Sofà 26/2016 - Quadrimestrale dei sensi nell'arte

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QUADRIMESTRALE DEI SENSI NELL’ARTE Anno X Numero 26/2016

INQUADRO ARTE E DESIGN FIORONI L’ INCANTO DEL FURIOSO EVENTI MIART LA FIERA DEL CONTEMPORANEO / INTERVISTE MASSIMO VITALI, ANDREA VITALI, GUALTIERO MARCHESI FRESCHI DI CONIO LA BANCONOTA DA 50.000 LIRE / OPERE DI PREGIO ATENE 1896 / ILLUSTRIAMO VELASCO VITALI





LABORATORIO ITALIA Quando il design incontra l’arte e l’eccellenza delle botteghe italiane stimola la creatività dei nostri giovani artisti, nasce Inquadro. Questo nuovo progetto rappresenta la felice sintesi della filosofia che ispira tutta l’attività di Editalia nel mondo dell’arte: ricerca, qualità e tradizione, accentuando ancor più il tema dell’accessibilità. Inquadro si pone infatti come una collezione in divenire, un percorso tra tecniche e artisti che consente di costruire la propria collezione personale, dall’arte del vetro al mosaico, dalla grafica alla fotografia, per citare solo alcune delle tecniche artistiche utilizzate. Il grande potenziale di questo nuovo progetto è stato molto apprezzato fin dalle prime presentazioni, da Multiplied Fair a Londra al Miart di Milano, la fiera in cui moderno e contemporaneo dialogano con continui rimandi e con echi più o meno espliciti: un’occasione per riflettere sulla continuità fra passato e presente che abbiamo sentito molto congeniale. Sempre sul versante artistico Editalia rende omaggio all’Orlando furioso, che quest’anno compie cinquecento anni dalla prima edizione pubblicata a Ferrara, con una serie di otto opere uniche e un multiplo in corso di realizzazione affidati all’esuberante fantasia di Giosetta Fioroni, icona dell’arte pop italiana. Con lo sguardo rivolto alle Olimpiadi di Rio, inoltre, dedichiamo ai centoventi anni delle Olimpiadi un bel progetto editoriale in partnership con il Comitato Olimpico Internazionale, che per la prima volta ha autorizzato una Zecca, la nostra, a riconiare le due facce della prima medaglia olimpica del 1896, per il ricco volume fotografico che ci riporterà alle emozioni vissute durante i giochi dell’era moderna. In questo numero infine diamo spazio alla prima delle nuove banconote coniate che celebrano le Lire degli anni settanta. Continua la collaborazione privilegiata con la Banca d’Italia dove sono custodite le banconote «numero zero», ossia gli originali su cui furono apposte le firme del Cassiere e del Governatore per approvazione, oggi in bella mostra nelle vetrine del Museo della Banconota. È motivo di orgoglio per noi sapere che quei «pezzi da museo», gelosamente custoditi in un luogo normalmente inaccessibile al pubblico, spesso incompresi nel loro valore artistico, possano oggi essere divulgati e messi a disposizione dei nostri collezionisti. Marco De Guzzis Amministratore delegato Editalia


Sommario INCIPIT FOTORACCONTO Pasquale Palmieri QUADRIMESTRALE ANNO X NUMERO 26 Autorizzazione del Tribunale ordinario di Roma n° 313 del 3.8.2006 Sofà è una pubblicazione quadrimestrale di Editalia Gruppo Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato viale Gottardo 146, 00141 Roma Numero verde 800014858 – fax 0685085165 www.editalia.it Direttore responsabile: Flavio Arensi Coordinamento redazione: Francesca Ruggiero Impaginazione: Gabriele Gargioni (blossoming.it) sofa@meetmuseum.com Editalia Responsabile editoriale: Cecilia Sica Art direction: Daniela Tiburtini Redazione: Laura Orbicciani Hanno collaborato: Arianna Beretta, Paolo Bonari, Silvia Bottani, Giulia Dal Mas, Rossella Farinotti, Marcello Grassi, Giacomo Nicolella Maschietti, Massimo Mattioli, Rossella Neri, Laura Orbicciani, Pasquale Palmieri, Demetrio Paparoni, Laura Posadinu, Simone Raddi, Lorenzo Respi, Francesco Sala, Enrico Stefanelli, Giuseppe Tresca, Velasco Vitali, Alberto Zanchetta. Stampa: Varigrafica, Alto Lazio Srl, Nepi (Vt) Redazione Via La Marmora, 2 20831 Seregno telefax +39 0362 1793903 www.meetmuseum.com Pubblicità e marketing: info@meetmuseum.com In copertina: Inquadro, edizione Editalia Numero chiuso in redazione il 09.05.2016 Sofà è visibile online sul sito www.editaliarte.it Responsabile trattamento dati Francesca Ruggiero. L’Editore è a disposizione degli aventi diritto con i quali non è stato possibile comunicare, nonché per eventuali omissioni o inesattezze nella citazione delle fonti. I materiali inviati non verranno restituiti. Tutti i diritti sono riservati.

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NOTIZIE Italia Mondo

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COPERTINA ULTIMA EDIZIONE Inquadro crea la tua collezione d’arte ECCELLENZA ITALIA Cento anni di design per il nuovo museo

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PRIMO PIANO EVENTI Anish Kapoor & Rembrandt A Miart fra arte, design e nuove generazioni GRANDI MOSTRE L’arte contemporanea di Piero Ruffo e la breve storia del resto del mondo

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VISTI DA VICINO MAESTRI CONTEMPORANEI Le ombre chiare di Massimo Vitali NUOVE GENERAZIONI Scultura come trappola o come immaginazione CONVERSANDO SUL SOFÀ La speranza di verità di Andrea Vitali APPUNTAMENTO CON LA STORIA Umberto Eco illuminato

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16 BEL PAESE CARTOLINE La Centrale dei capolavori antichi LUOGHI DEL BELLO Quando l’arte ricostruisce il tempo

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FATTI AD ARTE TEMPO PRESENTE Giosetta nel mondo incantato del Furioso FRESCHI DI CONIO 50.000 motivi per appassionarsi alla lira OPERE DI PREGIO Atene 1896 dalla tradizione al futuro

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IN SERIE IL MOLTIPLICAUTORE L’arte per tutti dei fratelli Chapman IL LIBRAIO D’ARTE Transavanguardia e letteratura fatta arte MULTIPLI IN VETRINA Le figure senza tempo di Fornasetti

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ARTE IMPRESA

IL MOTORE DELL’ARTE Cologni, la fondazione dei mestieri COMUNICARE AD ARTE L’artista Gualtiero Marchesi IL MERCATO DELL’ARTE Inversione di tendenza?

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ILLUSTRIAMO Velasco Vitali

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FOTO RACCONTO

COLPO D’OCCHIO DI FLAVIO ARENSI

PASQUALE PALMIERI Pasquale Palmieri vive e lavora a Benevento, dove alla fotografia affianca il mestiere di architetto. Nella perenne ambiguità culturale di chi, come architetto, consuma immagini cercando di produrre spazi per l’uomo, avviene l’incontro con l’artista, l’artefice. Per anni racconta il lavoro di un artista conterraneo, Mimmo Paladino, fra i più inclini a confrontarsi con lo spazio, con il quale partecipa anche alla realizzazione dell’Hortus Conclusus, una delle più singolari fusioni di arte e architettura. Nella fotografia predilige la rappresentazione dello spazio e la documentazione dell’art in progress, in tutte le sue forme, da quelle figurative al cinema, realizzando numerose mostre e lavorando a diverse pubblicazioni.

Desolate, 2013 Stampa su carta cotone, 90 x 60 cm pasqualepalmieri.it


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NOTIZIE

ITALIA DI SIMONE RADDI

EADWEARD MUYBRIDGE Milano, Galleria Gruppo Credito Valtellinese, fino al 31 luglio 2016 Per la prima volta in Italia una mostra su Eadweard Muybridge (1830-1904), il fotografo inglese che «inventò» la fotografia in movimento, influenzando con le sue immagini Degas e gli artisti del suo tempo e anticipando la nascita del cinema. Oltre sessanta lastre e quindici stampe originali, provenienti dalla Welcome Library di Londra, per ripercorrere le ricerche pionieristiche di Muybridge, che presero le mosse dall’osservazione del movimento degli animali per poi arrivare a concentrarsi su quello umano.

EDWARD HOPPER Bologna, Palazzo Fava, fino al 24 luglio 2016 La mostra di Bologna darà conto dell’intero arco temporale della produzione di Edward Hopper, dagli acquerelli parigini ai paesaggi e scorci cittadini degli anni cinquanta e sessanta, attraverso più di sessanta opere, tra cui celebri capolavori come South Carolina Morning (1955), Second Story Sunlight (1960), New York Interior (1921), Le Bistro or The Wine Shop (1909), Summer Interior (1909), interessantissimi studi che celebrano la mano di Hopper, superbo disegnatore. Un percorso che attraversa la produzione e tutte le tecniche di un artista considerato oggi un grande classico della pittura del Novecento.

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CORREGGIO E PARMIGIANINO. ARTE A PARMA NEL CINQUECENTO Roma, Scuderie del Quirinale, fino al 26 giugno 2016 Alle Scuderie del Quirinale va in scena la straordinaria stagione dell’arte parmense della prima metà del Cinquecento, a sottolineare come la grande arte del Rinascimento italiano non si limitò al perimetro dei tre centri principali di Firenze, Venezia e Roma. Questo periodo di splendore si deve a due protagonisti indiscussi, Correggio e Parmigianino. Del primo, che si stabilì a Parma all’apice della carriera e vi rimase per il resto della vita, saranno presentati non solo una selezione di capolavori che mostra la carica emotiva e la gamma di sentimenti espressi dal Correggio pittore di immagini religiose, ma anche le opere di soggetto mitologico, che ebbero un’enorme influenza sugli artisti successivi. Così pure di Parmigianino, attivo a Roma e a Bologna, saranno esposte non solo le opere di soggetto religioso e mitologico, ma anche gli spettacolari risultati ottenuti nel ritratto.

ALDO MANUZIO. IL RINASCIMENTO DI VENEZIA Venezia, Gallerie dell’Accademia, fino al 19 giugno 2016 Una mostra originalissima, la narrazione per immagini della vita dell’uomo che ha inventato il libro moderno e il concetto stesso di editoria, facendo di Venezia la capitale internazionale della stampa. Attraverso capolavori assoluti di Giorgione, Carpaccio, Giovanni Bellini, Cima da Conegliano, Tiziano, Lorenzo Lotto, Pietro Lombardo, l’esposizione racconta come il progetto di Aldo Manuzio e i suoi preziosi libri si intrecciarono con un’arte nuova, nutrita dalla pubblicazione dei classici greci e latini. Una vera e propria età dell’oro, durante la quale il libro si rivelò capace di trasformare il mondo dando vita al Rinascimento di Venezia.

LA MEMORIA FINALMENTE. ARTE IN POLONIA Modena, Galleria Civica, Palazzina dei Giardini, fino al 5 giugno 2016 La ricerca di un’identità nel presente, che includa anche la promessa del futuro, è il leitmotiv di questa mostra che prende simbolicamente in prestito il titolo di una poesia scritta da Wisława Szymborska, scrittrice polacca premio Nobel per la letteratura nel 1996. Quindici autori selezionati – sulla scorta di tre generazioni di artisti polacchi nati tra la fine degli anni cinquanta e la prima metà degli anni ottanta – presentano fotografie, pittura, collage, sculture, disegni, installazioni e video. Il percorso espositivo racconta il delicato passaggio tra passato e futuro vissuto dal paese, mostrando lo scarto tra eredità culturali radicate e invenzione di un’arte nuova.

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ROMAN SIGNER. FILMS AND INSTALLATIONS Nuoro, Museo MAN, fino al 3 luglio 2016 La prima mostra personale che un museo italiano dedica allo svizzero Roman Signer presenta oltre duecento film in Super 8, cioè l’intera produzione realizzata nel corso della sua attività, più installazioni inedite. Delineando il percorso di un artista capace di creare un nuovo concetto di scultura tramite azioni ed esperimenti, quasi sempre solitari, per i quali utilizza oggetti d’uso comune (ombrelli, tavoli, stivali, sedie, cappelli, biciclette) attivati tramite polveri da sparo o da forze naturali, come il vento o l’acqua. I processi di esplosione o di collisione che ne seguono si tramutano in esperienze estetiche visivamente ed emotivamente coinvolgenti.

ROMA ANNI TRENTA Roma, Galleria d’Arte Moderna, fino al 30 ottobre 2016 Le prime edizioni storiche delle Quadriennali d’Arte Nazionale, negli anni trenta del Novecento nel Palazzo delle Esposizioni di Roma, sono state un momento fondamentale per la storia della collezione della Galleria d’Arte Moderna che, in quella occasione, si è arricchita di acquisizioni di eccezionale importanza ancor oggi pregio della raccolta. Roma anni trenta. La Galleria d’Arte Moderna e le Quadriennali d’arte 1931 - 1935 - 1939 è dedicata alle opere acquistate dal governatorato di Roma in quelle importanti manifestazioni espositive, destinate a rappresentare l’arte italiana contemporanea nelle sue diverse tendenze.

DOMON KEN. IL MAESTRO DEL REALISMO GIAPPONESE Roma, Museo dell’Ara Pacis, fino al 18 settembre 2016 Con oltre settantamila scatti realizzati tra gli anni venti e gli anni ottanta e tanti volumi, articoli e commenti di critica fotografica, Domon Ken è considerato il maestro assoluto della fotografia giapponese, nonché il principale promotore del realismo come unico approccio possibile. Un percorso via via più definito, che lo ha visto passare dalla fotografia di propaganda durante la guerra alla fotografia come missione di vita, nella ricerca del suo Giappone: quello affascinante e silenzioso dei templi antichi, delle sculture buddiste, del teatro di burattini (in cui si rifugiò durante gli anni della guerra); quello seducente e vivo dei volti di personaggi famosi, ma anche quello umile di bambini di strada, fino alla miseria dei villaggi di minatori. Per approdare all’opera più sconvolgente e moderna, che mostra Hiroshima e le sue ferite ancora aperte.

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HELMUT NEWTON. FOTOGRAFIE Venezia, Casa dei Tre Oci, fino al 7 agosto 2016 Oltre duecento immagini di Helmut Newton, uno dei fotografi più importanti e celebrati del Novecento. L’esposizione, curata da Matthias Harder e Denis Curti, raccoglie le immagini di White Women, Sleepless Nights e Big Nudes, i primi tre libri di Newton pubblicati alla fine degli anni settanta, volumi oggi considerati leggendari e gli unici curati dallo stesso Newton. Nel selezionare le fotografie, Newton mette in sequenza, l’uno accanto all’altro, gli scatti compiuti per committenza con quelli realizzati liberamente per se stesso, costruendo una narrazione in cui la ricerca dello stile, la scoperta del gesto elegante sottendono l’esistenza di una realtà ulteriore, di una vicenda che sta allo spettatore interpretare.

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NOTIZIE

MONDO DI SIMONE RADDI

MIMMO PALADINO: PRESENT INTO PAST Grand Rapids, MI, Usa, Frederik Meijer Gardens & Sculpture Park, fino al 14 agosto 2016

CARAVAGGIO E I CARAVAGGESCHI Tokyo, The National Museum of Western Art, fino al 12 giugno 2016

A dieci anni dall’ultima esposizione americana, la Frederik Meijer Gardens & Sculpture Park di Grand Rapids nel Michigan ospita il nuovo progetto espositivo di Mimmo Paladino, tra gli artisti più innovativi del XX secolo e figura centrale del movimento della transavanguardia. In mostra, lavori del suo recente passato e inediti. Fulcro dell’esposizione, la grande installazione delle Dormienti, composta da trentadue figure in terracotta a grandezza naturale sparse sul pavimento della galleria, ciascuna in posizione fetale, completamente reclinata.

La ricca mostra di Tokyo presenta undici dei massimi capolavori di Caravaggio, provenienti dalle maggiori collezioni del mondo, tra i quali la Cena in Emmaus, il celebre Bacco, il Giovane con canestro di frutta, il Fanciullo morso da un ramarro e Narciso. Ospita inoltre anche opere di Orazio Gentileschi, Georges de La Tour, Jusepe de Ribera, Simon Vouet e altri artisti che hanno risentito delle innovazioni stilistiche e iconografiche dell’artista lombardo.

