Stanzino 1

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Editoriale

di Santino Cappadone Un caloroso saluto di benvenuto a voi che vi state affacciando allo “Stanzino di Santino”. È un luogo virtuale dove però si trovano persone vere, persone che hanno una spiccata sensibilità umana, conoscitori dell’umana specie come pochi. Cosa fanno queste persone in uno Stanzino? Discutono, in maniera obiettiva e onesta, senza la pretesa di catechizzare nessuno, con il solo scopo di offrire un punto di vista personale arricchito da una speciale capacità di interpretare, da par loro, i fatti, gli eventi e gli accadimenti che ci riguardano come cittadini, come uomini e donne, come genitori e figli, come artisti e come lavoratori. Sapere di poter contare su una qualificata collaborazione a questa piccola idea di riaprire “Lo Stanzino” è una vera gioia per me, uno dei regali più belli che abbia mai ricevuto.

Per questo ringrazio Arturo Cosentino, Marco Cappadona, Cenzino Ciofi, Giuliano Albrizio, Mario Selvaggio, Maria Ramundo, Rosalbo Santoro, e Laura V. Mi verrebbe da chiedere scusa a coloro che non hanno molta dimestichezza con il dialetto calabrese che, specialmente nei pezzi di Mario e di Cenzino, ricorre spesso, ma non ritengo di doverlo fare perché, come il caro Camilleri, anche noi dello Stanzino, siamo convinti che l’uso del dialetto sia una occasione per rispolverare la nostra originale identità offrendo, contemporaneamente, la possibilità a chi fosse interessato, di conoscere significati ed etimologie che provengono dalla lingua greca, latina, francese e spagnola. Lo Stanzino proverà ad avere cadenza settimanale, (giorno più, giorno meno) nel tentativo di offrire ai suoi lettori una lettura piacevole, curiosa ed interessante. Se vi piace, cliccate e condividete con i vostri amici “Lo Stanzino di Santino”, più siamo, meglio stiamo. Buona lettura.


Le parole della politica. La politica delle parole di Arturo Cosentino

Aboliamo (leggi e privilegi). Dimezziamo (tasse e burocrazia). Aumentiamo (stipendi e pensioni). Rimandiamo (a casa, migranti e politicanti). Più (lavoro) - senza aggettivi al seguito. La parola "lavoro" invece dovrebbe essere sempre seguita da un aggettivo qualificativo, il primo dei quali "dignitoso" - Flat tax, reddito di cittadinanza, reddito di inclusione. Queste le parole del non-tempo e del non-luogo di questo inizio di campagna elettorale. Stiamo vivendo giorni grigi o giorni pieni di speranza? In queste prime battute di campagna elettorale ascoltando la radio, leggendo i giornali, spulciando sui social, è una domanda che mi pongo spesso. Certamente sono giorni privi di parole umane sincere, vere, autentiche. Sono giorni dove le parole sensate sono triturate con quelle insensate, perciò non recuperabili per giorni migliori. Per questo, i segni dei tempi ci chiamano ad aprire occhi ed orecchie per superare il disincanto collettivo. Di fronte alle crescenti disuguaglianze sociali ed economiche che riguardano anche i Paesi Eurospei e l'Italia, dove la forbice tra ricchi e poveri si allarga sempre di più (vedasi l'ultimo rapporto Oxfam presentato a Davos) minacciando le libertà politiche, legate all'uguale potere di ogni cittadino di decidere sulla vita della propria comunità. Di fronte alla continua violenza sull'ambiente naturale e umano, indispensabile a custodire e valorizzare le condi-

