Sofà 24/2015 - Quadrimestrale dei sensi nell'arte

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QUADRIMESTRALE DEI SENSI NELL’ARTE Anno IX Numero 24/2015

EXPO MILANO 2015 LA CITTÀ RISCOPRE LE SUE MERAVIGLIE LA MOSTRA LA BIENNALE DI VENEZIA / INTERVISTA MICHELE DE LUCCHI ARCHITETTO DELLA NATURA BEL PAESE LE IMPRESE CHE INNOVANO LA CULTURA / PERSONAGGI EMILIO ISGRÒ / STORIE DI CARTA BOTTEGA GATTI




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EDITALIA PER EXPO Con la cultura riparte il motore dello sviluppo globale Il 2015 vede Milano al centro di una molteplicità di eventi – non ultimo il summit dei ministri della cultura degli ottantatré paesi espositori – che prendendo le mosse da Expo riaffermano il valore della cultura quale motore dello sviluppo globale ed in particolare dell’Italia futura. Editalia ha partecipato a questo flusso di iniziative mettendo a disposizione del Comune le proprie capacità creative e produttive nel campo dell’editoria di pregio e dell’arte, ideando la pubblicazione Meraviglie di Milano, dono ufficiale della città alle personalità in visita. L’opera racconta le sei icone d’arte conservate nei musei meneghini alle quali, nei sei mesi dell’Expo, sono dedicate altrettante conversazioni in Palazzo Marino. Inoltre, in collaborazione con la Soprintendenza comunale, abbiamo realizzato il multiplo in scala della Pietà Rondanini di Michelangelo che sarà presentato in ottobre al Castello Sforzesco. Primi in Italia, ci proponiamo di diffondere il collezionismo di repliche di capolavori classici in piccolo formato che molta fortuna hanno sul mercato internazionale. Se la Pietà inaugura un nuovo filone dell’arte moltiplicata, con Emilio Isgrò prosegue l’attività di lavoro oramai consolidata con gli artisti contemporanei. L’artista siciliano che ha donato a Expo il marmo scultoreo del Seme dell’Altissimo, ne ha tradotto il concetto in un multiplo in vetrofusione che presenteremo in anteprima ad ottobre a Multiplied, la fiera londinese promossa da Christie’s e dedicata alle opere in tiratura limitata. Su queste pagine diamo inoltre spazio al rilancio del multiplo d’arte contemporanea e di quello classico promosso con insistenza in questi ultimi anni da mostre e studi e di cui Editalia è in Italia il più accreditato protagonista. Abbiamo voluto dunque presentare le mostre della Fondazione Prada e la storia del laboratorio Gatti di Modena per condividere con i nostri lettori due aspetti del processo di rilettura e valorizzazione delle opere moltiplicate in atto a livello internazionale. Buona lettura. Marco De Guzzis Amministratore delegato Editalia


SOMMARIO INCIPIT FOTORACCONTO Bruno Cattani

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CONVERSANDO SUL SOFÀ MDL architetto della natura

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APPUNTAMENTO CON LA STORIA Alla scoperta di Casa de Chirico

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NOTIZIE BEL PAESE Italia Mondo

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I LUOGHI DEL BELLO Lo splendore di una regina

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ECCELLENZA ITALIA IC: il futuro dell’innovazione culturale

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CARTOLINE Santa Giulia e le genti del Po

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PRIMO PIANO EVENTI Expo 2015, dal virtuale al sensoriale Classici seriali, Prada rilancia il multiplo antico GRANDI MOSTRE Codice Enwezor, la Biennale è realista Quando il quadrato diventa rivoluzione

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IN SERIE

VISTI DA VICINO

IL MOLTIPLICAUTORE Shepard Fairey, il multiplo è propaganda

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MAESTRI CONTEMPORANEI Il seme di Dio secondo Isgrò

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STORIE DI CARTA La bottega dei sogni

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NUOVE GENERAZIONI Lo spazio sospeso di Anna Caruso

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MULTIPLI IN VETRINA Il collezionista dei libri

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QUADRIMESTRALE ANNO IX NUMERO 24 Autorizzazione del Tribunale ordinario di Roma n° 313 del 3.8.2006 Sofà è una pubblicazione quadrimestrale di Editalia Gruppo Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato viale Gottardo 146, 00141 Roma Numero verde 800014858 – fax 0685085165 www.editalia.it Direttore responsabile: Flavio Arensi Coordinamento redazione: Francesca Ruggiero Impaginazione: Gabriele Gargioni (blossoming.it) sofa@meetmuseum.com Editalia Responsabile editoriale: Cecilia Sica Art direction: Daniela Tiburtini Redazione: Laura Orbicciani Hanno collaborato: Arianna Beretta, Silvia Bottani, Lorenzo Canova, Bruno Cattani, Claudia Colasanti, Giulia dal Mas, Rossella Farinotti, Giacomo Nicolella Maschietti, Massimo Mattioli, Floriana Minà, Laura Orbicciani, Marilena Pasini, Sandro Parmiggiani, Simone Raddi, Lorenzo Respi, Francesco Sala, Alberto Zanchetta. Stampa: Varigrafica, Alto Lazio Srl, Nepi (Vt) Redazione Via La Marmora, 2 20831 Seregno telefax +39 0362 1793903 www.meetmuseum.com Pubblicità e marketing: info@meetmuseum.com

FATTI AD ARTE

In copertina: Mimmo Paladino, installazione per il Padiglione Italia, Biennale di Venezia, 2015.

CAPOLAVORI SERIALI Il piacere del piccolo formato Multipli che passione

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SPECIALI Le meraviglie di Milano

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FRESCHI DI CONIO L’esercito marciava. La Grande Guerra nel 2015

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ARTE IMPRESA IL MOTORE DELL’ARTE Ferrarelle, la bottiglia è un’arte

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IL MERCATO DELL’ARTE A proposito di aste

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ILLUSTRIAMO Marilena Pasini

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In questa pagina e a pag. 98 iIlustrazioni di Marilena Pasini. Numero chiuso in redazione il 31.07.2015 Sofà è visibile online nell’area clienti del sito www.editaliarte.it Responsabile trattamento dati Flavio Arensi. L’Editore è a disposizione degli aventi diritto con i quali non è stato possibile comunicare, nonché per eventuali omissioni o inesattezze nella citazione delle fonti. I materiali inviati non verranno restituiti. Tutti i diritti sono riservati.


FOTO RACCONTO

COLPO D’OCCHIO A CURA DI FLAVIO ARENSI

BRUNO CATTANI Bruno Cattani esercita da alcuni anni una profonda ricerca sul concetto di memoria, proseguendo in senso continuativo in direzione del lavoro cominciata nel 1996 con lo studio dei «Luoghi dell’arte», intesi come spazi in cui ritrovare la propria storia collettiva e insieme l’affermazione di una realtà che si modifica nel tempo. Dopo i musei sono venuti gli elementi urbani o domestici che racchiudono l’intimità di una storia abbandonata o ritrovata. «Memorie» sono momenti trascorsi, catturati attraverso frammenti di reale che ci restituiscono emozioni di vite e situazioni che non sono più. Sono volti, oggetti, luoghi e giocattoli che ci guidano in un viaggio nel passato per farlo rivive nel presente; sono un luogo dove personale e collettivo si uniscono in reminiscenze di vita.

A destra: Bruno Cattani, Memorie, 2010. www.brunocattani.it

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NOTIZIE

ITALIA A CURA DI SIMONE RADDI

MAMIANO DI TRAVERSETOLO Giacomo Balla Alla Fondazione Magnani Rocca di Mamiano di Traversetolo, presso Parma, una ricca e colorata esposizione a cura di Elena Gigli e Stefano Roffi. Nove sezioni che mostrano il percorso artistico di Balla attraverso l’analisi del Manifesto Ricostruzione Futurista dell’Universo, uno dei testi teorici più rivoluzionari dell’arte del Novecento, nel centenario della sua pubblicazione, sottoscritto dallo stesso Balla e da Fortunato Depero. Dal 12 settembre all’ 8 dicembre 2015. Info: www.magnanirocca.it

ROMA La prima di Tissot Il grande pittore francese James Tissot per la prima volta in Italia. Al Chiostro del Bramante, in mostra ottanta capolavori provenienti da musei internazionali quali la Tate di Londra, il Petit Palais e il Museo d’Orsay di Parigi, che raccontano l’intero percorso artistico del pittore e l’influenza che su di lui ebbe l’ambiente parigino e la realtà londinese, dando conto della sua vena sentimentale e mistica, del suo incredibile talento di colorista e del suo interesse per la moda. Dal 26 settembre 2015 al 21 febbraio 2016. Info: chiostrodelbramante.it

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MILANO Giotto e l’Italia A Palazzo Reale, uno dei principali eventi espositivi dell’anno. Un viaggio ideale sulle orme di Giotto nei primi decenni del Trecento attraverso l’esposizione di capolavori, per la prima volta esposti a Milano, che ripercorrono le tappe del lavoro del maestro in Italia fino al suo arrivo nella città, dove realizzò la sua ultima creazione, Gloria del Mondo, oggi perduta. La Mostra è a cura di Pietro Petraroia e Serena Romano. Dal 2 settembre 2015 al 10 gennaio 2016. Info: www.artpalazzoreale.it

VICENZA Jefferson & Palladio Oltre a essere stato uno dei padri dell’indipendenza americana, Thomas Jefferson fu architetto e grande palladianista, di cui assunse gli stilemi per la creazione del nuovo mondo. Per lui, Palladio il era semplicemente «The Bible». Ora, il Palladio Museum ci condurrà nel mondo di Jefferson, le sue collezioni d’arte, i suoi progetti di architettura, i suoi sogni ma anche le sue contraddizioni: attraverso disegni, sculture, libri preziosi, modelli di architetture, video e multimedia e 36 fotografie di Filippo Romano. Dal 19 settembre 2015 al 28 marzo 2016. Info: www.palladiomuseum.org

MODENA Daniel Spoerri Daniel Spoerri, artista nato come danzatore e coreografo, divenuto inventore di un nuovo linguaggio artistico, autore di ricette e menù, anima di ristoranti, e perfino, attore, attraverso la sua poetica ha messo in discussione conformismo, luoghi comuni, certezze. Un maestro che ha trasformato il nutrimento in un interlocutore privilegiato, in un vero e proprio trait d’union tra arte e vita. Tutto questo, ora, lo potete trovare alla Galleria Civica di Modena. Dal 10 ottobre 2015 al 10 gennaio 2016. Info: www.galleriacivicadimodena.it

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POSSAGNO Canova violato Per la prima volta saranno esposti gli scatti originali del 1917 che testimoniano i danni causati dalla grande guerra ai gessi del geniale maestro neoclassico, con una mostra allestita alla Gipsoteca Museo del Canova a Possagno e progettata dagli studiosi Alberto Prandi e Mario Guderzo. Dal 25 luglio 2015 al 28 febbraio 2016. Info: www.museocanova.it

PORDENONE Americo Montanari Alla Galleria Harry Bertoia la prima antologica di Americo Montanari, pittore friulano scoperto pochi anni fa e protagonista di una importante mostra a Londra, che lo ha rivelato al pubblico. La sua vicenda ricorda quella della fotografa statunitense Vivian Maier, nei termini analoghi di scoperta tardiva e per certi versi fortuita di una attività artistica di grande spessore condotta lungo un’intera esistenza. 110 le opere in mostra, dagli anni ‘60 ad oggi. Dal 12 settembre 2015 al 17 gennaio 2016. Info: www.comune.pordenone.it/galleriabertoia

ROVERETO Collezionemart Mario Sironi, Carlo Carrà, Arturo Martini, Giorgio de Chirico, Fausto Melotti, Massimo Campigli, Osvaldo Licini e molti altri. Insieme ai capolavori delle Collezioni, la mostra mette in luce la ricchezza e la varietà dei materiali e dei documenti conservati dall’Archivio del ‘900 del Mart. Dal 28 marzo all’8 novembre 2015. www.mart.trento.it

Al Mart di Rovereto, un lungo e appassionato racconto per immagini. Un viaggio lungo un secolo, per ritrovare i capolavori e i protagonisti del XX secolo e arrivare con loro ai giorni nostri. Il Museo ridisegna se stesso e costruisce nuove inedite narrazioni, valorizzando le proprie raccolte e rendendo unica l’esperienza di visita attraverso una rinnovata e intima relazione con le opere. Da Medardo Rosso a Giorgio Morandi, passando per

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NUORO Vivian Maier Gli scatti di Vivian Maier stanno per incantare anche l’Italia con una grande mostra al MAN di Nuoro. Più di 120 fotografie della bambinaia attiva tra New York e Chicago fino a fine ‘900, foto di vita nelle strade delle città in cui ha vissuto senza mai far conoscere il proprio lavoro. Partendo dai materiali raccolti da John Maloof, il giovane che ha scoperto la Maier, il progetto espositivo fornisce una visione d’insieme dell’attività di Vivian ponendo l’accento su elementi chiave della sua poetica, come l’ossessione per la documentazione e l’accumulo, fondamentali per la costruzione di un corretto profilo artistico, oltre che biografico. Dal 10 luglio al 18 ottobre 2015. www.museoman.it

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NOTIZIE

MONDO A CURA DI SIMONE RADDI

LONDRA Ai Weiwei

NEW YORK Alberto Burri 100

È uno degli eventi più attesi: il più importante artista cinese, diventato un simbolo della libertà intellettuale per la sua opposizione al governo di Pechino, torna a Londra per un grande personale alla Royal Academy of Arts. Ci saranno nuove opere e i suoi lavori più famosi, tra sculture, fotografie, video, installazioni monumentali: un quadro completo della poliedrica ricerca di Ai Weiwei, in cui arte e vita si confondono e la critica politico-sociale convive con un profondo rispetto per la cultura e le tradizioni della Cina. Dal 19 settembre al 13 dicembre 2015. Info: www.royalacademy.org.uk

Il Guggenheim presenta la grande retrospettiva di Alberto Burri a 35 anni dall’ultima dedicata al grande artista italiano, di cui ricorrono i 100 anni dalla nascita. Raggruppando oltre cento opere, molte delle quali mai esposte al di fuori dei confini italiani, si ripercorrerà l’intero processo creativo del maestro di Città di Castello, che attraverso la ricerca sulla materia e relative manipolazioni ha anticipato molti esiti artistici della seconda metà del ‘900. Dal 9 ottobre 2015 al 6 gennaio 2016. Info: www.guggenheim.org

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BERLINO Botticelli superstar Botticelli è quasi un’icona pop e la sua Venere campeggia nella moneta da 10 cent di euro. Ma non è sempre stato così. Ora, alla Gemäldegalerie una sontuosa mostra ne riunisce 40 capolavori che ripercorrono la vita e la produzione del Maestro fiorentino a confronto con gli artisti che nei secoli si sono ispirati a lui. Tra questi, Edgar Degas, Edward Burne-Jones, Dante Gabriel Rossetti, René Magritte, Andy Warhol, Cindy Sherman e Bill Viola in prestito dalle collezioni più importanti del mondo. Dal 25 settembre 2015 al 24 gennaio 2016. Info: www.smb.museum

PARIGI Prostituzione nell’arte Al D’Orsay, la grande mostra dedicata al tema della prostituzione. Dall’Olympia di Manet a L’assenzio di Degas, dalle incursioni nelle case chiuse di Toulouse-Lautrec e Munch agli audaci ritratti di Vlaminck, Van Dongen o ancora Picasso, questa mostra intende far luce sul ruolo centrale occupato da questo universo equivoco nello sviluppo della pittura moderna. Il fenomeno è trattato anche dal punto di vista sociale e culturale attraverso la pittura dei Salon, la scultura, le arti decorative e la fotografia. Dal 22 settembre 2015 al 17 gennaio 2016. Info: www.musee-orsay.fr

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PRIMO PIANO

EVENTI DI MASSIMO MATTIOLI

EXPO 2015 DAL VIRTUALE AL SENSORIALE

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Prima di dire qualcosa sull’Expo di Milano, è necessario porre – e porci – una domanda molto semplice: che cosa ci aspettiamo oggi da un evento come questo? La storia delle esposizioni universali è ormai vecchia di quasi due secoli ed è normale che nel tempo sia profondamente cambiato il taglio impresso, e il ruolo sociale di queste grandi rassegne. Le prime nascevano con approccio vicino a quello della fiera campionaria, spesso con funzioni celebrative, e fornivano lo spunto per grandi realizzazioni architettoniche, destinate a restare permanenti e a magnificare il paese promotore. Basterà ricordare la prima in assoluto, quella di Londra del 1851, ideata dal principe Alberto, marito della regina Vittoria, per la quale fu realizzato il futuristico Crystal Palace, o quella di Parigi del 1889, nel centenario della presa della Bastiglia, occasione per la costruzione della torre Eiffel. Nel Novecento le Expo sono progressivamente cresciute, in termini di paesi partecipanti, e l’interesse si è spostato sull’aspetto documentario: offrire ai visitatori – in un unico luogo – l’esperienza di tante culture diverse, lontane fra loro, spesso esotiche e sorprendenti. Ma i progressi tecnologici, con l’inarrestabile sviluppo delle comunicazioni e dei media, hanno innescato nuove metamorfosi: chiunque, in mezz’ora di navigazione internet, riesce da tempo a conoscere ben più di quanto potrebbe incontrare in un padiglione espositivo, e senza spostarsi dalla propria scrivania. Qual è, allora, oggi il «luogo» di un’esposizione universale? Da una parte c’è una decisa opzione tematica: si abbandona il taglio generalista, per focalizzarsi su una precisa fattispecie, cercando di arrivare ad approfondimenti e progressi sensibili. All’Expo 2010 di Shanghai, il tema scelto fu Better City, Better Life (Città migliore, vita migliore), a Milano è Nutrire il pianeta, energia per la vita. Ma soprattutto, oggi l’Expo diventa un luogo dove sublima un certo crescente relati-