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MOHOLY-NAGY: FUTURE PRESENT New York, Salomon R. Guggenheim Museum, fino al 7 settembre 2016

PAUL KLEE. L’IRONIE À L’ŒUVRE Parigi, Centre Georges Pompidou, fino al 1° agosto 2016

Il Guggenheim di New York presenta la prima retrospettiva statunitense dell’opera di László Moholy-Nagy (1895-1946). Oltre duecentocinquanta collage, disegni, film, quadri, fotogrammi, fotografie, fotomontaggi e sculture provenienti da collezioni pubbliche e private in Europa e negli Stati Uniti, per rivelare un artista utopico che credeva che l’arte potesse operare al fianco della tecnologia per il miglioramento dell’umanità. Un’opportunità unica per esplorare la carriera di questo artista assolutamente poliedrico, che fu anche un insegnante influente al Bauhaus, un prolifico scrittore e più tardi il fondatore dell’Institute of Design di Chicago.

Il Centre Pompidou propone un nuovo attraversamento del lavoro di Paul Klee quarantasette anni dopo l’ultima grande retrospettiva francese. Con circa duecentocinquanta opere dalle più importanti collezioni internazionali, dal Centro Paul Klee e da collezioni private, l’esposizione propone una visione senza precedenti di questa figura unica e singolare della modernità e dell’arte del XX secolo. La mostra si snoda attraverso sette sezioni che seguono passo passo l’evoluzione di Klee, portando all’attenzione del pubblico una selezione prestigiosa di dipinti, sculture, disegni e dipinti su vetro di cui la metà non è mai stata esposta prima d’ora.

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COPERTINA

ULTIMA EDIZIONE DI DANIELA TIBURTINI

INQUADRO CREA LA TUA COLLEZIONE D’ARTE Con la collezione dei mestieri dell’arte, Editalia unisce l’arte e il design alla sapienza dei maestri artigiani Inquadro è il nuovo progetto di Editalia nato dall’esperienza dei multipli artistici, che negli anni hanno visto Paladino, Accardi, Fioroni, Isgrò, Tilson, Kounellis e tanti altri partecipare al rilancio dell’arte moltiplicata nel nostro paese. Nel presentare la formula di Inquadro, l’amministratore delegato della società, Marco De Guzzis, ha sottolineato la continuità con il passato, ma allo stesso tempo la portata innovativa della proposta che, pur tornando a far dialogare gli artigiani con gli artisti, introduce una serie di importanti novità. Dottor De Guzzis, come descrive Inquadro? Inquadro è un progetto di design dedicato all’arte. Il suo intento è quello di coniugare l’immaginario degli artisti, per lo più giovani emergenti, con quello dei maestri artigiani: il risultato è un’originale collezione di design «componibile». Questo aspetto è forse il più curioso, perché lascia libertà al collezionista di organizzare il suo «personale» Inquadro. Non si tratta quindi di un unico lavoro? No, sono tante piccole opere d’arte che possono essere acquistate singolarmente affinché ciascuno possa decidere come assemblarle e adattarle alle proprie esigenze di gusto e di arredamento. Il carattere della collezione è elastico e modulare, si scompone e ricompone all’infinito.

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Massimo Dalla Pola, Italicus, ricamo

Perché la scelta del nome Inquadro? La forma quadrata inquadra e definisce uno spazio preciso. Tutte le opere del progetto hanno la medesima forma e alloggiano in una cornice ugualmente quadrata e non scorporabile, in quanto parte dell’opera d’arte stessa. Il packaging, dunque, non è solo una confezione che presenta le opere.

Nicola Vinci, Latte e polline, fotografia

No, è piuttosto lo scrigno di ciascuna opera: una volta scoperto il prezioso contenuto lo completa come parte iconografica; nel contempo custodisce la storia del mestiere, dell’artista, dell’opera e della bottega che l’ha realizzata, si trasforma e diventa cornice da appendere. Perfino la confezione in cui il collezionista riceve l’opera, o le opere, che

Guido Pigni, Cane dove sei?, acquaforte e acquatinta

acquista, è studiata come elegante valigetta art-à-porter. Editalia è solita lavorare con autori ormai affermati. Qui invece si coinvolgono giovani artisti insieme a maestri artigiani: perché? L’approccio di Inquadro è sperimentale, stimolante, sinergico: il giovane artista diventa interprete del mestiere ma anche

Marco Santi, Andamento 1, mosaico

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Davide Benati, Oasi dell’acqua amara, acquatinta

viceversa: a volte è il mestiere che cerca l’interprete adatto. È forte la consapevolezza che il bagaglio esperienziale degli artigiani serva ai giovani artisti per crescere. Ne siamo convinti e per ora ci pare che il connubio abbia dato ottimi frutti. Come avviene il contatto con l’artigiano? Per quanto ci riguarda si tratta di rapporti già consolidati: sono le stesse realtà

Paolo Bini, White Monochrome, ceramica

che lavorano con noi al progetto dei multipli d’arte. Abbiamo chiesto loro di collaborare e assistere gli artisti, mettendo a disposizione un patrimonio di maestria ed esperienza, contribuendo alla realizzazione dell’opera fin dalle fasi ideative. Invece ai giovani autori cosa chiedete? Lo sforzo di muovere la propria poetica all’interno di tecniche artistiche diverse

Anna Caruso, Parlano di me, fotoceramica

da quelle che usano normalmente, entrando nelle botteghe artigiane per realizzare un’opera nuova rispetto al loro percorso consueto. Perché mettere in relazione il lavoro dell’artista e l’artigiano? L’obbiettivo è raccontare o far scoprire i mestieri dell’arte a chi ancora non li conosce, in un incontro ideale fra artista e

Rosa Imperato, Puzzle, fusione

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Paolo Bini, Anna Caruso, Bottega d'arte ceramica Gatti, Faenza

Davide Benati, Guido Pigni, Laboratorio d'arte grafica, Modena

Rosa Imperato, De Rosa Fusioni, Marcianise

Marco Santi, Gruppo Mosaicisti Ravenna

Nicola Vinci, Fine Art Printed, Roma

Massimo Dalla Pola, Brand Solvers, Milano

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artigiano: uniamo il saper creare e il saper fare alla nostra capacità di rendere questi oggetti un’esperienza di design. Pensate che il numero delle opere possa aumentare nel tempo? Certo, è facile immaginare il coinvolgimento di nuovi artisti per incrementare l’offerta generale dei soggetti e delle tecniche artistiche, a ragione di questa natura modulare dell’iniziativa. È prevista una tiratura limitata o si tratta di una produzione aperta? Ogni lavoro, firmato singolarmente dall’artista, è disponibile in una tiratura

di centoventicinque esemplari in numeri arabi e dieci in numeri romani. I multipli d’arte sono per definizione e tradizione in tiratura limitata, perché in questo modo se ne tutelano il valore e l’esclusività. Ci sarà, come per il progetto dei multipli d’arte già realizzati, una certificazione di Editalia? Certamente sì, prevediamo una certificazione di garanzia con tutte le caratteristiche dell’opera che ne attesti autenticità e tiratura. Quando Editalia produce un’opera multipla stabilisce un prezzo che tie-

ne conto della quotazione del singolo artista e delle necessità tecniche: perché in questo caso, invece, si è scelto di offrire ogni singolo elemento a un prezzo unico? Il vero valore è dato dalla collezione: le arti e gli artisti partecipano a un messaggio corale, sono pienamente consapevoli del fatto che le loro opere sono parte di un’opera più grande, come tasselli di un mosaico che ogni singolo collezionista assembla. È giusto che il prezzo non cambi, mentre si differenziano i soggetti e le tecniche.

UNA COLLEZIONE D’ARTE TUTTA DA COMPORRE Nel versatile mondo di Inquadro trovano posto artisti provenienti da tutta Italia e maestri artigiani che vantano grande esperienza nel campo di mestieri e tecniche artistiche che rendono famoso nel mondo il Made in Italy, dove tradizione e sperimentazione vanno di pari passo. Il Laboratorio d’arte grafica di Modena, stamperia d’arte specializzata in calcografia, ha realizzato con le antiche tecniche dell’acquaforte e dell’acquatinta Cane dove sei? di Guido Pigni e Oasi dell’acqua amara di Davide Benati. Omaggio a una tecnica di illustre tradizione in Italia è il anche il mosaico Andamento 1 di Marco Santi, fondatore e presidente del Gruppo Mosaicisti Ravenna, che ha personalmente composto ognuno dei singoli pezzi. Rosa Imperato, della Scuola dell’Arte della Medaglia della Zecca dello Stato, ha modellato Puzzle in gesso e in bronzo con la difficile tecnica della fusione a cera persa. La Bottega Gatti di Faenza ha supportato Paolo Bini per White Monochrome e Anna Caruso per Parlano di me, la prima opera ottenuta in ceramica con la tecnica tradizionale della doppia cottura da un calco di mano dell’artista, la seconda con la moderna innovazione della fotoceramica. Carica di impegno civile è l’opera Italicus di Massimo Dalla Pola, ispirata a fatti drammatici della storia italiana; il ricamo in cui è intessuta è stato realizzato dalla ditta milanese Brand Solvers. Di grande impatto visivo è Latte e polline, una rosa immersa nel latte immortalata dalla fotografia di Nicola Vinci e impressa con stampa fine art. Infine, presso la storica fornace Ars di Murano è in corso di realizzazione l’opera Vetroquadro del maestro vetraio Cristiano Toso. Ogni opera misura 15 x 15 centimetri ed è contenuta nella scatola-cornice di 36 x 36 centimetri, tiratura 125 esemplari in numeri arabi e dieci in numeri romani. Il collezionista trova sul coperchio una sintetica descrizione della tecnica, dell’opera e della bottega o del laboratorio che l’ha prodotta, oltre ad alcuni cenni biografici sull’artista. Il coperchio, opportunamente voltato per contenerla, è predisposto per appendere l’opera.

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COPERTINA

ECCELLENZA ITALIA DI ARIANNA BERETTA

CENTO ANNI DI DESIGN PER IL NUOVO MUSEO Il Museo del Design ha trovato casa a Milano. La collezione unica e preziosa di Raffaello Biagetti è ora in via Borsi, ospitata in un edificio fatto di luce, vetro e acqua, grazie a Musei Italiani, una realtà che promuove il patrimonio culturale italiano, facendo ricerche sui giacimenti esistenti e coinvolgendo aziende e istituzioni per creare un sistema di impresa e valore. La storia del museo inizia negli anni ottanta del secolo appena trascorso. Fin da subito è chiaro qual è la direzione da prendere: viene dato un taglio museale alla collezione e Biagetti chiama professionisti come Giovanni Klaus Koenig, architetto, designer, storico dell’architettura e già condirettore di Casabella: lo affiancano altri due nomi della storia del design, Giuseppe Chigiotti e Filippo Alison. Il team curatoriale termina il suo lavoro nel 1988, anno della fondazione del museo, presentando una collezione in grado di ripercorrere attraverso centosessanta pezzi i momenti fondamentali della nascita e dell’evoluzione del design, dalla rivoluzione industriale di fine Ottocento agli inizi degli anni ottanta del Novecento, dall’art nouveau a Sottsass, passando per le avanguardie russe, la Germania del Bauhaus e i fertili anni cinquanta italiani. Se la curatela delle collezioni viene affidata a grandi nomi del design, non da meno sono i professionisti interpellati per l’allestimento della struttura scelta per ospitare la collezione, che si trovava a Russi, in provincia di Ravenna. Il progetto scenografico

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originale nasce da un suggerimento di Gae Aulenti e viene sviluppato da Piero Castiglioni con un’illuminazione a «cielo stellato» che esalta la bellezza e le linee dei singoli pezzi in mostra. All’inizio degli anni novanta, Ettore Sottsass e Johanna Grawunder disegnano il padiglione di ingresso al museo, un’architettura che ospitava un mosaico appositamente realizzato. Sottsass è una figura molto importante per l’evoluzione del museo, che intraprende un confronto continuo con autori e critici tra cui Ignazio Gardella, Dino Gavina, Lisa Ponti, Gaetano Pesce e Ron Arad. Una realtà unica in Italia che, grazie a Raffaello Biagetti e alla tenacia dei figli Alberto e Anna, è oggi un tesoro tutto da riscoprire. Il «nuovo» museo, che ha preso il nome di Museo del Design 1880-1980, è stato presentato in anteprima nell’aprile dello scorso anno, in occasione della settimana del Salone del Mobile. Parte della collezione venne allora ospitata a Palazzo Mezzanotte, già sede della Borsa milanese, per la mostra 1880-1980: A Century of Fine Art, che si snodava attraverso un percorso di oltre cento pezzi. Oggi l’intera collezione, che Musei Italiani ha riscoperto e trasferito, si trova in via definitiva a Milano. L’allestimento ha mantenuto la coerenza con le linee guida curatoriali originali ed è stato consolidato l’assetto istituzionale della collezione, già parte dei giacimenti della cultura di Triennale Design Museum.

Il percorso conserva l’impianto scenografico originale, così come l’illuminazione progettata da Castiglioni: la luce cade sui singoli oggetti in mostra esaltandone le forme, le linee, i colori e la potenza. Emergono così, da aree sapientemente illuminate, come in una sorta di epifania, i pezzi unici e straordinari della collezione. Sulla scorta degli obiettivi originari dell’intero progetto, che voleva essere didattico, oltre che divulgativo, il percorso segue un itinerario cronologico raccontando la storia dell’arredo dal 1880 al 1980: si apre nel cuore dell’art nouveau, prosegue con la scuola viennese e il Bauhaus, percorre gli anni cinquanta – attraverso le opere più emblematiche dei grandi progettisti francesi, scandinavi, americani – e gli anni sessanta, che vedono protagonista il boom economico italiano. Le espressioni rivoluzionarie del design radicale e la nascita dei movimenti Alchimia e Memphis chiudono l’itinerario della mostra. Dai primi esemplari di prodotti in bilico tra artigianato e manifattura in serie, fino al 1980, il museo permette ai visitatori di riscoprire oggetti che hanno fatto la storia del design influenzando fortemente la produzione industriale e soprattutto il gusto e l’estetica contemporanea. Potremmo definire il museo una sorta di macchina del tempo attraverso cui osservare la nascita del design, che il primo curatore della collezione, Koenig, definiva «un pipistrello, metà topo e metà uccello», cioè una

GLI AUTORI ESPOSTI Antoni Gaudí, Michael Thonet, Charles Rennie Mackintosh, Adolf Loos, Joseph Hoffman, Walter Gropius, Jean Prouvé, El Lissitzky, Marcel Breuer, Ludwig Mies van der Rohe, Renzo Frau, Frank Lloyd Wright, Gerrit Rietveld, Peter Keler, Aleksandr Rodcenko, ˇ Gunnar Asplund, Mart Stam, René Herbst, Le Corbusier, Hans Coray, Gio Ponti, Giuseppe Terragni, Ignazio Gardella, Harry Bertoia, Carlo Pagani, Alvar Aalto, Charles Eames, Isamu Noguchi, Arne Jacobsen, Osvaldo Borsani, Ico Parisi, Eero Saarinen, Achille e Pier Giacomo Castiglioni, Carlo Scarpa, Gae Aulenti, Franco Albini, Marco Zanuso, Gaetano Pesce, Afra e Tobia Scarpa, Ettore Sottsass, Mario Bellini, Giancarlo Piretti, Vico Magistretti, Bruno Munari, Alessandro Mendini. disciplina alla ricerca di un nuovo equilibrio tra estetica e funzionalità, tra desiderio e processo produttivo, tra uomo e macchina. Il museo non si limita all’esposizione della collezione, ma sviluppa progetti e servizi ulteriori, tra cui uno spazio per la vendita di oggetti di design d’autore e una moltitudine di attività per la divulgazione del design, con il coinvolgimento delle scuole, l’organizzazione di concorsi e appuntamenti con i protagonisti del design contemporaneo, maestri che accompagnano i visitatori in uno straordinario viaggio nel tempo nel quale le storie personali si intrecciano a quelle delle icone in mostra.

