Notizie dal fronte

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Notizie dal fronte Non appena l’evoluzione tecnica permise di ottenere immagini con tempi di posa relativamente veloci e ottenere sviluppi o stampe tramite laboratori “trasportabili”, i fotografi rivolsero il loro interesse nei confronti della guerra. La“materia prima”, oggetto della rappresentazione, non è stata mai scarsa: in ogni momento e in diversi angoli del mondo c’è sempre una guerra e, quindi, anche un fotografo disposto a documentarla a rischio della vita. Dal 1850, data della guerra di Crimea, ad oggi sono cambiate diverse cose, come l’attrezzatura che il fotografo usa o la varietà dei mezzi d’informazione attraverso cui l’immagine si diffonde, ma probabilmente non è cambiato l’uso e la manipolazione da parte del potere nei confronti delle immagini di guerra. I Governi si resero presto conto dell’enorme peso che la visione di immagini dal fronte potevano avere nei confronti dell’opinione pubblica: non più solo l’immagine, riportata nei quadri, di atti di eroismo, di sprezzo del pericolo del salvatore della Patria, ma anche campi di battaglia devastati e pieni di cadaveri, la sofferenza dei feriti civili, le condizioni dei profughi. Le immagini della morte vengono viste da cittadini lontani dal fronte e le immagini creano disturbo nella tranquilla vita delle cittadine di provincia. Il Potere può vietare quindi di fare fotografie nei campi di battaglia, oppure l’organo preposto può decidere quale situazione far fotografare oppure no, scortando i fotografi. Peggio ancora, può manipolare l’immagine, aggiungendo o cambiando una didascalia, trasformando un uomo che difende la sua terra in un fanatico religioso. Questo accade anche nelle democrazie occidentali. Si può essere coinvolti dalla guerra in modo differente: dalla fotografia di trincea a un certo tipo di fotografia politicizzata, in cui il fotografo cerca di dare un contributo alla soluzione di un problema, oppure usando semplicemente Flickr. Attraverso le storie di alcuni fotografi entreremo quindi nel mondo della fotografia di guerra, cuore del fotogiornalismo, cercando anche di capirne l’evoluzione (o involuzione, come mi rispose Mauro Galligani dieci anni fa ad una mia domanda sul futuro del fotogiornalismo in Italia).


I Pionieri


Con Roger FENTON inizia l’epopea dei grandi reporter di guerra. In realta’ il giovane Fenton aveva interessi diversi e multiformi: studio’ prima arte a Londra, poi si specializzo’ a Parigi sotto la guida di Paul Delaroche, ottenendo anche un discreto successo come pittore, ed infine torno’ a Londra per studiare legge! Si avvicino’ quindi alla fotografia utilizzando il metodo del collodio fresco, perfezionato in quegli anni da Scott Archer. Nel 1852 visito’ la Russia, inondando l’occidente con le prime immagini di quell’Impero cosi’ lontano e misterioso, e guadagnando immediatamente grande fama. Tornato in Inghilterra sollecito’ con successo la realizzazione di una Fondazione che si occupasse di fotografia: il 10 gennaio 1853 venne fondata la Photographic Society (futura Royal Photographic Society). Ma fu con la guerra di Crimea che Fenton entro’ nella storia. La guerra (1853-1856) sarebbe stata l’ennesima baruffa di frontiera fra Russia e Turchia, se questa volta non avesse coinvolto anche Inghilterra e Francia. William Russell, un corrispondente del Times, inizio’ a sconvolgere l’opinione pubblica con drammatici resoconti sulla condotta del conflitto, puntando il dito soprattutto sulle terribili condizioni climatiche che i soldati inglesi erano costretti ad affrontare senza l’equipaggiamento adatto, e le inqualificabili condizioni igieniche dei servizi sanitari. Cosi’ nel 1855 il Governo commissiono’ a Fenton un resoconto fotografico della guerra di Crimea che risulto’ un vero e proprio esercizio di propaganda, dato che nelle foto dal fronte di Fenton non compaiono cadaveri, né altre brutture e le truppe inglesi sembrano essere composte soprattutto da ufficiali. Del resto, Fenton aveva la necessita’ di farsi pagare le foto, e gli ufficiali erano decisamente piu’ solvibili dei soldati semplici, ed erano sempre gli ufficiali che rilasciavano i permessi per spostarsi sui vari fronti di battaglia. Per cui, adesso, possiamo perdonare a Fenton immagini che sembrano gioiose scampagnate di ufficiali in licenza, piuttosto che crude cronache della guerra di Crimea, soprattutto se si pensa alle condizioni in cui furono realizzate. Fenton aveva predisposto un carro per il trasporto di vino con tutte le attrezzature necessarie (fra cui 700 lastre di vetro e taniche di prodotti chimici), un letto, i viveri per se stesso e per i cavalli. Il clima insopportabilmente caldo della Crimea, le mosche, l’epidemia di colera che serpeggiava fra le truppe, tutto concorreva a rendere il lavoro terribilmente difficile. Tra l’altro, il grosso carro che si spostava in continuazione lungo il fronte, era un ottimo bersaglio per i cannoni russi. Al ritorno dalla Crimea (ammalato di colera), Fenton realizzo’ paesaggi, foto d’architettura e still-life per abbandonare, completamente, la macchina fotografica nel 1861 e tornare definitivamente alla professione di avvocato. Presso la Royal Photografic Society di Londra e’ disponibile l’archivio piu’ completo di Roger Fenton, con oltre 600 immagini.