zioni per esprimere una vita buona, fatta di un'alimentazione sana, di energie pulite, di territori non contaminati. Di fronte alla condizione (soprattutto nella nostra Italia del meridione) di tanti, troppi uomini e donne, ragazze e ragazzi, che sta diventando quella degli apolidi e degli spiantati, senza nessuna ragione per sentirsi legati alla terra che abitano, assistiamo, perplessi, alla rappresentazione di una politica stanca, troppo occupata sulle strategie e sui calcoli, molto meno impegnata nel creare una cultura alternativa, che è la speranza nella condivisione dei valori, nella consapevolezza che assieme si cambia e si cammina. Eccessivamente rivolta a se stessa, si è indebolita nella pratica dei valori condivisi e del bene comune. La politica, la vera buona politica è quella capace di restituire al nostro immaginario l'energia popolare della passione per la vita contro il cinismo, l'indifferenza, il disincanto, la mediocrità, il servilismo, la subalternità ipocrita. La buona politica si rivolge alle donne e agli uomini in carne ed ossa: ai giovani, agli studenti, ai lavoratori, a chi ha perso la casa, ai piccoli imprenditori che non hanno più credito, agli anziani. Le parole della politica oggi sono senza destinatari. Quale politico oggi, onestamente, restituisce speranza ad un popolo depresso? Oggi la politica sente senza ascoltare, lo vediamo (tranne rarissimi casi) negli pseudo dibattiti dei non-luoghi televisivo e virtuale, dove preminente è il radicalismo stupido dello scontro, non della discussione, e della concezione tolemaica di se stessi. Lo vediamo nella mancanza di idee, di progetti, di proposte misurate e percorribili, nella mancanza di riflessione che è inghiottita dall'urgenza. È allora è urgente come dice Pietro Barcellona nel suo bellissimo Parolepotere che la politica si appropri del "discorso utile" e "di parole che sanno inventare futuro" progettando "eventi possibili" soprattutto "per ri-costruire la comunicazione diretta con l'altro. La sola base possibile per una comunità solidale".


La calma di Monet di Marco Cappadona

Claude-Oscar Monet nacque il 14 novembre 1840 a Parigi e lasciò questo mondo nella sua amata Giverny il 5 dicembre del 1926 dopo aver dato ampio spazio alle sue principali passioni che erano la pittura, il giardinaggio ed il viaggiare. Titolo dell’opera (1866) è semplicemente “Adolphe Monet legge in giardino”.

Ho scelto questo dipinto che mette in risalto la pulizia della sua pittura e trasmette tanto a chi lo guarda con occhio attento. La calma che s’avverte nel guardarlo, la quiete che sembra sgorgare direttamente dai roseti, dalle piante, dagli alberi magistralmente riprodotti dalla sua mano sapiente ed appassionata. Coltivava con amore non solo la pittura ma anche l’arte del giardinaggio che ha trovato in lui forse la massima espressione tra gli impressionisti (è riconosciuto come precursore di questa corrente artistico-culturale) tanto da farlo ricordare con l’appellativo, quanto mai calzante, di pittore degli oramai noti a tutti “giardini incantati”. Non è casua-

le che Giverny con i giardini da lui creati e curati per tutta la sua esistenza ne sia ancora oggi meraviglioso esempio di arte visibile e viva, a conferma, qualora ce ne fosse bisogno, di quanto l’arte riesca quasi sempre a rappresentare l’anima stessa dell’autore; lui infatti è riuscito ad esprimerla con la delicatezza e l’espressività lieve dei suoi dipinti per la gioia di chi vi si trova di fronte che da spettatore si sente catapultato all’interno dei sui dipinti quasi a farne parte. La sua arte ha il dono di essere raffigurata con una pulizia e una dovizia di particolari come solo un grande artista sa proporre. Il dipinto qui raffigurato è lo spaccato di un tempo oramai remoto, anche nelle abitudini, dove l’uomo (nel ritratto suo padre Adolphe) sa ancora prendersi il suo tempo sforzandosi quasi di rimanere a stretto contatto con la realtà attraverso la lettura del giornale, pur restandone semplice ed apparentemente incurante spettatore. Pochi cenni per avvicinare all’arte il più possibile, con la certezza e la convinzione che chi sa davvero apprezzarla ha sempre un altro punto di vista sulla quotidianità.


Delicado

di Cenzino Ciofi “Quant’è ?” ha chiesto Antonio al figlio di Carlo il macellaio nel ritirare la salsiccia ordinata per l’imminente Carnevale. Io, appena fuori la macelleria, sono rimasto a guardare la porta del salone di Antonio del Corno (poi passata a Ciccilluzzo a ‘ngonga). Il cielo azzurro, il tepore del sole smentisce tutte le dicerie sui giorni della merla e, quasi fosse primavera, ho immaginato di sentire uscire dal salone, le note di “Delicado”. Il chitarrista di Montalto sarebbe arrivato forse solo nel pomeriggio. Portava con sé la chitarra elettrica e l’amplificatore che sistemava fuori la porta per meglio propagare il suono. A volte l’apparecchiatura arrivava in anticipo imbragata sulla schiena di un’ asina (ciuccia), con la collaborazione “du sciancatu”: un tale (vaddriscu) che da oltre il Laghicello veniva a vendere alle famiglie soprattutto olio, ma anche castagne e “pastiddri”, mele “virnili” e pere “ficateddri”. Mio padre, che doveva esigere gabella, diceva che la moglie dello sciancato era una donna bellissima, ma questo è solo un inciso. Nel pomeriggio, con la bicicletta a motore sarebbe arrivato il chitarrista. Non era un valente musicista, ma se la cavava. La novità dello strumento e la bici a motore attiravano curiosi e clienti della barberia costretti a sostare su Corso Garibaldi. Il locale era molto piccolo e tre persone vi si muovevano a fatica. Capitava qualche volta, di vedere il gruppetto in sosta scomporsi di fretta: lo zio di Enzo Calì transitava con il suo “temperino” rosso decappottato. La piccola, bassa monoposto, grande poco più che

