel cenacolo (parlare di “corrente” è del tutto improprio, visto cosa furono poi le correnti nella DC), sino a definirlo il più degasperiano in quel gruppo di critici della leadership dello statista trentino. In realtà Moro condivideva l’impostazione di fondo che Dossetti proponeva per sostenere la presenza cristiana in una fase di transizione che interessava non solo la politica, ma più complessivamente la storia italiana: si trattava del dovere di essere presenti nel momento in cui la storia, che è sempre una faccia per quanto oscura della stessa storia della Salvezza, chiedeva una testimonianza non solo di presenza, ma di comprensione delle direzioni verso cui essa si muoveva. Il punto su cui si distingueva dal suo leader è, a mio avviso, la radicalità escatologica che spingeva Dossetti a considerare il lavoro politico sostanzialmente strumentale e persino accidentale rispetto alla ricerca di un orizzonte di fede che andasse al di là del contingente. Per Moro, come dimostrerà in tutta la sua vita, la politica era una “professione” nel senso alto ed etimologico della parola: una dichiarazione di fedeltà al proprio mandato di membro della classe dirigente. Egli infatti restò senza esitazioni in politica dopo lo scioglimento del gruppo dossettiano che si ebbe nell’autunno del 1951, pur senza correre con abiure nelle fila dei degasperiani e senza militare a fondo sotto la nuova leadership di Fanfani. Dossetti ebbe sempre rispetto di questa coerenza e in varie occasioni indicò riservatamente in Moro il politico di cui ci si poteva fidare nei momenti difficili che il paese avrebbe attraversato. Questa fu, come ho detto, la prima fase della politica morotea, quella che da più di un punto di vista formò il carattere, se posso usare questa espressione, della sua esperienza politica. La seconda fase, davvero centrale perché, come vedremo, diventa il perno attorno a cui ruotano la prima e la terza, fu quella che lo condusse a varare l’esperienza di governo di centrosinistra. Più ci allontaniamo temporalmente da quella vicenda e più disponiamo di fonti e documentazione su quel periodo, più comprendiamo che fu allora che si giocò la partita fondamentale dell’attuazione del nuovo impianto costituzionale. Non si trattò affatto di una operazione, per quanto coraggiosa ed ardita, di ridefinizione delle alleanze politiche per formare una maggioranza di governo. Si trattò piuttosto della presa in carico del problema della modernizzazione della società italiana e della possibilità di creare un equilibrio nella gestione delle tensioni che questa trasformazione comportava. Certamente la storia per così dire superficiale di quegli anni può essere letta come una vicenda, a tratti anche avvincente, di scontri fra personalità politiche e correnti di diverso sentire sullo sfondo di un mondo che cambiava e in cui il mantenimento non solo del potere, ma della centralità politica del partito di maggioranza relativa richiedeva il confronto con nuovi orizzonti. In


5 profondità però si trattava di capire e far capire cosa si stava affacciando all’orizzonte con una evoluzione economica e sociale che portava sulla scena un universo sempre più distante dai parametri che lo avevano conformato sino ad allora. Ricordo l’importante libro dell’economista

Kenneth aGalbraith sulla “economia

dell’abbondanza” che già nel 1956 aveva messo in luce come l coordinate economiche segnalassero una svolta storica che aveva pochi precedenti. Parlando in Trentino devo davvero richiamare la scelta che il moroteo Bruno Kessler avrebbe fatto agli inizi degli anni Sessanta decidendo di passare dalla creazione a Trento di una facoltà di scienze forestali a quella di un istituto universitario di sociologia. Il passaggio dall’una all’altra prospettiva è emblematico di cosa si cominciasse

