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MARIO VIRGA SCENARI DI RESURREZIONE
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Foto Mario Virga info@mariovirga.com testi Michele Vilardo
2008© Copyright - Tutti i diritti riservati Le fotografie e le storie contenute in questo libro sono di proprietà dell’autore e protette dalle leggi internazionali sul copyright. Nessuna immagine in forma meccanica, elettronica, digitale e in fotocopia può essere riprodotta senza la preventiva autorizzazione scritta dell’Autore. A norma della Legge sul diritto d’Autore e del Codice Civile è vietata la riproduzione, anche parziale e con qualsiasi mezzo, sia dei testi che delle fotografie.
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Nel flusso continuo della vita la fotografia è un’impronta del reale, una traccia-testimonianza con una dimensione spazio-temporale. Spaziale perché chi fotografa sceglie quale porzione dello spazio intende circoscrivere, i cui limiti sono stabiliti dai bordi del fotogramma; temporale perché solo una frazione di secondo, scandita dall’otturatore, permette ad un frammento di luce, riflesso del reale, di imprimersi nella pellicola o nel sensore. Più di quindici anni fa ho scelto una delle mie relazioni “spazio-temporali”, iniziando questa narrazione sulla Pasqua, affascinato dal forte coinvolgimento popolare di una delle più importanti tradizioni siciliane. Ha attirato il mio interesse la percezione del confine tra intimo e privato da un lato, ed avvenimento collettivo dall’altro, cercando di isolare alcuni elementi dal resto dello scenario. Non è facile capire cosa permette alle processioni di perpetuarsi ancor oggi: forse autentico sentimento di espiazione del peccato misto a puro rituale di gruppo. Nonostante tutto, in barba alla globalizzazione di massa, attraverso la processione i siciliani continuano a difendere quel che resta della loro identità culturale. Le immagini sono arricchite da uno scritto di Michele Vilardo, studioso di teologia: in questo modo sono stati inseriti di riferimenti storico-antropologici fruibili da chi vuole approfondire la conoscenza della nostra splendida terra e dei rapporti che la legano con la religione.
Mario Virga
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INTRODUZIONE
Da sempre l’uomo ha vissuto il suo rapporto con le immagini , dalle pareti delle caverne in poi in modo sacrale. Da millenni la riproduzione delle stesse ha sviluppato nella mente dell’individuo processi antropologici complessi. L’immaginazione è, per Platone, una delle forme di conoscenza meno elevata - trattandosi di un ambito inerente “copie di copie” - rispetto alla dialettica che si basa, invece, sulla razionalità del linguaggio (orale). Per le immagini questo comporta, inevitabilmente, una declassificazione del loro valore. Fu la Chiesa, con la scelta politica fatta di apertura alle immagini, a decretare la completa riammissione delle icone. La Chiesa sostenne, infatti, i cosiddetti iconoduli contro quella parte di suoi stessi seguaci, noti come iconoclasti, contrari all’uso delle immagini perché considerate veicolo di lusinga pagana. Le dispute tra le due fazioni, che avevano portato finanche all’accecamento di molti monaci iconoduli, traevano sostegno anche dall’esigenza - non propriamente di carattere estetico o religioso in realtà - di recuperare le sostanziose ricchezze tesaurizzate sui supporti di metallo prezioso (monete, gioielli, ecc.) sui quali erano impresse le icone oggetto di condanna. E benché il sostegno all’egemonia delle immagini fosse accompagnato dalla raccomandazione che esse fossero da considerarsi come una mera imitazione e, pertanto, dette raffigurazioni dovevano essere oggetto di venerazione soltanto per i simboli che veicolavano, questa valorizzazione ha di fatto ribaltato a favore della percezione sensoriale il primato precedentemente attribuito alla dialettica. Il ribaltamento di valori che questo cambio di rotta ha generato nella cultura occidentale, fa si che ora domini la sensazione che nelle immagini si celi una potenza immane e che tale forza - fosse anche una semplice suggestione - sia da preferire alla forza insita nella parola, se non altro per la sua immediatezza.
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ad attendere a tale opera fin dal 1780. Essi ripropongono i più importanti momenti della Via Crucis.(36) La Festa dei Giudei a San Fratello, festa popolare religiosa risale forse ai tempi medievali, quando venivano rappresentati quei misteri che sono passati successivamente dalle chiese alle piazze. Quella della Pasqua è sicuramente la Settimana più ricca di manifestazioni che cominciano con il momento più drammatico della passione del Cristo e si concludono con l’esplosione della gioia della Resurrezione. Gesù entra a Gerusalemme la Domenica delle Palme. A San Fratello, dove le tradizioni sono ancora rispettate, si sente un forte impeto ed una massiccia partecipazione che vede coinvolti tutti gli abitanti. Non c’è interruzione di sorta perché anche nelle giornate del Lunedì e Martedì Santo ognuno si prepara per essere di grande aiuto alla realizzazione scenografica. All’alba del Mercoledì Santo inizia la Festa dei Giudei e vengono preparati i sepolcri in tutte le chiese parrocchiali. Anche le donne con religioso silenzio e luttuoso dolore cingono con manto nero il capo della Madonna della Pietà, espongono la Santa Croce, portano in segno votivo i piatti dove germogliano grano, lenticchie e ceci cresciuti per qualche settimana al buio. Una tradizione, quella del Mercoledì Santo, vuole che ogni fidanzata mandi a casa del suo sposo un agnello di pasta di mandorle; qualche giorno dopo questi lo restituisce per mangiarlo insieme, al pranzo di Pasqua. Ma quella che maggiormente attira l’ interesse è la Festa dei Giudei che si svolge nei giorni di Mercoledì, Giovedì e Venerdì Santo, unica in tutta la Sicilia. Come dicevamo, di origini medievali, la rappresentazione è estremamente suggestiva e ricorda i Giudei che percossero e condussero Cristo al Calvario. Un gran numero di persone conservano accuratamente e gelosamente il costume che, secondo la tradizione, da secoli è formato da una giubba e da calzoni di mussola rossa e da strisce di stoffa d’altro colore, solitamente gialle o bianche. La testa coperta da maschera sbirrijan (lingua gallo-italica), un “cappuccio” che si slancia con un lungo cordoncino sino ad assottigliarsi come coda. Ricorda la Confraternita dei Flagellanti o dei Fratelli della Misericordia. Altri elementi rendono l’aspetto piuttosto singolare: pelle lucida con lingua, sopracciglia lunghe e arcuate, scarpe di cuoio grezzo e di stoffa, schierpi d’piau (in lingua locale). Catene a maglie larghe nella mano sinistra, d’scplina, (in vernacolo locale), trombe militari con vari ornamenti finemente intarsiati e ricamati specialmente nella giubba che ricordano le antiche tradizioni della cultura araba. I Giudei vestono quindi panni appariscenti, un singolare elmetto, con qualche pennacchio o croce, e così vestiti gli uomini sanfratellani percorrono le strade del paese. 28
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LA PASQUA IN SICILIA
“In Sicilia”, come scrive G. Cammareri2 di simani santi ce ne sono davvero tante.“. Se ne possono incontrare di meste, chiassose, nevrotiche, follemente amate e disprezzate, profumate dal vino che lava le notti e dall’acre odore dei ceri che le sporca dolcemente, profumate da tanti fiori e illuminate da tantissime luci. Simani gonfiate con l’elio dei palloncini, fatte di mille macchine fotografiche al collo, di bambini vestiti da angioletti e di mamme che li accompagnano, di vecchietti piangenti ai balconi al passaggio di Cristi e Madonne… Croci, pennacchi, spade attaccate alla vita da centurioni più o meno baffuti e ancora il gesto per un altro e un altro ancora “clic” di quelle mille macchine fotografiche il cui piccolo rumore annega, miseramente, in un mare di note scandite da suonatori infiocchettati nella divisa di questa o quella banda”. 3 La Pasqua in Sicilia è quella che gli israeliti chiamarono Pesach che significa passaggio. Dal “passare oltre” della tradizione biblica dell’A.T. che testimonia la mano potente di Diosalvatore che, nella notte tra il 14 e il 15 del mese di Abib, quella dell’uccisione dei primogeniti, risparmiò i bambini ebrei, al “passare oltre” di Cristo dalla morte alla resurrezione. La Pasqua cristiana se da un lato integra quella ebraica, dall’altro le si contrappone divenendo, dal II secolo D.C., la più solenne delle feste cristiane e divenendo il fulcro dell’anno liturgico nella storia della Chiesa. E’ innegabile che l’identità civile, oltre che religiosa, delle nostre comunità è stata plasmata, nel tempo, dalla presenza del crisitianesimo-cattolico. Da una recente indagine di natura sociologica, svolta dal Cesnur di Torino, sul territorio dell’Arcidiocesi di Monreale, voluta fortemente da Mons. Cataldo Naro, Arcivescovo di Monreale si evince, che si dichiara cattolico il 93,33 % degli intervistati. È un “paesaggio” che, secondo Luigi Berzano, uno dei curatori dell’indagine, “ripropone la tipicità del caso italiano”, in cui “il dato quantitativamente più rilevante” è rappresentato dalla schiacciante maggioranza di coloro che dichiarano “l’appartenenza alla religione cattolica”. (5)Anche se, dalla predetta, indagine, emerge una identità forte ma una identificazione debole. In questo contesto, che non vede più una coincidenza tra la comunità civile e quella ecclesiale, si sente il bisogno di cogliere sempre meglio la propria identità civile e religiosa, come antidoto ad ogni forma di relativismo culturale ed etico che distrugge ogni identità, e di capire come mai ad una identità forte possa corrispondere una identificazione spesso debole. I riti extraliturgici della Settimana Santa, non vanno considerati come momenti staccati, o addirittura opposti, rispetto alle celebrazioni liturgiche.Tutti noi siamo inseriti in una “traditio” composta da valori civili, sociali, familiari e religiosi, mediati e trasmessi dall’importantissimo processo educativo, connotandoci, appunto, come “civis” e, per chi crede, come credente. 101
Lo stesso identico meccanismo avviene per l’esperienza religiosa, quando si entra a far parte di una determinata religione si entra in un solco già tracciato da altri, si entra in una “traditio fidei” con la quale si sono tramandate, le grandi verità di fede credute, celebrate e vissute da una determinata religione, soprattutto se essa ha un fondamento storico, una forte dimensione salvifica e una finalità escatologica, come appunto è l’intero messaggio del cristianesimo. Il cristianesimo, infatti, ha tutte e tre queste caratteristiche ed ha una sua specificità, che altre religioni non hanno. La caratteristica, innovativa ed unica nel panorama religioso dell’umanità, consiste nel credere che, arrivato ad un certo momento della “Storia della Salvezza”, “Dio si è fatto uomo” è nato, Natale. Sempre, questo Dio-Uomo, Gesù di Nazareth detto il Cristo, ha sofferto, è morto ed è risorto per la salvezza del genere umano. Ciò è avvenuto attraverso gli eventi storici, unici e irrepetibili, della prima Settimana Santa della prima Pasqua cristiana che ha avuto il culmine nel primo triduo pasquale della storia. I fatti e le vicende storiche della prima Settimana Santa, documentate minuziosamente dai Vangeli e dal Nuovo Testamento, non si ripeteranno mai più, dal punto di vista della loro storicità ma continuano a ripetersi, da duemila anni circa, dal punto di vista del Mistero Salvifico. Il mistero salvifico è la presenza di Dio-Salvatore nella storia degli uomini, cosicché ogni anno, durante i riti liturgici ed extraliturgici della Settimana Santa, viene data al credente la possibilità di partecipare al mistero di salvezza, in chiave liturgico- sacramentale-mistagogica, e di ottenere questa salvezza nell’oggi della storia attraverso la presenza della comunità credente, la Chiesa. La Settimana Santa è espressione della l’inculturazione della fede cattolica nelle nostre popolazioni. L’inculturazione è l’incontro tra la fede annunciata nei secoli e il recepimento della stessa da parte del popolo credente. Essa, come scrive V.Sorce, “ha una forte valenza teologica fondata sugli eventi dell’Incarnazione e della Chiesa locale7, e si inserisce in un solco già dato, si inserisce quindi nella cattolicità e all’interno di essa, attraverso la “traditio fidei”, e si ricollega, attraverso il ricordo liturgico, ai fatti storici della prima Settimana Santa e della prima Pasqua. Potremmo dire che la Settimana Santa, in Sicilia, è la stessa di altre regioni d’Italia? Assolutamente no. La diversità non è nella sostanza dell’Evento e della celebrazione dello stesso, ma nelle modalità di ricezione del messaggio del cristianesimo e nel modo con cui ogni comunità credente ha vissuto e vive, il mistero salvifico di Gesù-Cristo morto e risorto. Tutto ciò si chiama inculturazione della fede. La Settimana Santa, in Sicilia, è il frutto di una duplice tradizione: la prima legata alle sviluppo della inculturazione della fede, per cui è possibile parlare di una sorta di “Cristo Siciliano” (8) ; la seconda legata alla sviluppo del cattolicesimo in questo territorio che ha fatto propri gli influssi derivanti dal concilio di Trento e dall’influsso bizantino e spagnolo.