Mathew B. Brady nacque a Warren County, New York, da una famiglia di immigrati irlandesi. Si trasferì a New York all’età di 17 anni. Nel 1844 avviò un proprio studio fotografico a New York e dall’anno successivo iniziò a fare mostre dei suoi ritratti di personaggi americani famosi. Nel 1849 aprì anche uno studio a Washington D.C. ; le prime fotografie di Brady erano dagherrotipi e vinse numerosi premi per le sue opere; negli anni ‘50 si diffuse l’ambrotipia che diede avvio alla stampa all’albume, una carta fotografica prodotta da larghi vetri negativi, molto usato nella fotografia della guerra civile americana. Nel 1859, il fotografo parigino André-Adolphe-Eugène Disdéri diffuse la cartes de visite e queste piccole foto (delle dimensioni di un biglietto da visita) divennero velocemente una novità popolare poiché milioni di queste immagini vennero create e vendute negli U.S.A. e in Europa. Gli sforzi di Brady per documentare la guerra di seccessione americana su grande scala portando il suo studio fotografico direttamente sul campo di battaglia gli permisero di raggiungere un posto nella storia della fotografia, nonostante gli ovvi pericoli, il rischio economico e il tentativo di dissuasione dei suoi amici. La sua prima fotografia del conflitto nella prima battaglia di Bull Run, nella quale riuscì ad avvicinarsi così tanto all’azione che riscì per poco a evitare di essere catturato. Assunse Alexander Gardner, James Gardner, Timothy H. O’Sullivan, William Pywell, George N. Barnard, Thomas C. Roche e un’altra settantina di persone e a ciascuno di esse fornì una camera oscura da viaggio per uscire e fotografare le scene della guerra di secessione. Brady generalmente stava a Washington per organizzare i suoi assistenti, ma raramente andava personalmente nei campi di battaglia. Questo può essere dovuto, almeno in parte, al fatto che la vista di Brady iniziò a rovinarsi negli anni ‘50. Anche nel 1862, Brady presentò una mostra di fotografie della battaglia di Antietam, nella sua galleria a New York, intitolata The Dead of Antietam (Il morto di Antietam). Molte delle immagini ritraevano dei cadaveri, rendendo questa presentazione completamente nuova per gli Stati Uniti. Era la prima volta che chiunque potesse vedere direttamente la realtà della guerra (seppur solo in una fotografia). Negli anni successivi, il pubblico, stanco della guerra, perse interesse nel vedere le foto della guerre e la popolarità di Brady diminuì drasticamente. Durante tutta la guerra, Brady spese oltre 100.000 $ per creare 10.000 stampe. Si aspettava che il governo degli Stati Uniti avrebbe acquistato tutte queste fotografie quando la guerra sarebbe terminata, ma quando il governo si rifiutò di acquistarle fu costretto a vendere il suo studio a New York e andare in bancarotta. Il Congresso gli garanti 25.000 $ per il 1875, ma rimase comunque fortemente indebitato. Brady divenne un alcolizzato e morì in miseria nel reparto di carità del Presbyterian Hospital di New York, a causa delle complicazioni di un incidente di tram. Il suo funerale fu pagato dai veterani della 7th New York Infantry. È sepolto nel cimitero del Congressi a Washington.


