Massimiliano Blocher
IL NEOCLASSICO A TRIESTE
Universita' degli Studi di Trieste Facolta' di Architettura
Corso di Storia dell' arte prof. Barbara Boccazzi
INDICE: Winckelmann e il suo tempo Un porto “neoclassico” Matteo Pertsch - Vita - Palazzo Carciotti - Teatro Giuseppe Verdi - Rotonda Pancera - Chiesa di San Nicolò dei Greci Antonio Mollari - Vita - Palazzo della Borsa Vecchia Pietro Nobile - Vita - La chiesa di Sant' Antonio Taumaturgo
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Winkelmann e il suo tempo Parlare di neoclassico senza accennare ad un personaggio storico come quello di Winckelmann, archeologo, storico dell' arte tedesco e grande critico e teorico esteta del '700, legato, in qualche maniera, anche a Trieste, è sicuramente una grave mancanza. Johann Joachim Winckelmann nacque a Stendal, nella Prussia, figlio di un povero calzolaio. Fin dall' infanzia mostrò vivo interesse per le scienze classiche, che potè studiare solo con immane fatica a causa delle scarse condizioni economiche della sua disagiata famiglia. Nel 1738 fu chiamato ad Halle, dove si iscrisse al corso di teologia della locale Università. Tuttavia in quel periodo preferì dedicarsi ad altro, in particolare si diede allo studio dell' arte greca. Successivamente, desideroso di studiare matematica e medicina, si trasferì all' università di Jena. Nel frattempo, per pagarsi gli studi, cominciò a dare lezioni private e accettò un incarico da precettore. Si spostò di nuovo e questa volta arrivò a Berlino dove potè finalmente seguire la sua naturale vocazione allo studio delle letterature greca e latina presso l' Accademia di Belle Lettere. In questo periodo entrò anche in possesso di alcune edizioni di opere classiche greche e latine. Nel 1743 diventò vicerettore delle scuole di Seehausen e assunse anche l' incarico di bibliotecario del ministro conte di Bünau. Tra tutti i suoi vari spostamenti però, il più importante di tutti può essere certamente considerato quello che lo portò a Roma. Il suo arrivo nella città capitolina, nel 1755, fu definito da Goethe, uno degli uomini più geniali di tutto il '700, come un grande avvenimento e l' inizio di una nuova epoca dominata dell' estetismo, dal culto del bello. Grazie a Winckelmann anche la letteratura tedesca, rimasta fino a quel momento in disparte, avrebbe affiancato le letterature più illustri d' Europa. A Roma arrivò privo di soldi e pressochè sconosciuto, quindi, per guadagnarsi da vivere, lavorò per anni come semplice professore ginnasiale e spesso in biblioteche come catalogatore. Gli anni '60 del XVIII secolo videro la nascita dell' archeologia, di cui Winckelmann fu uno dei protagonisti; la vicinanza con Napoli e quindi delle antiche cittadine romane di Pompei ed Ercolano da poco scoperte sotto le ceneri del monte Vesuvio che le avevano celate per secoli, tanti da farne perdere la memoria agli uomini, gli permisero di assistere direttamente agli scavi e da queste sue esperienze trasse il materiale per i suoi scritti più importanti: Ammerkungen über die Baukunst der Alten pubblicato a Lipsia nel 1762 e il suo capolavoro in assoluto Geschichte der Kunst des Altertums, pubblicato a Dresda nel 1764 e destinato a diventare una pietra miliare per gli archeologi di tutto il mondo. Dopo anni di assenza dalla madrepatria decise di tornare per un breve periodo in Prussia, ma, valicate le Alpi, cambiò idea e decise di tornare immediatamente a Roma. Fece tappa a Vienna, dove venne accolto con grandi onori alla corte dell' imperatrice Maria Teresa, la quale gli fece molte proposte e lo prego di stabilirsi nella città imperiale per proseguire i suoi studi con la promessa di ingenti finanziamenti. Ma Winckelmann era desideroso di 1
tornare a Roma e così rispose alla sovrana: “Io assicuro l' Eminenza Vostra che tutto l'oro del mondo non potrebbe muovermi da Roma”. Ripartì da Vienna e il 1° Giugno 1768 giunse a Trieste. In attesa di potersi imbarcare su una nave che lo portasse ad Ancona prese alloggio alla “Locanda Grande” nell' allora Piazza San Pietro (sita dove ora si trova Piazza Unità d' Italia). Durante il suo breve soggiorno a Trieste Winckelmann non ebbe contatti con nessuno. Tuttavia incontro un certo Francesco Arcangeli, un cuoco originario di Pistoia, rivelatosi poi niente di meno che un volgare rapinatore di passaggio in città. Questo incontro, purtroppo, gli procurò la morte: infatti fu assassinato da Arcangeli l' 8 Giugno 1768 nel tentativo del malavitoso di derubarlo, e il giorno dopo venne sepolto nel cimitero della cattedrale di San Giusto. Il 20 Luglio dello stesso anno il suo assassino venne giustiziato.