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“IL CRISTO SICILIANO”
In che senso si può parlare di un Cristo “siciliano”? Nella cultura e nella pietà popolare siciliana esiste una interpretazione e un vissuto della figura di Gesù-Cristo che è caratterizzata da tratti propri. L’aggettivo “siciliano” ci dice qualcosa di culturalmente significativo, cioè a dire la cultura siciliana ha “segnato” la figura del Cristo con alcuni suoi tratti specifici. Questo “Cristo siciliano” sarebbe in opposizione a quello della predicazione ufficiale della Chiesa, dei dogmi e della liturgia? Addirittura lo si potrebbe considerare un Cristo fuori dalla Chiesa cattolica o, addirittura, contro di essa? Un “Evangelium extra ecclesiam?” Secondo le tesi di alcuni studiosi il “Cristo siciliano” potrebbe benissimo essere considerato il Cristo delle classi deboli e oppresse o, come dice Gramsci, delle classi popolari che sono “strumentali e subalterne”. Molti studiosi, di indirizzo marxista, infatti, sostengono che la religiosità popolare, che trova il proprio culmine nei riti della Settimana Santa, sarebbe l’espressione di un cristianesimo vissuto fuori dalla Chiesa e di un “Cristo-popolare” oggetto di un conflitto esistente, di fatto, tra la gerarchia cattolica e il popolo credente(9). Possiamo dire che non c’è nessun conflitto tra la Chiesa “gerarchica” e il popolo credente, per il semplice motivo che anche la gerarchia cattolica partecipa ai riti extraliturgici della Settimana Santa. Dove sta allora l’equivoco? Proprio nel significato che si dà al termine “pietà popolare” intesa non come esperienza di fede del popolo credente ma come momento di opposizione delle classi subalterne alle classi colte e, soprattutto, alla religione “ufficiale”. Dunque una lettura sociologica e non teologica del fenomeno. Che cos’è allora la pietà popolare? L’analisi della religione popolare meglio identificata con le espressioni “religiosità popolare” e “pietà popolare”, ha attratto l’attenzione degli studiosi del fenomeno negli ultimi decenni. Carlo Levi nel suo affascinante racconto autobiografico dal titolo “Cristo si è fermato ad Eboli” così scriveva: ”...nel mondo dei contadini non c’è posto per la ragione, per la religione e per la storia. Non c’è posto per la religione, appunto perché tutto partecipa della divinità, perché tutto è, realmente e non simbolicamente, divino, il cielo come gli animali, Cristo come la capra. Tutto è magia naturale. Anche le cerimonie della chiesa, conclude lo scrittore, diventano dei riti pagani, celebratori della indifferenziata esistenza delle cose, degli infiniti terrestri dei del villaggio”. Cito il brano di Levi, con cui egli descrisse, negli anni ‘40, i contadini della Lucania, perché 103
confinato lì, poiché la realtà proposta da questo fortunato libro rifletteva in maniera significativa, più che la condizione storica del nostro meridione, l’atteggiamento culturale con cui ad esso guardava e giudicava il colto osservatore venuto dal profondo nord. Affiora, nella descrizione di Levi, una interpretazione del mondo popolare e del vissuto della sua religiosità che risulta innestata sul tronco dei luoghi comuni e motivi polemici ereditati da una robusta tradizione della cosiddetta “cultura alta”. Levi è il portavoce di una interpretazione culturale, di stampo sociologico-ideologico, ma non teologico, che ha tenuto banco nel corso di tutto il dopoguerra; i tratti distintivi, di questa concezione della religiosità popolare, possono essere ricondotti a due nodi di fondo: l’accentuazione del dato irrazionale, magico, infantile e primitivo del fenomeno; la religiosità dei ceti popolari viene vista, essenzialmente, come un prodotto spurio, una forma di sincretismo in cui il sacro si confonde con il santo e con il profano, quasi fossero la stessa cosa, e la fede è interpretata a partire dai bisogni materiali dell’esistenza umana al punto tale da alterare lo stesso insegnamento della chiesa10. A tal proposito la studiosa, di indirizzo marxista, Annabella Rossi sostiene che la gente del sud che celebra le feste appartiene a quel mondo dell’Italia meridionale in impercettibile trasformazione culturale che si identifica con una “cultura della miseria” nella quale alla depressione economico-culturale si lega un sentimento religioso modulato secondo criteri magico popolari in grado di risolvere i problemi dell’aldiquà. Per la Rossi “questa religiosità viene vissuta principalmente come risolutrice dei problemi dell’aldiquà, un aldiquà nel quale non si può contrapporre ai concreti mali quotidiani, altro che (se non) un affidarsi magico religioso ed un invocare uno stare bene che non è pensabile come conquista civile ed è pensato come elargizione misteriosa e potente da parte del divino”11. Spesso il fenomeno viene inquadrato in un nostro presunto sottosviluppo culturale, per cui la religiosità sarebbe paganesimo greco-romano verniciato con i contenuti del cristianesimo. A questo tipo di lettura si lega la ricerca di Ernesto Di Martino che nel suo studio, dal titolo Sud e Magia, sostiene che il “clero meridionale” avrebbe assolto ad una funzione di raccordo tra gli esorcismi pagani e quelli cristiani, realizzando una sorta di egemonia religiosa e culturale in una società arretrata come quella meridionale12. La religione popolare appare quasi condannata a riprodursi in maniera meccanica senza farsi scalfire in profondità dagli sviluppi della dottrina… dall’influsso delle cicliche ondate di cristianizzazione controllate dalla gerarchia ecclesiastica: cambiano le forme esteriori, cambia la scenografia teatrale della pietà collettiva ma la sostanza si perpetua nel tempo Lo stesso Gramsci, nei “Quaderni dal Carcere”, ha riflettuto sulla religiosità popolare delle classi subalterne assimilando la religione popolare al folklore, cioè ad una visione del mondo caratterizzata da anti-intellettualismo, ricerca di esperienze emotivamente forti, rappresentazione antropomorfica del sacro per meglio manipolarlo ed ottenere benefici pratici ed immediati13. “La religiosità popolare non dice contrapposizione tra la chiesa ufficiale e il popolo, non postula diversità tra la religione del vescovo e del clero, più o meno riformatore, e la religione dei fedeli” 14. 104
La pietà popolare nella sua realtà profonda è fede cristiana: fa cioè riferimento al messaggio della salvezza e alla centralità del mistero pasquale. Per una lettura teologica del fenomeno è opportuno usare la dizione di pietà popolare, anche se va detto che pietà e religiosità sono aspetti di uno stessa medaglia da cogliere dinamicamente. Infatti di per sé ,”etimologicamente, pietà non dice più o diverso da religiosità. Nell’accezione, consacrata anche da una felice espressione di Paolo VI nella “Evangeli Nunziandi” al n. 48, la pietà dice più rapporto alla Chiesa come fatto istituzionale, mentre religiosità dice maggiormente una costante dell’animo umano, la sua apertura al divino, che si esprime in una molteplicità e varietà di espressioni e di atteggiamenti non necessariamente legati alla realtà istituzionale della chiesa ma neppure contro di essa”15. Prova ne sia che anche nelle religioni altre dal cattolicesimo esistono percorsi di religiosità popolare. Con il termine ”pietà” si intende sottolineare anche la lunga tradizione ecclesiastica che definisce il rapporto con Dio e con i santi. Pietà, dice il concetto che Don De Luca ha elaborato: la presenza amata di Dio nella vita dei credenti. Questa presenza amorevole viene sperimentata dal credente come salvezza, ed ad essa egli risponde con moltissime espressioni popolari: novene, tridui, azioni extra liturgiche della settimana santa, processioni, pellegrinaggi, via crucis, rosari, venerazioni delle reliquie, culto dei defunti, edicole votive, preghiere popolari, ex voto, accensione di ceri e omaggi floreali alla vergine e ai santi, venerazione dei santi, uso di medaglie e scapolari16. Pietà significa percorso di fede, la vera devozione scaturente dalla fede genuina. La pietà popolare trova la propria radice e natura nel suo essere espressione viva della fede di un popolo e, pertanto, essa è la fede cristiana vissuta nella trama del quotidiano, nella propria esistenza personale, familiare ed ecclesiale, connotata da un consapevole rapporto con Dio presente nella propria esistenza ed in maniera continuativa. Una presenza che salva. Pertanto la pietà popolare non ha nulla a che spartire con il concetto di Sacro poiché essa esprime proprio il passaggio dal sacro al Santo. Infatti il Sacro è tutto ciò che ci mette in rapporto con il divino inteso come il fondamento dell’essere. Il Santo è un divino personale, Dio che si è fatto spazio e tempo entrando in un rapporto con gli uomini e facendo si che la storia, toccata dall’irruenza di questo Santo, dal Dio-Uomo, diventasse “divina”. Infatti alla storia è stata data la possibilità di entrare in una relazione di comunione con Dio ricevendo, per partecipazione, la stessa vita di Dio. Questa relazione, tra Dio incarnato e l’umanità che lo accoglie, diventa evento di salvezza17. La pietà differisce anche dal folklore poiché esso richiama la storia del costume e della mentalità di un popolo ed ha attinenza con le forme ormai superate della società e dell’economia del passato, è residuo di usanze collettive connesse con le modalità tipiche dell’esistenza e della produzione economica della società agro-pastorale che oggi non sono più. Il folklore è legato alla cosiddetta civiltà materiale ricordando la quale non ottengo nessuna salvezza. Può esistere un folklore religioso riecheggiante, cioè, pratiche religiose ed ec105