A sinistra La poltrona Proust di Alessandro Mendini del 1978 A pagina 24, in alto Il divano Coronado e la poltrona Soriana (1966, 1970) di Afra e Tobia Scarpa, con l’ironico specchio Ultrafragola (1970) di Ettore Sottsass Foto di Delfino Sisto Legnani e Marco Cappelletti In basso Alcuni oggetti di Alvar Aalto che hanno fatto la storia del design: Paimio (1932), Aalto vase (1936), Carrello98 (1936), X600 (1954) e A805 (1954) Foto di Delfino Sisto Legnani e Marco Cappelletti

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PRIMO PIANO

EVENTI DI DEMETRIO PAPARONI

ANISH KAPOOR & REMBRANDT

La mostra Anish Kapoor & Rembrandt al Rijksmuseum di Amsterdam ha offerto l’opportunità di vedere dialogare con intensità straordinaria due grandi artisti dell’arte occidentale. Ad accomunare le opere in mostra è la rappresentazione del decadimento della carne e le implicazioni che questo ha con la cultura religiosa. Rappresentare il decadimento della carne comporta infatti sempre un riferimento al trascendente e alla trasformazione della materia. Una relazione che emerge nel ciclo di lavori di Anish Kapoor dedicati alla keriah (2014-2015) e nel trittico Internal Object in Three Parts, che si presentano come frammenti di carne viva. Come nei migliori Soutine e Bacon, vi si avverte il dolore della carne, forse ancor più che in Bacon. Qui il sangue si vede, dai brandelli di carne affiorano tendini, muscoli lacerati. Si avverte che, toccandoli, la mano rimarrebbe bagnata di sangue. Sono opere che vanno oltre il dolore: sono preghiera allo stato puro. Internal Object in Three Parts fa riferimento al racconto mitologico del satiro Marsia, scorticato vivo da Apollo, il dio delle arti e della musica, per non aver smentito chi considerava le sue doti musicali superiori a quelle della divinità. Apollo, che suonava la lira, sfidò Marsia a capovolgere il suo strumento e a cantare mentre suonava. Marsia, il cui strumento era il flauto, non fu in grado di sostenere la sfida. Aristotele identifica in questo mito la contrapposizione tra razionalità (Apollo) e istinto (Marsia).

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In questa pagina Uno scorcio del Rijksmuseum di Amsterdam in cui la celebre Ronda di notte di Rembrandt dialoga con le opere di Kapoor Foto Dave Morgan, courtesy dell’artista © Anish Kapoor, 2016 A pagina 26 Un’immagine dell’opera di Anish Kapoor My Red Homeland, del 2003: un’installazione in cera e vernice a base di olio, acciaio e motore del diametro di 12 metri nella suggestiva collocazione al Kunsthaus Bregenz, 2003 Foto Nic Tenwiggenhorn, courtesy Archivio Kapoor, Gladstone Gallery, Lisson Gallery © Anish Kapoor 2013 Nelle pagine seguenti Veduta d’insieme dell’installazione di Kapoor Internal Objects in Three Parts, del 2013-2015, realizzata in silicone e pigmenti Foto Dave Morgan, courtesy dell’artista © Anish Kapoor, 2016

Ugualmente, la poetica di Kapoor ha sempre affrontato il tema degli opposti, la loro capacità di convivere o di generare cambiamenti continui, anche violenti, e il racconto mitologico diviene per l’artista uno strumento di lettura della realtà contemporanea: «È interessante notare come i racconti mitologici pervadano la nostra psiche; per questo Freud ha sempre insistito nell’interpretare i comportamenti umani attraverso la mitologia», afferma Kapoor a commento di questa sua creazione. Osservare queste opere accanto ai dipinti di Rembrandt moltiplica l’emozione. Cambiano i linguaggi ma la potenza espressiva è la stessa. Non si può che prendere atto del fatto che rispetto agli artisti del passato quelli odierni possono solo essere diversi, né migliori né peggiori. Se proprio si vuol dare una valutazione di merito, il confronto è opportuno tra Rembrandt e gli artisti del suo tempo, e tra Kapoor e i suoi contemporanei. Sul piano formale, Internal Object in Three Parts presenta una forte relazione con i recenti quadri che Kapoor ha dedicato al tema della keriah, l’usanza ebraica di indossare un indumento strappato per la settimana che segue un funerale. La lacerazione delle vesti come una manifestazione del lutto trae origine dai racconti biblici: affrontando questo tema, Kapoor ha ricondotto il

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suo lavoro a una narrazione già presente nella storia dell’arte occidentale: il tema è rappresentato da molti artisti, tra cui Giotto nella Crocifissione della cappella degli Scrovegni. Kapoor riporta il rito al suo significato originario di lacerazione interiore, un dolore di cui la keriah è una manifestazione simbolica. Nelle masse rosse venate di bianco di Kapoor, questo significato profondo irrompe violentemente, squarciando la forma fissata dalla liturgia per continuare a trasmettere un contenuto nei secoli. Le due opere sono il naturale proseguimento di My Red Homeland, del 2003, una massa di cera rosso scuro plasmata da un braccio meccanico che non smette mai di modificare la forma della scultura, seppur con un movimento rotatorio lento, quasi impercettibile. Alla luce di questi nuovi lavori, appare ancora più chiaro il messaggio di My Red Homeland, ma anche di Svayambh (2009) e Shooting into the Corner (2009). Come quella di Rembrandt, l’arte di Kapoor è austera e ha implicazioni esistenzialiste. Le differenze tra i due sono evidenti, ma l’accostamento delle loro opere aiuta a capire che per quanto possano cambiare i linguaggi e le tendenze artistiche, molto rimane invariato nell’animo umano. Rembrandt rende la scena austera avvolgendola nelle tenebre. Nei suoi ritratti è come se volesse mostrare persone che affrontano l’esistenza aderendo ai rigidi principi del calvinismo. I soggetti ritratti in abiti scuri su sfondo scuro rafforzano il senso di austerità, alla cui resa concorre anche il particolare uso della luce. Il decadimento della carne che l’artista rappresenta nei suoi autoritratti usando strati di pittura spalmati sulla tela con il coltello fanno di lui il primo pittore esistenzialista della storia dell’arte. Come accade nel Cristo di Issenheim dipinto da Grünewald, in Kapoor non è la narrazione fissata dalla liturgia religiosa a coinvolgerci, quanto la potenza della forma e il modo in cui l’arte riesce a cogliere elementi capaci di insinuarsi nella nostra psiche. Tutto ciò si percepisce con forza dinanzi alle opere di Rembrandt e Kapoor in mostra nelle sale del Rijksmuseum di Amsterdam.

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Antony Gormley alla Galleria Continua

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PRIMO PIANO

EVENTI DI MASSIMO MATTIOLI

A MIART FRA ARTE DESIGN E NUOVE GENERAZIONI Quella che voleva essere una fotografia dello status quo, con una proiezione verso il futuro, diventa – per virtuosissime cause di forza maggiore – un bilancio. Già, perché proprio mentre cercavamo uno spazio nella fitta agenda di Vincenzo de Bellis per un’intervista sul significato odierno e sulle prospettive della rassegna milanese Miart, da lui diretta nel 2016 per la quarta volta, dagli Stati Uniti è giunta la notizia che cambia radicalmente le carte in tavola: De Bellis è stato nominato curatore per le arti visive del Walker Art Center di Minneapolis, prestigioso incarico che assumerà dall’estate 2016. Lo sguardo sulla fiera diventa quindi un’analisi che alla luce di questo ormai prossimo distacco risulta ancor più lucida, rilevando i tratti di un evento che da qualche anno – è sotto gli occhi di tutti – ha cambiato marcia e che ora si propone come hub per le tante dinamiche creative dell’inarrestabile «rinascenza» contemporanea milanese. Quest’anno ci sono grandi gallerie internazionali, da Gavin Brown e Michael Werner da New York a Blain Southern e Sadie Coles da Londra, per citare qualcuno. Miart entra nell’élite delle grandi fiere globali? Penso che sia così già da un po’. Gavin Brown e Sadie Coles tornano per il secondo anno, Michael Werner è con noi da tre edizioni. Tuttavia, la consapevolezza dell’affermazione di Miart si realizza pian piano, senza grida né ostentazione.

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EDITALIA A MIART La ventunesima edizione di Miart si è tenuta dal 7 al 10 aprile e ha superato i 45 mila visitatori, tra cui è cresciuta in maniera significativa la presenza di collezionisti (+15%) per lo più dall’estero. Anche l’attenzione dei giornalisti è aumentata in modo significativo, facendo registrare rispetto alla precedente edizione un incremento dell’11% di italiani e del 10% di stranieri, moltissimi inviati dal Far East (Corea, Hong Kong, Giappone), da Dubai come dagli Stati Uniti. Editalia ha partecipato per la prima volta a Miart e ha interpretato lo spirito fortemente dinamico della fiera esponendo nel suo stand i libri d’artista Don Chisciotte e Ombre e le opere di Inquadro, la nuova collezione dedicata ai mestieri dell’arte in cui sono stati coinvolti giovani artisti emergenti.

La novità più rilevante del 2016 è la sezione Decades, con gallerie storiche che presentano opere del Novecento. Questa opzione rafforza l’identità di Miart? In quale direzione? Miart è una fiera di arte moderna e contemporanea, la sua vocazione è far dialogare queste due anime. Decades fa questo, va dagli anni dieci agli anni novanta del secolo appena trascorso. Sottolinea come la progettualità delle gallerie non sia necessariamente una cosa solo contemporanea. I trend internazionali sembrano guardare all’America Latina come area emergente. Anche voi cercherete in qualche modo di seguirli? No. Penso che le identità debbano essere rispettate: Miart deve rappresentare Milano e se lo fa bene diventa attrattiva per gli altri. Chi viene qui vuole un’esperienza italiana. Certo, nel 2016 non si può pensare di non avere una fiera veramente internazionale, ma il sapore, per così dire, deve essere quello della città che ospita la manifestazione. Specie se questa città è piena di spunti come Milano.

Nella vostra storia recente si è fatto sempre più stretto il rapporto con la città, con la sua amministrazione e le istituzioni culturali. Come si è declinato quest’anno? Il programma è stato fittissimo, in un palinsesto quotidiano elaborato da Miart in collaborazione con l’assessorato alla Cultura, oltre cinquanta eventi in città tra realtà pubbliche e private. Milano vive un momento di grande dinamismo: nuovi spazi pubblici, importanti gallerie che si espandono o aprono nuove sedi. Come guardate a questo fenomeno? Ne siamo entusiasti e ci sentiamo anche un po’ responsabili. La città stessa è stata la miccia. Si percepiva una certa fame, anche se non era chiaro di cosa. Miart 2013 è stato l’innesco, che poi Expo ha alimentato con l’evocazione continua di un’aspettativa. Mantenere il fuoco acceso è il grande merito di una nuova generazione fatta di persone che si sono trovate insieme senza altro obiettivo che far succedere delle cose. Un sistema spontaneo che ha trovato regia nella settimana di Miart.

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Altra novità: il raddoppio a centomila euro del fondo di acquisizione Giampiero Cantoni. Rafforza il ruolo culturale della fiera, incoraggia le gallerie. È un incentivo, certamente, e ne siamo molto lieti. In un momento in cui altrove si taglia, noi cresciamo e raddoppiamo. Si può fare di più, ma come al nostro solito, senza rischiare di strafare. Senza alimentare polemiche o cercare di stilare inutili classifiche: come si colloca oggi Miart nella storica triade di fiere italiane costituita anche da Bologna e Torino? Vorrei che lo dicessero gli altri! Posso solo dare un dato numerico molto importante: siamo la fiera con il minor numero di gallerie, centocinquantaquattro. Tra queste, però, ve ne sono ben quaranta che partecipano anche ad Art Basel, a fronte di un numero decisamente più basso di coincidenze presso le altre due fiere. Se tutti concordiamo che Art Basel è un metro di giudizio oggettivo perché fuori scala e fuori concorso, il dato diventa significativo. Le grandi fiere internazionali creano network: senza citare Art Basel, Arco


A sinistra Lorenzo Scotto di Luzio, Untitled, 2016 Courtesy T293, Napoli In basso Il direttore Vincenzo De Bellis fotografato da Marco De Scalzi

raddoppia a Lisbona, Tefaf a New York. Presto potremmo vedere Miart alla conquista di nuovi spazi? Già da tre anni Fiera Milano è proprietaria anche di Cape Town Art Fair. Il Sudafrica è un territorio davvero molto interessante, ma non parlerei di conquista: Miart ha le sue radici a Milano, come dicevo prima, allo stesso tempo ritengo giusto

che l’azienda che ne detiene la proprietà si muova in altri mercati in crescita. Dopo Miart 2016 partirai per gli Stati Uniti per l’importante incarico di curatore al Walker Art Center di Minneapolis. Che succederà con la direzione di Miart? Sul futuro di Miart non posso e non voglio dir nulla. Posso solo ribadire che c’è grande sintonia e da tempo con

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Fiera Milano abbiamo delineato una strategia per il futuro. Penso che un direttore si debba giudicare rispetto al lavoro svolto, ma anche rispetto a ciò che lascia. Costruire per il futuro è stato uno dei punti fermi di questa direzione e quando sarà annunciato il nome del mio successore non potrete che darmi ragione.


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PRIMO PIANO

GRANDI MOSTRE DI FRANCESCO SALA

L’ARTE CONTEMPORANEA DI PIERO Affrontare la curatela e l’allestimento di una mostra su Piero della Francesca deve essere impresa particolarmente provante, se è vero – come scrisse Carlo Ginzburg – che davanti alla materia «il ricercatore ha l’impressione di trovarsi di fronte a una parete di roccia di secondo grado, liscia e senza appigli. C’è solo qualche chiodo sparso qua e là […] Per il resto congetture, notizie malsicure o indirette, nei casi migliori datazioni post quem o ante quem che lasciano aperti vuoti di decenni». Uno sporco lavoro, insomma, che qualcuno deve pur fare. Perché affrontare Piero significa fare i conti con un momento seminale, con un’alpha, una cerniera; con l’attimo certo non preciso ma espanso in cui processi durati decenni – se non secoli – arrivano al momento della propria autodeterminazione, alla coscienza di sé, allo stacco decisivo tra un prima e un dopo; tra una concezione della Storia, dell’Uomo e della loro rappresentazione e un’altra. Nel Quattrocento «molte cose giungono a maturazione, ma non comincia quasi nulla di nuovo», ricorda Arnold Hauser: ecco, l’irruzione di Piero sulla scena artistica del suo tempo rappresenta forse uno dei momenti di maggiore rotondità del frutto, finalmente turgido e perfetto, pronto per essere staccato e gustato. Due i modi possibili per affrontare la scalata rappresentata dalla conoscenza del peso di Piero sull’arte dei secoli a lui successivi, se torniamo alla metafora di Ginzburg.

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Si può scegliere di prendere la questione di petto, inerpicandosi sul sentiero più ripido e impervio di una grande monografica: mettendo quindi in preventivo di combattere con i pochi musei che si fregiano di opere autografe considerate, non a caso, fiori all’occhiello dai quali è impensabile separarsi; e provando – necessariamente grazie alle nuove tecnologie – a dribblare gli oggettivi impedimenti legati alla fruizione dei cicli di affreschi, inamovibili eppure così determinanti per leggere il tragitto creativo dell’artista. Oppure si può girare attorno alla montagna, passare da percorsi laterali più piani e ascendere in modo più comodo: muovendo giusto da un paio di quei chiodi sparsi qua e là per poi procedere sui sentieri più battuti e meno scoscesi della modernità e della contemporaneità. La mostra di Forlì opta prudentemente e saggiamente per la seconda ipotesi, proponendo quindi non una riflessione su Piero, quanto semmai da Piero: con un censimento di esperienze che si basano sull’esperienza del maestro per arrivare a tracciare rotte originali, spesso laterali,

altre volte parallele. Si parte allora dalla scena che il giovane artista trova al suo arrivo a Firenze, nel 1439: dalle tavolette di Beato Angelico oggi al Museo di San Marco, testo fondamentale per leggere come un secolo dopo la morte di Giotto e a pochi anni dalle teorie di Alberti si affrontassero spazialità e prospettiva nelle quinte architettoniche; e si arriva fino al Novecento: a quel ritratto di Silvana Cenni con cui Casorati rende omaggio diretto alla Madonna della misericordia del Museo Civico di Sansepolcro, uno dei quattro capolavori di Piero presenti in mostra. Passando da chi all’epoca ha ispirato (come Paolo Uccello) a chi si è probabilmente fatto ispirare (vedi Signorelli, che Luca Pacioli ci dice passò dalla bottega aretina di Piero), si arriva al capitolo più affascinante: proprio quello del debito da parte dei moderni, di cui l’episodio di Casorati è solo il momento più esemplificativo. In questo la mostra di Forlì presenta il suo valore scientifico più alto e ambizioso, nella volontà di percorrere a ritroso un filo che da grandi firme dell’ultimo secolo – e non solo – arriva fino alla Toscana del

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XV secolo. Fondamentale allora la rilettura del Piero dei Franceschi di Roberto Longhi, saggio che ormai un secolo fa proponeva sulle pagine dell’Arte tutta la modernità di Piero. C’è Piero, allora, nella misurata e composta teatralità scultorea delle figure di Antonio Donghi, Gregorio Sciltian e soprattutto di Virgilio Guidi; e ci sono i nobili eterei santi di Piero negli Apostoli dipinti quasi cinque secoli dopo da Felice Carena; c’è Piero negli enigmatici sguardi assorti colti da RAM e nelle oscure figurazioni di Balthus. C’è Piero, in termini di padronanza dell’inquadramento architettonico, anche in Giorgio Morandi e Ardengo Soffici – forse meno in Edward Hopper, pure presentato nella mostra di Forlì; e c’è giustamente in Piero quell’occhio, allenato allo studio alla prospettiva, che interessò Seurat e che ci fa spingere a individuare proprio nell’artista toscano uno spirito affine per sensibilità a quello del fotografo. C’è Piero, insomma, in questa mostra. Anche se a fronte dell’esiguità delle sue opere esposte si potrebbe ironizzare che c’è, eppure «non si vede». Ma sarebbe


una bugia, perché al netto di qualche piccola forzatura – ascrivibile al campo della suggestione però, non certo del volo pindarico fine a se stesso – la presenza è più che palpabile, come un profumo lasciato nella stanza da qualcuno che ci si aspetta di vedere appena girato l’angolo. E allora, più che della presunta assenza di Piero possiamo forse rammaricarci per un viaggio che saremmo stati curiosi di veder continuare, arrivando fino alla nostra contemporaneità. C’è Piero nell’arte di oggi? Se la risposta – come possibile se non probabile – è positiva, perché non chiedersi anche in che misura lo sia? Guardando a progetti più espliciti – pensiamo solo alla serie fotografica che Gianluigi Colin ha dedicato ai capolavori di Piero, o al Schrödinger’s Cat through Piero della Francesca Influence di Luca Pozzi – ma anche ad altri legami più allusivi ed enigmatici, e per questo forse ancora più emozionanti. Perché seguendo il profumo di Piero, sognando di riconoscerne l’ombra, potremmo imbatterci negli eleganti tableau vivant di Luigi Presicce, ma anche nella trattenuta e dolorosa fisicità delle videoinstallazioni di Bill Viola. E potremmo dunque convincerci che la sua eternità sia materia viva e vitale, eredità destinata a gemmazioni infinite.