a

percepire come necessario per la classe politica in termini di strumenti per mettersi al servizio delle proprie comunità. E’ in questo contesto che nel 1958 Moro si vedrà affidata la segreteria della Democrazia Cristiana da una larga componente del partito che vedeva in lui l’alternativa al progetto di Fanfani, che era anch’esso nel segno di un governo della trasformazione economica e sociale in atto. Cosa distingue i due personaggi che più tardi verranno etichettati come i “cavalli di razza” del partito cattolico? Sembra a me che la distinzione fondamentale delle due proposte sia da individuare nella diversa prospettiva con cui veniva affrontato il tema del governo del cambiamento. Per Fanfani il motore dell’operazione andava cercato nel governo, per Moro nel partito. Detta in questo modo la formula può sembrare poco attendibile: il politico pugliese non si sottrasse a divenire uomo di governo e Fanfani non fu certo un personaggio assente nelle lotte di corrente che animarono la DC non solo in quegli anni. Qui faccio riferimento ad una prospettiva di fondo e non a dei ruoli che i due personaggi ricoprirono di volta in volta nel susseguirsi delle contingenze politiche. Fanfani riteneva che la gestione della complessità sociale andasse affidata al governo che era l’istanza in grado di pianificare e mettere in atto gli interventi necessari per quel compito. Moro era convinto che il travaglio sociale andasse disciplinato facendolo convogliare nei partiti che erano in grado di dare un senso e di farlo maturare. In questa dinamica la DC, unico partito”nazionale” perché generato da quella che era in sostanza la subcultura sociale diffusa, aveva un ruolo centrale e doveva assumersi il compito gravoso, ma non rinunciabile di essere il promotore delle sintesi necessarie e al tempo stesso il pedagogo che portava la società italiana ad assumere consapevolezza della svolta storica a cui non poteva sottrarsi. Possiamo dire dunque che Moro divenne segretario della DC nel fatidico passaggio del 1958 sulla base di un equivoco. La maggior parte di coloro che l’avevano voluto come successore di Fanfani ritenevano che la sua visione, rilanciando la centralità del partito, consolidasse ed


6 espandesse il loro potere come signori ormai di una forza politica che aveva un radicamento che andava oltre l’orizzonte tradizionale della pura adesione al dogma dell’unità politica dei cattolici. Si sarebbero presto accorti che il quarantenne mite uomo politico non condivideva affatto questa loro prospettiva anche se per carattere e per convinzione che si accresceva continuamente riteneva che ogni operazione destinata ad incidere sugli equilibri sociali complessivi andasse gestita con il paziente coinvolgimento di tutte le forze interessate. Sappiamo dalla documentazione oggi disponibile che gli stessi dorotei che lo avevano voluto alla segreteria ne furono se non i nemici (tranne qualcuno), coloro che lo volevano condizionare e che non ne condividevano il progetto ideale. Moro, nel guidare la politica italiana fuori dalle secche di un centrismo che aveva da tempo esaurito il suo ruolo, era tra i non molti che avevano capito che il cambiamento sociale così come quello internazionale aprivano una fase nuova della storia. In quel frangente emerse con chiarezza la forza del conservatorismo italiano, che aveva dovuto nella fase della ricostruzione accettare, obtorto collo, una politica che rimetteva in discussione le passate egemonie. Una parte cospicua di quel conservatorismo era confluita anche nella stessa DC , agevolata da una struttura di governo della chiesa che era culturalmente arretrata. Credo che sia venuto il tempo in cui questo va detto senza tanti infingimenti, pur consapevoli che si trattava in molti casi di un arretramento culturale di natura particolare. Moro dovette misurarsi con questa peculiare congiuntura che certo era particolarmente pesante per un politico cattolico. La chiesa italiana si trovava di fronte ad una fase in cui vedeva erodersi una sua duplice posizione di vantaggio: la prima derivava dal ruolo che essa aveva avuto nella crisi del fascismo e nell’ultima fase della guerra quando era rimasta la sola istituzione di riferimento nel crollo dello Stato tanto nella sua versione fascista, quanto in quella monarchica; la seconda veniva dalla posizione preminente che la sua capacità di orientamento e di presenza pubblica aveva guadagnato grazie alla forza elettorale del partito cattolico. Ora il primo vantaggio si indeboliva per il naturale trascorrere del tempo e per il ritorno di antiche dialettiche di potere. Quanto al secondo, l’inizio di quel fenomeno che va sotto il nome di secolarizzazione cominciava a marginalizzare la capacità di controllo dell’istituzione ecclesiastica sullo svolgimento della vita sociale. L’opposizione di gran parte dei vertici del sistema ecclesiale italiano, tanto quello attivo a livello nazionale, quanto quello che lavorava nelle strutture della Santa Sede, alla prospettiva di coinvolgere il partito socialista in una alleanza di governo con la DC aveva radici più che nelle presunte ragioni dottrinali, nella confusa percezione che si aveva del fatto che una simile alleanza avrebbe ridato spazio al ritorno al potere di quella Italia laica che si riteneva si fosse emarginata da