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vismo conoscitivo, proponendo una solo apparentemente paradossale esperienza fisica del virtuale. E in questo la kermesse milanese centra decisamente l’obiettivo. La risposta, dunque, all’iniziale interrogativo «Che cosa aspettarsi?» è: niente. Oppure: tutto. Ma l’errore da evitare, varcando i cancelli, è quello di cercare speciali spunti di interesse, siano essi di carattere architettonico, artistico, tecnologico, sociologico: la temperie giusta è infatti quella sensoriale, dove tutti questi stimoli concorrono a rappresentare un’identità nazionale, o una categoria produttiva. Suoni, odori, sapori, colori, visualità variamente declinata. Il paradigma di questo approccio «immersivo» è l’apprezzatissimo padiglione del Regno Unito, che sceglie di trattare il tema dell’impollinazione e quindi si ispira a un alveare. L’artista Wolfgang Buttress segue il percorso di un’ape,

conducendo il visitatore in un giardino realizzato alla quota del volo degli insetti, nel quale i Kew Gardens londinesi hanno ricreato l’ambiente botanico di un vero alveare esistente a Manchester. Il percorso passa da un frutteto a un prato di fiori selvatici e raggiunge uno spettacolare alveare di alluminio in cui si ascoltano musiche composte dalla band dei Sigur Rós campionando il ronzio delle api. Altra esperienza sensoriale «totale» al padiglione della Corea: qui il tema, che ricorre fin nella forma dell’architettura, è offerto dal «moon jar», il tipico vaso in ceramica in cui avviene il processo di fermentazione di alcuni piatti tradizionali, di cui viene mostrata – con curatissime e coinvolgenti soluzioni di new media art – la preparazione e che si possono poi degustare nel ristorante. Straniante la scelta dell’Austria, che

mettendo al centro dell’interesse l’uso responsabile delle risorse riproduce in scala ridotta il microclima di una foresta austriaca che fornisce 62,5 chilogrammi di ossigeno fresco ogni ora. Ma la sintesi di tutte queste chiavi di lettura sta in quella che è la porta di accesso all’esposizione universale, il padiglione Zero curato da Davide Rampello e progettato da Michele De Lucchi, il punto di inizio ideale della visita. Una serie di stanze che riproducono diversi livelli di memoria, di storia e di conoscenza umana: «un racconto che parte dalla memoria dell’umanità», spiega Rampello, «passa attraverso i suoi simboli e le sue mitologie, percorre le varie fasi dell’evoluzione del suo rapporto con la Natura e arriva fino alle forti contraddizioni dell’alimentazione contemporanea. Un percorso emozionale che da racconto universale si fa storia individuale».

A pag. 17: Il Padiglione della Gran Bretagna. Progettato da Wolfgang Buttress richiama l’idea di un alveare. A sinistra: L’Albero della vita Marco Balich, uno dei simboli di Expo è stato realizzato da Orgoglio Brescia, un consorzio di imprenditori bresciani. Pagina seguente: Uno scorcio del Padiglione Zero progettato dall’architetto Michele de Lucchi.

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PRIMO PIANO

EVENTI DI FRANCESCO SALA

CLASSICI SERIALI, PRADA RILANCIA IL MULTIPLO ANTICO

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«Anche nel caso di una riproduzione altamente perfezionata, manca un elemento: l’hic et nunc dell’opera d’arte – la sua esistenza unica e irripetibile nel luogo in cui si trova. […] L’hic et nunc dell’originale costituisce il concetto della sua unicità». A quasi ottant’anni dalla sua prima pubblicazione, benché rimanga un punto di riferimento imprescindibile per l’evoluzione del pensiero critico, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica di Walter Benjamin sembra mettere a fuoco in modo solo parziale la ricchezza e la complessità di una questione – quella attorno al carattere identitario dell’opera stessa – forse più sfaccettata. Già nell’antichità infatti, e a maggior ragione in tempi a noi più prossimi, la riproducibilità di un’opera d’arte è in molti casi una condizione ontologica, uno status che determina in quanto fine lo stesso atto creativo: facendosi quindi sintesi tra l’hic et nunc che Benjamin vedeva come condizione esclusiva dell’unico. Ci sono state, ci sono e a maggior ragione ci saranno in futuro, opere che trovano la propria ragion d’essere nella loro riproducibilità. Ciò avveniva nel passato più remoto, complice l’effimero concetto di auctoritas che rendeva un assunto artistico patrimonio condiviso, collettivo, e come tale ampiamente e liberamente malleabile, modificabile, liberato in una forma aperta, come ci ha insegnato in modo straordinario, nei mesi scorsi, la doppia mostra che negli spazi veneziano e milanese della Fondazione Prada ha visto Salvatore Settis scandagliare la più sublime classicità, proponendo la fortuna di modelli estetici passati di secolo in secolo senza apparenti sostanziali modifiche, reiterati in un costante riconoscimento del bello assoluto. La figura del Discobolo, così come quella della Venere accovacciata o dell’Apollo di Kassel ricondotte in mostra in molteplici versioni realizzate in epoche e periodi anche molto distanti tra loro, ci raccontano di una dimensione di assoluta liquidità.

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LA NUOVA FONDAZIONE PRADA Aperta in primavera, la nuova sede di Milano della Fondazione Prada è progettata dallo studio di architettura di Rem Koolhaas. Caratterizzata da un’articolata configurazione architettonica che combina edifici preesistenti e tre nuove costruzioni (Podium, Cinema e Torre), è il risultato della trasformazione di una distilleria risalente agli anni dieci del Novecento. Nel progetto coesistono due dimensioni: l’opera di conservazione e l’ideazione di una nuova architettura che, pur rimanendo distinte, si confrontano in un processo di continua interazione. Situato in Largo Isarco, nella zona sud di Milano, il complesso si sviluppa su una superficie totale di 19.000 m2. Per informazioni: www.fondazioneprada.org

Temporale ma anche spaziale: con il carico vernacolare dei diversi localismi e regionalismi ad aggiungere elementi di squisita novità; con i corsi e ricorsi della percezione estetica a susseguirsi senza soluzione di continuità, nell’equilibrata alternanza tra manierismi e rivoluzioni. Raccontando avventure che sublimano l’hic et nunc e tendono all’eternità. Non è quindi un azzardo avvicinare la tendenza alla riproducibilità propria dell’arte classica ai principi statutari della pop art americana. Si può affermare – semplificando fino a rischiare la banalizzazione – che non ci sia a livello filosofico grande differenza tra il cosiddetto Ercole Farnese, passato pressoché nella medesima posa dall’epoca ellenistica al rinascimento maturo e poi di corsa fino al neoclassicismo, e i grandi eroi della contemporaneità serigrafati da Andy Warhol: Liz Taylor si confonde, nel nostro immaginario, con una Diana cacciatrice; il suo volto, il suo sorriso, per quanto visti in infinite varianti diverse – al cinema o sulle riviste – restano

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in modo inestricabile connessi con l’immagine partorita nella Factory. In una serie di copie e varianti quasi virale. Ci avviciniamo allora a una specie di darwinismo dell’immagine, per cui la fortuna di un’icona è definita sì dalla sua capacità di adattarsi meglio ai mutamenti del gusto, ma anche dalla forza del numero. Un processo che, non a caso, è un grande mastro della pop art a definire con illuminante cinismo: Roy Lichtenstein nel 1968, in una intervista a Raphaël Sorin, ammette che ad affascinarlo è il paesaggio suburbano americano in quanto «non ha storia; i segni pubblicitari che ricoprono le case devono essere sempre più forti, perché si fanno concorrenza a vicenda». La sfida implicita e subliminale per la sopravvivenza coinvolge allora anche i modelli di rappresentazione del reale, anche l’arte. Lo vediamo chiaramente soffermandoci sulla fortuna popolare di opere entrate nell’immaginario collettivo proprio grazie alle loro infinite riproduzioni: se tutte le persone che al mondo affermano di


averla per sé, quindi perderla irrimediabilmente. Rozendaal è partito da questo ricordo d’infanzia per costruire un percorso che lo ha visto affrontare per principio il tema della riproducibilità dell’opera d’arte, prima lavorando sulla stampa, poi approdando al contesto che più di ogni altro offre spunti di riflessioni in merito al futuro dell’arte replicabile: il web, ambito che segna la cesura tra il mondo che ricordiamo e quello nel quale siamo immersi. Rozendaal crea opere d’arte in forma di sito web, acquistati in forma di dominio da collezionisti cui propone un Art Website Sale Contract, certificato di garanzia da lui stesso elaborato come primo tentativo in assoluto di formalizzare la compravendita di questo tipo particolare di net art. Con risultati che portano l’arte dall’era del multiplo a quella del virale, se è vero che i suoi siti d’artista contano a oggi circa quaranta milioni di visitatori unici ogni anno. E se è vero che anche le case d’asta cominciano a interessarsi di un fenomeno sempre meno effimero e sempre più concreto: nel 2011 Phillips batte a New York diciannove pezzi di net art raccogliendo in totale circa novantamila dollari, per quella che è possibile passi alla storia come una delle prime aste di questo genere mai realizzate. Con ifnoyes.com dello stesso Rozendaal, pattern geometrico interattivo che cambia cromia al passaggio del mouse, aggiudicato per la cifra un tempo impensabile di tremilacinquecento dollari.

conoscere il Quarto stato di Pellizza da Volpedo l’avessero mai visto dal vero, il Museo del Novecento di Milano staccherebbe più biglietti del Louvre. Rafaël Rozendaal, nato in Olanda nel 1980, ha dimostrato fin da bambino un innato talento per le arti figurative. Al punto da spingere un parente, vuole l’aneddoto, a comprargli un disegno per pochi spiccioli: quello che voleva essere un gesto di incoraggiamento diventò, per l’artista in erba, un momento di frustrazione, perché la cessione dell’opera significava tagliare i ponti con essa. Non poterla più

A pag. 22: l’allestimento della mostra Serial Classic che, con la veneziana Portable Classic, si propone di rileggere l’importanza del multiplo all’interno della storia dell’arte. A fianco: Venere accovacciata, metà del II sec. d.C. conservata ai Musei Vaticani, Museo Pio-Clementino a Roma. Foto Attilio Maranzano Courtesy Fondazione Prada

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PRIMO PIANO

GRANDI MOSTRE DI CLAUDIA COLASANTI

CODICE ENWEZOR, LA BIENNALE È REALISTA

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Sulle pareti parole luminose e in contrasto («love», «hate», «life», «death») e a terra cespugli composti da lunghi coltelli e seghe, che mirano in un punto solo, ferendo il pavimento della prima sala (buia) dell’Arsenale. È solo l’inizio – e anche una folgorante sintesi – di uno dei due percorsi di All the World’s Future, la mostra internazionale della 56ª Biennale d’Arte di Venezia, esattamente a centoventi anni dalla prima Esposizione, nel 1895. Un itinerario costellato da centotrentasei artisti di diverse generazioni (ottantanove presenti per la prima volta a Venezia), provenienti da cinquantatré paesi, scelti dal nigeriano Okwui Enwezor (1963, già direttore artistico di grandi rassegne come Documenta a Kassel e la Biennale in Sudafrica negli anni Novanta). Mente l’Italia ha perso nell’ultimo decennio la determinazione nel formulare complessi eventi espositivi, ogni due anni Venezia si gonfia a dismisura – e con un successo di pubblico che stupisce – ospitando progetti e artisti in ogni angolo possibile. Sono davvero tanti i mondi di questa edizione e i satelliti che gli girano attorno: oltre alla mostra principale, ottantanove padiglioni nazionali, tra i Giardini e altre sedi, e quarantaquattro eventi collaterali – e ulteriori mostre autonome – disseminate per tutta la città. Enwezor ha centrato l’obiettivo, non solo per la sua mostra, rigorosa e assoluta nel delineare la sua visione, ma per l’adesione empatica al tema di tutti coloro che hanno curato i padiglioni e le altre mostre. In controtendenza rispetto alla visione attuale di una cultura visiva liquida, spensierata e sensazionale, il critico sudafricano ha riportato in primo piano concetti rimossi nel contemporaneo come etica, storia, uguaglianza, sociale, politica, non escludendo però la presenza dei materiali, del colore, del disegno, delineando così un racconto eterogeneo, contaminato, trasversale, escludendo toni vistosi o sgargianti. All the World’s Futures trae spunto dall’at-

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tuale «stato delle cose» per sviluppare il suo progetto denso, frenetico ed esplorativo, ricollocato in un ambito dialettico di riferimenti e discipline artistiche. Per tutto il percorso dell’Arsenale, il curatore mette alla prova anche i visitatori con un rimbalzo a zig e zag di impulsi contrastanti, fra la documentazione antropologica e l’ispirazione all’approfondimento di archivio degli artisti. Questo «futuro del mondo» appare e scompare, esattamente come l’opera, distribuita come un monito lungo tutto il padiglione, di Philippe Parreno (Algeria, 1964) Flickering Light, armatura per illuminazione programmata che somiglia più a un allarme silenzioso: tante lampade seriali da giardino, negli angoli più inusitati della mostra, che a lenta intermittenza si accendono e spengono. Pellicole in bianco e nero, libri e diari chiusi dentro teche, enormi archivi di immagini da terre lontanissime (non consultabili), il video commovente di Steve McQuenn, una proiezione di un Boltansky poetico (Animita), che fa muovere piccole campanelle al vento. Enormi tele di Baselitz a testa in giù e poi gli scatti di donne di ogni genere ed etnia rubati in metropolitana da Chris Marker. E ancora un tappeto digitale – impressionante – di fototessere in continuo movimento di modificazione dei connotati, da osservare a testa in su, di Kutluğ Ataman e la fabbrica di mattoni fatti a mano in diretta e acquistabili di Rirkrit Tiravanija. Un effetto Blade Runner, che riporta in futuri già passati e in remoti ancora possibili, mescolando

LA BIENNALE La storia della Biennale ha radici lontane: inizia quando l’amministrazione comunale di Venezia, guidata dal sindaco Riccardo Selvatico, delibera durante l’adunanza consiliare del 19 aprile 1893 di istituire una Esposizione biennale artistica nazionale da inaugurarsi l’anno successivo. Nel 1932 la Biennale dà vita alla Mostra del Cinema, il primo festival cinematografico mai organizzato nel mondo, che assieme alla Musica (dal 1930), al Teatro (dal 1934), all’Architettura (dal 1980) e alla Danza (dal 1999) compongono il panorama multidisciplinare della Biennale. L’edizione di quest’anno si intitola All the World’s Futures ed è stata curata dal critico d’arte e scrittore nigeriano Okwui Enwezor, direttore della Haus der Kunst di Monaco di Baviera. All the World’s Futures forma un unico percorso espositivo che si articola dal Padiglione centrale (Giardini) all’Arsenale, con 136 artisti esposti dei quali 89 presenti per la prima volta, provenienti da 53 paesi. Cinque paesi sono presenti per la prima volta con un loro padiglione: Grenada, Mauritius, Mongolia, Repubblica del Mozambico e Repubblica delle Seychelles, mentre partecipa per la seconda volta il Vaticano, con una mostra allestita nelle Sale d’Armi, uno spazio restaurato per diventare sede espositiva permanente della Biennale. Il Padiglione dedicato all’Italia, all’Arsenale, si intitola Codice Italia ed è curato da Vincenzo Trione. Per informazioni: www.labiennale.org

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l’emotività collettiva alla singola di ogni artista. La stessa impronta ma un impatto diverso ai Giardini, nel Padiglione Centrale, dove Enwezor inizia il percorso con Mauri e allestisce una grande Arena, dove, per tutto il periodo della Biennale, si alterneranno performance e letture, con un appuntamento quotidiano durante il quale un cast darà voce a tutto il Capitale di Marx. Questo, in parte, rende protagonista direttamente l’orchestrazione del progetto: materiali simbolici o estetici, atti politici o sociali prodotti in uno spazio dialettico per dare forma a un’esposizione che rifiu-

ta di essere confinata nei limiti dei convenzionali modelli espositivi. Questa Biennale descriverà il futuro del mondo o potrà solo fornire un senso agli sconvolgimenti attuali? Enwezor non ha espresso una predizione, ma ha avvicinato artisti di tutte le parti del mondo e di diverse discipline: con il suo Parlamento delle forme ha creato una possibilità di lettura intrecciata di un mondo che difficilmente cambierà, a meno di non dover usare tutte le armi possibili per una costante resistenza verso la brutalità dei conflitti, umani, politici e artistici.

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A pag. 25: George Baselitz, Selbstportrait, 2015, Arsenale. Sotto: Monica Bonvicini, Latent combustion, 2015, Arsenale. A destra: L’installazione di Chiharu Shiota al Padiglione Giapponese.


AROUND Non basta una mappa a contenere gli infiniti eventi collaterali della Biennale di quest’anno. Molte le mostre di grande prestigio, sia collegate alla mostra internazionale sia organizzate da privati. Ve ne segnaliamo tre, a partire dall’omaggio a Mario Merz, Città irreale, presso le Gallerie dell’Accademia, con un percorso cronologico attraverso tutti gli sviluppi della sua opera, dalle prime sperimentazioni tra oggetto e architettura fino alle grandi installazioni ambientali. A Palazzo Fortuny, Proportio, una mostra che esplora l’onnipresenza delle proporzioni universali nell’arte, nella scienza, nella musica e nell’architettura, con opere espressamente commissionate ad artisti del calibro di Massimo Bartolini, Michaël Borremans, Maurizio Donzelli, Anish Kapoor e Izhar Patkin. Infine al Museo Correr, Nuova oggettività. Arte in Germania al tempo della Repubblica di Weimar 1919-1933, una mostra sorprendente, che svela gli anni precedenti all’avvento del nazismo, nei quali la prima democrazia tedesca è un laboratorio di esperienze culturali che vede le esuberanti attività antiartistiche dei dadaisti, la fondazione del Bauhaus e l’emergere di un nuovo realismo.