clesiali completamente desacralizzate riprese da soggetti non ecclesiali, come ad esempio le pro-loco, con intenti di chiara valorizzazione culturale o a fini di attrazione turistica. Anche il folklore religioso, proprio perché privo di un reale contenuto di “Pietà”, cioè di incontro con Cristo-salvatore e dunque non esprimente la fede, non può ritenersi pietà18. Esempio di manifestazione folkloristica è la famosa “Festa degli schietti” che ogni anno si celebra la mattina di Pasqua a Terrasini. La diversità di natura e di funzioni tra le realtà civili e quelle ecclesiali non significa contrapposizione o conflittualità ma semplicemente chiarezza di idee, e del conseguente operato, circa la natura e la finalità di tutto ciò che va sotto il nome di pietà popolare che è altro da tutto ciò che va sotto il nome di folklore: ”la coerenza tra festività esteriore e mistero celebrato si traduce, scrive Crispino Valenziano, nella ricerca di modalità festive conformi al contenuto del mistero celebrato e ciò può implicare, talvolta, una posizione critica verso modalità contrarie allo spirito cristiano”19. Anche l’aggettivo “popolare” impone un chiarimento. Esso non va letto con categorie socio-ideologiche bensì teologiche. Protagonista è il popolo in quanto “popolo di Dio” cosicché la categoria biblico-teologica di “popolo” non è discriminante, non dice contrasto né opposizione né lotta di classe, né appella a dislivelli culturali o a contrapposizioni di sorta. Dalle indagini storiche portate avanti, sull’argomento, da Gabriele De Rosa, emerge come non è dato rilevare, in uno stesso ambito ecclesiale, diversità nella pietà del nobile e del contadino, del borghese e dell’artigiano. Popolare, dunque, come sinonimo di ecclesiale: il popolo a cui si fa riferimento e il popolo santo di dio cioè la chiesa pellegrinante. Tanti problemi sul termine “popolare” nascono o da letture ideologico-politiche dello stesso o, in ambito ecclesiale, dal continuare ad identificare la comunità civile con quella ecclesiale come se fossero la stessa cosa e, quindi, l’aggettivo “popolare” sarebbe onnicomprensivo e del percorso ecclesiale e di quello civile. Il popolare è, infine, cammino del popolo di Dio quale è storicamente dato in un tempo e in uno spazio, cioè cammino della chiesa locale. Essa testimonia l’incontro tra il vangelo e la cultura di un popolo, quello credente, vivente in un dato territorio, poiché la chiesa locale, come scrive Vincenzo Sorce: “è una chiesa incarnata in un popolo. Una chiesa indigena e inculturata, è una chiesa in dialogo permanente, umile e amabile con le tradizioni vive, la cultura del popolo in cui essa affonda le sue radici. La chiesa locale cerca di condividere ciò che appartiene realmente al popolo”. (20)
Ciò porta, il citato autore, a definire la pietà popolare “la maniera in cui il cristianesimo si incarna nelle diverse culture e stati etici e viene vissuto e si manifesta nel popolo”21. La pietà popolare è legata con la tradizione spirituale e lo specifico ecclesiale di una chiesa locale, pertanto, scrive Naro, fa parte del patrimonio di esperienza di fede e di annuncio del Vangelo accumulato nella comunità ecclesiale lungo il succedersi delle generazioni sotto l’azione dello Spirito Santo; la pietà, conclude lo storico Naro, contribuisce a delineare la fisionomia di una determinata chiesa e ne caratterizza la “particolarità”22. 106
Si può parlare di un “Cristo siciliano” soprattutto nella ritualità extraliturgica della Settimana Santa e della Pasqua in Sicilia anche attraverso le forme di pietà popolare proprie della Settimana Santa in Sicilia. Il popolo siciliano ha vissuto e ha elaborato una sua esperienza della figura di Cristo-sofferente-morto-risorto che ha il “proprium” della Sicilianità. Quali sono, allora, le caratteristiche del “Cristo siciliano” in relazione agli eventi della Settimana Santa e della Pasqua? Il siciliano è uno che vuole vedere e toccare, è fondamentale per il siciliano la RES, la cosa, (pensiamo alla tematica verghiana della roba) ed egli ha alle sue spalle una esperienza storica tragica, poiché ha visto decine e decine di colonizzatori venire nell’isola e, spesso, maltrattare il suo popolo: questo lo ha spinto a proiettare questa sofferenza, accumulata nei secoli, nell’attaccamento alla res, spesso anche con modalità eccessive e devianti, come si configura il fenomeno mafioso. Come se la “materialità” delle cose lo salvasse dall’insicurezza e dalla sofferenza accumulate nei secoli. Questa mentalità della Res, nel senso migliore del termine, cioè cosa vissuta, esperienza fatta, viene applicata anche nel vissuto religioso del siciliano. In questa cementificazione di quotidianità sofferta, la Sicilia celebra la cultura della sofferenza e in tutti i paesi dell’isola la Settimana Santa costituisce l’approdo di un modello irrepetibile verace, insostituibile salvataggio. Il Siciliano trova, negli eventi, liturgici ed extraliturgici della Settimana Santa, la teologia della kènosis, ossia il fatto che Dio non ha disdegnato di farsi Uomo e di assumere su di se’ tutta la sofferenza, fisica e morale, del genere umano23. Infatti in Sicilia è forte la concentrazione sul “Corpo di Cristo”. L’attenzione, la contemplazione del corpo di Cristo va dal Gesù-Bambino (di fondamentale importanza è stata la creazione in Sicilia, nel 1700, dei bambinelli di cera e dei presepi con i materiali tipici dell’isola, famosi sono quelli della scuola di Trapani per i presepi in Corallo), a tutta la vicenda della passione-morte-resurrezione, con particolare attenzione al corpo di Cristo deposto dalla croce e sepolto. Il corpo di Gesù-Cristo non è mai solo, ma viene associato a quello della madre, dalla culla alla tomba. E’ l’insieme dei due corpi che costituisce il cuore della Pietas proprio del Venerdì Santo, al punto tale che in alcune circostanze i due simulacri si fondono quasi a divenire una sola cosa, cosicché il siciliano non concepisce il corpo di Gesù-Cristo se non associato a quello della madre. I due corpi vengono associati nel dolore del Venerdì Santo e nella gioia della Domenica di Pasqua, allorquando la Madre ritrova il figlio risorto: l’Incontro che si celebra in molti comuni dell’isola proprio la mattina di Pasqua. Durante la Settimana Santa, nelle diverse celebrazioni liturgiche ed extraliturgiche se pur con modalità diverse, ogni comunità siciliana, celebra e vive la Verità del Mistero Pasquale con le caratteristiche, della propria storia locale, derivanti dalla inculturazione della fede cattolica; per cui, come scrive Basilio Randazzo, “il Prototipo è teologicamente unitario, lo stile è culturalmente conforme, l’atteggiamento è variegato”24. Da che cosa scaturisce questa concentrazione sulla tematica del Corpo di Cristo? Le origini sono lontane, bisogna risalire al 1700, secolo in cui si realizzarono in Sicilia, come sostiene lo storico Cataldo Naro, le istanze innovatrici del concilio di Trento, prima fra tut107
te la predicazione al popolo ad opera soprattutto degli ordini religiosi. Nacque, proprio dalla predicazione itinerante dei Cappuccini, dei Gesuiti, e dei Redentoristi, l’attenzione al Corpo di Cristo25. Fu il francescanesimo ad introdurre la pietas verso Gesù Bambino (la creazione del primo presepe vivente, a Greccio, la notte di Natale del 1223, ad opera di Francesco D’Assisi), ripresa nel 1700 da sant’Alfonso de Liguori. I religiosi, grazie ai quaresimali, le 40 ore, i panegirici, gli esercizi spirituali, le missioni popolari, la creazione di tante confraternite, diffusero la pietas, cioè il rapporto tra il credente e “U Signori”, inteso, come Dio padre a volte (U Signori fici u munnu”), ma quasi sempre riferito a Cristo: “U signori murì pi nuatri poveri piccatura”. Tutto ciò avvenne proprio nel 1700. Proprio il “secolo dei lumi” ci insegna una notevole vivacità, alimentata dalle pratiche di pietà sul mistero di Cristo semplice, povero e crocifisso e dalla necessità di garantirsi la salvezza che, sebbene eterna, deve essere sperimentata già nel quotidiano. La pietà settecentesca è prevalentemente cristologia. Vanno ricordati, a tal proposito, i componimenti di Sant’Alfonso sul Natale e i crocifissi scolpiti da fra Umile da Petralia. Essa, in sostanza, è riportata agli eventi decisivi della storia della salvezza: l’incarnazione, la passione e la morte in croce, la devozione verso l’umanità di Gesù, vengono radicati nel popolo grazie a preghiere, canti, quadri devozionali. Esemplificativo di tutto ciò è uno scritto del farmacista, di Carini, Luigi Sarmiento. Il testo del Sarmiento, pubblicato in due edizioni del 1741 e del 1752, dal titolo “Vita, passione e morte di Cristo Signor nostro”, fu scritto per solennizzare la festa del SS. Crocifisso di Carini che si svolgeva il 3 maggio. In questo testo, il Sarmento rilegge, in chiave biblica e mistagogica, tutta la storia della salvezza cominciando proprio dalla creazione. Il testo dà espressione a un concetto di fondo: la “devozione” (ossia il dedicarsi, l’avere una relazione), nel Settecento, era immedesimarsi nel Mistero di Cristo per avere un rapporto con lui nella consapevolezza che il sangue sparso da Cristo sulla croce è sangue che salva e l’intera storia della salvezza è stata realizzata perché il credente si salvi nel tempo e nello spazio in cui egli vive 26. Infatti nei testi di pietà del secolo dei lumi si parla di peccato, di salvezza dell’anima, dei dolori di Maria e di Cristo che sono un appello alla conversione. Il testo del Sarmiento dice anche l’introduzione al Mistero: dunque mistagogia. La devotio del Settecento è finalizzata ad un rapporto personale con Cristo, la Madonna e i santi, un rapporto motivato dall’esigenza della conversione cioè di un volgersi deciso e radicale a Dio che salva nel suo Cristo. Il ruolo di Maria è di essere madre dei dolori e i suoi dolori simboleggiano il peccato umano.(27) Il testo del Sarmiento ha costituito l’ossatura portante della festa del SS. Crocifisso a Carini fino al 1904. Ad oggi rivive nella “processione dei misteri” di Montelepre, di Marsala realizzate con quadri viventi e nella processione dei misteri di Trapani, realizzata con gruppi in carta pesta, nonché nella processione delle cosiddette “Vare” di Caltanissetta, realizzata con gruppi lignei . Essenzialmente, dunque, gli influssi maggiori che hanno caratterizzato la Settimana San108