un carrettino da ragazzi, suscitava la curiosità di molti. Era il sogno di tanti, soprattutto dei più piccoli che al passaggio la inseguivano, e per ammirarla correvano

all’impazzata attraverso vicoli anticipandone l’arrivo al tornante della Linza. Mia nonna abitava di fronte al salone. Alle prime acute note che le rompevano i timpani (scasciava i trembi) anticipava l’uscita e andava in Chiesa Madre per la recita del rosario e del Vespro. Non chiudeva la porta. La chiave restava nella toppa così come per la maggior parte delle case; al più si affidava a una comare del vicinato che era come persona di famiglia: Giuseppina i Peppullo la sua fiduciaria. Cessato il suono di “Delicado” che qualcuno chiamava “ballate con noi” perché sigla di una trasmissione radiofonica, i rintocchi delle campane (i 24’ure) annunciavano la fine della giornata mentre il sole calante tingeva di rame le facciate delle case. Alcune, come quella di Saloma, rivestite di mattonelle. Le cerco ancora e mi accorgo che non sono state rimosse (!?). Esistono ancora come il suono del chitarrista o il rombo del “temperino”… ma solo nei ricordi.


Compartimenti stagni di Giuliano Albrizio

Quando ci fermiamo un attimo a riflettere sui mali della nostra società, finiamo sistematicamente col cadere nel vortice di quei luoghi comuni che vanno bene per ingannare il tempo in una sala d’attesa oppure in coda in un ufficio postale. I ragazzi praticano il bullismo? La colpa è della scuola, degli insegnanti che dovrebbero fare di più. Le famiglie si sgretolano? Dipende tutto dalla società che non offre appigli, dalla crisi dei valori, dai modelli sbagliati. I politici pensano esclusivamente a se stessi? Alcuni uomini di fede oppure appartenenti alle forze dell’ordine si macchiano di peccati gravi? Non ci sono più i principi e gli ideali di una volta. Alla fine riusciamo sempre a far uscire quel qualunquista che vive in noi capace di trovare facilmente un colpevole. Ovviamente noi ci assolviamo. Non abbiamo voglia di prenderci alcuna re-

sponsabilità. Semmai ci riconoscessimo qualche peccatuccio saremmo lesti a mettere in lavatrice la nostra coscienza per tirarla fuori più pulita che mai, pronta per essere stesa al sole di fronte agli altri. Ormai non conosciamo più il significato della parola autocritica e siamo fra i primi ad additare gli altri. Saliamo sul piedistallo e spariamo sentenze a raffica come killer di professione. Eppure anche noi facciamo parte della società. Ne siamo uno degli infiniti ingranaggi. Dovremmo liberarci di questa supponenza ed evitare di considerarci migliori o diversi. Ognuno di noi è nel suo piccolo un esempio per gli altri. Con la propria vita, con i propri atteggiamenti può, anzi, deve diventare un modello, un punto di riferimento. Inutile aspettarsi sempre che siano gli altri a fornirci un riferimento, una linea guida. Dobbiamo farci carico delle nostre responsabilità. Se vogliamo salvare noi stessi e gli altri non possiamo permetterci di vivere dentro compartimenti stagni.


La valigia dei ricordi di Mario Selvaggio

(Legata con lo spago) la valigia dei ricordi… e nel 1967 la rottamai. La mia bellissima Lancia Appia. Avrei voluto portarla con me in Africa, ma mi dissero che lì sarebbe morta di caldo. Tolsi le targhe e la portai alla Santo Stefano (el ruttamat) e li ne fecero un grosso cubo di alluminio. Cara la mia Appia, fu per me molto doloroso separarmene. Per molti anni era stata per me una compagna fedele ed ubbidiente. Mai un fuori giri, un’ingolfata, una frenata fuori luogo. Una notte di capodanno con cinque ospiti a bordo, oltre me, vicino alla montagnetta di San Siro, fece un paio di testa/coda sull’asfalto ghiacciato ma ne venne fuori brillantemente! Una compagna fedele per me ed un taxi senza tassametro per i miei amici. Nelle nebbiose serate Peresi, parcheggiata davanti alla “ nostra” latteria aspettava pazientemente l’immancabile “ama jii” del mio carissimo e compianto amico Pino,

cosentino d'origine ma fuscaldese d'adozione, che ci esortava a non perderci un film, ch’era uno, in quel di Rho, o, in alternativa, il piacere fanciullesco di andare a bere un caffè bollente a Torino per poi tornare subito indietro. Era anche