Winckelmann assimilò nel suo pensiero quello dell' illuminismo tedesco, secondo il quale la filosofia doveva essere concepita come sapienza della vita, fondata sul modello dell' arte eroica e patriottica appartenente all' antico mondo greco e romano. Fu un apostolo dell' arte neoclassica e seppe ricostruire la storia dell' arte greca e le sue relazioni con quella etrusca e romana senza neppure aver mai potuto visitare quella sue Ellade tanto sognata. Fu egli ad adottare la teoria dell' evoluzione degli stili distinguibili cronologicamente l' uno dall' altro, criterio ancor oggi utilizzato per lo studio dell' arte. Fu proclamato da Domenico Rossetti “principe del classicismo”, vedendo in lui il padre dell' archeologia. Vedeva nell' arte greca e romana la perfezione e sosteneva che se ne dovessero recuperare i principi. Così disse a proposito: “La sola via per diventare grandi, o, se possibile, inimitabili, è imitare i greci”. Il passaggio di Winkelmann a Trieste fu molto importante. Certo, le prime architetture neoclassiche triestine giungono in ritardo nei confronti del ben più ampio panorama europeo, e sono ancor più lontane nel tempo se confrontate alle pagine dei teorici del neoclassico come lo stesso Winckelmann. Ma il suo assassinio a Trieste fu il primo avvenimento che fece risuonare il nome della città in tutta l' Europa e che lasciò ai triestini l'eredità di un culto espiatorio, bisogno di renderne memoria. Trieste fu la fedele custode del pensiero artistico di Winckelmann. Su proposta di Domenico Rossetti i triestini vollero erigere un cenotafio in onore di Winckelmann. Fu chiamato per l'occasione lo scultore neoclassico Antonio Bosa di Bassano, già autore di parecchie opere ad ornare i palazzi cittadini, che ultimo l' opera nel 1822. Molte furono le proposte per la sua collocazione. Infine venne posto vicino alla cattedrale e attorno ad esso venne creato un orto lapidario dove riunire le antichità della 2
città. Sicuramente degno omaggio all' attività di Winckelmann. Il monumento è composto essenzialmente da un sarcofago in marmo sul quale siede il Genio Buono (o Agatodemone) triste per aver abbandonato per pochi, ma fatali, istanti Winckelmann e appoggiato su un medaglione raffigurante il defunto stesso. Sul sarcofago invece un bassorilievo che raffigura a destra una piramide davanti alla quale stanno una sfinge, un vaso, un busto d' Omero, e parecchie medaglie. Un uomo con una fiaccola, indica quei simboli dell' antichità alle figure che lo seguono: la Pittura, la Scultura e l'Architettura. Dietro queste, la Storia, la Critica e la Filosofia. L’ottava figura, seduta, è l'Archeologia.
Un porto neoclassico Come già detto il neoclassico a Trieste arrivò con un notevole ritardo rispetto alle altre città italiane ed europee. Le più rilevanti architetture di stampo classicista viste in città nel '700 furono quelle di due ville erette sul colle di San Vito, sorelle in questione di proporzioni e forme: Villa Murat e Villa Necker, la prima abbattuta alla fine del XIX secolo. Tutti gli altri edifici neoclassici triestini di spicco invece furono costruiti tra la fine del '700 e i primi decenni dell' 800. Ma la vera forma in cui ricercare la cultura neoclassica, in particolare a Trieste, non è l'arte né l'architettura. La vera essenza della neoclassicità è da ricercare nella società del tempo, della quale arte e architettura sono piùttosto due dipendenti. Trieste visse nel corso del '700 un periodo di grandiosa crescita demografica e assunse una notevole importanza economica e politica. Il grande mercato, costituitosi durante questo secolo, e l' arrivo di genti di diverse origini e razze rendeva necessario un unico linguaggio alla convivenza civile, capace di assimilare le varietà e le diversità. La neonata cultura neoclassica era proprio alla ricerca di un unico principio universale. Per comprendere meglio come una città possa essere definita “neoclassica” nella sua struttura intima quanto nelle sue costruzioni, nei suoi edifici, è necessario ripercorrere il momento-fulcro della sua storia e le principali tappe dello sviluppo cittadino. Trieste per secoli era vissuta appollaiandosi ai pendii di un colle, rimasta relegata ad un ruolo di piccola cittadina dedita alla pesca, ad una mera dimensione civile, economica e politica a causa del dominio monopolistico della Serenissima sul Mare Adriatico, che aveva tutti gli interessi a mantenere la situazione di questo bacino stabile affinchè altre città non potessero divenire sue rivali nel commercio marittimo. La città riuscì ad acquisire un' importanza di spessore nelle attività commerciali contemporaneamente al peggiorare dei rapporti di Vienna con Venezia. Nel 1696 la Camera Viennese concesse per questi motivi a Trieste l' esclusiva del commercio del sale per tutto il territorio dell' impero asburgico e la città si trovo così, all' improvviso, a fare da cerniera tra le direttrici di traffico del sale mediterraneo e l' entroterra imperiale. Nel 1719 Trieste, assieme alla città di Fiume, venne dichiarata dall' imperatore d' Austria Carlo VI “porto franco” con l' intenzione di trasformarla nel principale sbocco sul mare dell' impero, e venne ordinato di redigere un piano per un primo adeguamento delle strutture 3