In alto L’Imposizione del nome al Battista, dipinto realizzato da Beato Angelico nel 1429-1430 circa A destra Balthus, I gicatori di carte, 1950 A pagina 38, da sinistra Giovanni Bellini, Compianto, 1500; Piero della Francesca, San Girolamo e donatore, 1440-1450 circa A pagina 36 La Madonna della Misericordia di Piero della Francesca, realizzata tra il 1444 e il 1464 e conservata nel Museo Civico di Sansepolcro

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PRIMO PIANO

GRANDI MOSTRE DI CECILIA SICA

RUFFO E LA BREVE STORIA DEL RESTO DEL MONDO Breve storia del resto del mondo è il titolo della mostra che a Catania, presso la Fondazione Puglisi Cosentino, raccoglie dieci anni di lavoro di Pietro Ruffo. Un viaggio che attraversa i principi universali di tolleranza e democrazia e i processi di emancipazione culturale, sociale e religiosa da cui scaturiscono antichi e irrisolti conflitti tra i popoli, alla ricerca della definizione del tema della libertà in tempi e contesti diversi. Per realizzare le sue opere, Ruffo attinge a piene mani alla filosofia, all’antropologia, alla sociologia, alla storia e all’analisi del territorio, in una narrazione costante del concetto universale di libertà. Arte, politica, geografia, territorio: in una parola, la memoria della storia sembra animare le tue opere. Che cosa vuoi rappresentare? Quando mi occupo del tema della libertà, sul quale mi sono concentrato negli ultimi anni, è sempre presente la ricerca del significato di questa parola nei diversi periodi storici e in diversi luoghi. Sono nati così lavori ispirati ai filosofi dell’età della rivoluzione francese o al colonialismo o a periodi più recenti. La storia entra sempre nel mio lavoro, anche se, nell’analizzare tematiche contemporanee, il mio sguardo è un po’ distante, non è mai cronaca: ho difficoltà a ragionare sugli eventi del presente. Ho lavorato sulla primavera araba mentre tutto stava accadendo, ma ho trattato il progetto come se si riferisse a un caso di richiesta di libertà da un despota, da

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un regime autoritario, un evento storico che si è ripetuto tante volte. Nel caso specifico, però, la diffusione delle idee che hanno animato il cambiamento è avvenuta grazie a internet. I miei lavori nascono dalla passione verso la geografia, la storia, la politica e spesso da periodi all’estero, presso università o fondazioni. Con l’opportunità di approfondire situazioni interessanti. Nel 2011, per esempio, sono stato a Johannesburg, in Sudafrica, concentrandomi sui poster rivoluzionari contro l’apartheid, mentre nel 2010 alla Columbia University ho lavorato sui filosofi liberali americani e a Miami mi sono dedicato ai poster dei viaggi nello spazio realizzati durante la guerra fredda. Breve storia del resto del mondo è il titolo della mostra aperta a Catania fino al 10 luglio. Che cos’è il resto del mondo? La mostra è dedicata a realtà extraeuropee, ex colonie o paesi del mondo arabo, i cui sommovimenti, tuttavia, approdano fin sulle nostre coste. Questa «Breve storia del resto del mondo» parte dalla fine dell’Ottocento con le mappe dell’espansione coloniale europea, interrogandosi sul grado di libertà portato dall’Europa nel resto del mondo e sulle modalità in cui, al contrario, questa libertà è stata negata. L’osservazione prosegue con il Medio Oriente, dove i confini

nazionali sono stati tracciati con riga e squadra, con effetti nefasti. Si passa poi alle figure di filosofi di diverse epoche storiche, per arrivare all’ultima sala dove l’opera Madri del mar di Sicilia, realizzata per questa mostra, rappresenta giovani madri che attraversano il mare con i loro bambini per arrivare sulle coste siciliane. Le loro storie si intrecciano in una sorta di wall paper, su cui sono appesi cinque piccoli acquerelli delle coste su cui approdano i barconi. Sovrapposti alle immagini, i grafici rappresentano il numero delle vittime delle tragedie in mare. Quello che mi interessa è lo scollamento tra la rappresentazione degli eventi di morte e gli eventi stessi: l’iconografia dei grafici colorati, che siamo abituati a leggere come disegni astratti, in realtà contiene la tragicità della morte. Si va attraverso il mondo per ritornare a casa nostra. Il tema è quello della responsabilità delle nostre azioni, benché compiute duecento anni fa. Alla fine tutto ritorna sul nostro territorio. La mostra riassume dieci anni di attività artistica: quali sono i passaggi fondamentali del tuo percorso? Lavoro per cicli. Il primo lavoro è del 2005 e riguarda la tragedia di Beslan in Ossezia del Nord, dove nel 2004 in un attentato contro una scuola morirono in

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più di trecento, fra bambini e insegnanti. Gli osseti e gli ingusci, abitanti di due repubbliche caucasiche contigue ma ostili, si odiano da decenni e l’odio reciproco è all’origine dell’attentato. Ho mappato con grandi quadri le montagne che dividono l’Ossezia dall’Inguscezia per verificare se sul territorio c’erano tracce del conflitto, ma no, queste montagne sono silenziose, maestose e bellissime. Per visualizzare le tracce del conflitto ho realizzato una stanza con rotoli di carta su cui ho disegnato la scuola numero 1 di Beslan dopo l’attentato, completamente distrutta. Qui ho disegnato i bambini con i quali avevo giocato a Beslan mentre dipingevo alcune sale dell’ospedale donato dalla protezione civile italiana. Poi ho realizzato un lavoro sul Medio Oriente con grandi bandiere che esprimono il sentimento di autodifesa. Dal 2009 ho cominciato a ragionare sul tema della libertà, analizzando il pensiero dei padri ispiratori del pensiero liberale. Il primo filosofo che mi ha accompagnato in questo viaggio è Isaiah Berlin. Professore a Oxford dagli anni sessanta agli anni novanta, aveva individuato due modelli di libertà, quella positiva e quella negativa, dove i termini non rispondono a buono o cattivo ma richiamano i due poli di una batteria: la libertà negativa


è quella che emancipa da un despota, da regime autoritario, e riguarda prevalentemente l’individuo, mentre la libertà positiva è quella collettiva, che include e identifica un’intera comunità e rappresenta un modello più alto. Berlin associa queste due idee di libertà rispettivamente all’Occidente individualista e al blocco comunista. Tuttavia, entrambi i modelli si sono rivelati fallimentari, anche quello di libertà collettiva, il cui perseguimento è coinciso con la limitazione della libertà individuale da parte del partito e dei leader. Per questo nei Sei traditori della libertà, in cui si parla di libertà collettiva, le libellule sono un plotone che si muove verso lo stesso obiettivo, in maniera compatta e schematica. Per quanto il contenuto delle tue opere sia di impegno e di critica, l’impatto estetico è molto delicato e affascinante. Cerchi volutamente una molteplicità di livelli di lettura? Se fai il disegnatore, il pittore, l’artista visivo, il primo ragionamento è quello compositivo. Il nostro mestiere ha una storia alle spalle e il mio lavoro deve poter reggere il confronto con gli artisti che mi hanno preceduto. Capita di riuscire a farsi interprete o a proiettare dentro di sé gli esperimenti già fatti. Per me essere un artista italiano è importante: penso agli ar-

tisti degli anni sessanta o settanta, penso a Boetti, a Pascali, ai tanti che hanno portato avanti la riflessione sull’arte e sulla composizione, una base di partenza per qualcosa di diverso, di nuovo. Come per la scienza, non si comincia ogni volta da zero, ma ci si basa su quanto già scoperto: anche l’arte ha un suo avanzamento fatto di scoperte importanti, non è tutto casuale e non si può ignorare quanto già compiuto da altri. Sia la composizione sia i tuoi strumenti parlano della tua formazione di architetto: come realizzi le tue opere? Architetto ed entomologo fallito. La mia formazione influenza moltissimo il mio lavoro, che infatti è molto progettato. La realizzazione delle opere dura mesi e la condivido con persone che collaborano con me in studio e che guido come un architetto fa in un cantiere. Entomologo perché la classificazione, non solo degli insetti ma anche dell’archivio che rimanda alla memoria, è parte dei miei lavori. Cito molto delle fonti iconografiche già esistenti, artisti dell’Ottocento, poster rivoluzionari, slogan della primavera araba, mescolo le fonti creando opere che rispondono alla mia visione del mondo, ma che non sono mai risposte certe. Sono piuttosto domande che rivolgo a me stesso e agli altri.

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In queste pagine Alcune immagini di Giacomo D’Aguanno che riprendono gli spazi museali in cui è allestita la personale di Pietro Ruffo e un ritratto dell'artista


CEAGESP, Sau Paulo, 2012

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VISTI DI VICINO

MAESTRI CONTEMPORANEI DI ENRICO STEFANELLI

LE OMBRE CHIARE DI MASSIMO VITALI

Nel suo studio di Lucca, Massimo Vitali siede alla scrivania, dove sta riordinando alcune immagini. Ha iniziato la sua attività come reporter, così gli domando subito come mai poi ha abbandonato questo linguaggio. Dopo aver fatto il fotoreporter – risponde – mi sono occupato di cinema. È stato un momento di transizione, poi mi sono stancato anche del cinema e sono tornato a occuparmi di fotografia. Ho cercato di capire che cosa potevo fare di nuovo: c’erano fotografie che avrei voluto scattare e che non avevo ancora realizzato. Proprio l’altro giorno stavo riorganizzando l’archivio e ho ritrovato una serie di foto in bianco e nero degli inizi degli anni novanta. A ben vedere, mi ero già imposto di fare foto col cavalletto, in modo completamente diverso da quello del fotoreporter tradizionale. Come sono nate le Spiagge? Queste foto della spiaggia furono casuali, quasi per sbaglio. Era con noi David Smithson, non lo Smithson famoso ma uno scultore americano che abitava a Pietrasanta, che con pezzi di alluminio presi dalle tende dei bar mi fece un cavalletto di un’instabilità assolutamente paurosa, che però mi consentiva di fotografare con la venti per venticinque da una certa altezza. Le altre macchine me le avevano rubate, non le avevo più. Come ti è venuto in mente di fotografare con il cavalletto usando la venti per venticinque dall’alto?

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Punta Tegge Diptych, 2013

L’idea è semplicissima: con la venti per venticinque se fai la foto dall’altezza normale, da un metro e sessanta o settanta, puoi mettere a fuoco soltanto un piano, ma senza profondità di campo. Puoi fare dei ritratti, benissimo, ma a me interessava la profondità di campo, per cui per forza bisogna alzarsi da terra e poi inclinare un po’ la standard anteriore per riprendere il fuoco. Le prime erano in bianco e nero o a colori? Entrambe: una ventina in bianco e nero e una sola a colori. Le prime erano brutte, mentre quella a colori funzionava, però ci ho messo mesi prima di stamparla, l’ho capito dopo che funzionava.

Ti si deve riconoscere un certo spirito pionieristico nella fotografia da spiaggia, che adesso fanno in molti, quasi fosse diventata una moda. Sono molto contento che ci siano altri a sfruttare lo stesso soggetto, anche se mi dispiace che del mio modo di intendere la foto, del suo perché, dei miei soggetti, quasi tutti copiano la parte più superficiale e non vanno alla radice. Preferirei che chi copia copiasse meglio. Non sono un cultore delle belle foto: mi vengono bene contro la mia volontà. Aggiungo anche che chi le compra lo fa per il motivo sbagliato, perché punta solamente a quel «colorino», al mare di un

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certo tipo, all’asciugamano di quella tonalità, alle tinte chiare. Infatti mi sono un po’ annoiato e sto cercando di fare foto molto diverse, sto lavorando sui notturni. Del resto, se frequenti le fiere dell’arte, per esempio quella di Basilea, ci saranno quindici-ventimila soggetti in mostra e la gente passa e legge la didascalia, si riferisce alle immagini che riconosce. Questo potrebbe essere valido anche in un mercato come quello di oggi? Oggi è tutto molto diverso rispetto a quando ho iniziato. Ho avuto la fortuna di entrare nel mercato della foto cosiddetta d’arte nel momento giusto. È successo per caso, ma quando le gal-


lerie volevano che la fotografia divenisse un’opera d’arte. Tuttavia, ricordo che all’inizio tutti i fotografi americani famosi e importanti non erano considerati nel mercato dell’arte contemporanea, non vendevano nelle gallerie, mentre altri vi si erano subito inseriti senza passare dalle collezioni dei musei, che avevano capito e non capito. Successivamente, tutto è venuto buono, le foto di moda hanno cominciato a diventare arte contemporanea, le foto raccolte nei cestini dei laboratori sono diventate arte contemporanea, dopo è stato aperto a tutto e a tutti. Come avevi capito che dovevi arrivare al mercato dell’arte? È stata una ca-

sualità come lo sono state le fotografie delle spiagge oppure è stata una scelta mirata e pensata? Alcune gallerie mi avevano fatto intendere che poteva funzionare. Non avrei mai pensato che avrei fatto l’artista contemporaneo, non ci penso nemmeno ora, se devo essere sincero. Però quando te lo dicono capisci che è vero. La mia prima galleria di New York è una galleria d’arte contemporanea, mentre Studio Guenzani fu quella che mi tenne a battesimo. E la tua evoluzione? Come hai optato per questi colori più chiari? Devi tener presente che lavoro sulle spiagge, in agosto, nelle ore centrali e

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ciò che più mi infastidisce sono le ombre scure, le ombre blu. Io però voglio vedere in quelle ombre, e siccome non uso Photoshop, che peraltro è una metodologia recente, devo tenere tutto il registro un po’ più chiaro. Siccome il rischio è di arrivare con la spiaggia bianca al limite del leggibile, dovevo adottare un sistema di lettura diverso, e lo feci sfruttando la peculiarità della Portra160 che usavo allora. Le foto grandi sono arrivate perché le volevi fare così o è stato il suggerimento del gallerista? Le ho fatte così dall’inizio. Anche la prima, la famosa 0000, la stampai gran-


A sinistra Massimo Vitali alle Canarie in un ritratto di Giovanni Romboni, 2004 A pagina 49 La prima fotografia di Vitali dedicata alle spiagge. Scattata a Marina di Pietrasanta nel 1994 è archiviata col numero 0000

de. Le prime volte la gente mi chiedeva come mai le facessi di quel formato. Ricordo anche che ad Arles un paio di anni prima di avere la mostra, andavo dai soliti da cui si andava a far vedere le foto: Jean-Claude Lemagny del Dipartimento di stampe e fotografia della Biblioteca nazionale di Francia, nonostante lui apprezzasse molto i miei lavori, si mise a ridere dicendomi: «Fai belle fotografie, ma perché mi porti questa così grande, cosa vuol dire?». Gli spiegai che dentro c’erano tante storie e che era bello poter vedere tutto. Però fu spietato, non ne volle sapere. A tutti quelli che si occupavano di fotografia non andavano giù queste cose, la dimensione, i colori. Io

però continuavo a girare col mio tubo, insistevo e andavo avanti. E poi? Poi un giorno andai da Marianne Boesky a New York, mandato da Guenzani. Mi presentai con sei foto nel famoso rotolo e lei, dopo averle guardate, mi comprò due fotografie promettendomi una mostra in inverno. Poi mi chiese: «Come le vuoi presentare?» Risposi che volevo proporle come le avevo mostrate a lei. Subito mi rispose: «No, parlo della cornice!» Mi ricordo che mi arrabbiai moltissimo. Mi sembrava una cosa assurda. Solo più tardi ho capito che era un passo fondamentale, perché la fotografia dev’essere presentata in un certo modo.