ta in Sicilia sono di duplice derivazione: bizantina e spagnola. Il periodo che va dal XIII al XV secolo, bizantino quindi, vide la comparsa delle prime statue dei crocifissi che esprimono la sofferenza e la morte di Cristo con la nascita delle devozioni popolari; all’interno di esso si sviluppò il movimento francescano con la devozione verso Gesù bambino e verso il Cristo sofferente e il tenero amore verso Maria Addolorata. Il devozionismo a partire proprio da questo periodo si è insinuato profondamente nella coscienza e nelle espressioni di fede dei credenti ponendo le premesse per il nascere e lo svilupparsi anche delle tradizioni popolari siciliane della Settimana Santa. Il Plumari sostiene che l’origine della prima espressività popolare legata alla settimana santa nell’isola sia dovuta all’arrivo di coloni continentali, specie genovesi, che introdussero in Sicilia l’uso delle Casazze, cioè delle processioni dei misteri e dell’incontro tra il Cristo risorto e la madre nel giorno di Pasqua28. Il dominio degli spagnoli, dalla fine del XVI secolo fino al XVIII secolo, attraverso le famose figure dei Viceré, ha contribuito alla strutturazione definitiva dei riti della Settimana Santa in Sicilia. Per il nostro discorso lo spagnolismo diede vita all’ anticipazione del cosidetto “Sepolcro” del Signore alla sera del giovedì santo. Risale, al XVI secolo, l’usanza di deporre nel sepolcro l’immagine del Cristo morto, esponendo sopra il sepolcro il SS. Sacramento nell’ostensorio coperto da un velo. Nacque, così come documentato dal Plumari29, l’identificazione dell’altare della reposizione con il Sepolcro. Infatti, sino ad oggi, nella coscienza popolare vi è una dissolvenza di significati tra l’adorazione della “presenza reale-ostia” conservata nel tabernacolo-custodia e del corpo-ostia del Signore conservato nel tabernacolo-sepolcro. A prova di tutto ciò, in alcuni comuni dell’Arcidiocesi di Monreale il Venerdì Santo mattina si verifica la visita ai sepolcri con la presenza dell’Eucarestia, solennemente esposta, e alle statue del Cristo morto e dell’Addolorata poste sullo stesso piano, così come avviene a Corleone. In questo periodo iniziò anche la produzione di crocifissi dalle braccia e dal capo snodabili dando vita alla strutturazione definitiva dei riti tradizionali della Settimana Santa e tali sono rimasti fino ad oggi. I riti liturgici ed extraliturgici della Settimana Santa trovano il loro culmine nel triduo pasquale in cui avviene un meraviglioso connubio tra liturgia e pietà popolare. La pietà polare, come scrive Vincenzo Sorce, accentua di più l’immagine, la liturgia, il segno30. Continua il Sorce, è lo stesso popolo, il popolo di Dio, che vive lo stesso mistero e lo esprime con linguaggi diversi. (31) “Nella pietà popolare, l’uomo di Sicilia, in modo particolare nella Settimana Santa, vive ed esprime la partecipazione alla passione, morte e resurrezione di Cristo, con la totalità della sua struttura antropologica, che è simbolista, fortemente sensoriale: vivendo la dimensione della festività e della tragicità.” (32) “L’uomo di Sicilia, durante la Settimana Santa, vive la dimensione della festa, tratto essenziale della sua singolarità. Accanto al senso della festa, il senso della tragicità, della drammaticità. Quest’ultima è dimensione costitutiva dell’esperienza umana e della storia della salvezza”33 . Grazie alla sua “passio”, cioè al suo con-partecipare, lo spettatore coglie “un popolo che 109
esce dalla solitudine, vive la comunione. Dando spazio ai suoi sentimenti, alle sue emozioni, con la totalità del linguaggio corporeo, la gestualità, il canto, gli aromi, i colori, il pianto, il grido”34 . “... la pietà popolare vissuta nella Settimana Santa aiuta a ritrovare, illuminandolo, il senso della vita. L’uomo di Sicilia si rimette in marcia. Si libera dal pianto, grida il suo dolore, la sua angoscia, la sua paura davanti alla morte. Si identifica con l’uomo dei dolori (appeso alla croce). Dà spazio ai suoi sentimenti, piange. Prende contatto con i suoi vissuti, li esprime, li condivide, li grida, li urla. Psicoterapia e salvezza radicale s’incrociano nel Crocifisso, l’uomo dei dolori, l’uomo ferito e la risposta di Dio”35.
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Il Mercoledì Santo
I riti extraliturgici della Settimana Santa, in Sicilia, iniziano, sostanzialmente, il Mercoledì Santo. Di particolare importanza è la processione della “Real Maestranza” che si snoda per le vie principali della città di Caltanissetta. L’imponente e commovente corteo, legato alle antiche corporazioni, è costituito dai rappresentanti locali delle più antiche corporazioni artigiane. Nel 1806 Federico di Borbone, impressionato dall’imponenza di questo corteo, concesse alla Maestranza il titolo di reale. Il personaggio più in vista della manifestazione è il Capitano che viene eletto ogni anno tra i vari rappresentanti delle categorie artigiane, il quale ha l’onore di portare il Cristo in Croce, in segno penitenziale, nella prima parte della processione per poi guidare la Real Maestranza quale scorta d’onore alla processione del Santissimo Sacramento, cui partecipa il clero della città e il Vescovo. Nella strada i “maestri d’arte” svestono gli abiti del quotidiano per indossare quelli della cerimonia consistenti in un vestito nero, camicia bianca e papillon nero. Categoria per categoria (pittori, muratori, marmisti, falegnami, carpentieri, ferraioli, calzolai, fabbri, panificatori, idraulici, barbieri) sfilano dietro il loro Capitano, cioè l’artigiano che, per un giorno, li rappresenta tutti, e contende al Sindaco il potere di Comando della Comunità. Dietro di lui è il reggimento dei suoi rappresentanti in un ordine quasi militaresco, a ricordo anche della funzione di ordine pubblico una volta demandato all’importante gerarchia. Nel pomeriggio si dà luogo alla Processione delle cosiddette “varicedde”, piccoli gruppi di gesso e cartapesta che sfilano all’imbrunire sul percorso delle “Vare”, cioè sul tragitto che il giorno dopo seguiranno i sedici imponenti gruppi statuari della processione maggiore. Tali gruppi, ognuno affidato ad una maestranza, sono dovuti a due valenti scultori napoletani, Francesco e Vincenzo Biancardi, padre e figlio che su commissione dei minatori della «Gessolungo» (la “antica” Caltanissetta basava la sua economia sulla estrazione dello zolfo), cominciarono ad attendere a tale opera fin dal 1780. Essi ripropongono i più importanti momenti della Via Crucis. La Festa dei Giudei a San Fratello, festa popolare religiosa risale forse ai tempi medievali, quando cioè venivano rappresentati quei misteri che sono passati successivamente dalle chiese alle piazze. Quella della Pasqua è sicuramente la Settimana più ricca di manifestazioni che cominciano con il momento più drammatico della passione del Cristo e si concludono con l’esplosione della gioia della Resurrezione. Gesù entra a Gerusalemme la Domenica delle Palme. A San Fratello, dove oggi le tradizioni sono ancora rispettate, si sente un forte impeto ed una massiccia partecipazione che vede coinvolti tutti gli abitanti. Non c’è interruzione di sorta perché anche nelle giornate del Lunedì e Martedì Santo ognuno si prepara per essere di grande aiuto alla realizzazione scenografica. 111
All’alba del Mercoledì Santo inizia la Festa dei Giudei e vengono preparati i sepolcri in tutte le chiese parrocchiali. Anche le donne con religioso silenzio e luttuoso dolore cingono con manto nero il capo della Madonna della Pietà, espongono la Santa Croce, portano in segno votivo i piatti dove germogliano grano, lenticchie e ceci cresciuti per qualche settimana al buio. Una tradizione, quella del Mercoledì Santo, vuole che ogni fidanzata mandi a casa del suo futuro sposo un agnello di pasta di mandorle; qualche giorno dopo questi lo restituisce per mangiarlo insieme, al pranzo di Pasqua. Ma quella che maggiormente attira l’ interesse è la Festa dei Giudei che si svolge nei giorni di Mercoledì, Giovedì e Venerdì Santo, unica in tutta la Sicilia. Come dicevamo, di origini medievali, la rappresentazione è estremamente suggestiva e ricorda i Giudei che percossero e condussero Cristo al Calvario. Un gran numero di persone conservano accuratamente e gelosamente il costume che, secondo la tradizione, da secoli è formato da una giubba e da calzoni di mussola rossa e da strisce di stoffa d’altro colore, solitamente gialle o bianche. La testa coperta da maschera sbirrijan (lingua gallo-italica), un “cappuccio” che si slancia con un lungo cordoncino sino ad assottigliarsi come coda. Ricorda la Confraternita dei Flagellanti o dei Fratelli della Misericordia. Altri elementi rendono l’aspetto piuttosto singolare: pelle lucida con lingua, sopracciglia lunghe e arcuate, scarpe di cuoio grezzo e di stoffa, schierpi d’piau (in lingua locale). Catene a maglie larghe nella mano sinistra, d’scplina, (in vernacolo locale), trombe militari con vari ornamenti finemente intarsiati e ricamati specialmente nella giubba che ricordano le antiche tradizioni della cultura araba. I Giudei vestono quindi panni appariscenti, un singolare elmetto, con qualche pennacchio o croce, e così vestiti gli uomini sanfratellani percorrono le strade del paese. Suonano soffiando trombe militari e annunciano in maniera stridula la singolare celebrazione che è considerata a pieno titolo la festa più antica del dramma sacro popolare d’Italia. Viene spontaneo chiedersi: ma cosa rappresentano i Giudei visto che mentre la chiesa universale commemora la passione e morte di Gesù Cristo, a San Fratello si festeggia. Forse il contraltare del triste transitorio periodo in cui la chiesa ricorda il sacrificio del Cristo? Infatti un tempo comparivano molti personaggi tratti dalle pagine del Vangelo, ma su questi, il Giudeo ha preso il sopravvento. Quindi il Giudeo di San Fratello non è semplicemente un personaggio folkloristico, come molti pensano, non è colui che con il suono della sua tromba dà un aspetto del tutto insolito alle celebrazioni. Egli piuttosto rappresenta il crocifissore, il flagellatore e il soldato che affondò la sua lancia nel costato di Gesù e quindi bisogna vedere in tale personaggio il volto dell’uomo con l’estro che coprendosi, interpreta un personaggio animato da una carica emotiva folle e ad un tempo grottesca. Tant’è vero che il Pitrè scriveva: “(...) Nuova del tutto, nel ciclo delle rappresentazioni mute, è la festa dei Giudei di San Fratello dove i giovani mandriani camuffati intenzionalmente da Giudei, corrono all’impazzata per le strade facendo un vero pandemonio ed assordando la gente. A codesto ciclo son da riportare le scene dei disciplinanti, ora non più riconoscibili nelle processioni che sono tutte di raccoglimento e di pietà dei fedeli, per quanto poi in apparenza lontana, è molto vicina in sostanza a siffatto 112
gruppo di spettacoli...” Il Giudeo non sa di pagano, come qualcuno ebbe a dire, è invece l’espressione di un popolo religioso, è un atto di fede, un tripudio di amore al Cristo. Basti considerare le scene di commozione che si verificano durante ogni manifestazione; ne fa fede il fervore religioso con cui il popolo di San Fratello in un rapporto diretto con la propria intima convinzione religiosa partecipa a tutte le celebrazioni liturgiche. Ricordandoci sempre del massimo folklorista siciliano Giuseppe Pitrè, sembra inverosimile che abbia potuto definire tale manifestazione “...una ridda infernale, pazzesca costumanza, mascierata fuori tempo, vera e propria profanazione.” Egli aggiunge concludendo: “disgraziatamente, questo costume non è cessato ancora!”. Smentendosi rispetto al suo modo di interpretare la tradizione delle rappresentazioni mute, o perché avrà assistito magari frettolosamente a qualche rito o per la mistificazione di qualche suo corrispondente. Tant’è vero che di muto c‘è molto, dal momento che i Giudei rispettano un silenzio personale assoluto, utilizzando solo le trombe per annunciare la loro presenza. La singolare tradizione che è certamente curiosa, spettacolare e anche discussa fra le tante che si svolgono in terra siciliana, attira su di sé molta attenzione. Molti valenti studiosi di tradizioni popolari se ne sono occupati, spinti ed attratti dall’enorme suggestione e dall’interesse che da essa proviene e sono state formulate diverse interpretazioni che sempre hanno colto gli aspetti più emergenti del fenomeno, sociologicamente spiegabile con una specifica identificazione dell’essere sanfratellani con l’essere Giudei. Molti hanno scandagliato in profondità i motivi dei curiosi comportamenti, ma è mancato lo sforzo di operare una sintesi di tali studi. Forti di una tradizione che ci appassiona sempre più, tenteremo adesso di arricchire con considerazioni e spunti la conoscenza di questo fenomeno. Benedetto Rubino nella sua pubblicazione Folklore di San Fratello ha descritto minuziosamente i costumi ed i movimenti, lasciando l’impressione che il tutto fosse semplice rumore, frastuono e marce e che alla fine del tre giorni si tornasse alla calma, senza dare una personale interpretazione. Nella Corda pazza, Leonardo Sciascia scrive: “...ma una festa religiosa, che cos’è una festa religiosa in Sicilia? Sarebbe facile rispondere che è tutto... E anzi tutto una esplosione esistenziale... esplosione dell’es collettivo di un paese dove la collettività esiste soltanto a livello dell’es... I Giudei (di San Fratello) sono gli uccisori di Cristo, perciò nella rappresentazione della passione di Cristo che viene condannato e crocifisso, essi demonicamente si scatenano... e ci chiediamo se alla formazione di una tale tradizione non abbiano concorso più delle ragioni calendariali e liturgiche, ragioni psicologiche, sociali e storiche”. Quindi, secondo lo scrittore, il punto di vista si allarga al di là del dramma, per una interpretazione del fenomeno in termini più attuali ed in un certo senso più realistici. Ed allora occorre necessariamente fare un tuffo nel passato ricordando che San Fratello è una colonia lombarda, che ha lingua e tradizioni proprie, consuetudini e costumi della patria d’origine. Infatti la filosofia che ha assimilato la parlata e la cultura per oltre novecento anni, è stata salvata per quanto possibile in maniera del tutto originaria.(37)
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Il Giovedì Santo Il Giovedì Santo a Marsala si ha un’imponente processione dedicata alla passione e morte del Cristo effettuata da 9 gruppi di figuranti, ognuno dei quali rappresenta eventi legati alla Passione del Cristo, partendo dall’ ultima cena fino all’ascesa al Calvario. I gruppi hanno un loro posto nel corteo e sono preceduti da un uomo incappucciato che porta la croce, da un giudeo che suona la tromba ed un altro giudeo che suona il tamburo; il corteo prevede la partecipazione delle statue del Cristo morto e dell’Addolorata posti alla fine della processione e portati dalle consorelle e dai confratelli della Chiesa di S. Anna e di altri due gruppi, posti davanti al tutto. Questi gruppi sono costituiti da ragazze che portano palme e rametti di ulivo e di bambini e bambine che portano dei preziosi copricapi di propietà della Chiesa e che sono impreziositi dai monili d’oro della famiglia d’appartenenza della famiglia dei appartenenza. In genere la processione dei Misteri si conclude la sera con la rappresentazione teatrale dei momenti più significativi della Passione. La teatralità dell’evento, i costumi adoperati dai figuranti (ad esempio il secondo gruppo è costituito da ragazze vestite di bianco per simboleggiare la purezza), non devono far dimenticare che parte della fede isolana è formata dal carattere popolare che avvicina i valori cristiani ai sentimenti della popolazione che così diventa più partecipe dell’evento38.
Il Venerdì Santo Nella pietà popolare siciliana emerge il culto della passione e morte di Gesù nella quale la nostra gente si immedesima in partecipazione comunitaria. Ha scritto a tal proposito il Padre Basilio Randazzo che «la vera pietà di una volta all’anno, raccolta in tutto un anno, si comunica nel dolore della Settimana Santa, e in particolar modo al venerdì santo si celebra il «Tutto di Tutti», cioè il mistero della Passione, come «prototipo teologicamente unitario con uno stile culturalmente conforme ma con un atteggiamento che varia da comunità a comunità».(39) “Nella pietà popolare,” scrive Angelo Plumari, “ l’uomo di Sicilia vive ed esprime la parteci114
pazione alla passione, morte e resurrezione di Cristo con la totalità della sua struttura antropologica, cosicché un popolo esce dalla solitudine, vive la comunione dando spazio ai suoi sentimenti alle sue emozioni con la totalità del linguaggio corporeo, con la gestualità, con il canto, i colori, il pianto, il grido”. Al Venerdì Santo è emblematico e paradigmatico come i siciliani si ritrovino e si identifichino nel dolore del Cristo morto, stando muti davanti alla bara, e in quello dell’Addolorata, dinnanzi ai quali sentono che il dolore umano. Il loro dolore è stato assunto da Dio. Il popolo che partecipa “esplode con il linguaggio dei segni: piedi scalzi, canti lancinanti, incensi che bruciano, fiaccole accese, silenzio pieno di mistero, intensa commozione, profonda meditazione. Si ricompongono celebrazione, gestualità, simbolismo, sensorialità. E’ il trionfo dell’opera mistagogica”40. Inoltre la mistagogia dei simboli del Venerdì Santo è estremamente interessante oltre che variegata: la presenza delle confraternite incappucciate o a volto coperto, indacano, secondo B. Randazzo, la perdita di personalità o la comunione nel dolore. Il passo professionale a due passi avanti e uno indietro, ansia di sofferenza, i cilii o candele accese, l’umanità; la fiamma, la purificazione e la luce della Resurrezione; le marce funebri, l’accentuazione sensibilizzata di stati d’animo in pianto del peccato di Deicidio41. Tutto ciò comunica il fatto che “l’uomo siciliano è celebrante simbolista”42. Il Venerdì santo inizia con la visita ai sepolcri, poco conosciuti come altari della reposizione, poiché si continua ad identificare, così come sostiene il Plumari, l’altare della reposizione con il sepolcro del Signore creando, nella coscienza popolare, una identificazione di significati tra l’adorazione della presenza reale-ostia e il corpo-ostia, per cui il tabernacolo è, allo stesso tempo, sepolcro. In molti comuni il Venerdì Santo, per tutta la mattinata, continua la visita ai sepolcri con una duplice modalità: in alcune chiese permane la centralità dell’adorazione eucaristica senza nessun segno della passione, in altre, invece, all’adorazione eucaristica si affiancano le statue del Cristo morto e dell’Addolorata poste accanto ai sepolcri. I riti extraliturgici del venerdì santo si svolgono secondo quattro tipologie presenti nell’Isola: - le processioni funebri del Cristo morto accompagnato dalla Madre addolorata; - la processione dei misteri; - le processioni in cui si compie la mimesi cronologica degli eventi della passione; - la processione del solo Crocifisso (43) A Pietraperzia, in provincia di Enna, al Venerdì Santo da secoli viene celebrata la processione di “Lu signori di li fasci”. Il pietrino porta nel suo DNA il Venerdì Santo e lo trasmette alle generazioni future. La vita della città scorre seguendo il ciclo delle stagioni ed esse sono intervallate dalle manifestazioni religiose e culturali che rinnovano negli anni tradizioni secolari, contribuendo così a mantenere unita la comunità che nel rito ritrova la sua identità. Il tempo sembra fermarsi e il pietrino entra in un’atmosfera particolare e compie per istinto gesti e riti tramandati da secoli che preludono alla manifestazione di “lu Signori di li 115