I negativi ritrovati


Al ristretto gruppo di fotografi esperti a conoscenza della loro esistenza è nota come semplicemente “La valigia messicana” e, nel pantheon dei tesori culturali smarriti, è paragonabile agli ultimi manoscritti di Hemingway, scomparsi da una stazione ferroviaria nel 1922. La valigia contiene migliaia di immagini da negativo che Robet Capa scattò durante la guerra civile spagnola prima che egli lasciò l’Europa per l’America nel 1939. Capa sosteneva che i negativi furono smarriti durante l’invasione nazista, ed egli morì in Indocina ancora pensandolo. Ma nel 1995 incominciarono a circolare voci sul ritrovamento, in particolare su un manoscritto di John Le Carre. La storia di questi negativi si è conclusa nell’International Center a Manhattan, fondato da Cornell Capa, fratello di Robet. Dopo anni di trattative i negativi sono sati trasferiti da i discendenti di un generale messicano di Pacho Villa, grazie anche al contributo di un filmaker che per primo ne realizzò nel 1990 l’importanza. . Le scatole coperte di polvere contengono le immagini della Guerra Civile Spagnola anche di Gerda Taro, compagna di vita e collega professionista, di David Seymour che di lì a poco avrebbero fondato l’agenzia Magnum assieme a Capa. La notizia è stata come uno shock per il mondo della fotografia, anche perché poteva dare ulteriori informazioni riguardo la fotografia di Capa più importante, conosciuta come “The Falling Soldier”: l’immagine è stata scattata proprio nel momento in cui un miliziano veniva colpito da un proiettile in una collina di Cordoba nel 1936. Quando la foto fu pubblicata nel magazine francese Vu, sembrò come se aiutasse la causa repubblicana. Questa singola fotografia commovente catapulta Capa, un “freelance” ungherese sconosciuto, alla fama internazionale dopo che la foto è comparsa sulla rivista LIFE il 12 luglio 1937 con il titolo: “la macchina fotografica di Robert Capa cattura l’instante in cui il soldato spagnolo è caduto colpito da una pallottola alla testa sul fronte di Cordova.” Nonostante le prove del biografo di Capa Richard Whelan riguardo la veridicità del documento, i dubbi sono rimasti. Capa e Taro non pretesero mai i diritti di pubblicazione durante la guerra - divennero partigiani comunisti - e furono conosciuti come incorporati nelle unità, una pratica comune in quel tempo. Un negativo della sequenza non è stato mai trovato (è stato sempre riprodotto da una stampa virata), e la scoperta dei negativi in particolare prima e dopo lo scatto porterebbero fine al dibattito. Ma la scoperta testimonia la grandezza del lavoro di Capa, vicino come non mai agli orrori della guerra : “ Se le tue foto non sono abbastanza buone, non sei andato abbastanza vicino” fu il suo credo. Capa praticamente inventò la figura del globe-trotter fotografo di guerra, con la sigaretta appesa all’angolo delle labbra e le fotocamere appese al collo. Nato col nome di Endre Friedman in Ungheria, lui e Taro, incontrata a Parigi, costruirono la personalità di Robert Capa, vendendolo come “un fotografo famoso americano ” in modo da essere favoriti negli incarichi. In seguito non fu più necessario fingere. La Taro, di nazionalità tedesca il cui vero nome era Gerta Pohorylle, morì in Spagna nel 1937, a 26 anni, a causa di un incidente con un carrarmato durante un servizio fotografico. Si conosce poco di lei, una delle prime fotografe di guerra, ma si può affermare che alcune foto attribuite erroneamente a Capa siano effetivamente sue.


Esiste addirittura una remota possibilità che “The falling soldier” potrebbe essere di Taro e non di Capa.I negativi erano in perfetto stato di conservazione ed erano conservati in tre scatole di metallo: una rossa, una verde e una beige. La scoperta rappresenta il materiale grezzo della nascita della moderna fotografia di guerra. Capa stabilì un modo e un metodo di interpretare la guerra non come osservatore ma entrando nella battaglia e le sue foto divennero lo standard richiesto al pubblico e dagli editori. In ogni foto sembra che ci si trovi in mezzo la battaglia o le trincee e questa rivoluzione visuale prende forma proprio da quei negativi.


Contraddizione nelle foto di Capa: se due uomini sono caduti nello stesso punto, perchè non c’è traccia dell’uomo a terra nella foto successiva?