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Diciamo che almeno il quaranta per cento della fotografia dipende da com’è presentata. Perché le immagini, come diceva lei, le fotografie, costano quanto un pezzo di carta ma un’immagine finita e presentata in un certo modo ha tutto un altro valore. Fu allora che decidesti di mettere le foto sotto plexi? Esatto. Fu una tua idea? Sì. Feci una serie di riflessioni, dopo di che decisi che le volevo sotto plexi, col bianco attorno e senza cornice. Oggi le metto con la cornice, senza più bianco attorno. I nuovi progetti hanno abbandonato le spiagge e stanno andando in un’altra direzione? A volte sì, a volte no. Non abbandono completamente le spiagge, ma cerco di fare anche cose diverse. Poi c’è stato un revival dei magazine americani. Alla fine dell’anno scorso ho lavorato per quasi tutti loro: dal New Yorker, al Time, al New York Times, e alcuni con cui non ho lavorato mi hanno chiamato lo stesso. Non lo definirei un ritorno al reportage, anche perché evidentemente mi chiamano proprio perché non faccio reportage. In ogni caso, continuo a lavorare in grande formato, anche se uso sempre di più il digitale per i lavori commissionati dai giornali in quanto non posso portarmi dietro tutta l’attrezzatura. Quanto è cambiato il mercato? Per me non più di tanto, anche perché sono in una buona posizione, ho prezzi relativamente modesti e ho una clientela molto vasta. Quella che è cambiata è la fotografia in generale, il modo di riprodurre la fotografia. Stando in una nicchia posso far finta che non sia cambiato nulla, ma non è vero. Ogni settimana succedono cose, ci sono novità, escono nuove macchine fotografiche. Si dice che


ogni giorno vengano scattate più foto di quante ne siano realizzate nei primi cent’anni di storia della fotografia. Quindi, o fai fotografie che hanno una ragione di esistere o altrimenti perché la gente le dovrebbe comprare? Secondo te in Italia che cosa manca per essere alla pari con gli altri paesi? Manca la conoscenza della storia della fotografia e della storia dell’arte. La gente pensa che le fotografie siano ciò che non sono, avendo idee primitive su che cosa sia la bella fotografia, o su che cosa dovrebbe essere. D’altra parte, anche i professionisti non aiutano a fare chiarezza, perché avendo a che fare con un grande pubblico poco acculturato, non puoi dar-

gli solo la crema, ma devi abituarli piano piano dando in pasto anche qualcosa di meno sofisticato. Molti danno per scontato che la fotografia sia comprensibile e basta e ognuno se la interpreta. Prossimi progetti? Una delle cose che voglio fare è togliere tutte le fotografie dal mio sito. Faccio un blog e invito le persone a postare una fotografia con cadenza settimanale, mentre il pubblico può intervenire con commenti. Per cui ogni fotografia che sarà sul sito, sarà commentata e oggetto di discussione. Invece, nel prossimo libro, a cui ho già pensato, non ci saranno testi e neppure il numero delle pagine, ma a fianco alla fotografia ci

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sarà un QR code che mi permetterà di rimandare il lettore a testi esistenti in Internet. Dimmi, quand’è l’ultima volta che hai letto un testo su un libro di fotografia? Ti dico questo perché, per esempio, una persona che conosco ha pubblicato un libro che conteneva venti pagine di testo. Lo stampatore ne ha saltate ben quattro e se ne sono accorti due anni dopo! Al contrario, se vedi una fotografia ti incuriosisce, vuoi sapere il titolo, vuoi sapere dov’è stata realizzata, cerchi sul web con lo smartphone o sull’iPad e leggi le informazioni. Perché le persone su internet le cose le leggono, ma se hai venti pagine di testo di piombo, nessuno le guarda.


Souvenir David (Braccio), marmo bianco e pigmenti, 2015

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VISTI DI VICINO

NUOVE GENERAZIONI DI ALBERTO ZANCHETTA

SCULTURA COME TRAPPOLA O COME IMMAGINAZIONE Fabio Viale, la disciplina scultorea si è sempre mantenuta in bilico tra l’essere «monumento» o vile «fermacarte». Nel tuo caso, invece, si ravvisa una sfida alla classicità e allo stesso tempo un’irrisione della contemporaneità. Come a dire che si può essere seri anche quando si scherza. Devi sapere che da piccolo non facevo catechismo perché manifestai dei dubbi su Gesù, sull’Immacolata Concezione, eccetera. Per questo motivo venne convocato mio padre, che però mi diede ragione. Mi fece anzi capire che pensare con la propria testa premia, tant’è vero che nel pomeriggio ottenni di andare a giocare a pallone. Molta arte contemporanea presuppone un atto di fede: bisogna crederci. È da questi dubbi che nasce il mio lavoro. Per quanto mi riguarda, mi sento in dovere di fare una scultura ma dall’altro posso giocare sulla forma o sul senso del soggetto. E questa è la forza del contemporaneo. Non ci sono più limiti su che cosa possa essere considerato arte secondo i canoni classici. Un aeroplano di carta fatto di marmo nasconde nella sua semplicità il potere di essere un simbolo, metafora di una condizione. Benché sia fatto per volare, è costretto a rimanere a terra per colpa della gravità terrestre. Per riallacciarmi a quanto hai appena detto, credo sia opportuno affrontare il discorso sulla perizia tecnica e sulla sua capacità di infingimento: tutta la grande arte è un inganno, più vero del vero! Ad esempio, tu riesci a dissimula-

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re la preziosità del marmo, facendolo sembrare banale polistirolo; in questo modo l’opera sembra perdere il suo peso specifico – gravitazionale e formale – mentre si aggrava il suo carico intellettuale. Decisamente mordace. L’arte nasce dalla metamorfosi: è una trasformazione. Quando diviene altro da sé, il marmo subisce un’alterazione che provoca nello spettatore una sorta di stupore e incanto. L’opera acquista così un aspetto differenziale, una sorta di «trappola» che uso spesso nella scultura, ma che è anche un meccanismo antico con radici che penetrano in profondità nel sentire dell’uomo. L’arte, come la vita, è in uno stato di perenne trasformazione-transizione. Senza tema di smentita, molte tue opere potrebbero rivaleggiare con il virtuosismo dei maestri antichi. Andando a ritroso nel tempo, potremmo persino scomodare le olimpiadi greche, la cui nobiltà agonistica veniva equiparata alle belle arti. Penso infatti ai tuoi palloni da calcio, inamovibili, o alla mazza da baseball, troppo pe-

sante per essere impugnata. Anche se appartengono agli sport dell’epoca moderna, ci appaiono come reliquie della storia. Sono sculture dall’evidente impatto formale. Sono state realizzate per aggiornare i propri volumi anziché gli sport che rappresentano. Gli oggetti che usiamo abitualmente hanno caratteristiche scultoree che vanno ben oltre il loro utilizzo pratico. Quando guardiamo una mazza da baseball o un pallone da calcio ci sembrano oggetti ordinari, finanche banali, sono invece il frutto di una serie di complesse elaborazioni. Prova a pensare al progettista che aveva il compito di elaborare questi oggetti: forse ha ragionato non soltanto sulla forma legata alla funzione ma anche sul rapporto estetico connesso ai loro volumi nello spazio. Questo fatto potrebbe giustificare alcune forme e le loro evoluzioni temporali. Mi piace l’idea di rappresentare questo aspetto che sta dietro gli oggetti. Quando vengono tradotti nel marmo è come se divenissero qualcosa di sacro uscito da una chiesa. Hanno un’aura.

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Anziché essere vandalizzata dai graffiti o menomata dall’incedere (e dall’incuria) dei secoli che passano, la tua statuaria è stata mortificata dai tatuaggi. In queste opere emerge in modo evidente una tensione di tipo bipolare: da una parte la necessità di citare la tradizione, dall’altra l’impulso a tradirla. Tradizione e tradimento condividono, non a caso, la stessa etimologia. In questo caso specifico, possiamo forse parlare di ucronia? Mi piace che nell’opera ci sia una dualità. La vita è fatta di prede e predatori, maschi e femmine, duro e morbido. Sono due metà complementari che contraddistinguono ognuno di noi. Normalmente, quando ci guardiamo allo specchio, la nostra immagine è per metà nera e per metà bianca: il lato «cattivo» e il lato «buono»; non credo però sia possibile inquadrare i nostri caratteri in modo cosi semplicistico, perché ogni lato contiene un po’ dell’altro. Sono due polarità energetiche, complementari, indispensabili e imprescindibili per l’esistenza umana. È questo che genera la vita: il giorno, la


notte e la metafora dei marmi tatuati. Il loro fascino nasce da tale incontro. Del monumento a Cavour si è già detto e scritto molto. Siete entrambi piemontesi: dopo esserti cimentato con la figura del grande statista italiano, mi chiedo se non sia possibile vederti fare altrettanto con Cesare Lombroso, a cui Torino ha dedicato un museo. Come detto poc’anzi, non sono altro che due facce della stessa medaglia, no? Non amo fare ritratti – ci sono artisti più avvezzi e coerenti con questo genere – ma l’opera dedicata a Cavour rispondeva a una richiesta a cui difficilmente si poteva dire di no. Inoltre le opere pubbliche attirano molte attenzioni e altrettante critiche, per cui mi sono reso conto che uno degli aspetti negativi del mio lavoro è connesso a questo progetto. Anche se si fa tutto nel migliore dei modi, chissà perché si finisce sempre per commettere errori. Ciò detto, trovo Lombroso un individuo assolutamente interessante. Le sue teorie pseudoscientifiche, che oggi sono state dimostrate erronee, sono anche in un certo qual modo affascinanti. Con la «teoria dell’uomo delinquente», che si basava sulle anomalie fisiche delle persone, Lombroso teorizzava una regressione genetica di tipo scimmiesco. Se questo fosse vero, la lunghezza eccessiva delle mie braccia mi condannerebbe all’atavismo a delinquere! Diceva inoltre che la creatività, o più esattamente il genio artistico, è una forma di follia ereditaria. Quindi, secondo Lombroso, sarei un pazzo criminale!

In alto Arrivederci e grazie, 2012 A sinistra Pzero, 2015 A pagina 52 La mostra Punk alla Galleria Poggiali e Forconi di Pietrasanta, nel 2015

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VISTI DI VICINO

CONVERSANDO SUL SOFÀ DI FLAVIO ARENSI

LA SPERANZA DI VERITÀ DI ANDREA VITALI Carlo Dossi diceva che tra medicina e letteratura «corse sempre amicizia» e forse non a caso sono tanti i medici scrittori: senza voler scomodare gli stranieri, in Italia basti pensare a Primo Levi, Mario Tobino e, appunto, lei. Come si spiega questa vicinanza? È forse una sorta di urgenza? A volte amicizia, a volte odio puro quando l’una ruba lo spazio all’altra. Finché si riesce a mantenere un onorevole compromesso tra le indagini anamnestiche volte a risolvere quesiti diagnostici e quesiti narrativi tutto fila liscio. A un certo punto l’intesa si rompe, perlomeno è ciò che è capitato a me, e allora una delle due attività prevale. In realtà, non sono il primo a dire che medicina e narrazione sono attività umanistiche. Si rivolgono all’uomo, alla sua carne e al suo spirito, o anima o psiche, e usano gli stessi strumenti di indagine, la parola e l’udito. Nell’un caso come nell’altro si fanno – e ci si fanno – domande in attesa di risposte. Anche uno dei più interessanti critici d’arte, Roberto Tassi, si forma in ambiente medicale. Tassi aveva una scrittura cristallina, intima, che per certi versi mi ricorda la sua. Lo cito perché vorrei approfondire il suo rapporto con l’arte. Il mio rapporto con l’arte è dilettantesco, viscerale. Ne subisco le suggestioni umorali trasmesse sia dai soggetti sia dalla tecnica compositiva, ed è per questa ragione che mi emozionano il surrealismo così come certi quadri intrisi di romanticismo, opere insomma che tra loro sembrano molto distanti, addirittura incomunicabili. Ho

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IL NUOVO LIBRO

bisogno però di vedere una storia dentro un quadro, una statua, una composizione o qualunque cosa mi venga proposta come arte. Sono così proprio perché non mi ritengo assolutamente un artista. Da qualche anno la casa editrice Cinquesensi ha creato una collana intitolata iVitali, descritta come una collana che «nasce nello spontaneo disinteresse di un rapporto umano e artistico fra due uomini e che per questo si costruisce sulla speranza della verità. I Vitali sono due». Stiamo parlando di lei e di Giancarlo Vitali, suo concittadino e pittore amato da Giovanni Testori, uno scrittore che non potrebbe essere più distante da lei. Qual è secondo lei questa speranza di verità? E quale rapporto esiste fra voi? Già coltivare una speranza di verità è ambizione alata. Circa la collana di Cinquesensi direi che, per quanto concerne me, mi permette di battere strade narrative diverse, a volte francamente sperimentali e quindi di ricerca di moduli espressivi differenti da quelli ormai consolidati. In ciò si conforma una piccola verità, nella sincerità della proposta e nel rischio che ne consegue. Insomma, l’essere svincolati da una necessità anche commerciale rende più lieve il raccontare. Nella sostanza, anche l’opera di Giancarlo Vitali affianca a un filone portante e consolidato una parallela ricerca espres-

siva che va al di là degli schemi entro i quali è catalogato. In queste «deviazioni» ho sempre trovato non tanto la verità ma i punti interrogativi che vorrebbero risposte. E anche di recente ho affrontato con il maestro Vitali il discorso spinoso e irrisolto circa alcuni aspetti dell’essere nostro, del senso del vivere, del «è tutto qua o c’è qualcos’altro che ci sfugge»? Lei è ormai famoso per le storie che ha raccontato, per il lago, il piccolo paese, gli incontri. Che cosa significa incontrare una persona, un paziente, oggi forse anche un ammiratore, e che cosa può nascere da questo? Non si dice forse «da cosa nasce cosa»? Da qualunque chiacchiera, anche banale, può nascere una storia e ho esempi illuminanti di come, stando ad ascoltare, si possano prendere all’amo stimoli narrativi. Bisogna ascoltare perché nessuno mai, o perlomeno assai raramente, parla a vanvera. Il nostro chiacchierare è sempre intriso di storia, quella minima e quotidiana dalla quale a volte scaturiscono eventi memorabili. L’ispirazione è un furto di parole d’altri, e per coglierla bisogna stare con i piedi saldamente a terra anziché aspettare che discenda dall’alto dei cieli. Spesso il suo universo narrativo è stato paragonato a quello di Piero Chiara e Mario Soldati. Qual è la sua opinio-

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Andrea Vitali (Bellano, 5 febbraio 1956) è medico di professione e coltiva da sempre la passione per la scrittura esordendo nel 1989 con il romanzo breve Il procuratore (Premio Montblanc per il romanzo giovane). Nel 1996 vince il premio letterario Piero Chiara con L’ombra di Marinetti, ma il successo arriva nel 2003 con Una finestra vistalago (Premio Grinzane Cavour e Premio Bruno Gioffrè 2004). Al suo attivo si contano oltre tenta titoli (più o meno due ogni anno, spesso insieme in classifica) per oltre tre milioni di copie vendute nel mondo. Il nuovo romanzo giallo, Le mele di Kafka, racconta le vicende di Abramo Ferrascini, ferramenta di Bellano e giocatore di bocce. Ispirato a un aneddoto legato a un soggiorno a Lucerna del grande scrittore praghese, il libro mette in scena il meglio dei personaggi di Vitali. La loro voglia di vita, le loro piccinerie e le loro grandi passioni giostrano sulla partitura di una storia che in fondo ci vuole dire che la letteratura e i libri, nella vita, contano molto, a volte più di quanto vorremmo. Andrea Vitali Le mele di Kafka 350 pagine Garzanti Libri


A destra Andrea Vitali A pagina 56 Tutti santi, volume edito nella collana iVitali A pagina 54 Un doppio ritratto dello scrittore realizzato dall’artista lecchese Giancarlo Vitali

ne? Sente di portare avanti, e perché no innovare, il loro portato, o l’accostamento stride? Quali sono invece, se ce ne sono, i riferimenti che sente suoi, che magari col tempo ha anche rifiutato, ma che l’hanno costretta a riflettere sulla scrittura? In sostanza me ne frego, nel senso buono del termine! Essere associato alla corrente narrativa che due grandi scrittori come Chiara e Soldati rappresentano non può che farmi piacere. Due che, come tanti altri, con le loro opere mi hanno insegnato come si racconta una storia, maestri al pari di Bassani, Orengo, Piovene, Parise e tanti altri. Guardo diritto alla meta senza troppo preoccuparmi di questo o di quello. L’attività di un narratore vero, o di quello che io considero tale, consiste nell’aver sempre qualcosa da raccontare, evitando di perdere tempo in confronti e differenze. Io, noi, loro, quelli che verranno, raccontiamo storie, interpretiamo, nel bene e nel male, le nostre vite e quelle altrui. Lascio ad altri il compito di stilare classifiche che, per quanto mi riguarda, hanno significato solo per il campionato di calcio.