portuali per venire incontro ai crescenti traffici. Venne chiamato l' architetto Giovanni Fusconi, all' epoca anche “Ispettore delle Regie Fabbriche”, al quale fu commissionato il progetto per la realizzazione della nuova area urbana di Trieste, alla quale venne assegnato il nome di “Distretto Camerale”, denominazione ad indicare non solo il territorio, ma anche il sistema amministrativo. Il “Piano di una nuova città da farsi sulle Salline di Trieste” venne definitivamente approvato da Carlo VI nel 1736 e pose le basi della città contemporanea. Per assolevere ai suoi scopi la città nuova doveva essere per forza edificata vicino al mare e doveva avere una viabilità interna che le consentisse facili collegamenti. La soluzione migliore avrebbe addirittura permesso alle navi di penetrare la città stessa per poter caricare e scaricare direttamente le merci nei magazzini. La zona adiacente al vecchio abitato era però poco pianeggiante, quindi fu deciso di utilizzare la vasta area delle saline, ormai in disuso, posta a nord-est delle mura e caratterizzata da una vasta spianata declinante dolcemente verso il mare. Il rimanente spazio mancante sarebbe stato “rubato” al mare con una vasta opera di interramento, che riduceva il pericolo di malattie che provenivano dalla zona paludosa. Così geometricalmente concepito, il progetto mirava al massimo utilizzo razionale del territorio. Questo grande spazio veniva immaginato dal Fusconi ordinato in 43 isolati di forma rettangolare di 20x40 klafter (1 klafter equivale a 1,86 metri), allineati su dieci file parallele alle banchine sul fronte mare, e alternate da nove canali di diverse dimensioni. La viabilità interna a questi isolati sarebbe stata garantita da ben trentaquattro ponti. Quest' immagine di una città-emporio, elaborata da Fusconi, si basa principalmente sugli schemi modello delle città olandesi mediante la compenetrazione città-porto. I canali interni alla città e la casa-fondaco richiamano alla memoria le nuove espansioni di Amsterdam di quel periodo. Il progetto fu realizzato solo in parte. Infatti le ristrettezze economiche derivate dalla guerra di successione in seno all' impero rallentarono e in parte limitarono lo sviluppo del nuovo borgo. Tuttavia l' incoronazione ad imperatrice di Maria Teresa d' Asburgo non portò all' abbandono del progetto, ma semmai ad un suo potenziamento, tanto da portare al cambiamento del nome del distretto camerale in “Borgo Teresiano”. La nuova sovrana ordinò la consolidazione del terreno ed il riempimento delle restanti saline, fece scavare il canale principale, il più grande (gli altri non furono mai portati a termine) e diede l' avvio alla costruzione dei primi grandi magazzini lungo le banchine, oltre ad un faro e di un nuovo acquedotto. I lotti in cui venne divisa la vasta area ricavata da queste operazioni venne data in affitto dallo stato per prezzi convenienti, più di carattere simbolico, facendo accorrere commercianti provenienti da tutto l' impero che vi costruirono i propri fondaci, sopra i quali presero alloggio per sé e per i propri dipendenti. Questa mancanza di cesura tra bacino portuale e insediamenti civili fece sì che il nuovo borgo venisse investito dalla dignità architettonica degli spazi urbano emporiali. Il porto era identificabile non solo con il fronte della città sul mare (delle rive), ma anche con i fronti 4
stradali dell' ordinata maglia ortogonale urbana. Un porto neoclassico, in quanto un organismo integrativo ed unificatore, dove attività di mare e di terra, pubbliche e private, amministrative e commerciali si affiancano in un' omogeinità morfologica dell' ambiente. Con questa immagine di porto neoclassico trova spazio, per la prima volta, il concetto di assimilabilità dell' infrastruttura commerciale e industriale nel contesto ambientale architettonico e urbanistico. Contemporaneamente si sente l' esigenza di garantire agli edifici, sede di abitazione e di attività lavorativa, della nuova città il “civile decoro” degli edifici abitativi tradizionali, senza però tralasciare la loro principale la loro principale funzione commerciale. Quindi sì al decoro, ma con moderazione. Con l' esponenziale crescita demografica ed economica il borgo teresiano risulta ben presto non più sufficiente alle esigenze della città e furono progettate due nuove aree di edificazione sugli stessi presupposti e sugli stessi principi geometrici: il borgo Giuseppino e il borgo Franceschino. L' ingrandimento della città, fin da subito, rendeva necessario l' uso di ingente manodopera e di persone qualificate nella progettazione degli edifici, che arrivarono soprattutto dalla Lombardia e dal Canton Ticino.