PADIGLIONE ITALIA Solo quattro gli artisti italiani invitati dal curatore internazionale Okwui Enwezor nel lungo percorso dei suoi possibili futuri: Pino Pascali, con un Cannone semovente del 1965, e Fabio Mauri, con l’intensa sala che apre la rassegna ai Giardini. Sotto la cupola ottagonale dipinta da Galileo Chini nel 1909, l’ancora impressionante parete di valigie di cuoio alta quattro metri (Il muro del pianto, 1993), emblema di distacchi e migrazioni, e la Macchina per fissare acquerelli (2007) che punta in alto, come a voler bucare la cupola. Altra generazione, quella di Monica Bonvicini (1965) all’Arsenale, con le sue armi appese come lampadari, simili a fusioni spigolose grondanti di bitume, e di Rosa Barba (1972), ai Giardini con i frame a parete con paesaggi desertici, come indagine di un ipotetico realismo sociale. Molti di più, in quindici, ospiti di Codice Italia, sempre nell’ampio spazio dell’Arsenale, padiglione made in Italy curato da Vincenzo Trione. A partire da due maestri, protagonisti dell’arte povera e della transavanguardia, con due grandi installazioni: Jannis Kounellis, con binari di ferro e giacche nere appese, e Mimmo Paladino, con una simbolica e intensa sagoma umana di bronzo, circondata da segni a parete preistorici ed essenziali. Nello stesso padiglione, rilevanti le opere di Claudio Parmiggiani, Antonio Biasucci, Marzia Migliora e Vanessa Beecroft.

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PRIMO PIANO

GRANDI MOSTRE DI FLAVIO ARENSI

QUANDO IL QUADRATO DIVENTA RIVOLUZIONE

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Uno dei principali eventi espositivi dell’autunno è senza dubbio la retrospettiva dedicata a Kazimir Malevič, figura centrale e insostituibile dell’arte moderna che ha attraversato uno dei periodi storico-artistici più intensi del Novecento. La mostra non solo delinea la figura straordinaria di Malevič, proponendone un corpus di settanta opere, ma presenta un nutrito gruppo di lavori firmati da importanti esponenti russi, appartenenti ai movimenti artistici di inizio Novecento, oltre a documenti e filmati relativi al periodo storico di riferimento, a cento anni esatti dalla nascita del suprematismo, movimento di cui l’artista è fondatore, leader e maggiore interprete. I due curatori, il vice direttore del Museo di Stato Russo di San Pietroburgo, Eugenia Petrova, e il direttore della GAMeC di Bergamo, Giacinto Di Pietrantonio, hanno disegnato un percorso espositivo che si apre con il periodo simbolista di Malevič, dai dipinti raffiguranti paesaggi con filari di alberi del 1906, al famoso autoritratto con fiocco rosso del 1907, che sembra non ignorare la lezione dei fauves. Si continua con un’approfondita sezione relativa agli anni dieci, all’inizio dei quali – precisamente nel 1913 – Malevič redige, insieme ad altri artisti, il Manifesto del primo congresso futurista. Dato più interessante è senza dubbio il riallestimento, per la prima volta in Italia, de La vittoria sul sole, prima opera totale di musica, arte, poesia e teatro, creata da Malevič con Michail Matjusin e Aleksej Kručënych, nella quale sono visibili i germi del suprematismo, con un primo accenno al Quadrato nero. Tale opera, rappresentata una sola volta nel 1913, è stata filologicamente ricomposta sui disegni originali di Malevič, presenti in mostra, sulla musica e sui testi ritrovati negli archivi, dove erano stati sepolti durante gli anni del regime, e sulle poche immagini fotografiche esistenti. A questo periodo appartengono i celebri dipinti, tutti esposti, quali Mucca e violino (1913), Ritratto perfetto di Ivan Kljun (1913), Composizione

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Quadrato nero, 1923


Mucca e Violino, 1913 Testa di Contadino, 1928 Pagina seguente: Ragazze in un campo, 1928-1929

dedica a scritti, appunti, disegni. È in questa decade che sarà concentrato il nucleo suprematista che rivela una ricerca molto più avanzata rispetto a quella che trapela dalle opere di altri colleghi, quali Ritratto di un filosofo. Costruzione cubista (1915) di Lyubov Popova o Suprematismo di Olga Rozanova. Saranno esposte, inoltre, alcune icone russe del XIV e XV secolo, che documenteranno quanto Malevič abbia tratto ispirazione da esse. Il percorso espositivo, prosegue investigando altri due periodi, in cui è possibile ravvisare la progressiva stalinizzazione della Russia che sottopose a censura artisti e intellettuali e che li spinse ad abbracciare i dettami del realismo socialista. A questa costrizione Malevič, obbligato a rimanere in patria, risponde dapprima con un’arte figurativa, accostando geometriche zone di colore volte a formare uomini e donne manichino, memori dei costumi teatrali da lui disegnati nel 1913, e in cui le teste,

con la Gioconda (1914) e alcuni disegni degli stessi anni messi a confronto con le tele Malorossy (Ukrainians) (1912) di David Burliuk, Composizione con una fisarmonica (1914) di Jean Pougny, Ciclista (1913) di Natalia Gončarova e di altri ancora. Seguono gli anni in cui, in occasione dell’Ultima mostra futurista 0.10 del 1915, Malevič lancia il suprematismo, con l’intenzione di affermare il predominio della pura sensibilità dell’arte che troverà applicazione non solo in pittura, ma anche in architettura e design, soprattutto a livello di sperimentazione e modellistica. In questa sezione si possono ammirare capolavori come Quadrato Rosso (1915) e i coevi Suprematismo (1915-1916) o ancora la sua opera più riconosciuta, il Quadrato nero, insieme a Cerchio nero e Croce nera (1923). Gli anni venti rappresentano un periodo di massima espansione teorica per Malevič, che abbandona «il pennello arruffato per la penna aguzza» e si

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ovali senza volto, segno dell’annullamento dell’individuo in atto in quegli anni. Quella di Malevič è una ricerca che non si concede completamente ai dettami del regime; al contrario, il Suprematismo è ancora in molti casi evidente. Un esempio è rappresentato dall’opera Casa rossa (1932), in cui la parete che regge il tetto altro non è se non un rimando al Quadrato rosso. La mostra accoglie, infine, un importante nucleo di opere realizzate nei suoi ultimi anni di vita, composto da una quindicina di oli in cui è possibile vedere come, pur sotto assedio della dittatura, la sua pittura continui a mostrare una potenza espressiva innovativa, particolare che appare evidente dalla relazione degli stessi soggetti trattati contemporaneamente da altri artisti, quali Gara (1932-1933) di Aleksandr Deineka, Komsomol militarizzato (1932-1933) di Alexander Samokhvalov o Fantasia (1925) di Kuzma Petrov-Vodkin.

IL SUPREMATISMO Movimento artistico russo fondato da Malevič e basato su una pittura astratta dalle forme geometriche. L’artista ne definisce la poetica con una ricerca teoretica svolta per quasi un decennio, a iniziare dal 1915, data del Manifesto Suprematista, al 1924, quando i presupposti teorici del movimento sono estesi anche all’architettura, concepita come arte basata sull’utilizzazione di forme geometriche elementari, intese come l’essenza suprema della visione. Nel 1913 egli esegue una delle prime composizioni suprematiste, seguita poco dopo dal celebre Quadrato nero su fondo bianco (San Pietroburgo presso il Museo Statale Russo). Dopo il 1927, il cambiamento della politica culturale sovietica determina la crisi del movimento, che tuttavia trasmette i suoi fermenti innovatori al Bauhaus.

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VISTI DA VICINO

MAESTRI CONTEMPORANEI DI LORENZO RESPI

IL SEME DI DIO SECONDO ISGRÒ

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Emilio Isgrò (Barcellona Pozzo di Gotto, 1937), artista e poeta, drammaturgo e scrittore, ha elaborato nella sua lunga carriera un linguaggio espressivo inconfondibile la «cancellatura» che gli ha permesso di affermarsi sulla scena internazionale con una forte identità. Pratica linguistica e visuale, la «cancellatura» non nega, non occulta, non dimentica; è trasformazione, gesto e segno, seme di speranza per il futuro. La vocazione scultorea, oserei dire monumentale, della «cancellatura» si concretizza nella Grande cancellatura per Giovanni Testori, bassorilievo lungo quasi 24 metri che hai realizzato per piazza Gino Valle a Milano nel 2014. Che cosa significa per te aver trasferito la cancellatura dalle pagine di un libro alla scala ambientale? Come ti sei misurato con lo spazio pubblico? La cancellatura è uno strumento così duttile e complesso che si impregna automaticamente (esattamente come una spugna) dei temi e delle cose che tocca. Se il pennello cancellatore agisce sulle pagine di un libro, la parola superstite riverbera una luce che in qualche modo la rinvigorisce per il solo fatto di essere ancora leggibile tra migliaia di altre parole apparentemente annientate dal tratto di china nero. Dico «apparentemente»: perché in realtà le parole occultate vivono più e meglio di prima, ricaricandosi di significato e di senso proprio grazie alla cancellatura. È quel brulicare di parole illeggibili a portarci in un paese sconosciuto dove bastano un aggettivo o una virgola a orientarci (o a disorientarci) restituendoci alla fine la speranza di uscire dal tunnel. In questo caso, tuttavia, non sempre la dimensione fisica (quella del libro) corrisponde alla dimensione concettuale dell’opera, nel senso che l’Infinito leopardiano, per quanto compresso in quindici versi, non è meno grandioso di una cattedrale gotica o barocca. Quando decisi di cancellare per una nuova piazza l’incipit del Ponte della Ghisolfa

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di Testori, sapevo bene che una dimensione puramente concettuale mi avrebbe schiacciato, e per questo mi sembrò naturale incidere preventivamente sulla pietra le parole da cancellare a forza di scalpello. Non potevo dimenticare, infatti, che la pietra, prima ancora della carta, era stata in antico il luogo naturale della scrittura, come testimoniano ancora oggi le epigrafi d’Egitto e di Babilonia. E questo mi rendeva più facile il lavoro; mentre mi spaventavano la potenza e la vastità dello spazio. In casi del genere, di solito, l’artista cerca di salvarsi gonfiando il progetto, con il rischio che questo risulti alla fine sproporzionato all’ambiente, oltre che irrispettoso e vacuo. Così ho scelto un contrafforte inclinato come un immenso leggio davanti alla nuova sede del Milan, e lì, spero con discrezione e naturalezza, ho realizzato l’opera, evitando forzature e protagonismi inutili. Penso che l’ambiente non ne abbia sofferto e che il lavoro ne abbia comunque guadagnato. Poi ci hai preso gusto a fare lo scultore. E così quest’anno, in occasione di Expo Milano 2015, hai ripetuto l’esperienza plastica inaugurando un’altra opera impressionante, il Seme dell’Altissimo, un seme d’arancia in marmo bianco di Seravezza ingrandito un miliardo e cinquecento milioni di volte e collocato

al gate Ovest di Expo Center. Perché hai scelto proprio il seme d’arancia? Il seme d’arancia è il simbolo più globale che ci sia. Ma si tratta pur sempre di una globalità che capisco benissimo, perché parte dal Mediterraneo e dalla mia terra di Sicilia per raggiungere tutti i mari e tutte le sponde. Anche per il Seme dell’Altissimo si è però posto un problema, nel senso che la concettualizzazione dell’opera un seme d’arancia smisuratamente ingrandito poteva essere facilmente vanificata dagli edifici costruiti intorno. Anche installata al meglio, in altri termini, la scultura rischiava di non esprimere tutta la sua potenza in uno spazio così dilatato. Anche qui, tuttavia, ho evitato di gareggiare con le possenti architetture che mi stavano intorno: da un lato potenziando il peso concettuale dell’opera invece di depotenziarlo, dall’altro collocando il Seme su una rampa circolare, anch’essa di preziosissimo marmo e ricoperta di scritte a ventaglio. Cosicché lo spettatore non ha letteralmente scampo: attirato dalla possanza della materia come l’ape dal miele, corre a rifugiarsi sotto il Seme come sotto una pianta già cresciuta. La storia è una componente essenziale e determinante nel tuo lavoro. Molte tue opere criticano con pungente sarcasmo i fatti d’attualità penso alla profetica installazione Costituzione cancellata (2010) e alla

Cancellazione del debito pubblico (2011) per la Bocconi, altre invece rievocano un’età dell’oro, quella descritta in particolare nei grandi classici della letteratura e della filosofia. Qual è il tuo rapporto con la storia? Preferisco venire dalla storia piuttosto che da una geografia (o geopolitica, per dirla più classicamente) oggetto di guerre e di dispute sanguinose. Sono stati alcuni mercanti e critici ben connotati a teorizzare negli anni Sessanta e Settanta del Novecento l’aura geografica delle opere d’arte (cioè la loro diffusione mediatica) come sostitutiva dell’aura storica tradizionalmente legata all’arte del vecchio mondo. Questo è accaduto a partire da Andy Warhol e dalla Pop art. Sennonché, come vediamo proprio in questi anni, gli spessori storici dei popoli tornano a farsi sentire e le tradizioni di tipo religioso o culturale condizionano sempre di più la pace e la guerra. Guardiamo gli artisti cinesi: sembrano a volte più americani degli stessi americani. Eppure c’è una logica confuciana che in qualche modo intacca le loro coscienze. Come artista del vecchio mondo li capisco fin troppo bene: perché anch’io, a volte, mi sento stretto e costretto tra il chiacchiericcio mediatico e le voci profonde di un passato che mi appartiene non meno del presente.

IL SEME D’ARANCIA DI EDITALIA Dopo Mediterranee Lettere dal mare, Editalia presenterà a ottobre - nella fiera londinese Multiplied - il nuovo lavoro di Emilio Isgrò: la fusione in vetro del Seme d’arancia realizzata nelle vetrerie di Murano. Il maestro si misura con una tecnica artistica per lui inedita, dura e fragile allo stesso tempo, metafora insieme della forza e della debolezza dell’uomo. Tiratura 60 esemplari, altezza 40 cm circa.

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SEME MEDITERRANEO «Se il seme non c’è più, non c’è più vita. Se il seme è ancora qui, non c’è più morte. Ed è tra morte e vita, carne e siero, che cresce e si moltiplica infedele il seme, il polline, la siccità. Addio, rotte di sangue! Addio, mondo di sale! Ridere non è più un reato in questa terra, sorridere non è più una guerra da combattere contro i numeri. Ma un puro desiderare, un cantico. Riprendi in mano il vecchio libro agrario! Spalanca la memoria, granello sotterraneo! Perché si ricomincia, nunc et semper, da un seme impercettibile, incombente. Un germe stupido d’arancio amaro. Un chicco macroscopico, spelato. Apri le stanze, strappa la finestra, grande Mediterraneo inaridito! Perché si parte da una strage bianca di migranti che cantano sul mare. Perché si viene da una strada nera di anime scomposte dalla fame. Da una luce tentennante e miope che nel passato secolo non c’era. Questo è un seme d’arancia. Questo è Dio». Emilio Isgrò

A pagina 34 - 35: Una indivisibile minorata, 2010 pag. 36: Grande cancellatura per Giovanni Testori, 2015 A destra: Il seme dell’Altissimo, 2015 collocato a Expo

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VISTI DA VICINO

NUOVE GENERAZIONI DI ALBERTO ZANCHETTA

LO SPAZIO SOSPESO DI ANNA CARUSO

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Il terrain vague corrisponde a un’area vuota, luogo d’attesa, d’abbandono e di solitudine. Anziché essere concepiti come una soglia prossima alla «sparizione», gli spazi nivei della tela bianca, messa a nudo da Anna Caruso, creano una «sospensione» e allo stesso tempo un collante tra presente e passato. Al senso di perdita e di indefinitezza, l’artista oppone un’organizzazione dello spazio, disponendo volumi che allignano in una dimensione che è al contempo fisica e mentale. Le opere di Caruso appartengono a un insolito minimalismo: sono luoghi in cui sopravvivono solo pochi elementi della realtà oggettiva. Ogni cosa è ridotta all’osso e le immagini sembrano ricostruite «a memoria», come se l’artista si prendesse una licenza nel momento in cui le ripensa per poi poterle ridipingere a piacimento, e all’infinito. Se le forme sembrano ritagliate, anche le figure si inseriscono nella composizione secondo un procedimento di cut and paste. Inficiando il senso delle proporzioni, le figure si moltiplicano, vengono ingrandite o rimpicciolite, senza che ciò ne rafforzi la presenza icastica; il procedimento tende semmai a disperdere (se non addirittura a vanificare) il loro ruolo. Virate in una grisaglia che contrasta con l’accesa gamma cromatica dei volumi architettonici, le figure soggiacciono al gioco degli «infiniti ritorni», chiedono cioè d’essere dipinte più e più volte. Sono corpi estraniati, immobili, che non poggiano su nessuna superficie calpestabile – non per nulla gli edifici sono privi di fondamenta – ma ciò nonostante si ostinano ad aggirarsi alla ricerca di una vitalità che pare sia stata smarrita. Adulti e bambini coesistono con l’ambiente che li circonda, senza però riuscire a integrarvisi veramente. Inseguono infatti un rapporto di reciprocità che non potrà mai avverarsi. «Uso trasparenze e sovrapposizioni», dichiara l’artista, «con l’intento di creare una visione di simultaneità, che allontana parzialmente l’osservatore dalla realtà di ciò che

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Senza titolo, 2015 A pagina 41: Non era questo ciò che sognavamo, 2014

Anna Caruso è nata nel 1980 a Cernusco sul Naviglio (Mi), vive e lavora a Milano. Le sue opere si possono trovare in esclusiva presso lo studio d’arte Cannaviello (tel. 02 87213216; info@cannaviello.net, www.cannaviello.net). www.annacaruso.it.