7 sé con il fascismo e col postfascismo. Finché essa poteva essere relegata nel ruolo di alleati non su un vero gradino di parità con la DC, come era di fatto il caso nel centrismo, poteva anche essere lasciato passare. Con l’ingresso dei socialisti nella coalizione i pesi si sarebbero spostati e soprattutto sarebbe venuto meno il tradizionale fronte laico conservatore che però vedeva, secondo una inveterata dottrina, la religione come un ottimo strumento per mantenere un controllo diffuso sulla popolazione. Moro dovette misurarsi con questo contesto che ovviamente coinvolgeva anche buona parte del suo partito. Confederazione composita, la DC aveva sempre conosciuto delle componenti che radicavano il proprio potere in quel contesto che i vertici della chiesa rappresentavano: metterlo in discussione significava mettere a rischio la presa elettorale di una quota almeno dei suoi gruppi dirigenti. Fu in questo frangente che Moro rivelò tutta la sua statura di leader politico. Consapevole che al trauma di una transizione sociale sarebbe stato incauto ed arrischiato aggiungere il trauma di una crisi del sistema politico, egli si prodigò per fare della DC il luogo di composizione delle contraddizioni che ho cercato di illustrare. Con una pedagogia paziente al limite dell’umana sopportazione (emblematico il suo famoso discorso di sei ore al congresso DC del 1962), con una azione di intelligente aggiramento delle resistenze ecclesiastiche (azione favorita dall’avvento del pontificato giovanneo e dall’avvio della preparazione del Concilio), con la tenacia di un’azione che non accettava in fondo di retrocedere sui punti qualificanti, anche se era disposta a gestirne per gradi l’accettazione, Moro portò a termine l’operazione della apertura a sinistra. Si può considerarla la sua maggiore vittoria, visti gli ostacoli che ebbe a superare e la durezza delle opposizioni con cui dovette fare i conti. Fu anche, a mio modesto giudizio, la vicenda che rivelò a Moro una serie di fragilità del sistema politico italiano. In questa percezione fu sostanzialmente isolato, perché ben pochi colsero la viscosità di un contesto in cui si rischiava sempre di costruire sulla sabbia. Come è noto, la debolezza della soluzione raggiunta con il varo del cosiddetto governo di centrosinistra “organico” divenne evidente piuttosto presto. Le resistenze che venivano dalla destra politica moderata rappresentata da Malagodi, dallo stesso Antonio Segni insediato al Quirinale, dalla perdurante ostilità di una parte dei vertici ecclesiastici (sia pure spiazzati da un cambio di visione in segreteria di stato vaticana), avevano solide radici nel sistema di potere che si era instaurato nel paese grazie al contesto fornito dalla guerra fredda. Le grandi burocrazie amministrative e militari non avevano intenzione di accettare un cambio di panorama, neppure se a garantirne gli esiti in un senso non “eversivo” c’era un partito come la DC che nella visione di Moro si sarebbe assunto il compito di governare in maniera prudente e articolata la transizione inevitabile.