Matteo Pertsch Matteo Pertsch nacque nei pressi del Lago di Costanza, a Buchhorn, nel 1769. Nel 1790 si recò a Milano per studiare all' Accademia di Brera e dove ebbe l' occasione di diventare allievo dell' architetto Pietro Taglioretti e di lavorare nell' ambiente fervido della Milano settecentesca, a contatto con architetti di spicco come il ben noti Giuseppe Piermarini, Cantoni, Cagnola, e Pollack. Si fece presto notare per la sua bravura e nel 1794 ricevette il Primo Premio d' Architettura attribuitogli dall' Accademia Ducale di Belle Arti di Parma per un progetto di Zecca Reale. Lascia Milano e si trasferisce dapprima a Bergamo e successivamente, nel 1798, a Trieste, accogliendo l' invito di Domenico Carciotti, un commerciante di stoffe greco operante nella città nordadriatica, per la costruzione del suo palazzo/magazzino. La presenza di Pertsch a Trieste è inoltre documentata in due documenti, entrambi datati nell' Ottobre 1802, dove il suo nome (Mattia Pertsch Architetto) compare per il progetto di una sopraelevazione del primo e del secondo piano della casa che sul tavolare appare con il numero 915 (oggi angolo tra Via XXX Ottobre e Via Valdirivo) e appartenente a tali Michele Mattia Niederweger e Gio. And. Kranz. In un documento del 12 Giugno 1807, invece, nel quale il Pertsch si fa garante dell' abilità costruttiva del giovane Giovanni Righetti, appare che la Rotonda Pancera, progettata per l' omonimo signore, era già stata costruita. Tranne che per un periodo (1807-1817) nel quale tornò in Svizzera, Matteo Pertsch abitò stabilmente a Trieste, dove, grazie al fervore edilizio della nuova città, era molto facile trovare lavoro e potè in tal modo partecipare a numerosi concorsi indetti alla costruzione di grandi edifici pubblici che gli fecero raggiungere una notevole fama in città. Il 24 Ottobre 1808 Pertsch chiese in una lettera di supplica all' I.R. Presidio Governariale, “siccome ogni fatica merita il suo premio”, di essere ripagato con una somma ammontante 5
a 600 fiorini (stimata dai pubblici periti Francesco Balzano e Giuseppe Fister) dovutagli per varie opere: due piante per l'erezione di due piani sulla casa della Direzione di Polizia, un calcolo per il nuovo magazzino di polvere nel rione di San Giovanni, sette disegni per un nuovo palazzo per uso dei tribunali giustiziari in Piazza Grande, un disegno e un calcolo per un riadattamento della casa di San Nicolò al Mandracchio. Successivamente Pertsch cominciò a rivolgere la sua attenzione all' edilizia privata minore e progettò molti palazzi (pur sempre riconducibili a lui per lo stile) per ricchi signori e per gente comune. Rimase pur sempre una personalità di spicco in città e le istituzioni cittadine chiedevano spesso il suo consiglio per risolvere i più vari problemi della vita pubblica, come ad esempio il costante problema del rifornimento alla città di acqua potabile. Tra i personaggi famosi dell' epoca per i quali lavorò vi furono Domenico Rossetti, Demetrio Carciotti e Pietro Cozzi che, con un documento del 28 Febbraio 1809, richiedono a Pertsch la costruzione di un secondo ponte levatoio sul canale (oltre al Ponterosso) che avrebbe collegato le due sponde all' altezza delle attuali vie Trento e Bellini. L' architetto redisse un progetto di ponte levatoio in legno, che però I.R. Direzione delle Fabbriche e la Deputazione di Borsa giudicarono negativamente (24 Giugno 1819) considerando il ponte poco solido e proponendo un altro progetto. Altro impegno documentato nell' edilizia pubblica fu il progetto per il “Magazzeno dei Sali”. A constatare la grande fiducia e stima di cui godeva Pertsch presso le autorità e quanto fossero apprezzati i suoi consigli tecnici vi è un altro documento, del 22 Marzo 1823, che riporta il parere positivo della Direzione delle Fabbriche riguardo una nuova soluzione costruttiva per i camini. Pertsch propone l' abbandono dei consueti grandi camini a muro e l'adozione di grossi tubi di pietra forati a macchina. A suo parere questa tecnica avrebbe aiutato a diminuire i pericoli di incendio e asfissia. Infine sembra che Pertsch fosse stato chiamato anche per il progetto relativo all' ingresso e alla casa del guardiano del cimitero cattolico di Sant' Anna, purtroppo mancano i disegni. Oltre ad altri piccoli progetti, nella restante sua vita, Pertsch fu maestro di disegno presso la scuola normale di Trieste e ottenne anche la cattedra di architettura civile all' I.R. Scuola di Commercio e di Nautica tra il 1818 e il 1820. Fu qui che insegnò ad Antonio Buttazzoni del quale firmò alcuni progetti essendo l' allievo ancora troppo giovane. Nella vita privata sposò Maddalena Vogel, conosciuta a Trieste già nel 1802 e dalla quale ebbe sette figli tre dei quali seguirono in parte la sua opera: Giuseppe, che lavorò a Monaco di Baviera come ingegnere, Ernesto, pittore e scultore, e Nicolò, architetto a Trieste. Morì l' 11 Aprile 1834. Palazzo Carciotti Nel 1775 arrivò a Trieste un commerciante greco di stoffe di nome Demetrio Carciotti. Data la sua ricchezza egli volle costruire un nuovo edificio che fungesse da fondaco e sua dimora al contempo. Nonostante l' uso di magazzino, voleva un palazzo grandioso che fosse decorato come un edificio di rappresentanza e che ricordasse la sua famiglia a venire. Chiese quindi di poter costruire in una posizione privilegiata, fiancheggiando il Canal Grande e affacciandosi direttamente al mare. In questo modo sarebbe stato riconoscibile anche dalle navi che giungevano in porto. Ottenne finalmente parere positivo alla costruzione dalla Direzione delle Fabbriche nel 1798, con l'unica raccomandazione di le norme di sicurezza antincendio vigenti al tempo. Carciotti chiamò dunque a Trieste Matteo Pertsch, già operante a Milano, in un ambiente neoclassico, sotto la protezione di Piermarini. L' edificio ha dimensioni notevoli, si estende per 40m di larghezza e 100 di lunghezza, e 6
doveva contenere al suo interno l'abitazione del proprietario al piano nobile, sedici abitazioni ai piani superiori dove poter alloggiare i marinai che lavoravano sulle navi che lo rifornivano e la servitù, e al piano terra stalle, rimesse e diciotto magazzini.