Richard Cross e John Holgan. La fotograďŹ a e la propaganda


Richard Cross John Hoagland erano dei fotoreporter che hanno lavorato e sono morti in America latina. Richard Cross muore nel 1983, a trentatrè anni, mentre tornava da un campo di contra (combattenti per libertà) al confine tra Nicaragua e Hounduras. John Hoagland muore nel 1984, a trentasei anni, durante un conflitto a fuoco in El Salvador. Erano due idealisti secondo la tradizine dei fotoreporter, per i quali “fotografando la verità” si poteva influenzare l’opinione pubblica e cambiare il mondo. Hoagland e Cross diventarono politicizzati nel periodo in cui negli Stati Uniti la copertura dell’informazione sulla guerra del Vietnam mobiltò la gente contro la guerra. A differenza degli “shooters” che vanno giù tre giorni o tre settimane per illustrare una guerra, restando però nell’isolamento culturale e linguistico, Hoagland e Cross erano coinvolti da El Salvador e dalla sua gente. Hoagland aveva anche sposato una Salvadoregna e diceva di voler restare nel paese anche dopo la fine della guerra. Dal momento della nascita il mezzo fotografico ha dovuto lottare con la questione dell’oggettività. Hoagland sapeva che, in termini politici, non esisteva oggetività in fotografia ma esistono solo scelte basate sul proprio punto di vista e l’ingannevole illusione dell’oggetività. Scriveva Brecht: “L’incredibile sviluppo del fotogiornalismo non ha contribuito quasi per niente a rivelare la verità sulle condizioni del nostro mondo. Al contrario la fotografia, nelle mani della borghesia, è diventata una terribile arma contro la verità. La grande massa d’immagini vomitata quotidianamente dalla stampa, che sembra possedere il carattere della verità, in realtà serve solo ad oscurare i fatti. La macchina fotografica è capace di mentire proprio come la macchina da scrivere”. Hoagland e Cross erano fotografi, ma il contesto nel quale operavano il loro lavoro nei mass media è sempre stato una combinazionetra testo ed immagine. Come diceva Ronald Barthes, per quanto noi abitiamo un ambiente mediale saturo di immaginario visivo, queste immagini sono sempre accompagnate da parole. “Non è molto appropriato parlare di civiltà dell’immagine, siamo ancora, e più che mai, in una civiltà della scrittura, visto che la scrittura e il discorso continuano a rappresentare i cardini della struttura informativa. Sulla carta stampata titoli, occhielli, didascalie e testi servono tutti a risolvere l’innata abiguità delle fotografie, mentre un altro modo di aumentare l’illusione dell’obiettività delle fotografie consiste nel presentarle in maniera più o meno anonima. Mentre gli scrittori hanno sempre qualche rigo di credito, i crediti fotografici sono quasi invisibili. Nessuno ha scattato queste foto, oppure, le ha scattate Newsweek. Nessuno ha deciso cosa, quando. Nessuno è morto per realizzarle. Quasi alla fine della sua breve vita, Cross comincia ad esternare sulle severe lmitazioni delle notizie come forma di comunicazione . In un articolo Cross dice: “...i fotografi spesso hanno la vista corta quando devono affrontare le cause. Sono più interessanti i sintomi drammatici del problema che le cause del problema.” Ciò di cui abbiamo bisogno, continua Cross, è un ottimo fotogiornalismo che vada in profondità. Ciò significa che una persona dev’essere abbastanza coinvolta da una storia da dedicargli molto tempo. I fotografi dovrebbero prendere l’iniziativa di cercare di avere più controllo au come vengono utilizzate le proprie foto e dovrebbero essere più interessati riguardo come le loro foto vengono contestualizzate quando si raccontano i fatti, a come si


combinano immagini e testi.” Da giovane fotogiornalista che usava la testa, Richard era insoddisfatto da quella che veniva reputata immagine “giusta”, conforme ad un insieme spesso incoerente di decisioni editoriali, a volte estetiche, a volte politiche, imposte dalle agenzie e dalle redazioni lle riviste popolari. Era evidente che Cross provava un crescente senso di responsabiltà per le immagini che “prendeva” alla gente per “restituirle” ad un pubblico di osservatori. Ha scrito John Berger: “Una fotografiaè un luogo d’incontro nel quale spesso si contraddicono gli interessi del fotografo, del fotografto, dello spettatore e di tutti coloro che usano l’immagine. Queste contraddizioni nascondono e accrescono l’immagine fotografica.” Ogni fotografia agisce tra una complessa struttura di scelte. Queste scelte, che si estendono oltre il tempo dello scatto, influenzano il fotografo prima, durante e dopo l’istante. Hoagland e Cross erano operai culturali nelle fabbriche dell’industria della coscienza, ma non sono stati mai padroni delle foto che scattavano, così come gli operai di una fabbrca di munizioni non possiedono le armi che costruiscono. L’ultimo servizio di Cross (per U.S. News & World Report) doveva servire a verificare le notizie secondo le quali l’Honduras veniva usato da truppe ribelli spalleggiate dagli Stati Uniti per organizzare attacchi sporadici alle truppe nicaraguensi. Morì assieme al caporedattore del Los Angeles Times, Dial Torgerson, colpiti dal fuoco incrociato. Hoagland morì nove mesi dopo, colpito anch’egli dal fuoco incrociato. Quando Richard Cross e John Hoagland persero la vita, diventarono essi stessi una notizia e i loro datori di lavoro si affrettarono a celebrarli. Ci furono accuse e controaccuse, un sostanzioso dibbattito su a chi attribuire la responsabilità delle loro morti. Hoagland passò dall’anonimità dei crediti fotografici a modello del personaggio del fotoreporter in due film di Hollywood: Under Fire (1983) di Roger Spottiswoode e Salvador (1986) di Olvier Stone. Questi film sono costruiti sull’immagine del fotoreporter visto come eroe spettatore, in maniera analoga al Blow-Up di Michelangelo Antonioni, che vent’anni prima trasmetteva al pubblico il fascino dell’immagine eroica del fotografo come testimone.