8 Anche nei memoriali scritti durante la sua detenzione nelle mani delle Brigate Rosse lo statista pugliese era tornato a riflettere sul cruciale passaggio della prima metà degli anni Sessanta, dal pasticciato esperimento del governo Tambroni sino all’avvio del suo secondo governo. Lì stavano le radici di quella debolezza di sistema che aveva lasciato aperto lo spazio alle fantasie sulla possibilità di dare una “spallata” al sistema per farlo precipitare, a secondo di chi si assumeva l’onere di darla, o a destra o a sinistra. Si può attribuire, come qualcuno ha fatto, la responsabilità dell’aprirsi di quello spazio alle cautele di Moro che resisteva all’idea di una torsione giacobina da imprimere alla svolta politica? La risposta non può essere data semplicisticamente ricordando che la sua leadership era tutt’altro che garantita e che anzi si trattava di una guida molto condizionata da un partito che non era esattamente entusiasta di una apertura che temeva ne indebolisse la presa sul potere. Neppure tutto può essere risolto addebitando ai socialisti la responsabilità dell’indebolimento per una buona dose di massimalismo, almeno a livello verbale, pressati com’erano dall’accusa comunista di essere dei traditori della loro collocazione a sinistra. Sono due elementi presenti, che hanno indubbiamente pesato e non poco, ma che non colgono il nodo del problema. Questo sta nella impossibilità per Moro di poter contare sulla rete di protezione di un sistema di governo che impedisse il logoramento continuo provenienti dagli agguati dall’esterno. Qui sta, per quel che vale la mia modesta opinione, la differenza sostanziale fra l’operazione che fece De Gasperi nella ricostruzione e quella che tentò Moro a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta. Lo statista trentino doveva condurre alla democrazia un paese che non era compiutamente attrezzato per quell’approdo, in parte anche per la presenza della sfida che gli poneva un’altra declinazione della democrazia da parte del partito comunista. In quest’opera De Gasperi rifiutò ogni visione di carattere giacobino, ma poté contare sul fondamentale ricatto che poteva esercitare verso gli apparati dello stato e verso le classi dirigenti tradizionali (il famoso “quarto partito”): ad essi faceva presente, senza bisogno di esplicitarlo, che l’abbandono dell’approdo democratico garantito dalla DC come partito di massa avrebbe significato finire in balia delle incognite di una “rivoluzione” senza poter contare sull’appoggio della potenza americana di riferimento che certo non poteva indebolire la sua polemica con le operazioni di sovietizzazione che l’URSS andava imponendo in Europa dando in mano all’avversario l’argomento polemico di una svolta di destra autoritaria in Italia. Questo quadro cambia dopo l’esito stabilizzante dei fatti del 1956 in Ungheria, quando appare chiaro che nelle rispettive sfere di influenze le potenze fanno quel che vogliono, e quando diventa altrettanto chiaro che le possibilità di una presa di potere delle sinistre è in Italia più che improbabile. E’ in questo contesto che le forze della conservazione, spaventate dal mutato quadro


9 della sociologia del paese, scommettono sulla possibilità di forzare la situazione, mentre l’anima progressista si interroga su come si possa rispondere all’evoluzione in corso in maniera dinamica. Moro fra il 1961 e il 1968 inizia a sviluppare una riflessione su come si possa gestire questo conflitto, ma al contrario di De Gasperi non ha un “apparato pubblico” su cui possa contare. Il sistema si è feudalizzato, i centri decisionali dello stato e della società non sono allineati alla ricerca di un nuovo equilibrio adeguato ai tempi. Lo stesso partito cattolico sta perdendo la forza del suo aggancio con la parte creativa della società, quell’aggancio che gli era stato garantito dalle grandi organizzazioni del laicato cattolico, ora progressivamente allontanatesi dal considerare l’impegno politico come una priorità per l’attrazione che esercita il partecipare alla grande operazione di “aggiornamento” della Chiesa cui predispone il Concilio ecumenico. E’ un quadro in forte sommovimento che porterà all’esplosione del fenomeno non solo italiano delle rivolte giovanili del 1968. Moro coglierà subito la natura periodizzante di questo tornante ed inizierà una paziente opera di analisi di queste novità accettando anche una fase di emarginazione dai vertici del partito. Sono gli anni forse più complicati della sua vita, perché la sua costante denuncia della crisi della DC deve confrontarsi con la necessità di difenderne quello che ritiene il ruolo insostituibile come camera di compensazione e di sintesi del sistema Italia. E’ anche il periodo in cui quella che viene definita la stagione degli “opposti estremismi” porta a prendere in considerazione le debolezze strutturali degli apparati pubblici e delle classi dirigenti. La sfida delle forze conservatrici è in questa fase assai più incisiva di quanto non avesse potuto essere nel momento di impianto del centrosinistra: la presenza di una sfida violenta alla convivenza civile, un certo sbandamento nella tenuta delle classi intellettuali seguita al venir meno delle dighe ideologiche immobili del decennio precedente, dinamiche sociali di rivendicazione di compartecipazione al benessere ormai raggiunto (il famoso “autunno caldo” del 1969 con quel che ne seguì) rendevano l’appello al binomio “legge e ordine” più impattante di quanto non fosse stato ai tempi di Tambroni. Il breve interludio del governo di centrodestra guidato da Giulio Andreotti nel 1972 non poteva portare ad un ribaltamento degli equilibri politici consolidati, soprattutto in presenza di una evoluzione della situazione internazionale che era ricca di ambiguità. Moro lavorò per ritornare ad una maggioranza di centrosinistra che continuava a considerare come il punto più avanzato da cui si poteva operare per governare quel cambiamento che i suoi avversari si erano illusi di poter ibernare. Se la vicenda dell’elezione alla presidenza della repubblica di Giovanni Leone alla vigilia di Natale del 1971 a conclusione del 23° scrutinio sembrava portare acqua al mulino della conservazione e se il raddoppio dei voti del MSI alle elezioni politiche del 1972 poteva essere letto nella stesso ottica, rimaneva che l’opinione pubblica era scossa da una polemica continua sull’instabilità del contesto