Nonostante nei desideri di Carciotti l' idea fosse molto più ambiziosa e non gli mancassero di certo i soldi, Pertsch si limitò a progettare con particolare cura le due auliche facciate principali, il maestoso atrio, ed il lussuoso appartamento del proprietario, mentre per il resto della struttura le soluzioni interne da lui adottate erano già ai suoi tempi giudicate economiche. Durante la sua costruzione il palazzo subì numerosi cambiamenti. Alla sua soprintendenza fu posto Giovanni Righetti, biografo dello stesso Pertsch. La facciata principale segue lo stesso fondamentale schema che Pertsch adottò anche per il progetto del teatro nuovo e che aveva visto utilizzato anche nel suo ambiente di formazione a Milano. Il piano terreno costituisce uno zoccolo in bugnato al centro del quale viene posto un portico schiacciato (diversamente da quanto accade per il teatro nuovo) che funge da base, da stilobate, a sei colonne di ordine gigante. L'architetto vuole dare ampio respiro alla facciata e usare mezzi raffinati e controllati. Le colonne sono di ordine ionico e scanalate, uniscono sinuosamente i due piani superiori e vengono infine coronate da un' elegante balaustra adorna di statue. Queste furono probabilmente suggerite dallo stesso committente, in memoria delle sue origini greche e per essere ricordato come commerciante e benefattore della città e chiamò a realizzarle lo scultore Antonio Bosa, allievo spirituale del Canova. Le statue hanno tutte un particolare significato per il padrone e rappresentano (da sinistra a destra) Portenus (guardiano del porto), Thyke (protettrice di negozianti e naviganti), Atena (protettrice della tessitura a testimoninza che Carciotti fosse commercante di tessuti), la Fama (portatrice di buone e cattive notizie), Apollo (dio dell'armonia e dell' ordine) e l'Abundantia(per rappresentare la ricchezza del commerciante che portò benefici anche all' intera città). Sulla facciata di retro furono poste altre quattro statue, due delle quali, raffiguranti Ercole e Minerva, del Bosa. Ledificio è completato da una cupola in rame a calotta semisferica sopra di un alto tamburo e sormontata da un' aquila napoleonica. L' uso di cupole è estraneo al Piermarini, 7
ma è un elemento che si trova già nel '500 nella Rotonda di Vicenza del Palladio, ed è invece comunissimo nel neopalladianesimo inglese. Nonostante tecniche compositive imparate a Milano dal Piermarini, la purezza dei dettagli ornamentali, la presenza dell' ordine ionico richiamano gli ideali di bellezza ellennici probabilmente richiesti da Carciotti. La facciata posteriore è pressochè identica alla principale, mentre quelle laterali sono semplicissime, il bugnato liscio al piano terra che perimetra l' intero edificio e una serie di finestre tutte uguali. All' interno il piano nobile si apre in una sala rotonda accerchiata da sedici colonne. Al di sopra delle porte vi sono bassorilievi che trattano principalmente temi omerici. Anche nell' intradosso della cupola si trovano dei rilievi con scene tratte dall' Iliade. Omero infatti fu particolarmente popolare in età neoclassica in quanto i suoi eroi incarnavano alla perfezione quegli ideali e virtù che l' illuminismo desiderava diffondere. Infine altre tre statue completano la decorazione dell' edificio. Sono poste in cima allo scalone che porta al piano nobile e rappresentano la Pittura, la Scultura e l' Architettura. Teatro Giuseppe Verdi Tra le prime cose di cui la città, una volta ingrandita, volle dotarsi fu un nuovo teatro all' altezza delle aspettative di crescita del porto. Si decise di collocarlo in una vasta area da tempo strappata al mare tramite interramenti e in cui recentemente i cittadini erano frequenti soffermarsi per assistere alla caccia al toro. La storia della sua costruzione può essere un po' complessa. L' impresa fu per iniziativa di Giovanni Matteo Tommasini che aveva ottenuto l' appoggio del Governo centrale di Vienna. Intorno al 1797 venne indetto il concorso che venne vinto da due architetti diversi. Infatti i progetti di Giannantonio Selva, già affermato architetto (che, tra l' altro, era anche l' autore del famosissimo teatro “La Fenice” di Venezia), il quale era stato inizialmente incaricato dell' opera non soddisfarono del tutto la commissione e non furono integralmente approvati. La soluzione adottata per la facciata principale con convinceva, e venne considerata poco appariscente relazionata alla funzione invece rappresentativa dell' edificio. Nel 1799 quindi i lavori furono affidati all' allievo del Piermarini Matteo Pertsch, allontanando Selva. L' architetto subentratogli riuscì poi in qualche modo a mettere mano anche al progetto della sala. Successivamente anche Pertsch fu licenziato da Tommasini, ma l' edificazione del teatro fu comunque portata a compimento seguendo i suoi progetti. Di quest' architettura, che è l' oggetto di maggiore monuntalità della piazza, colpisce soprattutto la facciata, non tanto per la bellezza dei pochi particolari, ma per il grande senso di proporzione che offre. Qui il pensiero di Pertsch andò certamente alla facciata principale del Teatro alla Scala di Milano, opera del suo maestro Piermarini, ed è forse riuscito a renderla perfino più armonica e meno pesante. L' edificio ha come base uno zoccolo in pietra lavorato a bugnato, che contiene il piano terra e un mezzanino, e che nella facciata protende e invade la piazza con un portico quadrangolare robusto e al contempo arioso, con massicci archi in pietra viva conferendo equilibrio e importanza all' 8
articolazione dei piani superiori. Il portico è poi coronato da una balaustra che continua sulle aperture del piano, mentre nello zoccolo sono state ricavate due nicchie per le statue di Plutone e di Marte. I due piani superiori sono caratterizzati da un ordine gigante di colonne ioniche nel corpo centrale che si trasformano in pilastri ionici sulle ali laterali e che includono così le finestre. Sulla sommità poggia un cornicione leggermente aggettante che ripara una fascia di bassorilievi. Al centro domina una statua di Apollo affiancato dall' Arte lirica e dall' Arte tragica circondati da maschere teatrali e strumenti musicali. La facciata posteriore attuale, che da sulle banchine del porto, fu progettata più tardi, nel 1884, dall' ingegnere Eugenio Geiringer e riprende in parte gli elementi compositivi della principale. Il teatro necessitò di un ampliamento e la facciata originale andò distrutta, sebbene ne rimanga il segno ai lati dell' edificio. All' interno, oltre alla sala teatrale trova spazio l' antica sala da ballo, o Ridotto, accessibile