Nato a Syracuse (New York) nel 1948 e cresciuto nel Massachussetts, James Nacthwey è profondamente segnato, nella sua scelta di diventare fotografo, dalle immagini della guerra nel Vietnam e del movimento per i Diritti Civili. Autodidatta, comincia a lavorare nel 1976 come fotografo per i quotidiani nel New Mexico; dal 1980 è a New York dove inizia la sua carriera di fotografo freelance per le riviste. Il suo primo compito all’estero è, nel 1981, in Irlanda, durante lo sciopero della fame di alcuni militanti dell’IRA (Irish Republican Army). Da allora Nachtwey ha dedicato la sua vita e la sua attività a documentare guerre, conflitti sociali, con immagini che sfidano la nostra indifferenza e passività, sia per la loro intrinseca bellezza, che per la loro manifesta attenzione alle persone. “Io voglio registrare la storia attraverso il destino di individui. Io non voglio mostrare la guerra in generale, né la storia con la ‘s’ maiuscola, ma piuttosto la tragedia di un singolo uomo, di una famiglia”, sottolinea Nachtwey. Altrettanto evidente è la tensione morale con cui Nachtwey s’immerge dentro la guerra, la fame, l’annientamento degli esseri umani: “Vorrei che il mio lavoro potesse appartenere alla storia visiva del nostro tempo per radicarsi nelle nostre memoria e coscienza collettive. Sono stato un testimone e queste fotografie sono la mia testimonianza. Ho dato conto della condizione delle donne e degli uomini che hanno perduto tutto, le loro case, le loro famiglie, le loro braccia e le loro gambe, la loro ragione. E al di là e nonostante tutte queste sofferenze ciascun sopravvissuto possiede ancora l’irriducibile dignità che è propria di ogni essere umano.” Memorabili sono i suoi reportage da El Salvador, Nicaragua, Guatemala, Libano, Gaza, Israele, Indonesia, Thailandia, India, Sri Lanka, Afghanistan, Filippine, Sud Corea, Somalia, Sudan, Ruanda, Sud Africa, Russia, Bosnia, Cecenia, Kossovo, Romania, Brasile, Stati Uniti, Iraq. Nachtwey lavora per Time Magazine dal 1984; è membro dell’Agenzia Magnum dal 1986 al 2001 ed è tra i fondatori dell’Agenzia VII. Tra i suoi lavori più recenti: le foto scattate a New York l’11 settembre 2001, le immagini della guerra in Iraq, dove Nachtwey è stato gravemente ferito da una granata a Bagdad. E’ stato vincitore della Robert Capa Golden Medal per cinque volte, del Magazine Photographer of the Year per sei volte e dell’Eugene Smith Memorial Grant in Humanistic Photography. “Per me la forza della fotografia sta nella sua capacità di evocare l’umano. Se la guerra costituisce un tentativo di negare questa umanità, allora la fotografia può essere concepita come l’opposto della guerra e, utilizzata consapevolmente, diventare un antidoto contro la guerra.” “La peggiore cosa è sentire che come fotografo posso trarre beneficio dalla tragedia di altri esseri umani. Questa idea mi tormenta. E’ qualcosa con cui debbo fare i conti ogni giorno, perché so che se mai permettessi alla mia sincera compassione di essere sopraffatta dall’ambizione personale avrei venduto la mia anima.” “Se una persona assume il rischio di vivere nel mezzo di una guerra per comunicare al resto del mondo ciò che accade, quella persona sta cercando di negoziare in favore della pace. Forse è la ragione per la quale quelli che sono responsabili di perpetuare la guerra non amano avere fotografi attorno.” “Molti anni fa sentii che ne avevo avuto abbastanza e che non volevo vedere altre tragedie in questo mondo. Ma purtroppo, il mondo continua e la storia continua a produrre tragedie. E’ molto importante che esse siano documentate in modo umano, in maniera convincente... Sento la responsabilità di continuare....”


Tendenze e contraddizioni.