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nel tassello che (in modo similare al gioco del domino) rischia di essere abbattuto da un momento all’altro. Per Caruso è di vitale importanza suddividere la scena, frazionando lo sguardo all’interno di una texture che celebra l’ornamento, la bellezza, la vivacità, il ritmo e l’intensità dei valori pittorici. Rispetto al disordine visivo-cognitivo di questi quadri, la relazione di reciprocità – e non già di vera appartenenza – tra le forme umane e quelle architettoniche giunge a una consapevolezza escatologica. L’artista tiene a precisare che «non è il luogo specifico a essere rilevante, né la presenza umana a definirne la sostanza. L’intera rappresentazione oscilla fra il mistero che sottende la nostra inadeguatezza e il timore sottile – talvolta ossessivo – di un destino comune cui siamo votati. Questi elementi assumono nel quadro le specifiche di forme strutturali distintive: torrette di avvistamento da cui sporgersi per guardare oltre». Torri che si affacciano su un terrain vague che corrisponde al nitore della tela, non quindi a una persistenza del reale ma a una cecità del futuro. Spazio d’incubazione dove la sostanza della realtà viene ridotta all’essenza, ai minimi termini dell’antropometria e dell’ergonomia. Caruso lascia a noi la responsabilità di colmare i vuoti, assecondando la nostra disposizione d’animo. Improvvisamente entriamo a far parte dell’opera, pianificandone tutti i possibili sviluppi, quella variabile in-finitezza che è propria di ogni quadro. Alla fine, come sempre, si tratta di interrogare la pittura più che il soggetto in sé.

viene mostrato, riconducendolo a uno spazio immaginato e interiore». C’è in queste opere una compenetrazione di reale e virtuale che potremmo associare ai sistemi informatici elettronici. Non a caso: se il paesaggio è quello urbano, l’orizzonte attiene all’estetica della computer grafica, piatte profondità incarnate dalle schermate dei pc che si dispiegano lungo il codice binario dell’astratto-concreto. La prospettiva viene vanificata di continuo, riducendosi a prospetti planimetrici che antepongono il finito all’infinito, ciò che è vicino a ciò che è lontano. Il surrettizio orientamento prospettico e la rarefazione delle superfici contribuiscono ad acuire il senso di appartenenza ma non di aderenza all’assetto urbano, che per noi risulta essere un elemento essenziale oltre che esistenziale. Destrutturati secondo la franchigia del colore, i dettagli architettonici sono semplificati a tal punto da perdere in consistenza, diventano cioè scheletrici e bidimensionali, proprio come se fossero planimetrie o disegni anziché involucri di vetro e cemento. Privi di porte e finestre, gli edifici ci appaiono come gusci inabitabili, eccetto che dalla memoria e dai ricordi. La densità edilizia si smaterializza, diventa un geroglifico astratto, ma «astratte» sono anche le figure trattate con il chiaroscuro, in tutto simili a fantasmi riesumati da fotografie d’epoca. Le figure incolori si interfacciano con i solidi geometrici, in un costante processo di sintesi ed epurazione che implica una parcellizzazione della rappresentazione; anziché nell’insieme, la composizione è percepita nel frammento,

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VISTI DA VICINO

CONVERSANDO SUL SOFÀ DI FLAVIO ARENSI

MDL ARCHITETTO DELLA NATURA

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L’architetto Michele de Lucchi è una persona riservata, gentile, che ha segnato la rinascita di Milano attraverso alcuni interventi fondamentali, anche simbolici, come la nuova collocazione della Pietà Rondanini di Michelangelo. Nel cuore della città di Expo, lo studio di via Varese è una piccola officina che profuma ancora dei legni impiegati come arredo, una sorta di laboratorio in cui tecnologia e pensiero si mischiano. Vorrei partire con il tuo progetto per Expo, il Padiglione zero, forse il più suggestivo fra quelli realizzati. In origine, il percorso d’ingresso dell’Esposizione Universale prevedeva un passaggio vincolato alla Fiera, con un luogo introduttivo in cui spiegare il senso dato dal tema Nutrire il pianeta. Successivamente, le cose sono cambiate e si è ritenuto di renderlo un padiglione a se stante; così ho immaginato di tagliare una fetta di crosta terrestre, prendendo come riferimento i Colli Euganei (la famiglia di De Lucchi è padovana, N.d.R), sollevarla per offrire al visitatore la possibilità di entrarci, perché alla fine il pianeta è proprio questa porzione vivibile e abitabile che è solo lo strato più sottile della sfera. Non ho fatto altro che porre l’attenzione su quella parte di pianeta che, nascosta ai nostri occhi, sta sotto di noi. Stai cercando di dare un senso diverso al concetto stesso di architettura? Quest’idea e il modo di affrontare il compimento di un edificio partendo da un’evocazione tanto astratta mi hanno portato a pensare che l’architettura possa avviarsi verso una nuova fase d’integrazione con la natura. Tutta la storia dell’architettura del Novecento è stata un continuo tentativo di distinguersi dalla natura, un distinguere l’artificiale dal naturale. Il Padiglione Zero è, invece, un enorme esercizio per rendere le forme integrabili col paesaggio: integrabili con il mondo naturale, integrabili col mondo rurale. Il tuo Ponte della pace a Tiblisi, in Georgia, è un tentativo di trovare queste for-

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Il nuovo allestimento della Pietà Rondanini all’Ospedale Spagnolo del Castello Sforzesco di Milano.

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me nuove in una città che separa nettamente la parte più vecchia da quella moderna? In questo caso vi è anche un forte connotato identitario, nel senso che, quando sono stato chiamato dal Presidente georgiano era chiara la necessità di realizzare un segno distintivo dalla vecchia «identità» di stampo sovietico, stabilendo il canone di una nuova contemporaneità legata al mondo moderno. A proposito d’identità: Milano ha giustamente valorizzato la Pietà Rondanini attraverso una sistemazione più pratica e forse anche più emozionante che ha riqualificato la centralità dell’opera, il suo primato sul percorso museale. L’intento era di liberarla la statua da tutto quello che stava attorno, le ho dato aria. L’Ospedale Spagnolo (l’ala del Castello Sforzesco riattata per ospitare il capolavoro michelangiolesco, N.d.R.) oltre a essere un luogo che richiama per sua natura la sofferenza, la pietà, il tormento che ritroviamo nella scultura di Buonarroti, è anche un ambiente spazioso, quindi l’ho sistemata senza mettere nulla attorno. Ripensare l’equilibrio fra «aria» e «spazio» diventa una questione rimarchevole perché – come in questo caso – sottolinea la preziosità dello «spazio»; da qui potremmo partire per giungere a nuove visioni in termine di forma dell’architettura. C’è sempre stata da parte tua una certa attenzione per i materiali, immagino vi sia stata una riflessione sul loro utilizzo rispetto allo sfruttamento del pianeta di cui fai spesso accenno. Iniziare, qualche decennio fa, a considerare questo sfruttamento come deleterio per tutti ha cambiato anche il nostro punto di vista sul mondo, ha cambiato il mondo! Sta variando, se non è già variato, il modo in cui noi ci rapportiamo alla natura e io sono convinto che a essa si debba attribuire una forte «sacralità». Nelle chiese che ho realizzato, anche l’ultima di Marghera, ho collocato la croce esternamente, perché dal loro interno si deve guardare il cielo, i prati, gli alberi e la croce dà il senso dell’universo, del cosmo, il senso dell’uomo in mezzo al cosmo. L’architetto, oggi, deve tener conto di un nuovo approccio intellettuale o credi valgano ancora i precetti del Novecento?

Assolutamente sì. Se per architettura s’intende costruire, demolire e ricostruire non abbiamo bisogno degli architetti, non abbiamo bisogno della conoscenza, dell’indagare e analizzare cos’è stata la storia dell’uomo, l’antropologia, o cosa saremo fra duecento, cinquecento anni, col continuo succedersi delle generazioni o delle civiltà e del loro scontro. Ecco, lo scontro delle civiltà, se messo in relazione al tema della natura e del pianeta che si sta consumando, non è più attuale. Tutte le civiltà dovrebbero, al contrario, accorgersi che il problema non risiede nel difendere una posizione all’interno del percorso evolutivo e culturale di ciascuna, bensì dovrebbero unirsi per comprendere cosa realmente abbiamo la fortuna di possedere e come gestire questa ricchezza perché porti beneficio a tutti. Molta parte della generazione precedente alla tua ha progettato degli orrori edilizi e sociali, penso al Quartiere ZEN di Palermo o alle Vele di Scampia, che mi fanno domandare quale filosofia, quale concetto di umanità, l’architettura abbia voluto far prevalere. Il proposito di come organizzare la società nel secolo passato è chiaramente fallito e ce ne siamo accorti relativamente presto. Ogni uomo è un individuo con un suo carattere, spirito ed essenza. Su questi parametri dobbiamo rivedere tutta l’architettura sociale e dell’impegno civile. Io, d’altronde, sono certo che chi fa il mio mestiere debba prevedere l’impegno civile, militante, per difendere un’idea il più possibile valorizzante della personalità umana. Intanto oggi qualcuno costruisce un Bosco Verticale a Milano, mentre non esiste una vera politica di integrazione del verde pubblico, che senso ha? Non è nascondersi dietro un dito? Ho discusso spesso con Boeri (il progettista dell’edificio Bosco Verticale a Milano, N.d.R.) di questo problema che mi dà regione di riflettere molto. La vera domanda è come gestire il mercato con le sue logiche finanziarie e di profitto a breve termine, così come quelle del lavoro o la gestione del mondo operaio. Quando si realizza un edificio, un’opera architettonica di qualsiasi tipo, si ha inevitabilmente come riferimento il successo sul merca-

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to, anzi – oggi più che mai – il giudizio del mercato è diventato «Il giudizio». Quando firmi un centro commerciale, come quello di Arese, pensi che introducendo certe linee teoriche il grande pubblico se ne accorga? Ne sono convinto. Prima di tutto cerco di instaurare coi committenti un rapporto il più sensibile possibile, anche sul piano umano, affinché sia facile far capire o discutere certi concetti che ritengo pertinenti e necessari. Fra questi porto sempre la considerazione che il mondo respira e facendolo sussistono momenti in cui esso assorbe e altri in cui rilascia, butta fuori. Questa considerazione, banale se vuoi, fa perdere molte certezze perché significa che ciclicamente qualcosa che inizialmente assorbe, prende, poi si comporterà nel modo opposto. Ciò conduce anche a una valutazione sulla scelta dei materiali che è abbastanza coinvolgente. Il legno – per esempio – ha una sua reattività, cambia colore, profuma, ha i suoi rumori, e soprattutto è quello più controllabile rispetto al tema del consumo del pianeta. Per cui, quando riesco a introdurre il legno nei miei progetti so che una buona parte del lavoro è fatta, anche se il committente può lamentarsi della necessità di una manutenzione periodica…. Però il legno mantiene nel tempo una sua bellezza poetica, molti altri materiali decadono subito: alcune strutture realizzate in vetro e acciaio sono invecchiate precocemente. Alla fine resta il fatto che siamo transitori e ciò è ineluttabile. Questo è un altro ragionamento interessante su cui ho riflettuto proprio lavorando in Expo, dove tutti gli edifici sono senza fondamenta, ma potrei dire senza fondazione, perché predisposti a essere sostituiti. Bisogna confrontare quello che deve essere permanente con quello che deve essere temporaneo e su questo ci si può solo continuare a interrogare senza dare una risposta univoca o chiara. Io reputo che gli estremi non vadano bene: non ritengo si possa rendere tutto permanente perché impedirebbe al mondo di respirare ed evolversi, né possiamo correre il rischio di buttare via tonnellate di materiali abbattuti. C’è una via di mezzo precipua dell’organismo vivente che trova il suo equilibrio fra i due poli e così evolve.


Il Ponte della Pace a Tiblisi

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VISTI DA VICINO

APPUNTAMENTO CON LA STORIA DI LORENZO CANOVA

ALLA SCOPERTA DI CASA DE CHIRICO

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Un viaggio meraviglioso e unico nell’opera di un grandissimo artista, la scoperta di segreti e di misteri quotidiani, una fusione irripetibile di capolavori collocati nelle stanze private del loro creatore: queste sono solo alcune delle sorprese regalate dalla visita alla casa-museo di Giorgio de Chirico, creata nel 1998 nell’abitazione del maestro a piazza di Spagna a Roma per volontà della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico. La casa-museo è stata aperta dopo un accurato intervento di restauro filologico che ha cercato di riprodurre al meglio gli ambienti presentando molte delle opere appese quando gli ambienti erano abitati da De Chirico e da sua moglie Isabella Far. I quadri e le sculture del maestro sono esposti insieme ai mobili, all’arredamento, agli oggetti che testimoniano il gusto e la volontà di trovare uno spazio comodo e rassicurante dopo che, per più di quarant’anni, De Chirico, italiano nato in Grecia a Volos nel 1888 e di vocazione cosmopolita, aveva vagato tra la Grecia e Monaco, tra Firenze, Parigi, Ferrara, Roma, ancora Parigi, New York e Milano. Nel 1947, dunque, il grande pittore, navigatore inquieto dell’arte, ha trovato un approdo definitivo a Roma, nel seicentesco palazzetto dei Borgognoni in piazza di Spagna 31, edificio «fatalmente» (come egli stesso avrebbe detto) abitato sin dalla sua costruzione da altri artisti, in una casa che nel corso del tempo è stata ampliata fino a raggiungere le dimensioni attuali e dove, all’ultimo piano, il grande metafisico ha collocato lo studio dove ha dipinto moltissimi capolavori fino alla sua morte nel 1978. La casa-museo è sede della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, un luogo nato per essere uno spazio museale unico nel suo genere, per la sua collocazione eccezionale e per la vocazione a diventare un centro di ricerca internazionale per

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altri, in uno sguardo volutamente distante dal tempo dove la raffinatissima e studiata tessitura pittorica si esalta nella sua bellezza splendente di «bella materia colorata», come lo stesso artista la definiva, negli autoritratti in costume, nelle bagnanti, nei ritratti della moglie Isa, nelle «vite silenti», le magnifiche nature morte che impreziosiscono la sala da pranzo con la loro palpitante presenza dove il realismo si trasfigura in una visione solenne che sublima la stessa natura. Nella sala successiva si entra nella neometafisica di De Chirico, la fase che ha contraddistinto i suoi ultimi dieci anni di vita: qui il pittore ha riletto in modo innovativo il suo percorso metafisico creando nuovi capolavori segnati dall’idea enigmatica del ritorno, di Ulisse che rema verso Itaca chiuso in una stanza che ricorda l’atelier dell’artista, del sole che risplende ermeticamente sul cavalletto dell’artista, dal Figliol prodigo che consola la melanconia di un padre pietrificato, dalle sagome nere e quasi pop di centurie che combattono sui ponti, dalla Roma dei gladiatori e dalle terme metaforiche dei Bagni misteriosi. Il salone è dominato dalla grande figura di Orfeo trovatore stanco, probabile autoritratto ideale dell’artista-profeta dalla testa di manichino che alla fine delle sue peregrinazioni, reali e immaginarie, e dopo la discesa nell’Ade, può finalmente riposare nella comodità della sua abitazione elegantemente arredata. Il viaggio ascensionale nella casa-museo trova infine il suo coronamento nelle stanze private dell’artista e di sua moglie (i due dormivano separati, pare anche per l’abitudine di De Chirico di andare a letto tardi e di fumare il sigaro), lussuosa quella di Isabella, francescanamente piccola e vuota quella del pittore. De Chirico, da vero iniziato e asceta dell’arte, trovava in realtà nel suo studio il suo vero habitat naturale, un atelier oggi recuperato con la poltrona, le tele, i pennelli e gli oggetti originali: luogo delle meraviglie della pittura e spazio mistico di una visione illuminata dal sole interiore che, come nelle sue opere, risplende ancora nel mistero enigmatico emanato dal suo cavalletto.

una conoscenza sempre più ampia e approfondita dell’opera dell’artista. «Dicono che Roma sia il centro del mondo e che piazza di Spagna sia il centro di Roma, io e mia moglie, quindi si abiterebbe nel centro del centro del mondo, quello che sarebbe il colmo in fatto di centrabilità ed il colmo in fatto di antieccentricità», ha scritto De Chirico nelle sue Memorie della mia vita, e la sua casa-museo rappresenta dunque un ideale viaggio nel cuore della pittura, un attraversamento della sua opera e della sua rilettura della storia dell’arte che condensa secoli di storia, dalla classicità al rinascimento, dal Seicento a Courbet, fino alla stagione delle avanguardie di cui è stato un grande protagonista e al postmoderno, di cui l’artista è un padre amato e riconosciuto. La visita all’arte di De Chirico nella sua abitazione romana può essere dunque vista quasi come un percorso misterico e iniziatico di elevazione: dal fermento di piazza di Spagna piena di turisti si entra nell’ombrosa frescura di un portone dove veniamo accolti dalle grandi e solenni figure dell’abbraccio di Ettore e Andromaca, una maestosa scultura dove De Chirico si ricollega alla sua nascita greca e alle radici del mito che ha reso ancora vivo e fecondo nella sua opera. Giunti all’ultimo piano del palazzo, si penetra nello splendido mistero dell’arte del maestro, sospeso tra la rigogliosa e vibrante magia pittorica del suo periodo barocco e la lieve, gioiosa e intellettuale giocosità della sua neometafisica, accolti dai suoi cavalli che corrono su una spiaggia greca, come in una visione felice delle origini, non solo dell’artista ma dell’intera cultura, e non solo occidentale. Nel primo grande salone la pittura di De Chirico tra anni quaranta e cinquanta si rivela come una visione sfarzosa e solenne di amore per la grande pittura dei maestri antichi, da Tiziano a Rubens, da Canaletto a Courbet, da Delacroix a Renoir e molti

A sinistra: Manichini coloniali, 1969 A destra: uno scorcio della Casa in cui vissero Isa e Giorgio de Chirico

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PER VISITARE LA CASA La Casa-museo di Giorgio de Chirico è in Piazza di Spagna 31 a Roma. Apre su appuntamento con visita guidata in italiano e in inglese da martedÏ a sabato e la prima domenica del mese ore 10.00-13.00. Per informazioni: tel. + 39 06 6796546; www.fondazionedechiricoprenotazioni.org.