“alcova” la mia Appia, alla bisogna sia per me che per i miei amici, “ là dove c’era l’erba”....e non c’era ancora una città… ai tempi in cui Memo Remigi cantava “ sapessi com’è strano sentirsi innamorati a Milano”. Ma per lo più era triste, avrebbe voluto che lo splendore della sua carrozzeria rimanesse sempre immacolato, e che il suo buon odore non venisse offeso dall’odore nauseabondo che esalava dalla raffineria. All’epoca Pero era uno dei poli industriali più importanti della Lombardia, ma era anche il paese “che spusa”! Povera la mia Appia, non vedeva l’ora che arrivasse il mese di agosto! Già a fine luglio le brillavano i fari, i pneumatici le andavano su di pressione, le marce scattavano e la marmitta scoppiettava dalla contentezza. E quindi, come ogni estate, ai primi di agosto, cominciava l’avventura. Melegnano fino all'uscita di Fiorenzuola, tutta lì l'autostrada del sole, nient’altro. Bisognava affrontare la strada statale che portava al passo della Cisa e poi, attraversando Pontremoli, giù fino a Sarzana e la via Appia fino ad Orte. Una faticaccia. Ad Orte e fino a Roma si riusciva finalmente a ripercorrere un piccolo spicchio di sole, dell'autostrada del sole. Poi la Roma Napoli a due corsie, la Napoli Pompei, se riuscivi a venire fuori vivo dal traffico caotico di Napoli, e, dulcis in fundo, l'inerpicata su per le montagne di Vallo della Lucania per riuscire poi finalmente a scorgere le tegole del tanto agognato, famigerato ed eterno Lagonegro. Il mare non lo si vedeva ancora, ma il serpentone della valle del noce lo si affrontava sniffando l'aria in cerca dell'odore di salsedine. Percorrendo la gloriosa vecchia statale 18 già sentivi in bocca..... u sapuri di l'alici fritte!


E Fuscaldo era lì, a portata di paraurti! Una Fuscaldo agostana e spensierata che ti ricompensava per la faticata del viaggio. La mia Appia era raggiante, finalmente poteva scrollarsi di dosso quel colore "annigliatu" per ritornare al suo originario splendore. Me li ricordava qualche anno fa il mio amico Carmine Allevato, che all'epoca era un ragazzino, i bardi d'acqua da funtana da cruci fino a ra casa mia, ca carriava ppì lavà a machina, con la promessa, mai mantenuta, di nu giru finu a ru chianareddru! Gli chiesi scusa e mi perdonò. Ma ben altri giri faceva la mia Appia durante quei favolosi agosti fuscarisi. Diventava pulmino durante i tornei di calcio agostani, jendu ricugliendu campagne campagne gli "oriundi" e riportando a ru paisi, a sette otto a vota, gli "eroi" della pedata. Gino Leta no, perché la sua consegna, da mastino della difesa, era quella di marcare ad uomo il suo diretto avversario, per cui , anche a partita finita, unnù lassava di pedi e l'accumpagnava a ra casa!!! Ma il compito più esaltante per la mia Appia era quello di girare per il circondario fuscaldese annunciando l'arrivo al Raggio Verde o da Lepore di cantanti del calibro di Vianello, Nicola di Bari, Michele, Fred Buongusto, e tantissimi altri che all'epoca andavano per la maggiore. A notte fonda l'Appia ritornava a ra cruci ca un stava cchiù 'ntru chassis tantu da cuntintizza! Poi venne il 1967, e tutto finì. In Africa mi innamorai di un'altra macchina che si chiamava Land Rover e... ma quella è un'altra storia!