fasci”. Nel silenzio della notte si odono i lamenti dei cori che narrano, con una nenia funebre impregnata di dolore, la passione di Gesù e che preparano la tragedia del Venerdì Santo. In questo giorno sin dalle prime ore è un susseguirsi di fedeli che si recano nella chiesa del Carmine per rendere omaggio al Cristo che da secoli protegge i pietrini. Nel pomeriggio, alle 15 ,in una chiesa gremita di fedeli e in un silenzio surreale, avviene la deposizione del Cristo dalla cappella nella quale e rimasto conservato per un anno. Dal petto di tutti improvvisamente esplode l’invocazione: ”Pietà e misericordia”. Inizia così il momento tanto atteso dai pietrini sparsi nel mondo che, in quell’ora, si uniscono spiritualmente al loro paese d’origine. Il fercolo del Cristo delle Fasce è un’asta di legno di cipresso, alta 8 metri e mezzo e che termina con una croce. L’asta viene innestata in una base cubitale di legno di rovere nella quale vengono inseriti due manici lunghi 10 metri per il trasporto a spalla. La fascia, intessuta in lino e lunga circa 30 metri, è un atto di devozione e di fede ed è di proprietà dei fedeli che la tramandano di padre in figlio affinché venga legata ogni anno, fino alla sua consumazione. Alle 18 il percolo viene montato nella piazza antistante la chiesa del Carmine e ha inizio la legatura delle fasce. Alle 20 e 30,dopo aver ultimato i preparativi, il Cristo con un antico rito detto del “passamano”, viene portato fuori della chiesa dai confrati per essere agganciato alla croce. Al terzo colpo dato sulla base dal confrate guida, il Cristo, viene alzato in una frazione di secondo in tutta la sua grandiosità, producendo sugli spettatori un momento di emozione che rimane fortemente impresso nell’animo. Inizia la processione. Apre la confraternita col fercolo del Cristo morto e, infine, l’addolorata portata dalle donne. Sfila per le vie del paese seguendo un itinerario immutato da secoli. L’imponente fercolo, per muovere il quale occorrono 500 persone tra portatori e possessori di fasce, avanza con maestosità e leggerezza. Il legame che unisce il petrino alla manifestazione è così forte che alcuni emigrati telefonano ai parenti per udire i suoni della festa. Lungo il percorso il fercolo esegue la “girata”, cioè gira sull’asse, in contrada Santa Croce e di fronte alla Chiesa Madre dove altri fercoli, passando sotto le fasce, ritornano in chiesa. All’arrivo la croce viene abbassata lentamente e una marea di mani alzate si protendono verso di essa. I fedeli, dopo aver riportato Cristo in Chiesa e avere sciolto le fasce, ritornano nelle loro case con l’animo pieno di speranza, stanchi ma consci di avere adempiuto a un obbligo tramandato da generazioni44. Delle predette quattro modalità, evidenziate, dal Plumari, la seconda, quella della processione dei Misteri, si svolge solamente a Montelepre (il Venerdì Santo) e a Marsala (il Giovedì Santo) secondo la tradizione della cosiddetta Casazza, ossia la processione attraverso la creazione di quadri viventi, piuttosto che con gruppi statuari così come avviene, invece, a Trapani e a Caltanissetta. I misteri di Montelepre sono la riproposizione del testo del già citato Luigi Sarmento: ossia la riproposizione dei momenti fondamentali della storia della salvezza, dalla creazione del mondo alla Pasqua storica di Cristo, attraverso quadri viventi. Alla fine dei Misteri si svolge 116
la processione del Cristo Morto e dell’Addolorata. Nella quasi totalità dei comuni i riti si svolgono secondo la prima e la terza tipologia: a mezzogiorno si porta il Cristo al calvario lo si crocifigge, la sera lo si va a riprendere e lo si porta in processione seguito dalla Madre addolorata. A Corleone, Balestrate e Borgetto, in provincia di Palermo, il Cristo viene accompagnato al calvario deposto in un lenzuolo. In molti comuni dell’isola (Corleone, Vallelunga, Villalba,) nella mattina del Venerdì Santo, si ripete uno dei riti più antichi e più suggestivi della Settimana Santa in Sicilia. A Corleone il Cristo morto viene deposto su un tavolo coperto di drappi rossi nella cappella dell’ex ospedale dei bianchi, e i fedeli vi si recano toccando e baciando la statua. Il Cristo crocifisso a Corleone è rimasto il Cristo “del pane e della fertilità dei campi”: Cu l’acqua o senz’acqua lu pani vulemu e ni l’aviti a dari vi vostra bontà. La richiesta del pane non era mai disgiunta da un’altra richiesta: Pietà e misericordia Signuri. A Prizzi, il Cristo viene accompagnato al calvario deposto su una lettiga e ricoperto con un lenzuolo bianco. La sera, il Cristo morto, viene portato in processione sempre sulla lettiga. A Corleone, così come a Prizzi, il Cristo viene portato al calvario e lì crocifisso dal clero locale45. Le più note processioni dei Misteri, con gruppi statuari, sono quelle di Caltanissetta e Trapani, e costituiscono, per il valore artistico di alcuni gruppi statuari e per la complessa rete di presenze sociali che comportano, un capitolo a parte della Pasqua siciliane. La processione dei Misteri di Trapani si svolge dal primo pomeriggio del Venerdì Santo alla stessa ora del Sabato Santo. La sfilata dei gruppi, annunziata da squilli di tromba e rullo di tamburi, è aperta dalla confraternita di San Michele, in tunica rossa e cappuccio bianco. Seguono venti vare: diciotto Misteri veri e propri, l’urna del Cristo morto e la statua dell’Addolorata. Accompagnati dai rappresentanti di ceto, cui appartengono, in abito nero, e portati a spalla, i Misteri si succedono secondo un ordine che rispetta la sequenza narrativa della Passione, dalla separazione (la prima vara), al trasporto al sepolcro (l’ultima vara). Chiudono il lungo corteo l’urna col Cristo morto e la statua dell’Addolorata. I gruppi, scolpiti in legno, con panneggi in tela e colla, sono opera in gran parte di continuatori di una scuola artigiana che ebbe in Giovanni Matera il suo fondatore e il suo rappresentante più illustre. (46)
L’Evento della processione dei Misteri di Trapani prevede un lavoro particolare delle varie maestranze coinvolte già durante i venerdi di Quaresima, quando si attua “a scinnuta dei misteri”, cioè quando il gruppo statuario, che rappresenta il “mistero” ,di turno viene posto 117
in evidenza rispetto agli altri. Ogni mistero è affidato ad una particolare confraternita di artigiani e lavoratori. Durante questi Venerdì di Quaresima i ragazzi trasportano a spalla dei fercoli con delle immagini sacre e poi andranno in giro per la città a raccogliere le offerte dei fedeli. Già dai primi giorni della Settimana Santa si hanno delle processioni; il Martedì Santo si ha la processione della Madonna dei massari, organizzata dai discendenti dei portatori delle masserizie, che in passato erano pagati dai contadini più agiati per trasportare i misteri e che poi furono esclusi dalla processione ufficiale del Venerdì; il Mercoledì Santo è il turno dei fruttivendoli che organizzano la processione in onore della Madonna della Pietà per le vie cittadine fino alla rituale visita alla Madonna dei massari. Il tutto si conclude Il Venerdì Santo con la processione più imponente di questi misteri composti da 18 gruppi lignei appartenenti alle maestranze più l’urna del Cristo morto e dell’Addolorata47. A Erice, nel XVIII secolo, grazie anche all’influsso dei “gruppi” della vicina Trapani, si sostituirono ai personaggi viventi, i gruppi statuari, per cui da quel momento, Addolorata e Cristo morto furono preceduti da Gesù nell’orto, dalla flagellazione, la coronazione di spine e da Gesù verso il calvario. Anche se di numero di molto inferiore rispetto a quelli trapanasi e sempre rispetto ad essi più piccoli, traspare la vicinanza del capoluogo. Analoga la lavorazione e i materiali usati per la lavorazione, ma l’influenza risulta ancora più evidente osservando i singoli “Misteri” ericini fra i quali si distingue per una sua originalità il solo Gesù verso il calvario. Gli altri gruppi, lasciano trasparire la matrice trapanese. Analoga fu anche l’organizzazione della processione, con l’affidamento dei gruppi alle maestranze ericine48. Uno dei momenti più suggestivi per visitare Enna è proprio la Settimana Santa, i cui riti risalgono al tempo della dominazione spagnola (XV-XVII secolo), quando le Confraternite che già esistevano come corporazioni di arti e mestieri, vennero autorizzate a costituirsi liberamente come organizzazioni religiose per promuovere il culto, ricevendo dai sovrani norme precise e privilegi. Delle 34 confraternite che esistevano fino al 1740 ne sopravvivono, oggi, solo 15 che animano la Settimana Santa. I confrati odierni non sono più i minatori e gli agricoltori di una volta: l’unica preclusione che è rimasta riguarda il sesso, essendo ammessi solo gli uomini. Il momento culminante delle celebrazioni pasquali si svolge il Venerdì Santo quando, nel primo pomeriggio, tutte le confraternite giungono al Duomo e lì cominciano a comporsi per la solenne processione. Sono oltre duemila i confrati incappucciati che, in ordine e in assoluto silenzio, precedono le Vare del Cristo Morto e dell’Addolorata, dando inizio al lungo corteo funebre che percorrerà tutta la città. Ad aprire la sfilata è la Compagnia della Passione, i cui confrati portano sui vassoi i 24 simboli del Martirio di Cristo detti i Misteri: la croce, la borsa con i trenta denari, la corona, la lanterna, il gallo, i chiodi e gli arnesi per la flagellazione. La processione raggiunge solennemente la chiesa del cimitero, ex Convento dei Cappuccini, dove viene impartita ai fedeli la benedizione con la Croce reliquario contenente la spina della Corona di Cristo. La processione ritorna dunque verso il Duomo. 118