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BEL PAESE

I LUOGHI DEL BELLO DI ARIANNA BERETTA

LO SPLENDORE DI UNA REGINA Dopo un complesso lavoro di restauro durato sei anni, riapre la cappella di Teodolinda del duomo di Monza. L’intero ciclo pittorico, risalente al 1444, opera della bottega degli Zavattari, testimonia della vivacità culturale e artistica lombarda e ne fa un esempio unico a livello internazionale. La storia della regina Teodolinda, che alla fine del IV secolo volle fondare il nucleo di quello che è ora il duomo di Monza, torna a splendere grazie alla volontà della Fondazione Gaiani, che ha promosso, intrapreso e cofinanziato il progetto di restauro da tre milioni di euro insieme a partner importanti e istituzionali quali Regione Lombardia, Fondazione Cariplo, World Monuments Fund e Marignoli Foundation. Il restauro è stato affidato alle mani sapienti di Anna Lucchini, coadiuvata da una squadra di collaboratori e tecnici di alto livello. Conclusi i restauri, tra febbraio e aprile 2015 è stato mantenuto il ponteggio, offrendo così ai visitatori la possibilità, rarissima, di ammirare da vicino i lavori. Regina longobarda, sposa prima di re Autari e poi di Agilulfo, Teodolinda fu una donna fuori dalle regole per la sua epoca. Ebbe certamente un peso politico sia nelle scelte del secondo marito sia durante la reggenza del figlio Adaloaldo, battezzato nella fede cattolica, e fu grazie a lei che avvennero l’avvicinamento e la pacificazione tra la Chiesa di Roma e i longobardi. Famoso lo scambio epistolare con papa Gregorio Magno, che inviò doni preziosi, ora conservati presso il Museo del Duomo, come ringraziamento per la sua opera di diffusione e di sostegno alla Chiesa. Grande mecenate e donna di cultura, molto amata dal popolo, Teodolinda scelse Monza come sede della sua residenza estiva e nel 595 volle edificare, presso il vicino palazzo reale, una cappella, primo nucleo dell’attuale duomo. Morta intorno al 620, fu tumulata in una tomba terragna e trasferita nel corso del Trecento nella cappella a lei dedicata.

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La sua figura è stata cruciale per la storia perché con lei inizia il processo di conversione del popolo longobardo che darà vita, dopo quasi un secolo, a un nuovo substrato culturale che unisce culture e tradizioni germaniche, classiche, bizantine e slave: quello che l’UNESCO riconosce come primo fondamento della cultura europea. Il ciclo pittorico, commissionato dall’arciprete Battista Bossi e opera degli Zavattari, occupa interamente la cappella absidale sinistra del duomo di Monza, che prende la sua forma at-

tuale tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento per volontà della famiglia Visconti, che ne fece la sede delle incoronazioni imperiali. L’abside fu dunque affiancato da due cappelle, una a destra e una sinistra, su progetto di Matteo da Campione, architetto, scultore e autore del pulpito. L’operazione andò a toccare anche la facciata del duomo, che venne ampliata e completata secondo il gusto dell’epoca. Gli stemmi dipinti sulle pareti rimandano a Francesco Sforza, marito di Bianca Maria Visconti, che nel 1444

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aveva dato alla luce un erede maschio, Galeazzo Maria. Il periodo è cruciale per la storia milanese, con il passaggio da una signoria all’altra. Non è dunque arduo capire i motivi della decorazione della cappella: dietro Teodolinda, donna fondamentale per la storia del VI secolo, si intravede Bianca Maria, grazie alla quale ebbe inizio una nuova influente dinastia. La decorazione fu affidata alla bottega degli Zavattari, famiglia di pittori e mastri vetrai, attivi in Lombardia nel corso del XV secolo. La loro opera è


documentata anche presso il duomo di Milano e la certosa di Pavia, mentre un grande polittico è conservato nel museo di Castel Sant’Angelo a Roma. Lo stile degli Zavattari rientra a pieno titolo nella cosiddetta «ouvraige de Lombardie», lo stile lombardo, così conosciuto in tutta Europa, tra XIV e XV secolo. Grazie a Gian Galeazzo, che tenne il potere tra 1374 e 1402, la corte dei Visconti fu tra le più attive del tempo attirando artisti e miniatori tra i migliori del periodo. Lo stile «alla maniera lombarda» indicava quel gusto descrittivo, intimista, attento

al quotidiano, tipico del territorio, unito a una decorazione lussuosa, minuziosa ed elegante, tipicamente cortese. Un’iscrizione assicura che l’intera decorazione fu realizzata nel 1444 dagli Zavattari, a eccezione della volta con gli Evangelisti. La storia della regina Teodolinda, che ha come fonte letteraria la Storia dei longobardi di Paolo Diacono e la Cronaca trecentesca di Bonincontro Morigia, si dispiega sulle pareti della cappella in quarantacinque scene distribuite su cinque livelli sovrapposti per un tota-

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le di cinquecento metri quadri. Gli occhi dei visitatori seguono incantanti la storia di Teodolinda: dal momento in cui Autari la chiede in sposa al matrimonio a Verona, dalla morte del marito al nuovo matrimonio con Agilulfo e alla conversione al cattolicesimo, dal sogno che vede una colomba indicarle il luogo dove sorgerà il duomo fino alla consegna dei doni da parte di papa Gregorio Magno e, infine, alla morte della regina. I personaggi delle scene si muovono leggeri ed eleganti in ambienti tipicamente cortesi. Le figure e gli abiti sono disegnati


Pagine 54 - 55: Lo sviluppo delle pareti della cappella Teodolinda.

IL RESTAURO Quando la società di Anna Lucchini inizia le analisi e i lavori di restauro, il ciclo pittorico si presenta notevolmente compromesso: l’intonaco rivela alcuni distacchi, le lamine metalliche sono sollevate in più punti, parte della pittura si è staccata dal suo supporto e sono rimasti frammenti di lacche, lapislazzuli e malachite. Dopo la fase di analisi e di diagnostica, inizia il restauro vero e proprio, con la pulitura e il recupero dell’intera opera attraverso metodi tradizionali e con l’impiego di nuove e sofisticate tecnologie, che hanno permesso di leggere finalmente l’intera storia di Teodolinda nella sua completezza e nel suo splendore.

In questa immagine: Anna Lucchini mentre restaura un particolare dell’affresco.

LA CORONA FERREA DI MONZA Nell’altare della Cappella di Teodolinda è custodita la Corona Ferrea, uno dei prodotti di oreficeria più importanti e densi di significato di tutta la storia dell’Occidente. Conservatasi miracolosamente fino ai nostri giorni, la Corona è composta da sei piastre d’oro – ornate da rosette a rilievo, castoni di gemme e smalti – recanti all’interno un cerchio di metallo, dal quale prende il nome di “ferrea”, che un’antica tradizione, riportata già da sant’Ambrogio alla fine del IV secolo, identifica con uno dei chiodi utilizzati per la crocifissione di Cristo: una reliquia, quindi, che sant’Elena avrebbe rinvenuto nel 326 durante un viaggio in Palestina e inserito nel diadema del figlio, l’imperatore Costantino. La tradizione, che lega la Corona alla passione di Cristo e al primo imperatore cristiano, spiega il valore simbolico attribuitole dai re d’Italia (o dagli aspiranti tali, come i Visconti), che l’avrebbero usata nelle incoronazioni per attestare l’origine divina del loro potere e il loro legame con gli imperatori romani. Recenti indagini scientifiche fanno prospettare che la Corona, che così come si presenta deriva da interventi realizzati tra il IV-V e il IX secolo, possa essere un’insegna reale tardo-antica, forse ostrogota, passata ai re longobardi e pervenuta infine ai sovrani carolingi, che l’avrebbero fatta restaurare e donata al Duomo di Monza. Per informazioni: www.museoduomomonza.it. Crediti fotografici Monza, Duomo, Cappella di Teodolinda Foto di Piero Pozzi ©Museo e Tesoro del Duomo di Monza

da linee fluide e continue che contribuiscono a un andamento armonioso e musicale. I visi delicati e diafani delle dame riflettono i canoni della bellezza cortese cantata dai poeti dell’epoca e ambienti dalle ricche architetture gotiche riempiono lo spazio dal fondo oro. Il restauro ha contribuito in maniera importante a riportare alla luce i colori, a restituire loro lucentezza e vita, a sottolineare la lavorazione del fondo, trattato come un gioiello prezioso. La vita di corte si svolge leggiadra e spensierata sulle pareti della cappella e racconta la realtà nei minimi particolari, nei dettagli delle vesti, dei gioielli, dei finimenti dei cavalli e nella leggerezza delle stoffe degli abiti femminili. Il ciclo pittorico degli Zavattari si impone come uno dei rarissimi esempi di gotico internazionale italiano.

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BEL PAESE

ECCELLENZA ITALIA DI SIMONE RADDI

IC: IL FUTURO DELL’INNOVAZIONE CULTURALE

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C’è anche un po’ di Editalia nel nuovo bando IC-Innovazione Culturale per il 2015, il più grande progetto di sostegno alle imprese innovative che vede impegnata Fondazione Cariplo con un finanziamento di 1,5 milioni di euro; Marco De Guzzis – amministratore delegato della società che fa capo all’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato – ha partecipato infatti come giurato alla fase finale del percorso di selezione che ha cercato fra 260 progetti le dodici migliori proposte da sovvenzionare e incubare. Se la giuria di esperti era composta da Cristiana Collu, Anna Fiscale, Riccarda Zezza, Mattia Agnetti, Piero Bassetti, Marco De Guzzis, Giuliano Gaia, Fabrizio Grifasi, una rappresentanza degli studenti e una scelta fra i vincitori del bando dello scorso anno (alla sua prima edizione), toccherà a MakeaCube e a Fondazione Fitzcarraldo aiutare i vincitori a rendere concreta la loro idea con un percorso di incubazione che durerà tre mesi. Alessandro Rubini (nella foto a destra), che per Fondazione Cariplo gestisce e coordina l’intero progetto, non fa previsioni sul futuro delle imprese innovative, ma partendo dal dato positivo della scorsa edizione ritiene ci sia «un desiderio di partecipazione ampio e competente che fa ben sperare. Ma la partita la si gioca tanto sulla qualità delle idee quanto sulla loro sostenibilità. E qui ritorna in gioco il mercato e la maturità delle istituzioni culturali. Il sistema è in movimento, ma per crescere occorre una disponibilità di spesa per la cultura più alta. La costruzione di reti e l’aggregazione di comunità sono la soluzione migliore per affrontare la frammentazione attuale e creare una domanda pagante maggiore e più qualificata. E questo significa che le imprese culturali che riusciranno a crescere nei prossimi anni – oltre ad avere conoscenze solide sui propri temi– dovranno essere brave a sposare le opportunità del digitale con profondi processi di mediazione culturale e community engagement».

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affermando l’idea che l’Italia debba invece valorizzare il proprio ecosistema, le proprie eccellenze, e proporre al mondo non l’ennesima “app”, che certamente trova in California o Berlino un contesto più favorevole, ma idee innovative legate alle maestrie italiane. Penso al biomedicale o alla meccatronica, ma anche e soprattutto al saper fare artistico e artigianale o al mondo della cultura. In questo senso IC è un’iniziativa esemplare perché cerca di stimolare imprese che innovino prodotti e processi nel mondo culturale. Una piccola rivoluzione, dunque, che sarà compiuta quando il mondo della cultura accetterà pienamente di confrontarsi con il mercato e le sue regole senza cadere in quelle facili finte tutele in cui talvolta, in passato, è sembrato cadere».

Secondo Marco De Guzzis «Da alcuni anni si fa un gran parlare di startup. Oltre il mito del giovane disadattato che in un garage inventa la gallina dalle uova d’ora, che ha soppiantato l’idea romantica del poeta maledetto e geniale, esiste una robusta realtà di startupper che nei paesi più innovativi fa impresa, creando occupazione e benessere». «L’equivoco di fondo – continua – è che ogni paese ha un proprio ecosistema figlio di secoli di storia, cultura, sviluppo sociale e così via. Nel nostro paese, importando il modello statunitense di startup, essenzialmente legata al mondo digital e ai social media, è tutto un fiorire di nuove iniziative che si confrontano con competitor nati e cresciuti in ambienti più favorevoli e ricchi di stimoli e contaminazioni. Lentamente, si sta però

LE DODICI IMPRESE D’INNOVAZIONE CULTURALE ArtForWork | WorkForArt, progetto online e offline di tutoring, coaching e formazione. Txc fa incontrare spettacoli di alta qualità con case ospitali in tutta Italia. Koral è uno strumento didattico destinato al canto corale per neofiti, cantanti esperti e direttori di coro, che usa la tecnologia per semplificare il processo di apprendimento. TuoMuseo è un nuovo modo di gestire e vivere l’esperienza culturale attraverso l’idea del Museo digitale. Marketplace4theCulture è una piattaforma di online fundraising. ArT Home nasce dall’idea di creare una relazione diretta tra arte, architettura, design e scenografia, all’interno di appartamenti. Tribook è la piattaforma web dove trovare il libro che ci interessa nelle librerie cittadine. Dramatrà per superando la visione classica di teatro come fine e per utilizzarla come mezzo per raccontare i luoghi della cultura. Art Stories. Engaging kids in art and culture. È un progetto digitale per i bambini di educazione al patrimonio culturale. Robin è il robot innovativo per la digitalizzazione in alta definizione, il monitoraggio, la diagnostica e la scansione 3D della superficie dei dipinti. Indiemark è una piattaforma di interscambio fumetti che permette ai lettori di accedere a una varietà di storie da tutto il mondo. Alessandro Rubini

ArtHero è una pittaforma digitale che permette a tutti di produrre la propria arte e condividerla.

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BEL PAESE

CARTOLINE DI GIULIA DAL MAS

SANTA GIULIA E LE GENTI DEL PO

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A Santa Giulia, ricordata dal Manzoni nell’Adelchi, venne ambientata la drammatica vicenda di Ermengarda, figlia dell’ultimo re longobardo Desiderio e della regina Ansa. La giovane, data in sposa a Carlo Magno per rinsaldare i rapporti con il popolo dei Franchi, venne ripudiata dall’imperatore col pretesto che non riusciva a dargli un erede e si rifugiò nel monastero femminile, costruito nel 753 d.C. per volontà del padre, dove morì e venne sepolta. L’edificio rimase, anche dopo la sconfitta inflitta da Carlo Magno ai Longobardi, luogo di primo piano nello scacchiere politico, economico e religioso del regno. Dopo anni di abbandono, nel 1966 il Comune acquistò l’intera proprietà iniziando le opere di recupero architettonico e la creazione del nuovo Museo di Santa Giulia. Il Museo, unico in Italia e in Europa, per concezione espositiva e per sede, consente un viaggio attraverso la storia, l’arte e la spiritualità dall’era preistorica ad oggi. Il complesso di Santa Giulia, con una superficie espositiva di circa 14.000 metri quadrati, si articola in diversi edifici sorti su un’area già occupata in età romana da importanti Domus: la basilica longobarda di San Salvatore e la sua cripta, l’oratorio romanico di Santa Maria in Solario, il Coro delle Monache, la Chiesa di Santa Giulia e i chiostri. Quest’area quasi per vocazione è stata chiamata in causa per ospitare il Museo della Città che oggi consta di circa 11.000 pezzi tra reperti celtici, romani e longobardi. Tra i capolavori conservati spicca la famosa Vittoria Alata, simbolo della città, scoperta nel 1826 e ricollocata a Santa Giulia dal 1998, quando lo studio di architettura Tortelli e Frassoni ridisegna l’intero allestimento della collezione. La statua costituisce il pezzo più importante tra i ritrovamenti del Capitolium e rappresenta uno dei pochi esempi di statue in bronzo conservatesi

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fino ad oggi e l’unico dell’Italia settentrionale. Sempre allo Studio Tortelli e Frassoni, nel 2003 si deve il progetto di riqualificazione della Domus dell’Ortaglia e del Parco Archeologico con un allestimento che ha fatto scuola per scelte museografiche e soluzioni architettoniche. A partire dal 2011 il sito

seriale I Longobardi in Italia. I luoghi del potere è nella lista del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO. Oltre a Brescia, il sito comprende anche Cividale del Friuli, Torba-Castelseprio, Campello sul Clitunno, Spoleto, Benevento e Monte Sant’Angelo includendo le più importanti testimonianze monumentali

«Sparsa le trecce morbide sull’affannoso petto, lenta le palme, e rorida di morte il bianco aspetto, giace la pia, col tremolo sguardo cercando il ciel. (…) Te, dalla rea progenie degli oppressor discesa, cui fu prodezza il numero, cui fu ragion l’offesa, e dritto il sangue, e gloria il non aver pietà, te collocò la provvida sventura in fra gli oppressi: muori compianta e placida; scendi a dormir con essi: alle incolpate ceneri nessuno insulterà». Alessandro Manzoni. Coro dell’Atto IV, Adelchi

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longobarde presenti sul territorio italiano. Fino alla fine di gennaio nelle sale espositive è ospitata la grande mostra archeologica Roma e le genti del Po che ripercorre i mutamenti culturali provocati dall’incontro tra i romani e le genti indigene a nord del Po che avvenne tra il III e il I secolo a.C.