10 politico e su quello che appariva il tramonto della legittimazione a governare dei tradizionali gruppi dirigenti. Del resto non si può dimenticare che nel periodo 1970-1973 si erano succeduti 7 governi, 5 di centrosinistra e 2 di centrodestra. Fu come reazione a questa situazione che venne promosso nel giugno 1973 il famoso patto di Palazzo Giustiniani che avrebbe voluto segnare una ricomposizione delle leadership storiche interne alla DC proprio come reazione ad un declino della centralità del vecchio partito cattolico, ormai in difficoltà a difendere quel primato storico come partito della nazione che in qualche misura aveva giustificato il suo esercizio del potere. Era ancora una volta una prova della scelta di Moro per l’esercizio della responsabilità a fronte di una crisi storica che egli leggeva con lucidità, mentre altri la consideravano come qualcosa di contingente. Per questo egli non si stupiva nel vedere l’evoluzione del PCI dove Berlinguer già nel settembre del 1971 aveva riservatamente annunciato che era tempo di aprirsi ad alleanze progressiste che includessero anche forze moderate. Ora, dopo il colpo di stato in Cile, il leader comunista lanciava la famosa tesi del “compromesso storico”. Di nuovo il contesto era complesso e contraddittorio. Nel dicembre 1973 l’ETA assassinava in Spagna l’ammiraglio Carrero Blanco, presunto successore tecnocratico di Franco. La realizzazione dell’attentato non distante dall’occhiuta sede dell’ambasciata americana che si era guardata bene dall’intervenire veniva letta come prova di un distacco degli USA dal modello autoritario della penisola iberica. La realizzazione della rivoluzione dei garofani in Portogallo l’anno seguente e la morte di Franco nel novembre di quello stesso anno con la pacifica transizione della Spagna alla democrazia sembravano segnare un altro punto di svolta nella vicenda europea, tanto più che in entrambi i casi i partiti comunisti si erano mossi in un’ottica che per semplificare definiremo di realismo moderato. Nasceva così il mito dell’eurocomunismo. E’ ben vero che in contemporanea in Italia la strategia della tensione non conosceva pause. Sempre nel 1974 la eversione di destra si era intestata nel maggio la strage di piazza della Loggia a Brescia e in agosto quella del treno Italicus, mentre le BR rapivano a Genova il giudice Sossi. A complicare ulteriormente la situazione italiana, almeno dal punto di vista della DC, si era registrato fra il 1970 e il 1974 lo scontro con il Vaticano dopo l’approvazione definitiva della legge che introduceva il divorzio. Di nuovo si trattò di un episodio che colpì profondamente Moro, il quale vedeva ancora una volta, come ai tempi della apertura a sinistra, una Chiesa che era incapace di capire l’evoluzione del contesto storico. La sconfitta della linea intransigente a cui Fanfani si era adeguato, non è chiaro se per tatticismo o per convinzione, confermò il politico pugliese nella sua percezione che a fronte del mutamento del quadro politico-sociale che veniva registrato dalle vicende referendarie diveniva necessario dar vita ad una nuova lettura della realtà in cui la DC doveva operare.