La deriva dei giovani di Maria Ramundo

Un gravissimo fatto di cronaca, avvenuto a Caserta (ma poteva accadere in qualsiasi parte del nostro paese), dove un diciassettenne ha pensato bene di sfregiare il volto della sua professoressa di italiano. La motivazione di questo inaccettabile gesto, una interrogazione riparatrice (andata male) per cercare di rimediare a reiterate insufficienze. La professoressa voleva dare una possibilità al suo alunno, perché chi fa questo mestiere si porta a casa ognuno dei suoi ragazzi, con i loro problemi e le loro paure. L’insegnante è un educatore, non un giudice. La riflessione comune è la fragilità evidente che sempre più spesso i giovani manifestano in questi modi esasperati, eccessivi e plateali. Vivono in nuclei familiari “destabilizzati”, in cui molti genitori hanno deciso di abdicare, di non svolgere più il ruolo di guida, ma solo di compagno di viaggio e quando succede questo, i ragazzi crescono con poche o nessuna regola. I giovani di oggi sono abituati al “tutto e subito”, non conoscono più il valore del senso dovere, del sacrificio, della fatica per ottenere qualcosa.


Urbanistica in pillole di Rosalbo Santoro

Nella foto, primo 1900, piazza Marconi, con la sua forma irregolare ed asimmetrica, diversa da come oggi si ammira. Asimmetrie a tutto spiano. Ha ragione il Sitte, che attribuisce l’esistenza di queste sorprendenti sinuosità a cause d’ordine pratico; presenza di un canale o di un sentiero o ancora ad un uso differente di proprietà privata. Una cosa è certa, queste irregolarità, anziché apparire sgradevoli, muovono, per contro il nostro interesse. E’ un continuo evolversi di quadri visivi e sorprese, restringimenti ed aperture. Notare il muro di cinta (poi abbattuto), inteso come una lunga panca trasversale. Giusto esempio di “oggetto” fruito totalmente per il libero incontro in piazza.


Altri esempi di urbanistica necessaria per soddisfare i bisogni collettivi e individuali della comunità che ci vive, attraverso azioni sul contesto fisico e sull'assetto funzionale. In queste immagini sono riprodotte, in fig. 2 la planimetria dell’attuale palazzo Gambardella “1” con davanti un immobile “2” poi demolito e a fianco una bella foto di via Gondoliera nei primi anni del 1900 con il suo muro torto che “chiudeva” visivamente la vista al mare.


Chiamami col tuo nome di Laura V

Alla fine si esce con una struggente voglia di piangere, per un film che più perfetto di così non poteva essere. Perfetta è la storia, il racconto di formazione mediante l'iniziazione all'innamoramento di Elio che è perfetto nel suo essere così bello, intelligente e colto malgrado i suoi appena diciassette anni. Perfetto è Oliver il giovane americano attraente, schivo e sicuro di sé, affascinante al punto di piacere proprio a tutti. Bellissima la scena dove lui entra nel bar e si siede al tavolo a giocare alle carte con i vecchi del paese. Perfetti sono i genitori di Elio che tutto sanno, capiscono e nulla fanno per ostacolarlo anzi, lo aiutano a sciogliere i dubbi: è meglio parlare o morire?

Perfetta è l'amica che pur nell'abbandono non gli serberà rancore. Perfetto è il clima l'ambientazione e la musica. Tutto concorre ad agevolare l'identificazione con Elio e a quello cui tende, con il suo scrutare e sfiorare, con il suo sentire quella tensione emotiva che nasce dal desiderio. È così naturale comprendere il suo stato d'animo e partecipare pienamente al suo dolore quando devono lasciarsi. È emozionante ascoltare il padre che rivela al figlio quanto sia invidioso di lui che ha vissuto una storia così intensa perché, non provare niente per non rischiare di provare qualcosa è così uno spreco! Durante la proiezione del film ho notato che un paio di spettatori hanno abbandonato la sala, magari perché non interessati, forse perché scandalizzati. Questo mi ha fatto riflettere che in tanta perfezione, pur tuttavia deve essere sfuggito qualcosa. Un film così è rivolto a chi si ritiene consapevole che non esistano categorie di amore, che non esistano differenze tra amore etero omo o bisessuale, certezze invece inaccettabili per chi si scandalizza. Probabilmente per diventare convincente, si doveva aggiungere alla storia quell'elemento di drammaticità in più, l'ostacolo, l'impedimento, il conflitto dovuto alla lotta, alle difficoltà, i pericoli, le sconfitte e le minacce, tutti quegli elementi che mettono in moto l'interesse dello spettatore con un potere di identificazione irresistibile. Ma Guadagnino voleva forse solo raccontare una storia e non dirigere un film militante. Parteciperà all'assegnazione degli Oscar, non so contro chi dovrà vedersela, non sono a conoscenza della qualità degli altri film, sarà comunque interessante vedere come sarà giudicato, se prevarrà la grettezza o una sincera apertura.


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