IN SERIE

IL MOLTIPLICAUTORE DI ROSSELLA FARINOTTI

SHEPARD FAIREY IL MULTIPLO È PROPAGANDA

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«Question everything» (Discuti qualunque cosa): è questo il motto di Shepard Fairey, da tutti conosciuto e riconosciuto come Obey. È stato infatti con uno sticker rosso molto evidente con la dicitura «Obey» (Obbedisci) che l’artista ha iniziato a invadere i muri degli Stati Uniti e poi dell’Europa; ed è proprio da questo messaggio molto semplice che ha voluto raggiungere il pubblico più vasto: il passante, il fruitore di strade e luoghi pubblici doveva fermarsi davanti a quel monito rosso che gli ordinava qualcosa, o che pareva farlo. Fairey vuole far riflettere e lo fa sfruttando i personaggi famosi, come in principio il wrestler The Giant, icona pop e riconoscibile a tutti. Come pop e riconoscibili sono divenute la maggior parte delle sue opere, sia per il raffinato stile illustrativo, che ha sempre utilizzato per le strade, sia per i soggetti scelti con cruda ironia e intelligente polemica. Shepard Fairey nel 2008 realizza un poster con un ritratto di Barack Obama, allora deputato, dal titolo Hope, speranza. Obama vince le elezioni e l’opera diviene un simbolo, proclamando Fairey come writer tra i più famosi al mondo e il suo Hope un chiaro messaggio di aspettativa per un nuovo futuro. Dunque «il medium è il messaggio», per parafrasare uno dei maestri di Obey, Marshall McLuhan, e senza dubbio inquadra lo scopo dell’opera, insieme alla reazione del comune passante delle strade, il suo vero obiettivo. Obey come il writer inglese Banksy, con una differenza: di lui si conoscono il nome, cognome e il volto, mentre sul secondo resta ancora il mistero circa l’identità. È con questo spirito che l’americano realizza le sue opere, dall’aspetto quasi ornamentale, ma dal contenuto fortemente denso: personaggi politici, come George W. Bush coi baffi da Hitler; paesaggi urbani con colori tenui e dall’impatto fintamente romantico, ma rovinati da industrie, smog e ripetitori, come in These Sunsets Are to Die for; simboli

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di diverse razze, culture e religioni riletti in maniera ironica; messaggi sociali e contro la guerra; o ancora personaggi riconoscibili come Cassius Clay, o una parodia dello zio Sam con in mano sei teschi, a rappresentare sei diversi valori – diritti umani, democrazia, pace, giustizia, privacy, libertà civile – che l’artista considera morti, ma con una chiara indicazione: «Fate come dice, non come agisce». Questi alcuni dei temi illustrati da Shepard Fairey,

quasi mai raggruppati tutti insieme e visibili ancora per le strade delle grandi metropoli americane: lo scorso settembre, ad esempio, l’artista ha invaso alcuni muri di Chicago, nella zona arty hipster di Wicker Park; e ha lavorato al famoso ristorante Wynwood di Miami, completamente decorato all’interno dall’artista stesso. In Italia è stata recentemente organizzata una grande retrospettiva al Pan di Napoli. Si possono vedere i suoi lavori al-

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le varie aste – anche di beneficenza – a cui l’artista dona spesso le sue serigrafie che lo hanno reso ancora più pop. Pop non solo come stile formale dell’opera, ma come relazione diretta con il pubblico. Le serigrafie di Obey sono infatti alla portata di un pubblico più vasto e giovane e sono nate per incentivare un certo tipo di collezionismo con numerazioni fino a trecento per ogni serie. Del resto di arte pubblica trattasi. Perché non averla alle pareti, se piace? Questo solo è ciò che conta.


Shepard Fairey, classe 1970, incomincia nel 1984 come illustratore e graphic designer su skateboard e magliette; nel 1989 si impadronisce dei muri delle sue strade con una campagna di sticker grazie alla quale è riconosciuto dalla gente; studia a Boston dove espone per la prima personale nel 2009 presso l’Institute of Contemporary Art. Passa dunque da un pubblico di amici e studenti al target elitario dell’arte e alle copertine del New York Times. Attualmente l’artista vive e lavora a Los Angeles ed è considerato tra i graphic designer e illustratori più celebri degli Stati Unitidi. www.obeygiant.com

St. Mark’s Square, 2009 Sopra: Capitol Hill, 2009 A pag. 63: Engineering, 2009

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IN SERIE

STORIE DI CARTA DI SANDRO PARMIGGIANI

LA BOTTEGA DEI SOGNI

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La vicenda umana e professionale di Roberto e Anna Maria Gatti, per la loro tenace dedizione alla grafica, è esemplare non solo di un «saper fare» che sa fondere arte e artigianato, ma anche di esperienze esistenziali che troppo spesso non vengono «viste», ancorché esito di sentimenti e valori di cui non possiamo perdere la semenza, se ancora vogliamo ostinarci a immaginare e sperare un futuro diverso, nel mondo dell’arte e nella stessa società civile. Che cosa abbia spinto Roberto Gatti – dopo avere frequentato, in ragione della giovanile passione per il disegno e la pittura, l’istituto d’arte Venturi di Modena – a buttarsi in un’impresa temeraria quale quella di progettare di guadagnarsi da vivere facendo lo stampatore di opere grafiche, è una domanda cui possiamo tentare di dare una qualche risposta: un’aspirazione e una passione giovanili, in un contesto – quello delle province emiliane di mezzo, da Bologna a Reggio Emilia, passando per Modena, negli anni sessanta e settanta – nel quale l’attenzione e l’amore, oggi purtroppo ampiamente oscurati, per l’espressione artistica chiamata opera grafica erano diffusi, e ancora suscitavano l’interesse di chi – artista, stampatore, collezionista, mercante – disponeva degli strumenti culturali per riconoscerne i peculiari valori. S’aggiunga la diffusa sensibilità etico-civile del tempo: all’epoca si respirava l’idea che la grafica potesse rappresentare la forma d’arte «democratica», accessibile a tutti, quella che spezzava le catene del rapporto tra possibilità di collezionare un’opera d’arte di un artista importante e una certa disponibilità di denaro. In particolare, come poi avrebbe effettivamente dimostrato in tutta la sua trentacinquennale attività, già allora Roberto concepiva un laboratorio di grafica come una sorta di «servizio pubblico» che aveva una propria utilità sociale e missione: mettersi a disposizione degli artisti, delle associazioni culturali, degli enti locali del territorio per realizzare e diffondere l’opera grafica. Finito il Venturi, Roberto Gatti inizia il suo apprendistato di stampatore frequentando, per circa un anno, un piccolo laboratorio-stamperia, il Torchio modenese: conosce l’universo

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della calcografia – le lastre, l’acido, gli inchiostri, la carta, il torchio – e per sempre se ne innamora. Così, nel 1979, lui e un suo compagno di scuola dell’istituto d’arte danno vita alla stamperia d’arte Il cerchio, nel centro di Modena, un’esperienza che dura cinque anni. Quel periodo risulta fondamentale proprio per la progressiva acquisizione di conoscenze e dell’acuta, mai tramontata, consapevolezza che occorre sempre affinare i procedimenti, sperimentare, scoprire, imparare. Alla chiusura di quella prima esperienza, Roberto Gatti, che nel frattempo si è sposato con Anna Maria Piccinini, va a lavorare in una grande azienda grafica di Modena, ma non dà l’addio alle armi dello stampatore: porta l’unico torchio della stamperia nella cantina di casa sua, perché non ritiene affatto finito il suo viaggio nella grafica. Scrive una lettera a tutti i pittori di Modena, annunciando che l’esperienza del Cerchio si è conclusa – la cessazione dell’attività viene suggellata da una mostra delle opere della stamperia, deliberatamente intitolata Sospesa – ma che l’attività di sperimentazione e ricerca continua: chi lo desideri può bussare alla porta del piccolo laboratorio finito

in cantina, ma ancora vitale nell’arte della grafica. Dopo un paio d’anni, lui e la moglie – che avrebbe rivelato un proprio straordinario talento per quel mestiere, per la sensibilità dimostrata negli anni nella preparazione delle lastre, nell’ottenimento delle peculiari vaporosità e nuance proprie dell’acquatinta, nel processo di stampa, in un qualche modo riproponendo a Modena l’esperienza romana di Valter ed Eleonora Rossi – aprono, nell’attuale sede di via Verona, il Laboratorio d’arte grafica di Modena, nella cui denominazione vengono non casualmente evocati l’esplicita appartenenza a una realtà e i legami, soprattutto umani, con essa. «Trentacinque anni di attività», riconosce oggi Roberto, «sono un traguardo insperato: la stamperia è cresciuta e ha saputo attirare collaborazioni di grande prestigio – Mimmo Paladino, con cui lavoriamo dal 1993, Piero Dorazio, Joe Tilson, Roberto Barni (con il quale stiamo realizzando alcune lastre proprio in queste settimane) –, anche se si è sviluppata in un contesto non paragonabile con città quali Roma o Milano, che godono di “bacini di utenza” ben diversi. Il laboratorio ha avuto una funzio-

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ne di stimolo: molti artisti emiliani sono stati coinvolti, indotti a cercare di esprimersi con strumenti ai quali mai si erano prima avvicinati». Non sorprende allora che il laboratorio abbia in tutti questi anni stampato ben più di un migliaio di lastre – gli artisti che ne vantano un maggior numero sono Giuliano Della Casa, Paladino, Tilson, Wainer Vaccari, Davide Benati, Luca Leonelli. La scarsa considerazione che oggi circonda l’opera grafica – esito anche della disinvoltura, della mancanza di serietà professionale e della brama di guadagno che coinvolse per decenni alcuni degli attori della scena (artisti, stampatori, mercanti) – e la progressiva riduzione e marginalizzazione, soprattutto in Italia, del mercato della grafica sono sotto gli occhi di tutti. S’aggiunga che il collezionismo italiano soffre di una incapacità, che potremmo definire strutturale, nel valutare appieno il processo che, attraverso l’intervento di più attori, porta alla realizzazione un’opera grafica, e non è dunque in grado di riconoscerne l’intrinseco valore, tanto più che buona parte dei collezionisti è diffidente, ha una sciocca idiosincrasia per il «supporto carta», considerata «figlia di un dio


Alcune immagini della Bottega Gatti dove operano Roberto e Anna Maria Gatti. Nella pagina precedente in basso una fase della lavorazione dell’opera di Joe Tilson Finestra Veneziana – Zattere al Ponte lungo edizione Editalia.

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minore», anche se si è dimostrata capace di attraversare gloriosamente i secoli. Chi ancora non sa apprezzare un’opera grafica dovrebbe avere l’opportunità di frequentare per qualche ora il laboratorio di Roberto e Annamaria Gatti e verificare – accanto alla loro sensibilità umana e professionale, che li porta a instaurare una strettissima collaborazione con l’artista, che spesso arriva a farsi nel tempo amicizia – quanto sia importante e fondamentale il ruolo dello stampatore per permettere all’artista di giungere a certi esiti, risolvendo problemi che altrimenti sarebbero stati per lui insuperabili, mettendo a sua completa disposizione un saper fare tecnico e una sensibilità artistica, condividendo con lui segreti e scoperte, dando consigli che riguardano ogni fase del processo, capaci di tradurre nei caratteri propri dell’opera grafica una visione che, in un particolare artista, resta principalmente ancorata ad altre tecniche. In queste esperienze c’è un reciproco interscambio di saperi, un vero e proprio processo di mediazione e di traghettamen-

to della visione di un artista, che tanto felicemente ha segnato secoli di storia dell’arte: l’opera grafica non è frutto solo della creatività di un artista, ma del bagaglio di conoscenze e di intuizioni dello stampatore. Roberto e Anna Maria Gatti hanno cominciato l’attività quando il boom della grafica già si stava sgonfiando. Eppure, hanno tenuto la barra dritta, mai si sono fatti incantare dalle seduzioni di un facile guadagno, tenacemente costruendo e difendendo l’identità di un laboratorio che non si è prestato a facili scorciatoie che pure la tecnica rende disponibili, ma che invece ha adottato procedimenti di fatto inalterati rispetto a quelli che segnarono la nascita della stampa di opere grafiche secoli fa, per di più sentendosi personalmente responsabili di dovere portare rispetto a chi acquisti uno dei fogli realizzati nel loro laboratorio, in cui ogni fase, dal momento dell’incisione della lastra alla firma della tiratura, con un controllo finale di qualità, foglio dopo foglio, è sempre rigorosamente controllata. I Gatti non si sono del resto persi d’animo:

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cinque anni fa, accanto al laboratorio, hanno dato vita a un autonomo spazio espositivo, la galleria Arte su carte, che presenta mostre dedicate esclusivamente all’opera grafica: oltre alle esposizioni personali di artisti che stampano con loro, ecco quelle dedicate a Jim Dine e Alberto Magnelli e agli editori-stampatori storici, come Franco Sciardelli, Giorgio Upiglio, Piergiorgio Spallacci. Legata a questa nuova frontiera che i Gatti hanno valicato, sono nati i Cento amici del laboratorio: cento persone che amano l’opera grafica originale, che tuttora ne riconoscono i valori artistici, e che dimostrano, attraverso la loro adesione, di volere sostenere il laboratorio e la galleria, e di avere soprattutto a cuore le sorti della stampa originale; a ciascuno di loro, ogni anno, viene riservata un’opera grafica realizzata appositamente da uno degli artisti che lavorano con i Gatti (Paladino, Tilson, Del Pezzo, Assadour, Benati, Barni): una sorta di famiglia allargata della grafica originale, che coinvolge, nella reciproca solidarietà, stampatori, artisti, appassionati d’arte.


IN SERIE

MULTIPLI IN VETRINA DI SANDRO PARMIGGIANI

IL COLLEZIONISTA DEI LIBRI

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Corrado Mingardi (Fidenza, 1939) vive da tanti anni in una cittadina famosa nel mondo, Busseto, che per sempre ha legato il proprio nome a quello di Giuseppe Verdi, compositore cui Mingardi è legato da una sorta di devozione, essendo impegnato da anni nell’organizzazione di manifestazioni ed eventi verdiani, oltre ad aver animato l’associazione Amici di Verdi, essere autore di diversi studi sul maestro e fondamentale promotore del piccolo museo verdiano in casa Barezzi. L’amore per la musica e per Verdi non ha mai, in lui, conosciuto offuscamenti, e non è solo espressione di interessi culturali personali, bensì di un sentimento di appartenenza civica. Ma Mingardi è soprattutto uno dei maggiori collezionisti di libri d’artista a livello italiano e internazionale e ha rivelato l’esito di questa sua passione in due mostre: nel 2005 al Palazzo Magnani di Reggio Emilia e nel 2008 al Palazzo Bossi Bocchi di Parma (entrambe documentate in cataloghi Skira). «Collezionista» è un termine che ancora s’ammanta, nel senso comune di alcuni, di qualcosa di bizzarro e di passionalmente morboso. E tuttavia c’è chi, come Mingardi, s’è avventurato in questo viaggio che riempie una vita soprattutto per amore dell’opera d’arte e per desiderio di comprenderla, di farla propria non solo e non tanto per il suo mero possesso, o per un mero calcolo economico, ma per la possibilità che essa gli fornisce, attraverso la frequentazione quotidiana, di svelarne certi segreti, di capirne le affinità con altre espressioni artistiche, di gettare ponti e stabilire assonanze che la critica magari non ha ancora intuito, di acquisire una sensibilità dello sguardo, una capacità di penetrare nell’invisibile delle cose che costituiscono un arricchimento sostanziale del proprio percorso esistenziale. La casa di Corrado Mingardi, al margine delle mura di Busseto, non fa certo presagire il tesoro che vi è racchiuso. Corrado ha diviso la propria collezione tra il