11 Nel Consiglio Nazionale del partito del 20 luglio 1975 Moro pronunciò la famosa frase in cui prospettava l’avvio di “una terza e difficile fase della nostra esperienza”. Su quel termine si è a lungo discettato, ma se lo si inquadra nella prospettiva su cui ho cercato di riflettere diviene facilmente leggibile: non si trattava più di gestire la DC come “partito della nazione” che attirava nella sua orbita le forze interessate a vario titolo allo sviluppo del sistema, ma era venuto il tempo in cui la DC doveva assumersi l’onere di guidare l’evoluzione del sistema verso un equilibrio a cui avrebbero concorso forze diverse nessuna delle quali poteva da sola proclamarsi “partito della nazione”. Sarebbe stato il tempo della “strategia dell’attenzione” verso un partito comunista che era stato capace a sua volta di diventare, magari senza troppo dirlo, esso stesso una forza interclassita con l’ambizione di servire da calamita per il progressismo italiano. Il successo del PCI alle amministrative del giugno 1975, quando era arrivato a soli 2 punti dal risultato ottenuto dalla DC, poneva al partito cattolico una problematica ben diversa da quella che era stata affrontata negli anni Sessanta. Quel risultato era stato raggiunto sull’onda di una campagna di stampa di delegittimazione dei partiti di governo, con una certa rincorsa di quote significative di classi dirigenti a riconoscersi nella promessa che il PCI faceva di poter essere il “moralizzatore” della vita politica italiana. La sostanziale conferma della svolta che si realizzava nelle elezioni politiche del giugno 1976 suggeriva una lettura piuttosto chiara delle linee di tendenza in atto: la DC aveva “tenuto” grazie alla svolta, almeno apparente, impressa al partito dalla segreteria Zaccagnini; il PCI stabilizzava il consenso che otteneva come partito orientato al compromesso storico. Si poneva così la centralità del tema della “terza fase” così come Moro l’aveva elaborato non solo negli ultimi anni. La soluzione molto farisaica di un governo Andreotti detto della “non sfiducia” per un sostegno che si basava sull’astensione di un ampio arco di forze e per la prima volta in maniera determinante del PCI, così come il riconoscimento che veniva dato a quel partito con l’elezione di Pietro Ingrao alla presidenza della Camera, non erano elementi sufficienti per mettere davvero il sistema politico-sociale italiano di fronte ad una necessità di ripensamento globale. Qualcosa che naturalmente non avrebbe dovuto risparmiare nessuna delle forze in campo. Di nuovo, come nella seconda fase dell’avvio del centrosinistra, era necessario accettare la compartecipazione al governo di tutte le forze orientate al sostegno dello sviluppo sociale: una scelta che metteva in crisi per prima quella che ormai doveva definirsi più che il partito la confederazione di partiti che era divenuta la DC. Questa volta Moro non mediò come aveva fatto allora, credo perché si rendeva conto che il tempo per un passaggio lungo e fatto di successivi stadi di avanzamento non era più disponibile. Si sa che nelle drammatiche riunioni della DC in cui si discuteva dell’avvio di quello che sarebbe


12 diventato il governo della solidarietà nazionale Moro fece molta fatica a tenere insieme il partito sul via libera all’esperimento, tanto da dover minacciare seriamente delle dimissioni polemiche e e che avrebbe portato drammaticamente in pubblico. La vittoria della sua linea non lo vide in grado di gestirne la realizzazione. Il 16 aprile 1978, mentre si recava in parlamento per il varo del nuovo governo Andreotti, veniva sequestrato da un commando delle BR e il 9 maggio veniva assassinato. Credo che oggi possiamo dire che l’intuizione di Moro che fosse possibile ristabilizzare la situazione politico-sociale dell’Italia non fu in grado di trovare riscontro nelle vicende seguenti. Per una coincidenza l’ultima fase del tentativo di Moro in quella direzione coincideva con la celebrazione del trentennale della Repubblica e della Costituente, quando molte forze intellettuali di questo paese, e mi sia concesso di citare qui uno dei miei maestri, Roberto Ruffilli che a Moro guardava come punto di riferimento, stavano elaborando la riscoperta e per certi versi la mitizzazione del momento costituente come perno e modello della fondazione della peculiare versione che aveva assunto la democrazia italiana nella congerie del secondo dopoguerra. Aldo Moro era stato un giovane protagonista di quella svolta e ad essa si era mantenuto fedele, pur nel distacco dalla “poesia” di quel momento, distacco che aveva dovuto maturare a contatto con le complessità e le viscosità del nostro sistema politico-sociale. Aveva sempre mantenuto fede a quella formazione che gli aveva insegnato che la politica è responsabilità di fronte al mondo, alla storia e, per un credente, al disegno divino. Responsabilità che significava essere costruttori di concrete evoluzioni e non semplici annunciatori di speranze che non si sapeva quanto potessero essere realizzabili.


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