Fino alla Guerra in Crimea le notizie dal fronte arrivavano grazie alle stesse Autorità militari: erano, però resoconti pieni di falsità, che cercavano di oscurare il volto vero della guerra. Russel cronista della guerra in Crimea descrive corpi straziati dalle granate, urla, il caos della prima linea. Per la prima volta la guerra è raccontata nella sua realtà con nessuna retorica e senza tener nascosta la sofferenza. Dalla Guerra di Crimea diviene prassi universale che i giornalisti, che seguono un determinato esercito, facciano parte reparti militari. Nella Seconda Guerra Mondiale, sia i governi totalitari che quelli democratici, inglobarono i corrispondenti nello sforzo bellico nazionale: i giornalisti indossarono l’uniforme Questa incorporazione del giornalista nell’entourage militare fu un passo molto importante: se i giornalisti erano rapiti dalle forze nemiche dovevano essere trattati come “prigionieri di guerra”. Le Convenzioni stabiliscono che i corrispondenti di guerra devono essere equiparati ai “membri civili” e a tutti i “partecipanti effettivi, seppure senza divisa, dell’impresa militare” Le disposizioni presenti nelle quattro Convenzioni erano concepite per i corrispondenti presenti ufficialmente e in uniforme: infatti, pur non essendo dei veri e propri soldati, i reporter, svolgevano un ruolo riconosciuto all’interno della forza militare. Una differenza importante anche per la nascita delle Convenzioni di Ginevra ma, soprattutto, che ha reso necessaria un’applicazione massiccia della medesima dopo il 1949, è l’irregolarità dei conflitti del XXI secolo. Non esistono più dichiarazioni di guerra ufficiali tra gli Stati e le forze combattenti non sempre sono costituite dagli eserciti ufficiali. Soprattutto in questa ultima circostanza, i gruppi di ribelli delle guerre civili o i dissidenti non sono a conoscenza di tutte le norme del diritto internazionale umanitario: questo rende l’attività del giornalista ancora più minacciata. Nelle guerre “ufficiali” gli Stati conoscono il sistema del diritto umanitario e cercano di applicarlo nel miglior modo possibile, soprattutto a tutela dei civili: ma in caso di conflitti interni in zone magari poco sviluppate è inutile credere che ci possa essere una conoscenza, ma soprattutto un’applicazione delle quattro Convenzioni di Ginevra o di altri strumenti di tutela a livello internazionale. Per i reporter tutto diviene più difficile: essere catturati dai ribelli ceceni o dai Talebani dell’Afghanistan sottopone le loro vite ad un rischio peggiore che essere prigionieri dell’Asse o degli Alleati durante la Seconda Guerra Mondiale. Con la Guerra del Vietnam, il giornalismo di guerra subì un ulteriore cambiamento. Il Pentagono concesse ai corrispondenti ampia libertà di movimento ed appoggio logistico. Questa volta nel mondo occidentale, e soprattutto negli Stati Uniti, non arrivano solo i resoconti scritti, arrivano le immagini grazie alla televisione. La “guerra senza retorica”, raccontata per anni dai reporter, arriva con tutta la sua efferatezza nelle case di milioni di americani. La prima linea, gli spari, il sangue, la sofferenza dei soldati: tutto questo era già stato descritto dai giornalisti, ma le immagini “parlano molto di più delle parole”. Il conflitto vietnamita, appare a larghi settori dell’opinione pubblica statunitense come una guerra ingiusta, contraria alle tradizioni della democrazia americana. Anche gli stessi inviati manifestano il loro dissenso, sono critici nei confronti dell’esercito USA e rimarcano la loro disapprovazione anche nell’abbigliamento: sono pochissimi quelli che indossano abiti militari. Questo atteggiamento di dissapore, manifestato anche nel modo di vestire, fu preso


in considerazione anche nel I Protocollo aggiuntivo alla Convenzione di Ginevra: “le protezioni riconosciute ai giornalisti, in base alla Convenzione di Ginevra, potrebbero non essere applicate se il loro abbigliamento è troppo simile a quello del personale combattente” L’art. 79 del Protocollo prevede che il governo, dello Stato di appartenenza del reporter, rilasci una “carta di identità” che attesti lo status di giornalista. La grande differenza è che prima si proteggeva il giornalista equiparandolo ai soldati oggi la tutela si estende: il giornalista è tutelato distinguendolo dall’esercito e quindi dando un maggior riconoscimento alla sua attività. Dopo l’esperienza del Vietnam, il Pentagono non voleva più rischiare: i militari cambiarono il loro atteggiamento nei confronti della stampa. I corrispondenti furono privati d’ogni tipo d’appoggio e protezione. Nel primo conflitto del Golfo, il Pentagono selezionò con attenzione i giornalisti da scortare al fronte. Gli altri reporter seguirono la guerra dai centri stampa. Se le guerre sviluppatesi dopo la Seconda Guerra mondiale sono state di tipo “irregolare”, la maggior parte dei conflitti degli anni Novanta si sono sviluppati come conflitti invisibili, primo per il carattere nazionale che hanno assunto, ma soprattutto perchè questi scontri sono stati resi inaccessibili ai reporter. Sono pochissimi i giornalisti che seguono sul campo lo scontro etnico della Bosnia, la maggior parte degli inviati si ferma a Belgrado: qui furono sottoposti ad una rigidissima censura e furono vittime di soprusi e maltrattamenti. La Nato, il 23 aprile 1999, inoltre, bombardò la sede della televisione serba, uccidendo sedici operatori. Le due guerre in Cecenia, sono off-limits per tutta la stampa: la Russia chiude le frontiere per non avere testimoni del massacro. Con l’Afghanistan ebbe inizio la guerra americana al terrorismo. I reporter, inizialmente esclusi, riuscirono a penetrare autonomamente nel territorio afgano. Nei primi quindici giorni otto rappresentanti dei media persero la vita. Questa guerra in Iraq ha imposto ai reporter un pedaggio di vite umane impressionante: mai, prima d’ora, tanti giornalisti erano morti in così poco tempo. Si sviluppa quindi una censura all’attività dei giornalisti: gli Stati in guerra non vogliono più che succeda quello che è avvenuto negli Stati Uniti con le immagini del Vietnam; i giornalisti non sono più i benvenuti come nella Guerra di Crimea, ora i giornalisti sono d’intralcio agli scopi che gli Stati si sono prefissati. Il pericolo per i reporter ora è sempre più palpabile e anche in Italia ci sono le prime vittime. Antonio Russo, giornalista di Radio Radicale, viene trovato morto in Georgia il 16 ottobre 2000: da tre mesi seguiva la guerra in Cecenia. Era riuscito ad entrare due volte in Cecenia dove aveva raccolto materiale scottante: scene di violenza, aggressioni. In Somalia, a Mogadiscio, il 20 marzo 1994, Ilaria Alpi giornalista del Tg3 e il teleoperatore Miran Hrovatin, vengono assassinati. Scompaiono i taccuini della giornalista: stava conducendo un’inchiesta su un traffico d’armi che coinvolgeva aziende italiane e forse i servizi segreti. Raffaele Ciriello, ucciso a Ramallah, nel 2002 La decisione dei giornalisti americani di non indossare più l’uniforme, che li equiparava ai soldati, durante la Guerra del Vietnam fu una forma di protesta contro una guerra considerata dall’opinione pubblica americana “ingiusta”. Ma ciò che era cambiato di più negli anni Ottanta, era che i giornalisti ora morivano in guerra: questo alle generazioni passate non succedeva. Non succedeva per le scrupo-