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Gerusalemme liberata di Piazzetta, due opere di Piranesi, i Contes di La Fontaine. Mingardi inizia la propria collezione di libri d’artista collaborando con librai di prim’ordine (Carlo Alberto Chiesa, Pregliasco a Torino, Lucien Desalmand a Parigi) e attraverso il costante, attento esame dei cataloghi di vendita per corrispondenza. Approdano così a Busseto i grandi libri illustrati realizzati in terra di Francia (Parallèlement di Bonnard e volumi straordinari illustrati da Rodin, Maillol, Picasso, Braque, Matisse, Chagall, Ernst, Léger, Derain, Dufy, Rouault, Miró, Giacometti, Dunoyer de Segonzac); alcuni libri italiani di pregio (Campigli, De Pisis, Manzù, Arturo Martini, Annigoni, Maccari, De Carolis, Sartorio, De Chirico, Tullio d’Albisola, Carrà, Carlo Mattioli), con Mingardi che riesce ad acquisire alcuni degli esemplari più belli della storia del libro d’artista, dall’Ottocento a oggi: il Faust di Delacroix e Le corbeau di Manet, libri illustrati da Doré e da Redon e alcuni tesori della Mitteleuropa, come Kokoschka (Die Träumenden Knaben, 1908), Kandinsky (Klänge, 1913), Kirchner (Umbra vitae, 1924), Max Klinger (Brahmsphantasie, 1894), Czeschka (Die Nibelungen, 1908), Grosz (Ecce Homo, 1923), e d’Inghilterra, come Burne-Jones, William Morris (Chaucer, Rossetti), Beardsley (Salomè di Oscar Wilde, 1894). Per quanto riguarda la seconda metà dell’ultimo secolo, Mingardi ha arricchito la propria collezione di opere che, partendo da Le Corbusier e Laurens, da Dubuffet e Bryen, da Lanskoy e Tal-Coat, da Gischia e Fautrier, dal mitico 1 c Life e Baj, da Tàpies e Alechinsky, da Adami e Walter Valentini, delineano un percorso del Novecento ultimo. Dopo la prima presentazione della propria collezione, negli ultimi dieci anni Mingardi l’ha ulteriormente ampliata, per colmarne quelle che ancora potevano sembrargli possibili lacune: Gustave Doré (Londres), Raoul Dufy (Le bestiaire di Apollinaire), Ernst Barlach, Natalia Goncharova, Frantisek Kupka, Robert Delaunay (quell’Allo! Paris! con litografie originali di ispirazione cubista che l’artista dedicò alla Ville Lumière nel 1926), Fortunato Depero, Alexandre Alexeieff, François-Louis Schmied, Man Ray, Giorgio de Chirico, Jean Cocteau, Mario Sironi, Bruno Munari, Jacques Villon,

piccolo appartamento, in un modesto condominio in cui abita, e la biblioteca del Monte di Pietà, ora della Fondazione Cariparma, in cui presta servizio da più di quarant’anni (tra l’altro, ogni domenica). Accanto alla musica, la passione di una vita di Mingardi è la letteratura, che s’incarna in quell’oggetto di infinita seduzione che sono i libri – una passione alimentata, oltre che dall’esercizio dell’insegnamento di lettere nelle scuole pubbliche, dalle «tentazioni» quotidiane che del tutto naturalmente si è trovato a dover subire trascorrendo una parte così significativa della propria vita in mezzo ai libri della biblioteca del Monte di Pietà, ricca di oltre cinquantamila volumi e con un fondo gesuitico di circa cinquemila opere tra cui incunaboli e cinquecentine, della quale tuttora cura le nuove acquisizioni. Come sovente accade, l’approdo di Corrado Mingardi al collezionismo dei libri d’artista ha avuto un antefatto: nei primi anni settanta, viene sedotto dai volumi di Bodoni, comincia a collezionarli, avviando rapidamente una raccolta che intende essere specchio delle conquiste più alte della tipografia – quella che sceglie consapevolmente l’utilizzo di un certo carattere, una certa visione d’insieme della pagina stampata, una determinata legatura del libro –, da Jenson e Manuzio fino a Mardersteig e Tallone, entrando in contatto e diventando amico di alcuni degli eredi ultimi di una tradizione perduta, quella dei disegnatori di caratteri. A un certo punto, Corrado decide di vendere: la straordinaria raccolta bodoniana approda in gran parte all’amico Franco Maria Ricci, gli incunaboli vengono dispersi; il De divina proportione di Luca Pacioli verrà ceduto per acquistare Jazz di Matisse, l’opera che fa brillare gli occhi e sognare ogni autentico bibliofilo e appassionato d’arte. Non tutto viene tuttavia sacrificato sull’altare del moderno: restano nelle sue mani alcune mirabili edizioni bodoniane e altri volumi antichi di straordinario pregio, quali la Cronaca di Norimberga (1493) in legatura d’epoca, con 1809 xilografie del maestro di Dürer, talune forse di Dürer stesso, il Vitruvio di Barbaro in folio (1556) con le figure disegnate da Palladio, Cremona fedelissima di Antonio Campi (1585) con i rami di Agostino Carracci, La

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A destra: Pablo Picasso, Le Chant des Morts, 1948 Asger Jorn, Walasse Ting, 1964 Pablo Picasso, Le Chef-d’oeuvre Inconnu, 1931 Henri Matisse, Jazz, 1947 Pagina precedente: Fernand Léger, La Fin du monde, 1919 Joan Miró, Parler seul, 1950

André Beaudin, André Masson, Sebastian Matta, Oskar Kokoschka, Marino Marini, Alexander Calder, Jean Tinguely, Alberto Manfredi, Fausto Melotti, Renato Guttuso, Gino Forti, Mimmo Paladino, ancora Walter Valentini, Emilio Isgrò. Fino alle acquisizioni degli ultimi anni: Grandville, Maurice Denis (Le voyage d’Urien, 1893), Toulouse Lautrec, Bonnard (Daphnis et Chloé, 1902), Klimt, Henry van De Velde, Soffici, Govoni, Arp, Schwitters, Gleizes, De La Fresnaye, El Lissitzky, Kupka, De Vlaminck, Gris, e ancora Stepanova, Matisse, Wols, Warhol, Sottsass, Henry Moore, Allen Jones, Music, Arnaldo Pomodoro, Claudio Parmiggiani, Francesco Clemente, Baselitz, Giancarlo Vitali, Calchi Novati, Magnelli. Coprono, questi libri d’artista, un arco temporale assai vasto, dal 1876 a oggi, e il sommario elenco degli artisti illustratori testimonia la ricchezza variegata e profonda delle passioni di Corrado – dai libri in cui l’illustrazione è concepita come traduzione, più o meno servile e visionaria, del testo, a quelli in cui s’afferma l’autonomia totale della creazione artistica, con i due linguaggi, pittura e letteratura, che arrivano a incontrarsi e a gettare luce l’uno sull’altro, a rivelarne certi reciproci segreti tesori. Né possiamo davvero essere sicuri che quello che abbiamo per cenni conosciuto in queste righe sia il volto definitivo della collezione di libri d’artista di Corrado Mingardi: lui, nel frattempo, avrà incontrato qualche nuovo volume, ne avrà subito il fascino e avrà deciso di farlo entrare nel suo cenacolo, in cui siedono autori di testi e di immagini, convocati o messisi assieme per dare vita a quell’opera d’arte che è il libro d’artista. Nell’intervista che rivolsi a Mingardi per il catalogo della mostra di Reggio Emilia, lui definiva ciò che ha messo assieme come «una pinacoteca da sfogliare, e quindi da fruire more privato, in solitaria stanza, con ritmo personale, personalmente pausato». È, anche, la confessione di come Corrado riempia le sue ore più felici.

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Corrado Mingardi

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Ai possessori di Editalia Card ingresso ridotto a 6 euro


EVERYDAY OBJECTS AND A CAT

www.whitetablegallery.org


FATTI AD ARTE

CAPOLAVORI SERIALI DI CECILIA SICA

IL PIACERE DEL PICCOLO FORMATO

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Editalia realizza un multiplo in formato ridotto della Pietà Rondanini di Michelangelo. La serialità attiene al piacere del possesso che da secoli provano i collezionisti d’arte. Piacere che nasce nel momento in cui il collezionista entra in possesso di un oggetto desiderato anche se ne esistono molteplici versioni e diversi proprietari. Le copie, infatti, conservano lo spirito degli originali, la loro energia creativa e il loro potere iconico. Le mostre appena promosse dalla Fondazione Prada hanno esplorato il rapporto ambivalente tra originalità e imitazione nella cultura romana e il suo insistere sulla diffusione di copie e multipli come omaggio all’arte greca. Nella stessa misura, la riproduzione in scala minore di sculture antiche e la loro moltiplicazione di numero diventano, alla fine del Quattrocento, il tramite di una diffusione capillare del canone classico negli ambienti delle corti rinascimentali, nelle botteghe degli artisti, negli arredi delle residenze principesche. Su richiesta dei grandi collezionisti dell’epoca, le statue marmoree della Roma imperiale che affioravano durante gli scavi per l’edificazione della Roma papale cinquecentesca diventavano il soggetto preferito delle botteghe fiorentine che si specializzano nelle repliche – in scala minore e in diverse tecniche – delle antiche sculture. La qualità dei materiali e della manifattura, unita al piacere di riconoscere personaggi famosi della storia e della mitologia greca e romana, costituiscono le ragioni principali della soddisfazione che i signori rinascimentali traggono dal collezionare copie in scala delle opere antiche. Il gusto della copia invade le collezioni con grande diversità di misure, materiali, coloriture e varianti. La copia è luogo di sperimentazione di tecniche e di introduzione di nuovi materiali. Nel Rinascimento, le statue di ridotte dimensioni di soggetto sacro o profano guadagnano progressivamente lo status di oggetto d’arte autonomo e destinato a una fruizione privata. Da sempre è il prestigio dell’opera a determinarne le repliche. È la rappresentatività

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iconica, il sentimento che trasmette, l’identità, la storia, la fama, il valore sociale. Tutto questo è, per i cultori dell’arte e per Milano in particolare, la Pietà Rondanini, ultima opera incompiuta di Michelangelo. E, come nel passato il prestigio delle opere replicate era accresciuto dalla nobiltà del luogo di conservazione, così oggi la Pietà, riallocata dopo il restauro nel nuovo museo ideato da Michele De Lucchi, è oggetto della replica artistica realizzata da Editalia in collaborazione con la Soprintendenza del Castello Sforzesco. L’estremo capolavoro michelangiolesco, una delle sei icone scelte per rappresentare Milano nei mesi dell’Expo, fu ac-

quistato dal Comune nel 1952, con il concorso dell’intera città che partecipò a una sottoscrizione pubblica. Questa statua, abbozzata in un blocco di marmo apuano, fu l’ultimo lavoro di Michelangelo e venne ritrovata nella bottega romana dell’artista alla sua morte. Michelangelo vi ha lavorato per vent’anni modificando radicalmente la prima composizione, distruggendo quanto già fatto e tentando di reimpostare le due figure in pose differenti. Su questa tormentata statua il maestro si è affaticato fino a pochi giorni prima di morire. A distanza di secoli Editalia progetta un’edizione in scala ridotta della scultura della Pietà, rispondendo al deside-

rio antico di riportare in vita una grande opera del passato, con l’obiettivo di valorizzarla e di favorirne una fruizione più ampia utilizzando quanto di più innovativo la tecnica contemporanea ci mette a disposizione. La scansione 3D della scultura ha consentito una ripresa e una conoscenza molto più dettagliate e analitiche dell’opera. Nessun particolare, nessun dettaglio è stato tralasciato e grazie a questo procedimento è stato possibile realizzare la replica perfetta (in scala) alta cinquanta centimetri. L’opera in resina e polvere di marmo, sabbiata e ritoccata a mano, ha una tiratura limitata a novantanove esemplari.

Sistema di scansionamento UNOCAD della Pietà Rondanini nella vecchia collocazione progettata dallo studio BBPR.

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FATTI AD ARTE

CAPOLAVORI SERIALI DI LAURA ORBICCIANI

MULTIPLI DI PASSIONE

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«L’idea dell’artista, i segni che la sua mano traccia sulle lastre, sono come una partitura musicale che per essere visibile, condivisa, ha bisogno del complesso e sapiente ponte di interpretazione dello stampatore, fino al momento magico in cui, dopo essere passato al torchio, il foglio, fecondato dall’inchiostro, delicatamente separato dalla lastra, rivela per la prima volta la sua natura di immagine, forma, idea comunicabile. Interpretazione; mai mera, neutra esecuzione. Nella stamperia di Modena, dove l’ordine, l’esattezza non nascondono mai il fervore, la passione per l’arte, al cui servizio viene sapientemente messa la tecnica, Anna Maria Gatti e i ragazzi che lavorano con lei li vedi come api operose, affaccendate a distillare il miele della bellezza». Così scrive il fotografo Ferdinando Scianna a proposito del Laboratorio d’arte grafica di Modena. Ancora una volta in collaborazione con Roberto e Anna Maria Gatti, Editalia arricchisce il suo catalogo di multipli d’arte con opere realizzate presso la famosa stamperia modenese, specializzata nelle tecniche dell’acquaforte e dell’acquatinta. Tre artisti diversissimi hanno affidato le loro idee all’alchemica rielaborazione dei due artigiani modenesi mediante l’acido, le cere, gli inchiostri calcografici: Mimmo Paladino, Lucio Del Pezzo, Davide Benati. L’artista beneventano vanta una consuetudine ventennale con il laboratorio dei Gatti: provengono tutte dai torchi modenesi le opere di Mimmo Paladino esposte dall’ottobre 2014 al febbraio 2015 al Museo de Bellas Artes de Bilbao, in occasione della mostra monografica dedicata alla sua opera grafica. Editalia, che sempre presso la stamperia di Modena ha realizzato i libri d’artista Ombre e Don Chisciotte – in mostra in versione integrale – ha selezionato dall’esposizione spagnola due opere Senza titolo, entrambe del 2014. Grandi teste di profilo, cifre, forme geometriche, mani, croci, motivi vegetali, elementi architettonici stilizzati che rimandano a culture antiche: tutti segni dispa-

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Sopra: Lucio Del Pezzo, Anabasi, 2012 Acquatinta a 13 colori con doratura a foglia e collage su carta Zerkall butter g 450, 67,5 x 49,5 cm. Tiratura a 100 numeri arabi, XXX numeri romani, 20 p.d.a.

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Sopra: Mimmo Paladino, Senza titolo, 2014 Acquaforte e acquatinta a 13 colori su carta Zerkall butter g 450, 50 x 50 cm. Tiratura a 40 numeri arabi, 10 p.d.s, 10 p.d.a A sinistra: Mimmo Paladino, Senza titolo, 2014 Acquaforte su carta Hahnemuhle g 450, 40x60 cm. Tiratura a 35 numeri arabi, X numeri romani, 10 p.d.a. Mimmo Paladino, Senza titolo, 2014 Acquaforte, acquatinta a 18 colori e collage stampata su carta Acquerello Arches g 650, 76x103,5 cm. Tiratura a 35 numeri arabi, X numeri romani, 10 p.d.a.

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Senofonte racconta la spedizione dei mercenari greci al servizio di Ciro il giovane dalla costa verso l’interno della persia e la successiva ritirata, come giocosamente sembrano suggerire l’azzurro del mare e del cielo, gli oggetti frammentari lasciati sulla riva, la sabbia rovente dei deserti attraversati dagli eserciti antichi. Di Davide Benati, nato a Reggio Emilia nel 1949, è nota la predilezione per l’acquerello, la tecnica che meglio esprime la sua propensione alle visioni pittoriche caratterizzate da eleganti ed eteree infiorescenze. Le delicate sfumature di colore consentite dall’acquatinta appaiono dunque una sofisticata rielaborazione dei suoi stilemi pittorici, come vediamo nelle due opere Pala (2006) e Azzorre (2007), i cui motivi rimandano alla vegetazione marina. «Da molti anni Anna Maria e Roberto traducono la mia pittura nel linguaggio della grafica. Ho sempre considerato il loro lavoro affine a quello che compie il traduttore di un testo letterario: da una lingua a un’altra. In pittura uso la lingua acquarello e i Gatti traducono in lingua acquatinta. Come tutti i traduttori preziosi, non si limitano a una corretta trasposizione del testo tecnicamente e grammaticalmente impeccabile: sanno penetrare la pelle dell’opera, ne rivelano la grana segreta, ne carpiscono i tempi. I loro strumenti di antica alchimia restituiscono un’opera speculare e autonoma, viva».

rati che sono accostati con leggera disinvoltura e declinano un alfabeto di segni arcaici e misteriosi che parlano un linguaggio senza spazio e senza tempo. La vivacità cromatica e lo spessore materico della superficie consentite dall’acquatinta fanno ben trasparire la speciale raffinatezza esecutiva. Lucio Del Pezzo, artista napoletano nato nel 1933, dopo gli esordi di impostazione neosurrealista e neodadaista con il Gruppo 58 e con la rassegna d’avanguardia Documento Sud, nei primi anni sessanta si trasferisce a Milano dove la sua arte conosce un respiro internazionale. Nel 1967 espone a Ginevra alla mostra De Metafisica a fianco di De Chirico, Carrà, Morandi e Sironi, e il soggiorno a Parigi, a partire dall’anno successivo, gli consente di approfondire la sua personale rielaborazione delle avanguardie storiche. Approda dunque al tipico linguaggio ludico e carico di ironia delle sue cosiddette «pitture-oggetto», assemblaggi e collage che traducono il linguaggio pop nella geometria razionale di ascendenza metafisica. Realizzata con tre lastre incise all’acquatinta, su cui sono stati applicati a collage altri elementi figurativi, l’opera Anabasi (2012) rimanda nel titolo al racconto dello storico greco Senofonte e si intende «spedizione che dalla costa si inoltra nell’entroterra» benchéletteralmente la parola anabasi significa salita, ascensione. Nello specifico, l’Anabasi di

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Sopra: Davide Benati, Pala, 2006 Acquatinta a 8 colori su fondino nepalese, stampata su carta Velin d’Arches g 450, 106 x 75,5 cm. Tiratura a 35 numeri arabi A sinistra: Davide Benati, Azzorre, 2007 Acquatinta a 4 colori su fondino nepalese, su carta Zerkall butter g 450, 100 x 130 cm. Tiratura a 35 numeri arabi, 5 p.d.a.