da via San Carlo. Era già presente nel progetto iniziale voluto da Giannantonio Selva e si sviluppa in una sala rettangolare contornata da colonne ioniche che sostengono una galleria. Gli ambienti interni furono più volte modificati, sia nelle decorazioni che nella composizione dello spazio. Rotonda Pancera Uno degli edifici più curiosi di Trieste è sicuramente la Rotonda Pancera, attribuita a Matteo Pertsch, ma di fatto mai accertata per il mancare dei documenti originali di progetto. Nonostante la dubbia attribuzione secondo la storia locale fu da lui ideata attorno al 1818 per nascondere i misteri di una loggia massonica. Nel 1976 però Wolfgang Bensch ritenne più veritiero (grazie ai documenti dell' Archivio di Stato di Trieste) che l' edificio fosse stato costruito ben prima, nel 1804, non più tardi del 1806 al massimo. Accanto ai suoi progetti per edifici di rappresentanza della città Pertsch lavora a innumerevoli altri progetti di importanza minore elaborandoli sempre con il suo lessico neoclassico, un linguaggio universale e che quindi ben si integrava anche negli angusti spazi della città vecchia abbarbicata sul pendio del colle. Per la Rotonda Pancera Pertsch trovò a sua 9
disposizione uno spazio limitato e irregolare e in salita, nel mezzo della disordinata città medievale e in tutto ciò egli vide una sfida. Creò uno zoccolo in bugnato semplice che contenesse al suo interno il piano terra e che facesse da basamento, con la stessa funzione dello stereobate e dello stilobate nei templi greci, di livellamento del terreno. Poi, proprio come in un vero tempio greco, appoggia su di esso il vero edificio, semicircolare, ingabbiato in un ordine gigante che sostiene una spessa cornice fortemente aggettante, priva di metrope e triglifi, i quali ne avrebbero ridotto il senso di rotondità. Le colonne sono addossate al muro e tra loro si aprono tre portefinestre con balaustra coronate, poco più sopra da degli altorilievi. Per meglio unire le facciate laterali con quella centrale le colonne esterne vengono tenute leggermente distaccate e nello spazio creatosi vengono poste due statue, poste su due basamenti che sostituiscono le balaustre della parte centrale. Grazie a questa felice soluzione la Rotonda Pancera fu molto imitata a Trieste in molte altre case d' angolo. Ad esempio in casa Basevi (1838) di Francesco Tureck, nella casa Czorzy (1838) e nella casa di via Tarabocchia (1851) di Giovanni Battista de Puppi e nella casa Czvietovich (1839) di Francesco Bruyn. All' interno della Rotonda c'è una sala rotonda dipinta sulle pareti e sulla volta da Bison, come anche la saletta vicina, decorata in stile pompeiano. Chiesa di San Nicolò dei Greci L' ultima opera di una certa importanza di Matteo Pertsch fu la chiesa greco-ortodossa. La città di Trieste ebbe una notevole espansione economica e demografica grazie ai numerosi provvedimenti, in gran parte di natura mercantile, adottati dall' impero sotto il regno di Carlo VI all' inizio del '700. Seguitamente giunsero in città uomini d' affare, mercanti, armatori e persone in cerca di lavoro da tutte le parti d' europa e da quello che era l' impero ottomano contribuendo a fare velocemente della città un emporio. Queste genti portarono con sè anche le proprie tradizioni e la fede religiosa e diedero vita a
diverse comunità etnico-religiose. Per quanto riguarda la religione ortodossa fu da subito quella più consistente, comprendendo sia Serbi che Greci e così, nel 1751, fu loro autorizzato da Maria Teresa di edificare un luogo di culto nel nuovo borgo di Trieste. Greci e Serbi svolsero in principio le loro funzioni religiose in uno stesso edificio, ma nel 1781 la comunità ortodossa di Trieste decise una scissione tra le componenti serba e greca. Ciò fu probabilmente dovuto a piccole differenze nello svolgimento dei riti religiosi e ad altre divergenze. La comunità greca decise subito la costruzione di un nuovo luogo di culto e chiese di poter costruire su un piccolo lotto di terreno sulle rive, con l' intenzione di rendere il sito facilmente accessibile ai greci di passaggio. Si inizio a lavorare già nel 1782 e soli cinque anni dopo fu celebrata la prima messa, nonostante la struttura fosse ancora in gran parte incompleta. Non si conosce il primo progettista e che fine abbia fatto; la chiesa per molti anni rimase a metà: mancavano i campanili, la facciata era “zoppa” ed era recintata 10
alla bell' e meglio. Non era nemmeno finita e già era necessaria una ristrutturazione completa. Finalmente nel 1819 si decise di ridar via ai lavori e, forse anche per la sua amicizia con il greco Demetrio Carciotti, fu fatto il nome di Matteo Pertsch. Pertsch aveva già in mente delle idee, ma dovette anche tener conto della volontà dei greci di far rassomigliare la nuova chiesa alla vecchia chiesa di San Spiridione “ceduta” ai serbi. La vecchia chiesa era molto semplice nel complesso, aveva due campanili e la facciata racchiusa tra paraste e un frontone triangolare. Questo volere fu ripreso dal Pertsch che ne modello la facciata evocando un tempio classico. Mise sei pilastri a muro ornati da capitelli ionici a sorreggere il grande frontone-timpano. Le aperture sono tutte sormontate anch' esse da un piccolo timpano, eccezion fatta per la lunetta centrale (all' inizio Pertsch aveva previsto un' apertura circolare). I due campanili hanno un tetto a padiglione e sono decorati da colonne con capitelli corinzi. Nel campanile di destra fu inoltre collocato un orologio. Anche l' interno è molto affine all' antica chiesa di San Spiridione e si apre in un' unica navata illuminato da finestre laterali che danno sulla via pubblica e su un cortile celato all' esterno dalla facciata. Il soffitto ospita una grandiosa tela dipinta a olio e il pavimento è aquadri di due colori.