Lei ha fatto una lunga gavetta, scrivendo per piccole testate e per case editrici locali, poi dal 2003 il riconoscimento e l’approdo a Garzanti e il successo di vendite. Questo in qualche modo la costringe a relazionarsi in maniera diversa con la scrittura? Assolutamente no per quanto riguarda i temi da trattare. Scrivo ciò che mi piace e se al mio editore non piace lo rimetto nel cassetto in attesa di capire chi dei due ha ragione. Con la scrittura invece ho un rapporto vivace perché mi piace manipolare la parole, le frasi, giocare con il loro senso, l’unico o il doppio. Un gioco che a volte richiama quello dell’enigma e a volte quello dell’indovinello. Spesso si pensa che un artista che decide di vivere lontano dai grandi centri lo faccia anche per osservare il mondo da un punto di vista privilegiato, più calmo. In verità oggi si può sapere tutto del mondo anche nel più remoto paesino della valle. Più interessante, invece, è che gli occhi attraverso cui si vede e non il luogo in cui si vive siano il vero discrimine. Lei che

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cosa vede oggi gettando uno sguardo alla cronaca? Vedo un mondo di fantasia per quanto mi riguarda, poiché il mio luogo ha perso molto dello smalto che aveva e quindi devo necessariamente rianimarlo con vivificanti iniezioni di fantasia e ricordi, miei o d’altri. Circa il resto del mondo, quello grande grande, me lo sento un po’ estraneo ma giustamente in evoluzione verso un aggiustamento che le nuove generazioni stanno acquisendo. È giusto così, poiché solo vivendo con cognizione di causa il proprio tempo ognuno potrà infine dire di non aver vissuto per niente. Lei vive sul lago dove ancora, immagino, vivono comunità articolate, legate con il territorio. Eppure, questo non ha garantito di conservare il paesaggio, di mantenere certe tradizioni, certi mestieri. Ritiene che sia una situazione reversibile, trova che ci si debba muovere in altra direzione? No, indietro non si torna, non credo nemmeno che sarebbe giusto. Però mi piacerebbe abbattere certi ecomostri e magari anche chi li ha pensati e poi edificati.


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VISTI DI VICINO

APPUNTAMENTO CON LA STORIA DI PAOLO BONARI

UMBERTO ECO ILLUMINATO

Il destino di ogni progressista è beffardo: se, alla sua morte, si darà il via al rimpianto, ciò testimonierà la superiorità umana del nostro passato, se invece le ciglia resteranno asciutte, dello scomparso era poco il valore e non avvertiremo mancanze. Possibile, dunque, che il progressista tutto d’un pezzo tifi per la propria irrilevanza e confidi nella bontà di ogni moto perpetuo? C’è da credere che Umberto Eco si sia avvicinato più di ogni altro a tale titanico sforzo della speranza: sembrava non aspettare altro, attendere da una vita qualcuno disposto a sfidarlo, uno che fosse all’altezza di rispondere e contrattaccare, che sapesse stargli accanto e che, infine, con uno scapaccione gli facesse volar via dal capo l’alloro. Ma avrà imparato a rassegnarsi alla propria sopravvivenza, perché non è più il tempo delle uccisioni dei propri padri culturali. Senza tenzone, il divertimento era poco e non gli restava che giocare da solo, allora, mettersi in scena nell’atto più umano, mentre ride alle sue stesse trovate. Il riso, la qualità più nostra di tutte: pietra d’angolo della costruzione antropologica, nel caso di Eco diventava risata che ne provocava altre, contatto psico-organico dell’intelletto e della simpatia reciproca. Il riso, peccato ultimo del Nome della rosa: era il 1980 e quella mossa del cavallo, quello scartare di lato, deragliando dal binario accademico del Trattato di semiotica generale, gli consentì una via di

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L’ULTIMA RACCOLTA «Dal 1985 pubblico sull’Espresso la Bustina di Minerva. Ne sono state raccolte molte nel Secondo diario minimo e poi nella Bustina di Minerva. Dal 2000 a oggi ne rimanevano moltissime, ho scelto quelle che potevano riferirsi al fenomeno della “società liquida” e dei suoi sintomi: crollo delle ideologie, delle memorie, delle comunità in cui identificarsi, enfasi dell’apparire ecc. Cronache di una società liquida è il sottotitolo ma, data la varietà dei temi non unificabili sotto una sola espressione “slogan”, il titolo sarà Pape Satàn Aleppe, citazione evidentemente dantesca che non vuole dire niente e dunque abbastanza “liquida” per caratterizzare la confusione dei nostri tempi». U. Eco

fuga, la salvezza, proprio quando si stava esaurendo la spinta propulsiva dalla quale la semiotica, come altre scienze nuove durante la loro istituzione, aveva tratto la propria tentazione imperialistica. Se la cultura umana era fatta di segni, da ciò non conseguiva che ogni altra scienza fosse derivata da quella semiologica e che, un giorno, da questa potesse essere riassorbita? Quando qualcuno cominciò a sparlare della nudità del re, a sussurrare che le ultimissime analisi semiologiche, condotte sul filo di chirurgiche formalizzazioni, altro non producevano che il segno ridondante della propria inutilità, il re non si trovava più, era sparito: aveva affidato il proprio lascito scientifico alle mani degli allievi, che avrebbero proseguito e perfezionato le raffinatezze analitiche, al prezzo di una costante perdita di humour, di affabilità, di quella passione curiosa che era propria di certi bambini e di tutte le manifestazioni di Umberto Eco cui abbiamo assistito. Allora, laddove fallisca o si faccia pleonasmo lo studio dei segni, meglio dedicarsi alla loro creazione, all’arte narrativa, facendo finta di nulla, appendere i guanti da laboratorio al chiodo e partecipare al gioco, a patto che un’ultima promessa non venga scordata: a qualcuno toccherà mettere mano a quel relativismo interpretativo alla propagazione del quale lo stesso Eco aveva

dato impulso, e sarà lui, allora, a sentirsi in dovere di rimediare. I limiti dell’interpretazione: esistono eccome, a meno che uno non voglia cedere ai richiami del solipsismo più autocomunicativo; tracciarli, però, fa sì che la semiosfera si rimpicciolisca e che i segni si sentano un po’ più soli, abbandonati a se stessi. Poco male, perché l’altro rischio era più grosso: era che non ci si divertisse più, che gli sproloqui interpretativi innescassero processi semiosici il cui fondo era tetro o tetragono, a dispetto dell’apparenza ciarliera. In anticipo di una ventina d’anni sul new realism, Eco riconosceva quella «durezza» della realtà che fa da argine al delirio nichilistico, ma il suo era un riconoscimento che, come spesso accade, non poteva non reggersi su qualcosa di più intimo, sulla volontà, il «così è» essendo il compimento di un «così sia»: la speranza di una resistenza, a fronte dell’avanzare dei barbari. Pensare che l’ispirazione che mirava all’indebolimento delle strutture tradizionali, che aveva animato l’emergere e l’affermarsi dei relativismi locali, lungo tutti i decenni precedenti, era stata sì epistemologica, ma soprattutto politica, ovvero ideologica. Era sembrato che il progressismo postmarxista dovesse definirsi in virtù della propria opposizione ai capisaldi maiuscoli di questo Occidente: realtà, innanzitutto. Però, un conto è ragionarne in compagnia di

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Umberto Eco Pape Satàn Aleppe 469 pagine La nave di Teseo A pagina 61 Umberto Eco ritratto nella sua biblioteca-studio di piazza Castello a Milano


Nietzsche, un altro avere a che fare con le schiere degli epigoni: Eco se ne accorge e corre ai ripari. Senza limiti, niente più risate: quando uno esagera, gli altri se ne vanno a casa, o restano, sì, ma unicamente per mezzo dell’istituirsi di un potere, nemesi dell’humour, e della soggezione che i più deboli provano per gli arroganti. I limiti sono le strisce di gesso che vanno tracciate per terra, quelle senza le quali i giochi più divertenti sono impossibili. Insomma, la scoperta degli «imbecilli» avviene presto, molto prima che quelli realizzassero l’«invasione» social che Eco, poi, avrebbe denunciato: l’incubo che la deriva delle interpretazioni finisse per essere sottoposta al loro dominio, all’arbitrio delle loro legioni, lo co-

glie subito, così come il sospetto che la cultura di massa sia una gran cosa, ma che siano proprio gli individui a fare spavento, spesso. Quando la parola passa a chi non la rispetta, fa una brutta fine anche l’utopia che sembrava frustrare ogni velleità interventistica nostra, di noi che non saremmo altro che rotelle, nel meccanismo astrale degli ipertesti che, loro sì, dialogano e dialogheranno. Finché critica non li separi: sarà bene, infatti, nell’ipotesi di governo degli imbecilli, che qualche buon gendarme dia una controllata a quello che succede, che la semiosi illimitata venga sorvegliata. Autori che si sottraggono, che dichiarano il proprio desiderio di sparire, di lasciare che le opere si sentano libe-

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re e non si facciano contaminare dalle biografie: se una linea novecentesca è stata egemone, è stata questa, seguita da chi ne ha fatto un vessillo, ma anche da quegli altri che, per timidezza e pudore, avrebbero voluto disperdere le tracce, non essere d’ingombro. Ha fallito, Eco? Se uno ce la mette tutta, infine, per rassicurare i presenti sulla bonomia degli elaboratori di calcolo, trascurando quella loro alterigia elettronica, e finisce che è proprio lui, invece, a mancare a tutti noi, beh, ciò significa che ci saremmo potuti risparmiare del tempo, dirci tutto subito, ma è vero anche che il giro che abbiamo fatto, con Umberto Eco a guidarci, per tornare al punto di partenza, a farci una risata insieme, è stato spettacolare, un ottovolante, bello.


BEL PAESE

CARTOLINE DI GIULIA DAL MAS

LA CENTRALE DEI CAPOLAVORI ANTICHI Roma, via Ostiense sulla riva sinistra del Tevere: è qui che sorge uno dei più straordinari esempi di riconversione di un edificio di archeologia industriale in sede museale, dando vita a un luogo in cui due diversi passati si incontrano e creano un affascinante contrasto. La storia della centrale termoelettrica Montemartini, che prese il nome dell’assessore Giovanni Montemartini, risale al 1912 come primo impianto pubblico di produzione di energia dell’allora azienda elettrica municipale (attuale Acea). L’aspetto monumentale dell’edificio voleva proprio riflettere l’orgoglio della municipalità per la propria capacità di provvedere autonomamente ai bisogni dei cittadini. La centrale venne più volte potenziata fino a farsi carico da sola dell’approvvigionamento elettrico della città durante la liberazione. Nell’Italia del boom economico, il distretto ostiense perse la sua importanza industriale strategica e con esso anche la centrale: la sua produzione di energia venne definitivamente interrotta nel 1963 e da allora l’edificio rimase per circa vent’anni inutilizzato. Alla fine degli anni ottanta, fu la stessa azienda a decidere di restaurare il corpo centrale del complesso ricollocando in situ alcuni dei macchinari originari e destinando il nuovo spazio a servizi direzionali e culturali. In previsione del Giubileo del 2000 i Musei Capitolini avevano deciso di provvedere ad alcune modifiche strutturali e impiantistiche sia di Palazzo dei Conservatori

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sia del Museo Nuovo. Nel 1997 la centrale, ormai ristrutturata, venne scelta come luogo espositivo temporaneo che permettesse la fruibilità delle opere del complesso capitolino durante i restauri. Qui con la mostra Le macchine e gli dei fu sottolineato il magico contrasto tra le sculture classiche e le macchine della modernità unendo così due mondi considerati fino ad allora opposti, ma che in realtà avevano un comune denominatore: l’uomo come ideatore e fruitore. Quando nel 2005 parte delle opere fu ricollocata in Campidoglio, la ex centrale venne confermata come spazio museale permanente atto a ospitare le più recenti collezioni dei Musei Capitolini. La maggior parte dei reperti proviene da scavi risalenti al periodo dopo l’Unità d’Italia. Il percorso espositivo si articola secondo tre tematiche principali che seguono la suddivisione interna degli spazi della centrale. Nella sala Colonne, dal nome dei numerosi pilastri in cemento armato, sono visibili reperti collegabili alla Roma repubblicana, in particolare per quanto riguarda la sfera religiosa e funeraria della necropoli Esquilina, il lusso nella sfera privata e la ritrattistica databile al I secolo a.C. rappresentante le diverse

classi sociali. Nella sala Macchine, in cui spiccano due colossali motori diesel oggi completamente restaurati, ci ritroviamo nella prima età imperiale con reperti provenienti dal centro monumentale di Roma tra cui il circo Flaminio, il Campidoglio, il tempio di Apollo Sosiano con la riproduzione del frontone e di un’edicola, l’area sacra di largo Argentina con i resti di una colossale statua femminile. La sala Caldaie custodisce l’ultima delle tre grandi caldaie a vapore originarie e pone in risalto il terzo tema riguardante i giardini, le domus e le residenze imperiali con reperti ricollegabili agli Horti (giardini) Sallustiani, dell’Esquilino e Liciniani e con il mosaico proveniente dalla chiesa di Santa Bibiana. Macchinari che fanno da sfondo alla ricca collezione di statue o forse, a seconda del punto di osservazione, statue che mettono in risalto i macchinari. Comunque sia, quello che salta all’occhio è che in questo particolare contesto i grandi capolavori classici vengono esaltati dalla suggestiva atmosfera in grado di rievocare da una parte la grandezza della Roma antica e dall’altra un passato più recente legato alla storia di uno dei primi complessi industriali della capitale.