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FATTI AD ARTE

SPECIALI DI CECILIA SICA

LE MERAVIGLIE DI MILANO

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«Et decorat inter Lombardie vero civitates Mediolanum, velut rosa vel lilium inter flores, vellud cedrus in Libano, vellud inter quadrupedia leo et inter volucres aquila». Così nel 1288 Bonvesin de la Riva elogia la città di Milano nel De magnalibus Mediolani (Le meraviglie di Milano), espressione di un genere letterario piuttosto diffuso nel medioevo, in cui l’autore affianca al tradizionale encomio retorico un’argomentazione concreta delle eccellenze e delle meraviglie con le quali Milano primeggia tra le altre città lombarde, «come rosa o giglio tra i fiori, come un cedro del Libano, o come il leone tra i quadrupedi e l’aquila fra gli uccelli». Bonvesin elogia senza posa la città negli otto capitoli dell’operetta, per ogni suo aspetto: la posizione, le abitazioni e i suoi abitanti, la fertilità, la forza, la sua affidabilità politica, la libertà e la dignità. Non è quindi un caso se la pubblicazione che Editalia ha realizzato per il Comune di Milano ha voluto ispirarsi al titolo antico per raccontare sei meraviglie custodite in musei e monumenti milanesi: sei icone d’arte scelte dal Comune per rappresentare il patrimonio culturale della città nei sei mesi dell’esposizione universale. Il semestre di Expo in città è scandito da sei conversazioni d’arte pubbliche che si svolgono all’inizio di ogni mese a Palazzo Marino, la casa dei milanesi, dedicando ogni mese a un’opera. Il progetto, ideato dal Comune di Milano, promosso dall’assessore alla cultura Filippo del Corno e curato da Marco Carminati, introduce alla scoperta del Quarto stato di Pellizza da Volpedo, del Bacio di Hayez, dello Sposalizio della Vergine di Raffaello, della Pietà Rondanini di Michelangelo, del Concetto Spaziale di Fontana e dell’Ultima Cena di Leonardo. I sei capolavori, simbolo d’arte e bellezza in Italia e nel mondo, evidenziano l’incredibile ricchezza del patrimonio artistico milanese: la più bella opera giovanile di Raffaello, il sommo capolavoro della maturità di Leonardo

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e l’opera estrema di Michelangelo, ma anche l’icona del romanticismo di Hayez, quella del riscatto del lavoro di Pellizza e la provocazione della modernità

con Fontana. Ognuna di queste opere è raccontata nel volume curato da Marco Carminati e Stefano Zuffi, attraverso il suo significato artistico ma con un occhio particolarmente attento alle storie, ai personaggi e ai segreti che hanno segnato il loro approdo o il loro legame con Milano. Capolavori molto differenti fra loro per epoca,

Le meraviglie di Milano. Sei icone d’arte per Expo in Città è un volume di grande formato, 30 × 40 cm, 60 pagine a colori, 12 tavole con dettagli, copertina in cartone vegetale. Allestimento con spirale e piedistallo con base a soffietto; www.editaliarte.it

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tecnica e significato, che attraverso le parole degli autori diventano testimoni di un nuovo rinascimento cittadino e grazie a immagini in altissima definizione rivelano la loro struttura interna, le ombre colorate, le pennellate divisioniste, la luce riflettente, la lacerazione della tela, il segno dello scalpello. La collaborazione con l’azienda Haltadefinizione ha consentito una campagna fotografica unica nella quale la macchina da presa non convenzionale entra nella superficie dell’opera, la supera e la indaga tanto da rivelarci particolari costruttivi delle opere non visibili a occhio nudo. Sono questi particolari a costituire la straordinarietà dell’opera editoriale che Editalia ha pensato, progettato e realizzato per il Comune di Milano, che la donerà alle delegazioni italiane e straniere in visita all’Expo 2015. Un volume dal design multifunzionale, un libro da tavolo da leggere e da esporre, da sfogliare e conservare.


FATTI AD ARTE

FRESCHI DI CONIO DI FLORIANA MINÀ

L’ESERCITO MARCIAVA LA GRANDE GUERRA NEL 2015

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«Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio dei primi fanti, il ventiquattro maggio; l’esercito marciava per raggiunger la frontiera, per far contro il nemico una barriera». I versi iniziali della Canzone del Piave, scritta nel 1918, riassumono il senso dei molteplici significati che l’Esercito italiano ha inteso valorizzare nella commemorazione del centenario della prima guerra mondiale. Per ricordare l’ingresso in guerra dell’Italia, le Forze armate hanno realizzato una grande iniziativa che si è svolta nel mese di maggio, dal titolo evocativo L’esercito marciava. Una staffetta condotta da personale militare dal Sud al Nord dell’Italia, che nell’impegno fisico ha portato con sé un forte significato simbolico del sacrificio compiuto da tutto il popolo italiano per ricongiungere Trento e Trieste alla giovane Italia e del coinvolgimento collettivo di società civile e militare nella liberazione delle terre irredente. La manifestazione ha voluto essere anche un momento di riflessione sull’importanza della pace tra i popoli, un messaggio da trasmettere alle generazioni future. Nell’ambito delle attività condotte in seno a questo progetto e come segno tangibile di una memoria da mantenere viva, in collaborazione con l’Esercito italiano Editalia ha realizzato la medaglia commemorativa per il centenario della Grande Guerra. Di concerto con lo Stato maggiore dell’Esercito, la scultrice Rosa Imperato, diplomata alla scuola dell’arte della medaglia della Zecca dello Stato, ha interpretato l’iconografia del soldato italiano che richiama alle armi, un giovane fante sulle montagne già infiammate dalla guerra, tratto dalla copertina del periodico La tradotta della 3ª armata pubblicato il 6 giugno 1918. Le medaglie al verso portano il logo che accompagna le iniziative ufficiali dell’Esercito per le celebrazioni del centenario.

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La fase artistica è iniziata con il bozzetto preparatorio in base al quale è stato modellato il bassorilievo in creta, propedeutico alla realizzazione del gesso e successivamente del punzone e del conio. Editalia ha avuto l’opportunità di essere presente in due delle principali tappe della staffetta che ha rievocato il flusso di avvicinamento a Trieste, esponendo la medaglia a Roma e a Trieste, la tappa conclusiva della manifestazione avvenuta il 24 maggio all’interno della mostra sulla Grande Guerra al palazzo della Regione.

IL CENTENARIO DELL’INGRESSO DELL’ITALIA NELLA GRANDE GUERRA Il 2015 è per l’Italia l’anno di inizio delle celebrazioni del centenario della prima guerra mondiale. Il 24 maggio 1915 il nostro paese dichiara guerra all’Austria-Ungheria, per compiere l’atto finale di liberazione riconquistando i territori di Trento e Trieste, talché il conflitto del 19151918 è anche noto come «quarta guerra d’indipendenza». Il recto della medaglia commemorativa reca l’immagine del soldato che chiama alle armi; al verso, il logo ufficiale dell’Esercito per la commemorazione del centenario: una strada tutta italiana, in fondo la testa del soldato con l’elmetto che evoca le montagne su cui fu combattuta la nostra guerra e su cui tanti giovani persero la vita. La medaglia è stata coniata in oro, argento e bronzo ed è in tiratura limitata. Per info: www.medagliagrandeguerra.it

Sopra da sinistra: il bozzetto preparatorio del Soldato che chiama alle armi e il gesso del diritto della medaglia. Sotto da sinistra: il dritto e il verso della coniazione in oro.

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A fianco: Un momento della commemorazione a Trieste. Sotto da sinistra verso destra: il capo di Stato maggiore dell’Esercito, generale C.A. Danilo Errico, il capo del V reparto dello Stato maggiore dell’Esercito, generale D. Giuseppenicola Tota, il vicecapo del V reparto dello Stato maggiore dell’Esercito, generale B. Paolo Raudino, visitano lo stand di Editalia a Roma.

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Mimmo Jodice

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ARTE IMPRESA

IL MOTORE DELL’ARTE DI SILVIA BOTTANI

FERRARELLE LA BOTTIGLIA È UN’ARTE

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Una lunga storia d’amore, quella tra Ferrarelle e l’arte contemporanea. Nata agli albori del secolo e destinata a un uso «igienico e terapeutico», come si confaceva ai costumi dell’epoca, l’acqua minerale comincia la sua storia di comunicazione avvalendosi di alcuni tra i grandi autori dell’illustrazione del tempo come Marcello Dudovich, sviluppando la propria immagine nei decennio dei favolosi anni venti. Dai trenta ai sessanta, il marchio rimane in silenzio per poi ripartire con una comunicazione tutta nuova che cavalca il boom economico e la nuova richiesta di acque minerali di qualità, puntando nuovamente sugli aspetti inerenti alla salute. Con gli anni settanta arriva anche il fortunato slogan «Liscia, gassata o… Ferrarelle? », declinato attraverso un felice spot che ritrae la Gioconda vivacizzata da una divertente cascata di riccioli. Gli anni ottanta e novanta sono costellati da importanti di comunicazione, sostenute anche dal ritorno alla proprietà italiana del marchio, rinvigorito dalla ritrovata identità nazionale. Tra storytelling e ironia, i valori del marchio vengono raccontati con un’attività articolata e proficua, valorizzandone l’italianità, l’unicità – la celebre effervescenza naturale – e il gusto. I valori che hanno connotato Ferrarelle fin dagli esordi e una visione aziendale illuminata hanno fatto sì che il marchio abbia perseguito con costanza attività di mecenatismo e sponsorizzazioni. Tra gli interventi di sostegno più importanti ricordiamo il Teatro alla Scala, l’International Migration Art Festival, il MIA Fair di Milano e un lungo elenco di mostre ed eventi sul territorio nazionale e internazionale. Ma per raccontare una storia fatta di italianità, amore per il bello e cultura, quale modo migliore se non prendere l’elemento più iconico del marchio, ovvero la bottiglia, e trasformarlo in un oggetto di design? Nasce così l’idea dell’Art Collection Ferrarelle, in cui elemento più rappresentativo viene interpretato da grandi nomi dell’arte con-

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di energia con il suo segno arcaico e le figure quasi rupestri, mentre il 2014 è l’anno di Mimmo Paladino. L’artista sannita è già caro a Ferrarelle e l’imponente retrospettiva del 2011 presso Palazzo Reale di Milano, in occasione della quale l’artista ha ricreato la monumentale Montagna di sale già messa in scena a Gibellina nel 1990, ha visto tra i promotori e sostenitori anche il brand. Paladino crea per la capsule collection un’opera che contiene due figure ricorrenti della sua poetica, ossia la testa e il cavallo. Vale la pena anche ricordare che, in quest’occasione il progetto ha sostenuto l’associazione voluta dall’artista per la cura e la valorizzazione del rione Sanità a Napoli. Il successo dell’Art Collection decreta indubbiamente l’interesse del pubblico per il design e dimostra come il multiplo d’autore continui ad appassionare non solo il pubblico degli amanti dell’arte. In una certa misura, il multiplo rappresenta un ponte tra il mondo esclusivo del collezionismo e il mondo pop del prodotto di larga distribuzione: avendo la doppia funzione di valorizzare l’oggetto industriale rivelandone la matrice artigianale e l’intelligenza del concetto comunicativo (sovente offuscata dalla massività della distribuzione) e democratizzando l’idea dell’opera d’arte, contribuisce a creare esperienze di fruizione degli oggetti inaspettate, scompaginando le carte e riscrivendo le logiche di utilizzo, consumo, collezione. Un percorso stimolante per gli artisti e per i brand, con la benedizione di Duchamp, Warhol e Bruno Munari.

temporanea. Per l’occasione, la Platinum Edition viene concepita riprendendo l’elemento grafico del marchio e sviluppando gli aspetti ergonomici dell’oggetto, per arrivare a una forma sinuosa ed elegante senza essere altera. La creazione di Hangar Design è divenuta la «tela» per gli artisti che hanno interpretato cinque singole capsule collection da mille pezzi l’una, artisti accumunati dall’esperienza della transavanguardia e dalla matrice partenopea. Scelta, questa, tutt’altro che casuale ma che rappresenta la precisa volontà di omaggiare la città che ha dato i natali allo storico marchio d’acqua. L’Art Collection Ferrarelle debutta con Ernesto Tatafiore che crea Ferrarelle di giorno, di notte, sempre (2010), nella quale è riconoscibile un distintivo profilo di donna rosso, una figura pop dall’inconfondibile silhouette. A seguire, è la Napoli di Lello Esposito a trovare spazio sull’etichetta del marchio, con un raffinato Pulcinella (2011) dalla maschera blu e il cappello oro, simbolo ricorrente della pittura dell’artista e archetipo fondante della cultura partenopea. La classicità misteriosa e ammaliante che abita gli scatti di Mimmo Jodice diviene l’Atleta del 2012, collezione interpretata da uno dei più significativi autori della fotografia italiana, da sempre in viaggio con le proprie immagini in rigoroso bianco e nero attraverso il tempo e il Mediterraneo. Il 2013 è poi l’anno di Sergio Fermariello, già vincitore del premio Saatchi & Saatchi e presente alla Biennale di Venezia, che crea Guerrieri, carica

Carlo Pontecorvo

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Mimmo Paladino

Lello Esposito

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ARTE IMPRESA

IL MERCATO DELL’ARTE DI GIACOMO NICOLELLA MASCHIETTI

PICASSO DA RECORD L’ARTE VOLA

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Immaginate di avere a disposizione un miliardo di euro. Immaginate a questo punto quale cifra sareste disposti a spendere per un’opera d’arte. Adesso riflettete su questo dato: nel mondo esistono più di duemila miliardari in euro, alcune decine dei quali hanno più di cinquanta miliardi di patrimonio privato a disposizione (fonte Forbes, 2015). Ecco spiegata l’esplosione globale del mercato dell’arte, tornato ai livelli precrisi del 2007. Gli ultimi sei mesi hanno visto un incessante ripetersi di record alle aste e in fiera in diversi comparti, alla ricerca dell’estrema qualità, rarità e riconoscibilità delle opere. Arte contemporanea über alles, grandi performance dell’Ottocento francese, antico sonnecchiante. Orientarsi è da una parte complesso, ma in franchezza molto semplice se si seguono alcune linee guida fondamentali. Sia che si parli di portafogli a nove zeri sia che si vogliano investire poche migliaia di euro, le motivazioni che spingono collezionisti e mercanti sono le medesime da secoli. Venendo ai record, durante la tiepida serata dell’11 maggio scorso, al Rockefeller Center di New York, da Christie’s, è stato venduto il dipinto più caro di tutti i tempi (alle aste): con i suoi 179,365 milioni di dollari, Les femmes d’Alger di Pablo Picasso ha scalzato di misura il precedente record mondiale, i Tre studi di Lucien Freud di Francis Bacon, all’asta nel 2013 per 142,4 milioni di dollari. Il 10 novembre 1997, nell’eclatante vendita della collezione Victor and Sally Ganz, questo stesso dipinto del pittore spagnolo era stato battuto, sempre da Christie’s a New York, per 28 milioni di dollari, esclusi i diritti. Un mark up del genere non è cosa rara nell’investimento in arte a medio-lungo termine. Quello di Picasso non è l’unico record di stagione: nella stessa serata di maggio una scultura di Alberto Giacometti, L’homme au doigt, ha

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dell’arte, lo scorso marzo 2015 all’uscita annuale del suo report è stata fin troppa. La fascia alta del mercato gode di ottima salute, e continua a crescere. Gli auspici per i mesi a venire, specie per quel che riguarda casa nostra, seguono con ottimismo. Pensate al camino di Lucio Fontana venduto da Christie’s a Milano da un privato ligure. L’aveva scordato in cantina, acquistato negli anni Ottanta, e non voleva venderlo per meno di 80 mila euro. È stato battuto a oltre 1,6 milioni di euro. O, ancora, lo Scheggi bianco di Sotheby’s Milano, che ha varcato il milione all’asta in meno di un minuto. È evidente che gli anni Cinquanta e Sessanta sono la merce più richiesta dal mercato, quella che se avete in casa è il momento di vendere e che forse invece va acquistata con moderata cautela (ma occhio, ad esempio al Gruppo T, al Gruppo N, al Gruppo Zero, ai cinetici). E non dimentichiamo i multipli, le edizioni, la fotografia, che consentono di acquistare un lavoro di un grande maestro senza esporsi con una fortuna. Occorre, infine, ricordare anche la prossima (e prima, per la nuova gestione) vendita di Finarte, in programma questo autunno. Il momento è quello giusto, potrebbero esserci sorprese interessanti.

realizzato 141,285 milioni di dollari. Anche 14 tagli su rosso di Lucio Fontana, il solo rappresentate italiano in catalogo, hanno cambiato proprietario per 16,405 milioni (stima 10-15 milioni). Cifre stratosferiche che solo New York, Londra e Hong Kong riescono a raggiungere (o il Tefaf di Maastricht se si parla di fiere), ma che permettono qualche riflessione sull’andamento generale del mercato. A novembre 2014, circa mezzo miliardo di dollari di fatturato in una sola sera sembrava una soglia insuperabile, ma proprio qualche settimana fa anche questa cifra è stata abbondantemente varcata. La fame dei collezionisti, soprattutto asiatici, non si ferma e continua a immettere carburante in questo mercato che più di ogni altro permette di alienare con impressionante velocità intere fortune. E proprio un magnate cinese del cinema asiatico, da Sotheby’s, si è accaparrato un potente Van Gogh, L’allée des Alyscamps del 1888, per 66 milioni di dollari. Nella stessa vendita del 5 maggio, con sei capolavori all’incanto, Monet da solo ha incassato ben 115,378 milioni, quasi un terzo del fatturato totale dell’asta. Insomma, il trend è decisamente positivo e la prudenza intonata da Clare McAndrews, la più importante studiosa di mercato

Pablo Picasso, Les femmes d’Alger, 1955

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Marilena Pasini vive e lavora a Roma. Dopo la maturitĂ artistica, frequenta l'Accademia di Belle Arti. Lavora come disegnatrice di tessuti e come decoratrice di ceramiche artistiche. Inizia a pubblicare come illustratrice per bambini nel 1992 con Giunti-Lisciani, Giunti Editore, Mondadori, Allemandi & C, Nuove Edizioni Romane, Feltrinelli. Come autrice ha pubblicato con Vallecchi Editore, L'Acerba, Editori Riuniti, Sinnos. Per adulti collabora con Avverbi Editore, Nutrimenti, Oblique Studio & IFIX. Svolge laboratori di illustrazione per bambini e adulti presso biblioteche, musei, scuole. Come artista utilizza tecniche differenti: olio, matita, pastello, acquarello, collage, papercut. Negli ultimi anni si è dedicata alla realizzazione di libri d’artista.


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