Antonio Mollari Anche Antonio Mollarri, come la maggior parte degli architetti attivi in questo periodo in città, aveva origini diverse da quelle triestine. Nacque infatti in provincia di Macerata, a Corridonia per l' esattezza, nel 1768. Giunse a Trieste nel 1797 e non si hanno sue notizie sulla sua formazione né sulla sua attività lavorativa antecedente la sua vita nella città giuliana. Il motivo del suo arrivo a Trieste fu probabilmente il volere del console spagnolo de Lellis, di farsi costruire da lui la sua residenza privata. Ormai da un paio d'anni in città, nel 1800 Mollari partecipò al bando indetto per la costruzione del Palazzo della Borsa, che vinse a sfavore di Pertsch. Nonostante la vittoria attirò su di sé numerose antipatie e il malcontento della popolazione locale che mal digerì il suo progetto fin dal principio. Oltre al Palazzo della Borsa gli furono commissionate altre opere. Sono a lui attribuite la Casa Griot di via San Lazzaro e la Casa Dobler in via Battisti (allora Corsia Stadion) mentre fu sicuramente lui l' autore di Casa Chiozza, ormai andata distrutta. Non rimase molto a Trieste e presto tornò nelle sue terre dove si ritiene abbia svolto il restauro delle mura del castello, riprogettato una delle porte cittadine e l' ospedale. Negli ultimi anni della sua vita si trasferì a Roma dove morì nel 1843. Ad attestare la presenza di Antonio Mollari a Trieste vi sono alcuni documenti. Uno di questi è un progetto da lui firmato nel 1802 per alzare di un piano la casa di un negoziante del borgo nuovo, tale Giuseppe Andorsfer; storia simile per un' altro commerciante, Giuseppe di Teofilo Mahak. Infine in un ultimo documento del 1805 un certo Luigi Pelli sostiene di aver fatto l' apprendistato di tre anni per poter esercitare la professione di architetto presso lo studio di Antonio Mollari.
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Palazzo della Borsa Vecchia
Fino alla fine del 1700 le riunioni di borsa della città si svolsero in Piazza San Pietro, ma già da diverso tempo i commercianti chiedevano la costruzione di un luogo più appropriato alle per le loro contrattazioni. Fu così che nel 1799, grazie ai contributi degli stessi deputati e negozianti di borsa, venne acquistato dalla Deputazione di Borsa, committente ufficiale dell' opera, un terreno acquitrinoso sito tra il borgo nuovo e la piazza principale. Al concorso per la costruzione del palazzo parteciparono Antonio Mollari e Matteo Pertsch i quali presentarono entrambi due progetti giudicati dalla commissione molto validi e che ne prolungarono l' indecisione. Tanto che alla fine la proclamazione del vincitore venne demandata all' Accademia di Belle Arti di Parma, che scelse il progetto di Mollari. Mollarì modificò il suo progetto all' ultimo momento poiché da più recenti rilevazioni del terreno era risultato che l' area disponibile in realtà era più grande di quanto si fosse calcolato precedentemente. La sua vittoria accese molti malumori in città, primo fra tutti quello di Pertsch, non solo sicuro di vincere la gara fin dal principio, ma anche sentitosi imbrogliato per la modifica all' ultimo minuto di Mollari. Data la natura del terreno, instabile e franabile, si procedette in primo luogo alla bonifica della zona, al prosciugamento dell' acqua, e successivamente alla consolidazione del terreno, conficcando grossi pali di legno nel terreno, tecnica ampiamente utilizzata in ambiente veneziano. La costruzione vera e propria dell' edificio cominciò nel 1802 e venne infine inaugurato nel 1806. I triestini, che trovavano ogni pretesto per manifestare la loro antipatia nei confronti di Mollari, ancor prima della fine dei lavori avevano cominciato ad associare l' edificio ad una bara a causa della forma in pianta più larga sul lato di Piazza della Borsa e pi stretta sul lato fronte mare. La facciata principale è ovviamente quella posta sulla piazza, la più grande. L' architetto ha pensato di donarle uno stile monumentale, facendola rassomigliare ad un tempio greco in stile dorico. Uno spazioso portico si slancia verso la piazza costituito da quattro colonne di grosse proporzioni sormontate da un altrettanto imponente timpano che ospita un orologio. Al pianterreno vi sono quattro nicchie che alloggiano altrettante statue, l' America scolpita da Antonio Bosa, l' Europa e l' Africa di Bartolomeo Ferrari e l' Asia di Domenico Banti. Di Banti e di Ferrari sono anche le statue di minor tono che decorano il piano nobile, rispettivamente un Vulcano e un Mercurio. Sulla balaustra all' ultimo piano poggiano invece altre quattro opere di Bosa: il Danubio, il Genio di Trieste, Minerva e Nettuno. Il progetto originale inoltre prevedeva che ulteriori statue andassero a decorare la balaustra su tutti i lati, ma 12
ristrettezze economiche e disguidi nei lavori limitarono le statue alla sola facciata principale. Le facciate laterali hanno un semplice bugnato come basamento e la loro unica decorazione è costituita dalle finestre. Inizialmente erano previsti degli avancorpi che non fu possibile realizzare a causa della mancanza di spazio.
All' interno del palazzo, al piano terra si trova la loggia con colonne doriche binate e sul cui pavimento è disegnata una meridiana che riceve la luce da un piccolo foro nella facciata principale. Per dieci minuti a mezzogiorno veniva illuminata dai raggi e segnava la fine delle contrattazioni di borsa. Al primo piano c' è poi la Gran Sala con colonnato ammezzato e capitelli corinzi, coperta da una volta dipinta da Bison e raffigurante in maniera evocativa la proclamazione del Porto Franco di Trieste da parte di Carlo VI nel 1719.