La Domenica di Pasqua La domenica di Pasqua a Prizzi, comune dell’entroterra palermitano, si svolge “l’abballu di li diavuli”, in cui si fondono elementi desunti dalla fede e dal folklore. Alle 15 del pomeriggio, del giorno di Pasqua, le maschere dei Diavoli e della Morte si dividono in 5 gruppi ,quanti sono i quartieri del paese, per rappresentare la loro pantomima durante l’incontro tra la Madonna e il Cristo risorto. I figuranti, con il volto coperto da una caratteristica maschera, seguono i simulacri della Madonna e del Cristo portati per le vie del quartiere. I diavoli cominciano a muoversi tra di esse a passo di danza ed è a questo punto che inizia il ballo vero e proprio. Ma il momento di maggiore suggestione, folkloristica, si verifica quando i diavoli e la morte smettono di seguire i due simulacri: in quel preciso istante due angeli con le spade sguainate sconfiggeranno i diavoli e la morte49. La domenica di Pasqua nella cittadina montana di Prizzi, prevede l’abbellimento della via principale e l’incontro delle statue del Cristo risorto e di Maria Addolorata, scortata da due angeli che portano in mano una lancia. Ai piedi delle due statue si trovano due figuranti che, con tute rosse ed una maschera in viso, impersonano i diavoli che devono baciare i piedi delle due statue prima del loro incontro. Essi hanno una catena in mano e sono accompagnati da un altro figurante in tuta gialla e con una balaustra in mano e che rappresenta la morte. I tre hanno il compito di disturbare e di ritardare l’incontro tra Madre e Figlio muovendo le loro armi e ballando ai loro piedi, finché, dopo 3 tentativi d’incontro, la Madre riconosce il Figlio e si libera del manto nero del lutto per rivelare il vestito della gioia, in colori più tenui. In questo momento intervengono i due angeli per colpire i diavoli con le loro lance ma i due si devono subito separare per poi arrivare ad un successivo incontro. E’infatti previsto un momento più profano con la presenza di una banda musicale e altri movimenti dei tre figuranti già citati che disturbano i fedeli per raccogliere le offerte che andranno a coprire le spese dell’affitto dei costumi. Il terzo incontro prevede un ulteriore intervento dei due angeli che colpiscono i due diavoli, mentre la morte non è toccata perché è già stata sconfitta dal Cristo. Anche in questo caso la Madonna si libera del manto nero. La lotta tra bene e male ha un’ulteriore rappresentazione, sempre a Prizzi, ma stavolta dal sapore più profano rispetto al precedente. Alcuni cittadini si travestono da “diavoli” grazie all’ausilio di grandi maschere torve e costumi rossi ed attraversano la città’ con l’intento di prendere dei prigionieri da condurre all’inferno. Tale luogo altro non e’ che una comune 119
osteria dove i “dannati” sono obbligati a bere vino e ad offrirlo ai presenti. Solo a tarda sera, quando oramai le botti saranno svuotate, interverra’ la Vergine, accompagnata da uno stuolo di angeli, a liberare i malcapitati, nonostante un ulteriore intervento dei maligni che cercheranno ancora di corrompere i malcapitati offrendo dei dolci. A Piana dei Greci, ufficialmente degli Albanesi, insieme alle altre comunità di origine albanese presenti in Sicilia occidentale, durante la Settimana Santa vengono celebrati I riti della Java e Madhe, la “Grande Settimana”, che hanno particolare evidenza nella cittadina della provincia di Palermo - sede della diocesi denominata Eparchia - identificata ancora oggi dai siciliani come Piana dei Greci, ufficialmente degli Albanesi. Nel rito bizantino dell’Eparchia di Piana, la sequenza delle celebrazioni liturgiche coincide, in larga misura, con quella del rito romano, o latino, che è ad oggi in vigore presso alcune chiese dei 5 comuni dell’Eparchia. I Greci, ossia gli abitanti di Piana, identificano i siciliani proprio con l’aggettivo di “Latini”. Momento culminante delle celebrazioni è la notte del “Grande Sabato” poiché alla fine della Veglia pasquale si intona il celebre “Christòs Anèsti” (Cristo è Risorto). Ed è proprio con questo dire che a Piana i “Greci” rivolgono l’un l’altro, dall’alba al tramonto del giorno di Pasqua, gli auguri pasquali. La mattina di Pasqua, durante la recita del mattutino ha quindi luogo la cerimonia dell’apertura delle porte della Cattedrale di San Demetrio ad opera del Vescovo (chiamato anche Eparca) con la quale si simboleggia la vittoria del Cristo risorto sulla resistenza del demonio intenzionato a impedirgli l’ingresso. Alle 10 del mattino del giorno di Pasqua si celebra il solenne pontificale della resurrezione di Cristo dai morti. Dal punto di vista identitario-folcloristico, l’attenzione è incentrata ai costumi tipici di Piana che le donne indossano al mattino di Pasqua. La gonna ricamata in oro, ntisilona, il copricapo, keza, unitamente ad alcuni gioielli particolari e le classiche cinture con il San Giorgio, ostentati da centinaia di donne giovani e meno giovani per affermare, unitamente alla fede nel Cristo Risorto, le ragioni della loro identità da parte di una minoranza che ha saputo conservare la propria lingua, le proprie caratteristiche etniche. Alla fine della Messa di Pasqua, a Piana, vengono distribuite ai presenti migliaia di uova colorate di rosso50. A San Biagio Platani, paese dell’entroterra agrigentino, per Pasqua decidono di “esagerare”. E lo fanno da secoli! Le due congregazioni rivali dei “Signurara” (i devoti del Signore) e dei “Madunnara” (i devoti della Madonna), si sfidano nella realizzazione di spettacolari quinte sceniche di dimensioni imponenti: gli “Archi di Pasqua”. I lavori durano almeno un paio di mesi; trattandosi di attività devozionale sono eseguiti dagli abitanti stessi del paese e quindi di notte, essendo il giorno dedicato alle usuali attività lavorative. Numerosi magazzini vengono adibiti ad officine collettive dove si preparano in alcuni le strutture portanti di stampo architettonico, in altri si realizzano le decorazioni pittoriche, altri ancora realizzano gli addobbi in pasta di pane e “le ninfe”, grossi lampadari realizzati con mais e pasta colorata. Buon umore, vino e dolci sono di complemento alle ore di lavoro e sono spontaneamente offerti agli occasionali visitatori. Tra tutte le manifestazioni che celebrano la Santa Pasqua, quella che si svolge a San Biagio Platani è sicuramente una delle più suggestive. Questo rito che nasce dal culto della 120
Madonna e di Cristo, pone le sue radici nel ‘700, quando ancora il paese non contava nemmeno mille abitanti. A questa tradizione si deve la nascita delle due confraternite, Madunnara e Signurara, che con tanta passione rinnovano, di anno in anno, questa meravigliosa manifestazione. Questa divisione del paese nelle due confraternite non da origine ad un antagonismo violento, ma ad una competizione vivacissima ed appassionante, che si conclude la notte del Sabato Santo, quando ciascuna confraternita allestisce la parte del corso che le compete. La preparazione richiede una grande quantità di materiale, tutto rigorosamente concesso dalla natura. Quelli più largamente usati sono le canne, il salice, l’asparago, l’alloro, il rosmarino, i cereali, i datteri, e il pane, ognuno dei quali è ricco di un alto significato simbolico. La parte più importante è costituita dagli archi centrali, origine storica della manifestazione, sotto i quali nella mattina della Domenica di Pasqua avviene “U ncontru” (l’incontro) tra Gesù risorto e la Madonna. Di anno in anno, viene cambiata l’estetica del corso, mentre resta invariata la struttura architettonica, costituita dall’entrata, dal viale e dall’arco. L’entrata rappresenta la facciata di una chiesa, il viale la navata e l’arco, opposto all’entrata, l’abside della chiesa stessa. Il significato religioso degli Archi di Pasqua è molto evidente, volendo rappresentare il trionfo di Cristo sulla morte. Ma gli archi affondano le loro radici anche nella condizione di povertà e nella miseria in cui versava la popolazione nel ‘700, il cui allestimento serviva appunto a far dimenticare la povertà. Oggi sono cambiate molte cose, e pur continuando ad avere un significato religioso, hanno lo scopo di attirare una grande folla di cittadini e forestieri per assistere a questo spettacolo religioso, culturale ed artistico51.