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Il fotografo Marcello Grassi interpreta la Centrale Montemartini in alcuni scatti dati in esclusiva a Sofà Courtesy Roma, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, Musei Capitolini


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BEL PAESE

LUOGHI DEL BELLO DI LAURA POSADINU

QUANDO L’ARTE RICOSTRUISCE IL TEMPO L’arte contemporanea prova a dare una risposta su come riqualificare un sito archeologico, trovando l’accordo con soprintendenze, architetti e pubblico. La nuova installazione di Edoardo Tresoldi, ventottenne artista lombardo, è stata inaugurata il 12 marzo nel parco archeologico di Santa Maria di Siponto: l’opera fa parte di un piano di riqualifica promosso dalla soprintendenza per i beni culturali della Regione Puglia e il segretariato regionale del Mibact per la Puglia. Sulle rovine di una basilica paleocristiana situata a pochi chilometri da Manfredonia, l’artista ha eretto una struttura leggera in rete metallica elettrosaldata alta quattordici metri, che riproduce in una visione evanescente ed eterea la dimensione dell’alzato della chiesa oggi perduto, quasi come si trattasse di una proiezione in realtà aumentata, offrendo ai visitatori una lettura tridimensionale delle rovine. Tresoldi è un artista emergente, che dal 2009 opera a Roma nel campo della scenografia cinematografica, partecipando al collettivo di artisti del progetto MadeOn, con cui firma i primi lavori da scenografo: nelle sue opere racconta il legame tra l’essere umano e il paesaggio che lo circonda, modellando strutture semitrasparenti di rete metallica che inserisce con leggerezza e silenziosamente nello spazio, lasciando che riflessioni e pensieri di chi le osserva ne vengano trattenuti. Dal 2013 il giovane artista si è fatto spazio nei festival di street art e di musica, tra cui il Mura Mura Festival a Pizzo Calabro e Oltre il muro a Sapri, dove figure uma-

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In questa pagina e nelle precedenti, alcune immagini della Cattedrale di Siponto negli scatti di Blindeyefactory e Giacomo Pepe

na evanescenti hanno filtrato paesaggi e tramonti sul mare, e ancora Meeting del mare a Marina di Camerota e Secret Garden Party a Huntingdon, in Gran Bretagna, dove la scala delle installazioni è giunta all’architettonico, cattedrali leggere si sono fuse con il cielo per raccogliere il pubblico sotto un tetto di stelle. Opere semplici da interpretare, che arrivano al cuore di tutti, suscitando impressioni diverse negli spettatori. E che sono giunte all’attenzione dell’architetto Francesco Longobardi, responsabile dei lavori del parco archeologico, a cui era stato chiesto di realizzare una copertura per i mosaici usciti dagli scavi della basilica paleocristiana adiacente alla chiesa medioevale di Santa Maria di Siponto. In circostanze del genere, l’architettura contemporanea è chiamata a interrogarsi sulle modalità di intervento rispetto alla preesistenza archeologica, riflettendo sui materiali da usare, sull’opportunità di proteggere i resti, sul gesto da imporre per valorizzare il genius loci di un territorio raccontandone la storia. Con il sostegno del soprintendente archeologo della Puglia Luigi La Rocca, Longobardi ha scelto di affidarsi alle installazioni di Tresoldi per riqualificare il sito archeologico. Spiega: «L’approccio

progettuale ha preso le mosse dall’esperienza del turista in visita a una zona archeologica, in cui la sola presenza di strutture murarie non consente la percezione della terza dimensione del sito. Lo spazio archeologico, tipicamente, è infatti privo delle altezze. Nonostante ricerche e studi, non avevamo trovato una soluzione soddisfacente. Poi mi sono imbattuto in un’istallazione di Edoardo Tresoldi pubblicata su Facebook e l’ho subito associata a Siponto. La leggerezza, la trasparenza e la dimensione delle sue opere facevano al caso nostro». Supportato da un team in cui l’età media è sui venticinque anni, Edoardo progetta la ricostruzione dei volumi della basilica in alzato, poggiandoli sulle rovine, senza modificarne la muratura. La struttura metallica richiama la struttura assunta dalla basilica in epoca altomedievale, su doppio livello con il presbiterio rialzato e le tre navate divise da pilastri. L’installazione, realizzata in soli tre mesi dalla squadra di giovani creativi in collaborazione con trenta professionisti tra architetti, ingegneri, operai e gli archeologi a completare gli scavi della basilica, prende forma dalla ricostruzione storica, con un investimento di novecentomila euro sui tre milioni e mezzo stanziati dal fondo europeo per lo

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sviluppo regionale 2007-2013, con l’obiettivo di reimmettere il parco archeologico dell’area di Santa Maria di Siponto nel circuito turistico del Gargano, accrescendo il numero degli itinerari di pellegrinaggio religioso sul territorio pugliese. Lo studio dei materiali e la scelta delle attrezzature sono stati accurati e l’organizzazione del cantiere è stata tale da consentire modifiche della struttura secondo l’intuizione e l’esperienza dell’artista, rimpicciolendo alcune parti e modificandone altre per adattarle al meglio alle rovine. Un unico dubbio plausibile riguarda la questione dell’invecchiamento di una struttura del genere: mentre le precedenti opere di Tresoldi erano pensate e realizzate come opere effimere, in questo caso il contesto della commissione ha indotto l’artista a scelte di lungo periodo, dunque si presume che l’opera possa resistere circa una ventina o una trentina d’anni. Ma resterà così maestosa ed eterea, o muterà con il passare del tempo? E ancora, sarà forse questa iniziata da Tresoldi una via percorribile dal restauro conservativo, verso soluzioni che permettano di far rivivere in modo tanto affascinante i ruderi antichi? Nel frattempo il giovane artista ha già in programma la sua nuova installazione per un festival in Australia.


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FATTI AD ARTE

TEMPO PRESENTE DI CECILIA SICA

GIOSETTA NEL MONDO INCANTATO DEL FURIOSO Otto carte d’autore per raccontare il capolavoro di Ariosto con l’ironia e la magia pop dell’artista romana «Quando entro nel Furioso, veggo aprirsi una guardaroba, una tribuna, una galleria regia, ornata di cento statue antiche de’ più celebri scultori, con infinite storie intere, le migliori, di pittori illustri […], e d’altre gioie, e finalmente ripiena di cose rare, preziose, meravigliose». Così Galileo Galilei, con una chiara passione per Ariosto «magnifico, ricco e mirabile», descrive il mondo incantato dell’Orlando Furioso. Troviamo le stesse suggestioni di opulenza fantastica e narrativa nella galleria di ritratti che Giosetta Fioroni dedica agli eroi e alle eroine del Furioso scelti per rievocare il cinquecentenario della pubblicazione dell’opera, edita a Ferrara nel 1516. L’artista romana ha riaperto il poema cavalleresco che da sempre parla al cuore di lettori e artisti e, con la sensibilità visionaria con cui interpreta i testi letterari, ha sintetizzato nelle otto opere commissionate da Editalia la straordinaria narrazione per immagini che conduce il visitatore in un viaggio appassionante nell’universo ariostesco. Il successo del Furioso nell’immaginario cinquecentesco e dei secoli successivi si misura proprio dalla ricchezza figurativa di pitture, affreschi, fogli volanti e incisioni ispirate dalla selva di immagini tratte dall’intricata trama del poema. Giosetta Fioroni dedica al tema una galleria di ritratti su carta, opere uniche presentate in anteprima a Bologna in occasione di Arte Fiera 2016. Otto personaggi scelti fra i più suggestivi, otto teste caratterizzate da elmi con stravaganti e coloratissimi cimieri,

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in stato di incantamento e «con un’idea del mondo come pura meraviglia senza inizio e senza fine» come ha scritto Gianni Celati del capolavoro di Ariosto. Angelica e Medoro, la coppia più nota della letteratura cavalleresca, Bradamante e Ruggiero all’origine della stirpe estense, Marfisa, sorella gemella di Ruggiero che indossa un’armatura invulnerabile, Orlando e Rinaldo, paladini dell’esercito cristiano che si contendono l’amore di Angelica, Astolfo che si avventura sulla luna alla ricerca del senno perduto dell’amico. Ciascuna opera riassume in sé il poema e il segno iconico dell’artista. Con stile coloratissi-

mo e pop, Fioroni, ispirata da alcune incisioni rinascimentali dedicate ai ritratti dei protagonisti, interpreta «le donne, i cavallier, l’arme, gli amori», inserendo nei fantasiosi elmi alcuni segni del suo repertorio creativo: civette nottambule, scale, lune e fiori. I colori accesi, i fondi colorati, l’ironia della visione rispondono allo stile espressionista manifestato dall’artista nelle opere delle sue ultime stagioni creative. Con l’incanto del poema negli occhi, l’artista sta realizzando in questi giorni una nuova opera per Editalia, un multiplo in serigrafia, legato ancora una volta alla festosa fantasia dei versi ariosteschi.

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In queste pagine Le carte realizzate da Giosetta Fioroni per Editalia, ispirate all’Orlando furioso di Ludovico Ariosto. Tutti i lavori sono pezzi unici, tecniche miste su cartoncino colorato, 70 x 50 cm A destra Un ritratto di Giosetta Fioroni del fotografo Lorenzo Palmieri


GIOSETTA FIORONI Artista eclettica, colta e sperimentatrice, Giosetta Fioroni (classe 1932) attraversa e segna l’arte italiana dalla pop art degli anni sessanta a oggi, esprimendo con raffinata e sensibile intelligenza le diverse valenze estetiche offerte da temi quali la coscienza e la memoria. Tra passato e presente l’autrice tesse un filo che di volta in volta si è espresso in quadri, collage, disegni, teatrini, fotografie, cortometraggi, sculture, ceramiche, che raccontano insieme del corpo e dell’anima dell’artista, di pari passo a una sperimentale riscoperta dei materiali e delle tecniche tradizionali dell’arte.

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FATTI AD ARTE

FRESCHI DI CONIO DI LAURA ORBICCIANI

50.000 MOTIVI PER APPASSIONARSI ALLA LIRA La Storia della Lira si arricchisce con nuove banconote coniate, simbolo dell'identità di Bankitalia e del paese La collezione delle banconote coniate di Editalia è l’ultimo prezioso complemento del progetto intitolato Storia della Lira, che ormai vanta numerose riconiazioni di esemplari della nostra vecchia valuta nazionale, una raffinata penna con fusto in argento e una collana di volumi di pregio dedicati alla storia di uno dei simboli più forti dell’identità italiana. Oggi la collezione delle banconote coniate – una sfida al concetto stesso di cartamoneta, per definizione deperibile, il cui valore storico e simbolico è stato fissato nella durevolezza del metallo – si arricchisce di un nuovo pezzo molto particolare. Correva l’anno 1977. La Banca d’Italia emetteva una nuova banconota da cinquantamila lire, destinata a sostituire quella dello stesso taglio con il ritratto di Leonardo. Le differenze tra i due biglietti sono marcate: sul dritto non più un personaggio illustre immediatamente riconoscibile bensì un volto anonimo di donna; sul rovescio, nella vecchia banconota una veduta chiaramente identificabile, mentre sulla nuova solo disegni stilizzati raffiguranti architetture generiche; cambia il contrassegno di Stato che sostituisce la testa di Medusa con il leone di San Marco; i caratteri del valore nominale e delle scritte sul nuovo biglietto risultano più evidenziati; dal punto di vista grafico, la varietà dei colori e dei toni cromatici si è molto ampliata. È il segno dei tempi: questi cambiamenti non sono dovuti soltanto ai dettami estetici della grafica corrente, ma soprattutto alle nuove necessità di sicurezza e anticontraffazione. La cartamoneta si arricchisce di elementi difficilmente falsificabili e diventa più consistente, perché è

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LA STORIA DELLA LIRA NELLA REPUBBLICA ITALIANA LA SECONDA SERIE DELLE BANCONOTE CONIATE La collaborazione con la Banca d’Italia ha consentito a Editalia di realizzare le cinquantamila lire «tipo 1977« (149 x 70 mm), le duemila «tipo 1973» (133 x 65 mm) e le ventimila «tipo 1974» (161 x 79 mm) a partire dai modelli delle banconote «numero zero», cioè dalle matrici il cui numero di serie è composto di soli zeri, custodite nel Museo della Banconota. I conî vengono realizzati dalla combina-

zione di due tecniche: la modellazione artigianale in gesso dei volti e del contrassegno di Stato e l’incisione diretta sull’acciaio della trama del sottofondo mediante frese speciali costruite manualmente. Le banconote vengono poi coniate a freddo con stampi in acciaio temperato, infine patinate e sfumate a mano con protezione antiossidante. Ognuna è riposta in un cofanetto

espositore in legno pregiato, decorato da un bassorilievo lavorato a sbalzo con il taglio della banconota e dotato all’interno di una lente d’ingrandimento scorrevole. Ciascun esemplare riproduce fedelmente le dimensioni del biglietto originale ed è disponibile in argento 999, peso 200 grammi circa, e in oro 18 carati, peso 25 grammi. Tiratura limitata e certificata.

La seconda serie delle banconote coniate dedicata agli anni settanta, con il cofanetto espositore delle cinquantamila lire

fatta di un impasto speciale nel quale è incorporato un filo di sicurezza, con fibrille luminescenti che rendono i colori cangianti. L’introduzione di un volto anonimo e di architetture generiche è motivata dall’intento di sensibilizzare il pubblico a riconoscere le eventuali banconote false guardandole con maggiore attenzione, soffermandosi cioè sull’aspetto formale e sui dettagli e non identificandole di sfuggita solo grazie al facile riconoscimento degli uomini illustri: non è affatto un caso se anche gli altri biglietti emessi nella seconda metà degli anni settanta presentano caratteristiche simili, con volti ispirati a esempi artistici non celeberrimi e disegni geometrici e stilizzati. Un cambio

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di passo nello stile dovuto invero anche all’avvicendamento di bozzettisti e incisori all’interno di Bankitalia. Dunque la collezione di Editalia, avviata con la prima serie sugli anni sessanta che ha celebrato le mille lire di Verdi, le cinquemila di Colombo e le diecimila di Michelangelo, si arricchisce di questa nuova banconota coniata, che è stata scelta tra i biglietti meno «tradizionali» per rendere ragione della complessità delle scelte – non solo estetiche, appunto – operate all’epoca dal ministero dell’Economia e dalla Banca d’Italia. Queste cinquantamila lire fanno invece parte di una seconda serie dedicata agli anni settanta: seguiranno le ventimila lire di Tiziano e le duemila di Galileo, con la loro particolare fisionomia di tagli intermedi. La lavorazione, di assoluto rigore scientifico, ha chiesto decine di prove e superando le difficoltà derivanti dalla combinazione di tecniche di coniazione molto diverse tra loro. Il risultato è un gioiello nato dall’incontro fra inventiva, manualità, tecnologia, passione.

IL MUSEO DELLA BANCONOTA DELLA BANCA D’ITALIA A Roma, nello stabilimento del Servizio Banconote della Banca d’Italia, si trova il Museo della Banconota, inaugurato nel giugno 2001 all’indomani dell’uscita di scena della lira e dell’adozione dell’euro. Curato da Silvana Balbi de Caro e Gianni Fina – autori dei volumi di Editalia La Lira siamo noi – il museo ripercorre la storia della Banca d’Italia attraverso la cartamoneta circolante dagli anni del Regno a quelli della Repubblica, incluse le banconote d’Albania e dell’Africa Orientale Italiana emesse durante il fascismo. I visitatori possono ammirare tutti i biglietti della lira, dai bozzetti alle matrici, dai cliché agli originali calcografici, alle cere per le filigrane. Nelle vetrine in legno sono esposti anche i progetti di banconote mai realizzate, esemplari di falsi, torchi e attrezzature per la stampa, fotografie e documenti della storia della Banca e della sua Officina Carte Valori, nella sede romana di via Nazionale e in quella temporanea dell’Aquila, durante la guerra.

A destra Il volto di donna sulla banconota da cinquantamila lire «tipo 1977»: il disegno di Guglielmo Savini, il bozzetto definitivo, il dettaglio sul dritto del biglietto Sotto Il bassorilievo in gesso per il punzone; la banconota coniata in argento

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FATTI AD ARTE

OPERE DI PREGIO DI CECILIA SICA

ATENE 1896 DALLA TRADIZIONE AL FUTURO Un libro con la riconiazione della prima medaglia olimpica rievoca le emozioni dell’olimpismo moderno In attesa del trentesimo appuntamento olimpico di quest’estate a Rio, Editalia celebra i centoventi anni delle Olimpiadi moderne con un’opera unica nel suo genere. In coedizione con il Comitato Olimpico Internazionale e con il Museo Olimpico di Losanna, vede la luce il volume Più veloce! più in alto! più forte! che, a partire dal titolo che cita il motto olimpico latino Citius! Altius! Fortius!, sceglie di raccontare la vita delle Olimpiadi moderne, a partire da quelle di Atene del 1896, facendo parlare i volti, le immagini, le emozioni. I protagonisti più o meno noti, che hanno reso grande la storia dell’olimpismo con le loro vittorie e le loro leggende. La fatica, il pianto, il riso, la velocità e la concentrazione, in una parola l’azione sportiva, sono al centro del volume fotografico. Le immagini vengono tutte dall’Archivio del Comitato Olimpico Internazionale, l’organismo mondiale con sede a Losanna creato da Pierre de Coubertin nel 1894 per far rinascere i Giochi olimpici della Grecia antica. La prima olimpiade dell’era moderna si tenne ad Atene nel 1896. Le belle medaglie con Zeus e l’Acropoli, vinte da atleti rigorosamente non professionisti, furono coniate in argento e bronzo dalla Zecca di Parigi, stupendi esemplari ancora oggi conservati nel medagliere del Museo Olimpico. Per la prima volta lo IOC ha autorizzato la replica in coniazione della più antica medaglia olimpica, quella d’argento, ricevuta dal primo classificato di ciascuna disciplina. Le due facce della medaglia della stessa misura dell’originale, coniate dalla Zecca dello Stato, sono alloggiate sul metaforico podio costituito dalla copertina del volume.

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Sopra Medaglia originale in argento dell'Olimpiade di Atene 1896, custodita nel Museo Olimpico di Losanna A sinistra Una scelta delle immagini dell’archivio del Comitato Olimpico Internazionale che illustrano il volume di Editalia

ORO ARGENTO E BRONZO Nei colori del podio olimpico, il progetto Più veloce! più in alto! più forte! è composto dal cofanetto con impressione in oro del tedoforo, simbolo dell’apertura di tutte le olimpiadi, che contiene il volume fotografico di circa 360 pagine stampato su carta pregiata e rilegato a mano in pelle con coperta espositore sulla quale sono allestite le due facce della prima medaglia olimpica. La medaglia olimpica di Atene 1896, eccezionalmente prestata dal Museo Olimpico di Losanna alla Zecca dello Stato per realizzare la riconiazione dall’originale, è in argento 896‰ diametro 48 mm. Testi in italiano e in inglese di Sergio Giuntini, Antonio Lombardo e Marco Impiglia. *L'immagine è solo indicativa e può non corrispondere al prodotto reale.