lose cautele con cui si muovevano, per le distanze che mantenevano da ogni pericolo, ma soprattutto non accadeva perchè le guerre erano diverse. Inoltre ora si sviluppa una vera e propria “gara” all’ultimo scoop, all’immagine più significativa, i giornalisti rischiano la vita anche perchè vanno alla ricerca della verità, si insinuano nei territori in conflitto per trovare la Notizia, quella con la “N” maiuscola. Il dizionario traduce “to embed” con incassare, incastrare. I giornalisti embedded nascono negli Stati Uniti, è il Pentagono a crearli: lo scopo ufficiale è quello di mettere in campo delle contromosse che neutralizzino le fonti di notizie arabe. Dopo il Conflitto in Afghanistan che aveva visto i reporter tagliati fuori dalle fasi salienti del conflitto, i militari volevano dare alla stampa, e indirettamente all’opinione pubblica, un’apparenza di apertura: questa nuova figura dell’inviato di guerra sarebbe stata applicata nella recente guerra contro il regime di Saddam Hussein in Iraq. Per la guerra in Iraq, gli americani, hanno iniziato a prepararsi molto prima sul fronte della comunicazione: i giornalisti hanno seguito un’accurata preparazione. Si è trattato di veri e propri “corsi di guerra” per reporter: seminari sia teorici che pratici di una o due settimane per imparare a muoversi e a sopravvivere in zona di guerra e in situazione di pericolo e di attacco delle forze nemiche. Negli Stati Uniti, patria degli embedded, questi corsi sono stati organizzati dal Pentagono: il prezzo variava tra i 300 e i 5000 dollari. Il sistema è stato adottato anche dalle truppe britanniche e consiste nell’incastrare i reporter nelle unità militari operative sul campo. Secondo questo programma, il reporter, per diventare embedded, dovrebbe seguire un vero e proprio programma d’addestramento con l’unità alla quale è stato assegnato, proprio per sentirsi parte di quel gruppo, incoraggiando i giornalisti ad identificarsi con le unità d’appartenenza. Mangiare e bere insieme, correre gli stessi pericoli porta a condividere gli stessi valori. L’esercito garantisce agli embedded un appoggio completo: vitto, alloggio, trasporti, assistenza logistica e naturalmente protezione. Se lo scopo ufficiale è quello di contrastare le fonti arabe lo scopo ufficioso sembrerebbe essere quello di non far rivivere alle famiglie americane lo strazio delle immagini inviate dal Vietnam. Infatti, questo nuovo inviato identificandosi con le truppe, produce una copertura giornalistica del conflitto favorevole alla politica del Pentagono la posta in gioco diviene così chiara: una visione positiva del conflitto da parte dell’opinione pubblica americana. Questo fattore è confermato dalla creazione di un vero e proprio contratto che gli embedded devono sottoscrivere. Tutti gli embedded...devono accettare 50 condizioni comportamentali con le quali il Pentagono spiega dettagliatamente cosa si può riferire e cosa no...L’obiettivo del sistema è quello di controllare quanto riportato. Si potrebbe vedere un ritorno a prima della Guerra del Vietnam, quando i giornalisti erano assegnati ai diversi reparti. Fino agli anni Settanta, infatti, i giornalisti erano inglobati nell’esercito. Per far comprendere meglio la portata di questo cambiamento è necessario leggere il giudizio espresso da Giovanna Botteri, inviata del Tg3, nel suo diario di guerra scritto nei giorni successivi all’arrivo degli americani a Baghdad: “In meno di tre giorni sono arrivati 600 giornalisti. Ci sono tutte le troupes americane CNN, Fox, ABC, NBC, CBS...Hanno capelli tagliati a spazzola, divise militari, tatuaggi militari...É quasi impossibile distinguerli dai marines veri...Non hanno mai incontrato un iracheno...Non so cosa raccontino nei loro reportage...”