Pietro Nobile Pietro Nobile nacque a Campestro nel 1774, nel Canton Ticino, figlio di Stefano Nobile, un capomastro, e Marianna Nobile. Il padre per primo emigrò a Trieste per far fortuna e presto fu seguito dal figlio. Date le sue doti riuscì ad ottenere delle borse di studio che gli permisero di trascorrere alcuni anni a Roma, dal 1798 al 1806. A Roma conobbe da vicino l' ambiente neoclassico e fece amicizia con Antonio Canova, con il quale mantenne i contatti anche più tardi grazie alla vicinanza dei loro ideali di bellezza. A Roma coltivò anche la passione per l' archeologia. Tornato a Trieste si specializzò in ingegneria civile nel 1807 e poco dopo fu nominato ingegnere capo delle pubbliche costruzioni, carica che ricoprì fino al 1817. In questo periodo progettò per la città la chiesa di Sant' Antonio e mise in pratica i suoi studi di archeologia iniziando i progetti di scavo del teatro romano e del propileo sul colle di San Giusto. Dovette poi abbandonare la sua carica a Trieste quando fu chiamato a Vienna per diventare 13
consigliere edile di corte e direttore dell' Accademia di Architettura. Arrivò a Vienna in un ambiente ancora legato al barocco la cui più alta espressione si ritrovava nelle opere di Fischer von Erlach. Fu lui a portare nella capitale aria di rinnovamento: realizzò il Theseustempel, una perfetta di tempio greco classico, dorico e periptero, che doveva ospitare al suo interno il Teseo di Antonio Canova. A Vienna costruì anche la Burgtor, un' imponente edificio che si ispirava al propileo di Atene. Nobile rimase a Vienna fino alla sua morte, nel 1854. La chiesa di Sant' Antonio Taumaturgo
Nel 1776 era stata costruita nella zona del nuovo borgo una chiesa per far fronte ai bisogni di carattere religioso della popolazione. Ma questo edificio in meno di mezzo secolo risultò essere insufficiente alla gran molo di fedeli dato il il numero sempre maggiore di nuovi residenti. Inoltre era ormai evidente, alla luce dei nuovi sviluppi architettonici, che non era più consono allo stile degli edifici che ormai lo attorniavano. Fu quindi decisa la sua demolizione a favore di un nuovo e più grande edificio. Nel 1818 viene annunciato dalle autorità locali un primo concorso che imponeva come unica restrizione ai progettisti di mantenere parte delle mura perimetrali, giudicate ancora in buono stato e stabili e quindi riutilizzabili per abbattere un po' i costi. Parteciparono Ulderico Moro, Pietro de Grandi, Matteo Pertsch e Pietro Nobile che vinse. Ma nel 1809 arrivano in città le truppe francesi che vi rimasero fino al 1813. Appena nel 1822 il problema della chiesa riecheggiò nella sala del comune. Venne indetto un nuovo concorso, annullando di fatto il primo; questa volta la gara fu più affollata e vide l' I.R. Direzione delle Fabbriche, il K.K. Hofbaurath di Vienna, Carlo Amati e Francesco Lazzari da Venezia, Giovanni Righetti, Giovanni Battista de Puppi e Zecchini Leonelli di Trieste e ancora una volta Pertsch e Pietro Nobile, ormai residente a Vienna. Il progetto di Nobile venne scelto nuovamente ed essenzialmente per due motivi: i suoi disegni mostravano un aspetto della futura chiesa più monumentale e la conformazione della chiesa, rettangolare, riusciva a riempire meglio il lotto, utilizzando più razionalmente lo spazio a disposizione, mentre gli altri progettisti avevano proposto piante a croce che mal si adattavano alla zona. 14
La chiesa, sebbene incompleta, fu aperta nel 1842, all' assenza dell' architetto ideatore. Lo spazio di cui disponeva la chiesa era stretto e lungo. Fu per questo che Nobile scelse una pianta che comprendesse tutta la chiesa come nelle basiliche romane da lui studiate nei suoi viaggi a Roma. Sempre in ambito greco-romano si ispirò per la facciata principale, con un portico di sei colonne ioniche, con riferimento a quello di Minerva Poliade ad Atene, sovrastato da un timpano. Sembra invece inconfondibile il riferimento di Nobile al Pantheon nella grande cupola ellittica che fa capolino sulla chiesa, mentre dietro capeggiano due campanili. Sulle facciate laterali vi è una semplice alternanza di lesene e nella parte alta di lunari, tipo di finestre comuni nelle terme romane. All' esterno tuttavia mancano le statue che avrebbero dovuto dominare la città dal tetto della chiesa e il bassorilievo da collocare nel timpano. Solo sei state furono realizzate (da Francesco Bosa) e furono poste in facciata. All' interno lo spazio è composto da un' unica grande navata e due passaggi laterali. Di lato ci sono sei colonne con capitelli ionici che si alternano a paraste, mentre gli archi sono decorati a cassettoni, sempre in ricordo delle basiliche romane. L' abside è semicircolare ed è decorata da un' affresco raffigurante l' arrivo di Gesù a Gerusalemme la domenica delle palme. Per l' accesso alla sagrestia è infine prevista una scala semicircolare con due colonne lisce su tre piani. Come già accennato la decorazione esterna doveva comprendere diverse statue e un bassorilievo incaricati a Bosa. Il progetto non venne completamente realizzato per svariate ragioni. Le statue poste sulla facciata principale, le uniche realizzate, rappresentano i santi protettori della città: San Sergio, San Servolo, Sant' Apollinare, San Giusto, Santa Eufemia e Santa Tecla.
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Bibliografia di riferimento: – Comune di Trieste, Trieste: L' architettura neoclassica, B. & M. Fachin, Trieste 1988 – Franco Firmiani, Arte Neoclassica a Trieste, Edizioni B. & M. Fachin, Trieste 1989 – Fulvio Caputo e Roberto Masiero (a cura di), Neoclassico: La ragione, la memoria, una città:Trieste, Marsilio Editori, Venezia 1990 – Silvio Benco, L' architettura neoclassica a Trieste, Tipografia Adriatica, Trieste 1995 – Gino Pavan, Pietro Nobile Architetto, Istituto Giuliano di Storia, Cultura e Documentazione, Trieste 1998 – Massimo De Grassi (a cura di), Palazzo Carciotti e il neoclassicismo a Trieste, Edizioni della Laguna, Trieste 2009
Foto e immagini di questo documento sono state reperite tramite internet.
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