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CONCLUSIONI
I tre motivi ricorrenti nella storia del Cristianesimo, la testimonianza, il simbolo e la dottrina, si congiungono brillantemente anche nei riti extraliturgici della Settimana Santa in Sicilia. Infatti l’evento storico-liturgico di Cristo morto e risorto, la Pasqua, è l’elemento cardine della fede cristiana espressa anche attraverso la pietà popolare della Settimana Santa. Essa dà vita ad un vissuto di un cattolicesimo popolare di straordinaria grandezza e attualità. Per dirla come Pascal, l’assurda tragicità della storia impone ad ogni uomo di vegliare, in presenza dell’ interminabile agonia di Cristo che durerà sino alla fine della storia. La Pasqua cristiana è, dunque, la grande possibilità di riscatto dal male offerta da Dio all’umanità nel Cristo che pende dalla croce. Attraverso il quale Dio “ha giudicato” il mondo con la pedagogia dell’Amore che salva chiunque si affiderà a Colui che, pendendo dalla croce, si è fatto “maledizione e peccato”. La storia è il palcoscenico in cui si recita, fino alla fine dei tempi, un dramma di violenza e di sopraffazione di cui anche Cristo è rimasto vittima eccellente. Così la sofferenza dell’Uomo-Dio, appeso alla croce, rimarrà “incompleta” sino alla fine del mondo e avrà bisogno di essere completata attraverso la sofferenza degli uomini. Cosicché, nella Pasqua annuale la sofferenza del Dio-Crocifisso e la sofferenza umana si incontrano, con la possibilità, per quest’ultima, di divenire parte integrante dell’opera salvifica del Dio-Crocifisso. Ogni anno continuiamo a stupirci e lo stupore diventa silenzio adorante e contemplativo. In un contesto assediato da rumori, popolato da voci, da messaggi per nulla autentici e costruttivi. Il silenzio, in cui la visione della fotografia diventa canto della bellezza e degli eventi, contro ogni collaudo di disperazione. Il silenzio, come capacità di camminare sulla strada, di ritrovarsi insieme, di seminare speranza, di reinventare il giorno. Guardare in silenzio per sostenere il lamento di una vita che partecipa ai chiodi di un Dio “maledetto” sulla croce che è solitudine nuda, abbandono, voragine del mistero, in cui il percepire ricco delle cose, della bellezza del mondo, si infrange con il pianto del soffrire e del morire e con la speranza della Resurrezione. VEDERE, MEDITARE, CONTEMPLARE , nella consapevolezza che: o Sicilia, la Bellezza ti salverà! 52
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Venerdì Santo - Corleone
Mercoledì Santo - Caltanissetta
Venerdì Santo - Corleone
Venerdì Santo - San Fratello
Venerdì Santo - Pietraperzia
Venerdì Santo - San Fratello
Mercoledì Santo - Caltanissetta
Venerdì Santo - San Fratello
Mercoledì Santo - Caltanissetta
Venerdì Santo - San Fratello
Mercoledì Santo - Caltanissetta
Giovedì Santo - Caltanissetta
Giovedì Santo - Caltanissetta
Venerdì Santo - Caltanissetta
Giovedì Santo - Caltanissetta
Venerdì Santo - Caltanissetta
Giovedì Santo - Caltanissetta
Venerdì Santo - Corleone
Giovedì Santo - Marsala
Venerdì Santo - Corleone
Giovedì Santo - Marsala
Venerdì Santo - Corleone
Venerdì Santo - Caltanissetta
Venerdì Santo - Corleone
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Venerdì Santo - Enna
Venerdì Santo - Enna
Venerdì Santo - Enna
Venerdì Santo - Enna
Venerdì Santo - Enna
Venerdì Santo - Enna
Venerdì Santo - Enna
Venerdì Santo - Enna
Venerdì Santo - Enna
Venerdì Santo - Enna
Venerdì Santo - Enna
Venerdì Santo - Enna
Venerdì Santo - Enna
Venerdì Santo - Pietraperzia
Venerdì Santo - Enna
Venerdì Santo - Pietraperzia
Venerdì Santo - Enna
Venerdì Santo - Corleone
Venerdì Santo - Enna
Venerdì Santo - Caltanissetta
Venerdì Santo - Enna
Venerdì Santo - Trapani
Venerdì Santo - Erice
Venerdì Santo - Trapani
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Venerdì Santo - Trapani
Venerdì Santo - Trapani
Venerdì Santo - Trapani
Venerdì Santo - Trapani
Venerdì Santo - Trapani
Venerdì Santo - Trapani
Venerdì Santo - Trapani
Domenica di Pasqua - Piana degli Albanesi
Venerdì Santo - Trapani
Domenica di Pasqua - Piana degli Albanesi
Venerdì Santo - Trapani
Domenica di Pasqua - Piana degli Albanesi
Domenica di Pasqua - Piana d. Albanesi
Domenica di Pasqua - Prizzi
Domenica di Pasqua - Piana d. Albanesi
Domenica di Pasqua - Prizzi
Domenica di Pasqua - Piana d. Albanesi
Domenica di Pasqua - Prizzi
Domenica di Pasqua - Piana d. Albanesi
Domenica di Pasqua - Piana d. Albanesi
Domenica di Pasqua - Piana d. Albanesi
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NOTE 1 Cf. Yustine Bellavista in HYPERLINK “http://www.italiadonna.it/” www.italiadonna.it 2 Cf.G.Cammareri, La Settimana Santa nel Trapanese Passato e Presente, Coppola Editore, Trapani 2 Ed.,1993 3 Ib.p.7 4 Cf. C. Naro, La processione dei Misteri a Montelepre: radici storiche e significato attuale, in “Bollettino Ecclesiastico dell’Arcidiocesi di Monreale”83(1/2003)pp.89-98. 5 Cf. Luigi Berzano-PierLuigi Zoccatelli, Identità e identificazione, il pluralismo religioso nell’entroterra palermitano, Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma,2005. 6 Cf. C. Naro, La processione dei Misteri a Montelepre: radici storiche e significato attuale, in “Bollettino Ecclesiastico dell’Arcidiocesi di Monreale”83(1/2003)pp.89-98. 7 Cf. V. Sorce, Inculturazione e Fede ,l’esperienza della Sicilia, Sei, Torino 1996, p. 3. 8 Cf. AA.VV. Il Cristo Siciliano, a cura di G.Savoca-G.Ruggieri, San Paolo, Cinisello Balsamo 2000. 9 Cf.M. Vilardo, La pietà polare e l’ecclesiale locale, in AA.VV., Una sorta di contagio, la traditio nella Chiesa locale e l’IRC a cura di Massimo Naro, Sciascia editore,Caltanisseta-Roma,2004 pp.133-134 . 10 Ib. p.134. 11 Riportata in G. Agostino, Le feste religiose nel sud,14-15.In M. Vilardo, La pietà polare e l’ecclesiale locale, in AA.VV. Una sorta di contagio, la traditio nella Chiesa locale e l’IRC a cura di Massimo Naro, Sciascia editore,Caltanissetta-Roma,2004 p 135. 12 Cf. M. Vilardo, La pietà polare e l’ecclesiale locale, in AA.VV., Una sorta di contagio, la traditio nella Chiesa locale e l’IRC a cura di Massimo Naro, Sciascia editore,Caltanissetta-Roma,2004 pp. 135-136. 13 Ib. p.136. 14 Ib. p. 137. 15 Ib. p. 138. 16 Ib .p. 138. 17 Ib. pp.138-139. 18 Ib. p. 139. 19 Ib. p. 141. 20 Cf. V. Sorce ,Inculturazione e fede, l’esperienza della Sicilia, Sei, Torino p.38. 21 Ib. p.18. 22 Cf. C.Naro,Momenti e figure della Chiesa nissena dell’Otto e del Novecento, Centro Studi Cammarata, San Cataldo 1989 in M. Vilardo, La pietà polare e l’ecclesiale locale, in AA.VV., Una sorta di contagio, la traditio nella Chiesa locale e l’IRC a cura di Massimo Naro, Sciascia editore,Caltanissetta-Roma,2004 p143. 23 Cf.S.B.Randazzo, Religiosità, Mistagogia e Pietà Popolare in Sicilia, EBF, Palermo 1992 p.89. 24 Ib. p.89. 25 Cf. C. Naro, La processione dei Misteri a Montelepre: radici storiche e significato attuale, in “Bollettino Ecclesiastico dell’Arcidiocesi di Monreale”83(1/2003)pp.89-98. 26 Ib. 27 Ib. 28 Cf. A. Plumari, La settimana Santa in Siclia.Guida ai riti e alle tradizioni popolari, Città Aperta, Torino, 2003 p.42. 29 Ib. p. 39. 30 Cf. V. Sorce ,Inculturazione e fede, l’esperienza della Sicilia, Sei, Torino 1996, p. 73. 31 Ib .p.73. 32 Ib. pp.73-74. 33 Ib. p 74. 34 ib. p.74. 35 ib. p.74 36 Cf. A. Amitrano Savarese, Pasqua in Sicilia, in La Sicilia Ricercata, i riti della Pasqua, Bruno Leopardi Editore, anno II.n.4,aprile 2000,pp.8-10. 37 Cf. S. Mangione, La festa dei Giudei, in La Sicilia Ricercata, I Riti della Pasqua, Bruno Leopardi Editore, Roma, anno II, Aprile 2000,pp.33-43. 38 www.pasquainsicilia.it 130
39 Cf.S.B.Randazzo, Religiosità, Mistagogia e Pietà Popolare in Sicilia, EBF, Palermo 1992 p.89. 40 Cf.V. Sorce ,Inculturazione e fede, l’esperienza della Sicilia, Sei, Torino p.75. 41 Cf.S.B.Randazzo, Religiosità, Mistagogia e Pietà Popolare in Sicilia, EBF, Palermo 1992 p.92. 42 Ib.92. 43 Cf. A.Plumari, La settimana Santa in Siclia.Guida ai riti e alle tradizioni popolari, Città Aperta, Torino 2003 p.40. 44 Cf. A. Rapisardi, LU SIGNURI DI LI FASCI, in Sicilia Events, Oasi Editrice,Troina,1997 anno 1 numero 2,pp.31-33. 45 Cf. M. Vilardo, La pietà polare e l’ecclesiale locale, in AA.VV., Una sorta di contagio, la traditio nella Chiesa locale e l’IRC ,a cura di Massimo Naro, Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma 2004 p.155. 46 Cf. A. Buttitta, Le feste di Pasqua, Sicilian Tourist Service, Arti grafiche siciliane, Palermo 1990,p.70 47 Cf. HYPERLINK “http://www.pasquainsicilia.it/” www.pasquainsicilia.it 48 G. Cammareri, La Settimana Santa nel Trapanese Passato e Presente, Coppola Editore, Trapani 2 Ed.,1993,65. 49 Cf. M. A. Di Leo, Feste popolari di Sicilia,214-215.in M. Vilardo, La pietà polare e l’ecclesiale locale, in AA.VV., Una sorta di contagio, la traditio nella Chiesa locale e l’IRC, a cura di Massimo Naro, Sciascia Editore,Caltanissetta-Roma,2004 pp… 50 Cf. A. Buttitta, Le feste di Pasqua, Sicilian Tourist Service, Arti grafiche siciliane, Palermo 1990,pp.110113. 51 Cf. HYPERLINK “http://www.sanbiagioplatani.com/” www.sanbiagioplatani.com 52 Cf. Davide M. Turoldo, Lettera a Ernst Kitzinger, in C. Naro, Amiamo la nostra Chiesa, Lettera pastorale ai fedeli della Chiesa di Monreale, Monreale 2005,p.44. BIBLIOGRAFIA AA.VV. Il Cristo Siciliano, a cura di G. Savoca-G. Ruggieri, San Paolo, Cinisello Balsamo 2000. AA.VV. La Sicilia Ricercata, i riti della Pasqua, Bruno Leopardi Editore, anno II.n.4,aprile 2000. AA.VV. Sicilia Events, Oasi Editrice, Troina 1997, anno 1 numero 2. AA.VV. Una sorta di contagio, la traditio nella Chiesa locale e l’IRC ,a cura di Massimo Naro, Sciascia editore, Caltanissetta-Roma 2004. Luigi Berzano-PierLuigi Zoccatelli, Identità e identificazione, il pluralismo religioso nell’entroterra palermitano, Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma 2005. Antonino Buttitta, Le feste di Pasqua, Sicilian Tourist Service, Arti grafiche siciliane, Palermo 1990. Giovanni. Cammareri, La Settimana Santa nel Trapanese Passato e Presente, Coppola Editore, Trapani 2 Ed.,1993. Cataldo Naro, Momenti e figure della Chiesa nissena dell’Otto e del Novecento, Centro Studi Cammarata, San Cataldo 1989. Cataldo Naro, Amiamo la nostra Chiesa, Lettera pastorale ai fedeli della Chiesa di Monreale, Monreale 2005. Angelo Plumari, La settimana Santa in Siclia.Guida ai riti e alle tradizioni popolari, Città Aperta, Torino 2003. Salvatore Basilio Randazzo, Religiosità, Mistagogia e Pietà Popolare in Sicilia, EBF, Palermo 1992. Vincenzo Sorce ,Inculturazione e fede, l’esperienza della Sicilia, Sei, Torino 1996. 131
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