Questo fenomeno sicuramente si ripercuoterà sui conflitti futuri. Visto l’influenza che avrà e i cambiamenti che ha già portato nel modo di concepire e sviluppare l’attività del reporter di guerra è opportuno definirne l’estensione odierna. David Miller, fornisce dati esaurienti su questo nuovo assetto dell’informazione che sta segnando il racconto di questa guerra, soprattutto negli Stati Uniti e in Gran Bretagna: “Ci sono 903 reporter embedded...Solo il 20% degli embedded con l’esercito americano proviene da paesi diversi dagli Stati Uniti...La predominanza dei reporter angloamericani non è un caso, ma è l’elemento chiave della strategia. Naturalmente accanto a questa “nuova forma di inviato” resistono i giornalisti indipendenti. Il Pentagono si riferisce a loro chiamandoli unilaterals. Cioè un-embedded: non inseriti all’interno dell’esercito. Il Pentagono, sempre per portare a termine gli scopi ufficiosi del suo piano, cercò di dissuadere i media nazionali a mantenere inviati indipendenti a Baghdad dopo l’inizio del conflitto: “...l’Amministrazione Usa sta invitando i giornalisti americani a non rimanere a Baghdad. Fonti del Pentagono ripetono che l’attacco militare contro l’Iraq sarà molto più pericoloso per i giornalisti rimasti a Baghdad...nessuno potrà garantire l’incolumità dei giornalisti e non spetta a all’esercito proteggerli.


Ma, che c’entra Flickr? Pronti a scattare immagini dal grande impatto informativo, non sono però solo i fotogiornalisti delle grandi agenzie. Anche soldati semplici e operatori umanitari possono trasformarsi, armati di telefonini di ultima generazione, in testimoni attivi di quello accade. A volte anche loro malgrado: l’esempio più eclatante è quello delle immagini della prigione di Abu Ghraib, scattate per gioco dai carcerieri americani: inzialmente circolarono tra i reduci via mms e via email, poi finirono sulle prime pagine di tutti i grandi quotidiani mondiali e infine sbarcarono nelle aule di tribunale, facendo condannare otto persone, tra cui la soldatessa ragazzina Lynndie England. “Iraq Pictures”, per esempio: è un blog di soldati che pubblica le immagini sulla vita quotidiana dei militari americani in Iraq, sia durante le ricognizioni sia nei momenti più intimi. “Not in my Name” è invece il titolo di un’area di un sito pacifista, che raccoglie le foto di protesta, alcune delle quali di ottima fattura tecnica, contro la guerra. Il giornalismo professionistico si è insomma trasformato radicalmente: da un lato, i fotografi di mestiere devono fronteggiare la concorrenza potenzialmente illimitata, anche dove si combatte, dei photobloggers dilettanti. Dall’altro, soprattutto nelle guerre asimmetriche contemporanee (dove il nemico non ha mai una divisa) i contatti con le popolazioni locali sono ridotti al minimo, filtrati, circospetti. Vale per i soldati, vale per i fotografi (sempre più embedded) delle grandi agenzie. Ed ecco che ritornano utili i citizen photojournalist: pronti a scattare la foto che nessun professionista riesce più a fare. Un reportage fotografico realizzato con materiale interamente trovato su Flickr nell’ ambito della piattaforma di citizen journalism di Yahoo!News riaccende il dibattito sul rischio di ‘’morte’’ per il fotogiornalismo professionale.’ In sintesi, in un mondo di media ubiquitari ci sarà sempre qualcuno sul posto in grado di riprendere un avvenimento. E’ vero che fare un grande servizio fotografico non è certo da tutti i dilettanti. Ci saranno molti casi, naturalmente, in cui saranno i professionisti a cogliere le immagini chiave di una vicenda, grazie allo know-how, l’ equipaggiamento e la connettività. Ma essi non saranno in rado di essere dovunque. E in un’ epoca in cui le testate giornalistiche stanno riducendo le redazioni a più non posso, la pressione per l’ utilizzo massiccio di quello che la comunità può offrire gratuitamente sarà inarrestabile, visti i soldi che potranno risparmiare. Anche se questa evoluzione è uno sviluppo interamente negativo, probabilmente è inevitabile’’. Il ragionamento di Gillmor ha trovato una poderosa conferma in un reportage su cui ha indirizzato l’ attenzione, nel suo blog (Teaching online journalism) , Mindy McAdams, una docente di giornalismo della Florida. Si tratta di un servizio realizzato con una serie di slides accompagnate da un sonoro sul gope militare in Thailandia, In the Wake of the Coup, costruito nell’ ambito della nuova piattaforma di citizen journalism messa a punto da Yahoo! News, YouWitness . McAdams sottolinea che il servizio “è interamente costituito da materiale raccolto da Flickr (un sito internet di proprietà di Yahoo! che permette di caricare gratuitamente delle immagini in un proprio spazi. Insomma, tecnologia e globalizzazione hanno framentato le fonti di informazione.


Università Ca’ Foscari IX Ciclo SSIS Storia della Fotografia e AAVV Virga Mario


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