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IN SERIE

IL MOLTIPLICAUTORE DI ROSSELLA FARINOTTI

L’ARTE PER TUTTI DEI FRATELLI CHAPMAN L’arte è per tutti? Forse un giorno lo diventerà, ma intanto alcuni grandi artisti hanno deciso di rendersi raggiungibili da parte di un pubblico più ampio, in grado di fare acquisti online. Si tratta di un’iniziativa certamente irriverente nei confronti del sistema e del mercato dell’arte internazionale degli ultimi quindici anni, alla quale hanno deciso di aderire tanti artisti, alcuni dei quali tra i più quotati e costosi, realizzando e mettendo in vendita di tutto e di più. Mi chiedo spesso che cosa sarebbe successo con Andy Warhol nell’epoca di internet: qualcosa di molto simile a un delirio. Ora personaggi come Damien Hirst, Maurizio Cattelan con Seletti e i fratelli Chapman si divertono giocando su questa traccia. «Sold out»: una frase che si legge spesso cliccando sulle immagini del sito web in cui i due impertinenti e talentuosi artisti inglesi Jake e Dinos Chapman, tra i più cruenti dell’ultimo decennio, mettono in vendita multipli di opere appositamente realizzate. Con il motto «making art affordable since 2015», «realizzare arte accessibile dal 2015», hanno intrapreso l’avventura del negozio online. Cresciuti sotto le ali di Saatchi presso la White Cube Gallery e finalisti del Turner Prize nel 2003, nWonché tra i più raccontati tra gli young british artists, i due artisti hanno realizzato oggetti ispirati alle proprie opere d’arte, facendone prodotti destinati al grande pubblico.

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La scelta di evadere dalla nicchia non è semplice: i due, che dagli anni novanta mettono in scena una visione culturale e storica della realtà velata da un surreale humor, in un diorama densamente immaginato e immaginario, rielaborano le medesime tematiche nel negozio online sotto forma di t-shirt, gadget, cartoline, libri, poster, sticker, carta igienica, carta da parati, piatti, tavole da skateboard firmate, serigrafie, accendini, cerotti. I pezzi in vendita sono quarantatre, con prezzi che variano dalle due sterline e mezzo – per un multiplo definito New Unique Works, di cui non conosciamo la tiratura –, alle sette sterline per un pacchetto di cartoline, alle cinquantacinque per le magliette, fino al massimo di duecentonovantacinque per una pubblicazione su edizione di cento con serigrafie e disegni firmati. Con tutti questi prodotti d’artista si potrebbe quasi arredare una casa. L’idea non è certo nuova, basti pensare a Other criteria, l’enorme online shop

fondato da Damien Hirst e altri artisti, che ha successivamente aperto uno spazio fisico a Londra. Hirst è il simbolo dell’arte commercializzata, sin dal primo grande debutto sul mercato con The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living, uno squalo tigre di oltre quattro metri all’interno di una vetrina, trattato in formaldeide e venduto per dodici milioni di dollari nel 2004. «Damien Hirst è un brand, proprio come lo sono Charles Saatchi (proprietario dell’opera all’epoca della vendita) e Larry Gagosian (il gallerista che si occupò della transazione)», scriveva nel 2009 Donald Thompson in Lo squalo da 12 milioni di dollari. Brand diventa anche la firma dei fratelli Chapman, che già si erano già concessi alle dinamiche commerciali nel 2004, creando un’etichetta d’autore per la birra Becks. Una scelta particolare per due artisti che hanno sempre creato opere non semplici da decifrare, in bilico tra la critica cruenta alla società contemporanea e l’i-

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In alto New Unique Works (Shark) A pagina 80 Il piccolo accendino Zippo Fucking Hell e un particolare dell’installazione The Sum of All Evil, del 2012-2013 A pagina 78 Poster dell’opera Sturm und Drang, 2014

ronia grottesca dello scherzo e del gioco, con una costante e colta attenzione al mondo della cultura e dell’arte – si veda la serie dedicata ai Capricci di Goya –, della politica e della storia – la riproduzione quasi ossessiva di Hitler ne è esempio tangibile. «Noi riflettiamo il mondo che c’è, deprimente com’è. Questo non è il momento storico di fare lavori “carini”. Da sempre, poi, l’arte tende a essere più distopica che utopica, la speranza non le appartiene. Per noi anzi è stato scioccan-

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te scoprire che il nostro lavoro era scioccante. Ma in ogni caso abbiamo sempre tenuto in considerazione solo l’opinione di un pubblico molto ristretto» (intervista sul Sole 24 Ore, 2010). Sembra che Jake e Dinos abbiano cambiato idea nel corso degli anni: adesso chiunque può comprarsi un pezzettino del loro mondo, che è poi la «summa di tutti i mali» (The Sum of All Evil è il titolo della mostra del 2013 presso la White Cube Gallery di Hong Kong).


IN SERIE

IL LIBRAIO D’ARTE DI GIUSEPPE TRESCA

TRANSAVANGUARDIA E LETTERATURA FATTA ARTE Bella definizione quella di Enzo Cucchi per la sua pittura: «Che cosa l’ha spinta a dipingere?» gli chiede l’intervistatore. «Il mio vizio assurdo che si è incontrato con una necessità storica: probabilmente era necessario tornare alla pittura», risponde l’artista. Ecco, dopo il decennio 1967-1977, dominato dal rapporto politica-cultura – cultura, si diceva, è ciò che si è non ciò che si sa – alcuni artisti tra cui Enzo Cucchi e Mimmo Paladino riprendono in mano i pennelli e osano tornare alla pittura dopo un periodo di pareti bianche e immaterialità. Mimmo Paladino. Partendo dalla fotografia, il suo eclettismo lo porta ad attraversare la pittura e la scultura, ma anche il teatro, il cinema, la musica, la grafica e, inevitabilmente, l’oggetto libro. A partire dal 1979 Paladino si dedica alla grafica, in un rapporto comprensibilmente connesso alla riscoperta della manualità, laddove l’arte concettuale per definizione nega qualsiasi rapporto. Nasce così il suo primo foglio, stampato nel 1979 da Marco Noire, seguito dalle bellissime grafiche degli anni ottanta-novanta, complice la frequentazione della bottega di Giorgio Upiglio prima e di Romolo Bulla poi. L’incisione traduce efficacemente il carattere spettrale delle sue figure primordiali. Tali visioni trovano ulteriore e significativa rappresentazione nelle illustrazioni per la nuova Bibbia Salani nel 2004 e alla fine del 2005 l’artista allestisce la grande mostra dedicata al Don Chisciotte di Cervantes al Museo di Capodimonte di Napoli. Questo progetto continua l’anno successivo con l’illustrazione di una nuova edizione del Chisciotte e

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con la realizzazione di un libro d’artista con poesie di Giuseppe Conte (Editalia 2006). Nel 2008 esce una nuova edizione del volume per Gli Ori di Pistoia. Sempre nel 2008, dalla collaborazione tra Mimmo Paladino e Ferdinando Scianna per i tipi di Editalia nasce Ombre, un magnifico leporello che si sviluppa orizzontalmente per ventiquattro metri, nel quale le opere grafiche di Paladino, le fotografie di Scianna e i testi scelti da Corrado Bologna sono collegati attraverso tracce, richiami, idee che trascrivono il senso onirico della realtà. Cucchi non è da meno. Anche per lui il percorso artistico si dipana tra pittura, disegno, scultura, teatro, architettura. E, anche in questo caso, il libro è una componente fondamentale del percorso.

Mi limito a segnalare in ordine cronologico tre libri di Enzo Cucchi, oramai diventati rari, che nella diversità di suggestioni a cui rimandano si accordano perfettamente con l’anima dell’artista, sempre attento a cogliere le ombre più che la descrizione delle cose: il bellissimo Tre o quattro artisti secchi (Mazzoli Editore, 1979), Il lupo e la gru. Favola di Esopo (Rizzardi Editore, 1992, tiratura in 150 esemplari con un acquaforte dell’artista) e il volume di Irving Layton Il cacciatore sconcertato (Longo 1993, illustrato dall’artista). Libri d’artista nel senso vero. Libri di segni che portano la pittura oltre la mera rappresentazione e fanno del libro d’arte la miglior manifestazione dell’intersezione tra due realtà, arte e libro, tante volte date per morte ma paradossalmente

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emblematiche di una sorta di miracolo proprio nel loro continuare a esistere. Lo spauracchio del web oramai non terrorizza più, e non è soltanto una questione di qualità dell’immagine quanto, piuttosto, di capacità narrativa, di cura e attenzione del testo e delle dimensioni che evoca. Paladino e Cucchi offrono un esempio folgorante in termini di coraggio: niente distanze idealizzanti ma un andare dritti allo scopo, a volte con ironia.

Sopra Il raro volume Tre o quattro artisti secchi, con disegni di Enzo Cucchi, la copertina del Pinocchio illustrato da Paladino nel 2004 per Papiro Arte e i volumi del Don Chisciotte di Cervantes pubblicati da Editalia, sempre del maestro campano


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IN SERIE

MULTIPLI IN VETRINA DI SILVIA BOTTANI

LE FIGURE SENZA TEMPO DI FORNASETTI Barnaba Fornasetti, il figlio di Piero, ci riceve nel suo studio colmo di oggetti e inizia a parlare del futuro dell’atelier che dirige ormai da anni. Partiamo dalla fine, che poi non è una fine ma un to be continued: che cosa è oggi Fornasetti? Fornasetti è senza tempo e non è collegato né alle tendenze della moda né al design nel senso stretto del termine: si tratta più di figure grafiche che decorano diversi tipi di superficie; il decoro può essere applicato in mille situazioni non necessariamente legate a un prodotto o a un oggetto commerciale. Proprio per questo, l’estetica di Fornasetti è in grado di risvegliare immagini dell’inconscio collettivo da sempre racchiuse nei nostri cervelli. Un oggetto di Fornasetti non è mai passivo: è in grado di parlare a coloro che hanno conservato la capacità di sentire, rispondendo alla necessità di conforto delle pene del vivere moderno. La gente ha sempre più bisogno di decorazione perché ha la stessa funzione della musica, che può sembrare non strettamente necessaria ma lo è: è cibo per l’anima. Cercando un carattere che connoti Fornasetti, al di là degli aggettivi più utilizzati come visionario e imprevedibile, viene in mente «insubordinato»: quali sono per lei i caratteri distintivi della vostra produzione?

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A destra Barnaba Fornasetti ritratto da Giovanni Gastel dinnanzi alla celebre immagine del padre Pietro in uno scatto di Ugo Mulas A pagina 84 Alcuni piatti di Fornasetti realizzati con il volto della cantante lirica Lina Cavalieri

Mio padre fu cacciato dall’accademia di Brera perché contestava i metodi didattici allora in auge, soprattutto quello della copia del corpo umano da fotografia e non dal vero. Per quanto riguarda invece i caratteri distintivi della nostra produzione odierna, sappiamo che non si può riempire il mondo di prodotti, per questo stiamo cercando di svincolare il decoro dall’oggetto commerciale, nella scommessa di rendere il segno fornasettiano accessibile a un pubblico più vasto, anche dal punto di vista economico, mantenendo allo stesso tempo la qualità e l’immagine esclusiva imposta dalla ristretta nicchia del nostro pubblico abituale. Stiamo perdendo il senso del buon gusto. Può sembrare un’affermazione anacronistica, ma mi piacerebbe ricostituire una sorta di canone della bellezza come

fecero i classici al loro tempo. L’atelier di Fornasetti a Milano è un avamposto della produzione artigianale più accurata ed esperta, in cui abili artigiani usano rigorosamente le stesse tecniche manuali impiegate per i primi oggetti di Fornasetti. Il colore è applicato a mano su porcellana, legno e metallo, seguendo ancora i modelli colore su carta originali. Mantenere la qualità di questi metodi è un aspetto importante dell’eredità di Fornasetti. La maggior parte dei mobili e degli oggetti prodotti in atelier sono riedizioni di quelli creati da Piero, mentre gli oggetti denominati re-invenzioni sono da me creati usando gli elementi decorativi e le immagini trovate nell’immenso archivio di mio padre e sono evoluzioni della sua esclusiva produzione.

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Fornasetti è un nome storicamente legato a Milano, che evoca stagioni d’oro della creatività, quando Milano era una fucina di avanguardie e un luogo di sperimentazioni che trovavano spesso un felice connubio con il mondo dell’industria: qual è il suo rapporto con la città e con la sua cultura lavorativa? Non ho scelto di vivere a Milano e ho un rapporto contraddittorio con questa città, ci sono alcuni aspetti che fatico a sopportare. Preferirei vivere in un posto più congeniale al mio animo bucolico, anche perché ritengo Milano non offra tutti i vantaggi di una grande metropoli. Ma più vado avanti con l’età, più scopro valori culturali che vorrei riportare alla luce. Non dimentichiamoci che la nostra è stata la città dei Lumi.


avanti un metodo creativo dopo di lui. Vero è che aveva quasi programmato, disegnato, un archivio di immagini vastissimo, stimolante e un’organizzazione dell’atelier che ha facilitato la continuità a prescindere che l’erede potesse essere un figlio. Siccome credo che sia molto difficile che si ripeta lo stesso per una terza generazione, sto facendo in modo di preparare un team di persone capaci di perpetuare Fornasetti come workshop artistico, creando così una forma espressiva artistica senza un’unica firma. L’arte senza artista, un concetto che già mio padre aveva immaginato per una mostra che non era riuscito a realizzare. La quantità di oggetti realizzata da suo padre è impressionante: come è cambiata oggi la produzione dei pezzi di Fornasetti? Come dicevo, l’atelier Fornasetti a Milano è un avamposto della produzione artigianale più accurata e sapiente. Proprio in questi giorni stiamo mostrando al pubblico la fedeltà ai metodi di produzione artigianale attraverso una serie di video visibili sul sito www.fornasetti.com. Fornasetti è sempre stato considerato l’ambasciatore della decorazione. Ripeto, sto cercando un utilizzo del decoro più slegato dal prodotto. In questo momento, oltre alla normale produzione dell’atelier, ci stiamo occupando di due progetti che ci vedono in prima linea sia come editore di libri d’arte sia come produttore di un’opera teatrale. Per la prima volta in Italia, sarà rappresentata la versione originale del Don Giovanni. Proprio come a Praga nel 1787 ci saranno i suoni e gli strumenti con cui Mozart ha concepito il suo capolavoro e per questo sto collaborando con esperti eccellenti come Simone Toni (direttore musicale), Davide Montagna (regista), Romeo Gigli (costumi), Gigi Saccomandi (luci), Valeria Manzi e Roberto Coppolecchia (direzione artistica). Le scenografie ovviamente sono di Fornasetti.

La libertà poetica e immaginativa di Fornasetti, abbinata al suo rigore artistico, ricorda figure di intellettuali inclassificabili come Vanni Scheiwiller o Mariano Fortuny, accomunati da un quid di unicità. Quali sono oggi, se ci sono, le figure a cui lei guarda con interesse in ambito artistico e culturale? Sono sempre più rari i geni di questo tipo. Prendiamo ad esempio il settore della musica, forse uno dei più in crisi di creatività e identità. Le condizioni di mercato e la facile fruizione di internet hanno reso sempre più difficile che emergano grandi talenti che lascino un segno nella storia della musica come avveniva fino alla fine del millennio. Non nascono più i Mozart, i Satie, i Duke Ellington, i Beatles, i David Byrne e potrei andare avanti a citare centinaia di musicisti passati alla storia lasciando un segno indelebile. Da circa un decennio non mi sembra di vedere niente di veramente forte, rivoluzionario, se non dal punto di vista tecnico. Questo avviene in tutti i campi delle arti. Facendo riferimento al mio caso personale, sono giunto a una conclusione. Mio padre in un certo senso è stato fortunato ad avere un figlio che ha saputo portare

In alto Il Trumeau-bar Architettura, originariamente disegnato da Gio Ponti, fu poi modificato da Piero Fornasetti che per la sua piccola produzione preferì conferirgli un aspetto più squadrato A sinistra La sedia lampada con la caratteristica immagine di Lina Cavalieri

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Franco Cologni in un ritratto di Susanna Pozzoli

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ARTE IMPRESA

IL MOTORE DELL’ARTE DI LORENZO RESPI

COLOGNI, LA FONDAZIONE DEI MESTIERI Nata a Milano nel 1995, la Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte è una solida istituzione no profit che sostiene l’artigianato italiano d’eccellenza con una particolare attenzione per le giovani generazioni. Le attività e le iniziative promosse fino a oggi spaziano dalle mostre agli eventi culturali, dall’editoria alla comunicazione, dalla formazione alla ricerca sulle nostre tradizioni, anche a livello internazionale attraverso la partnership con l’Institut National des Métiers d’Art di Parigi. Per saperne di più, abbiamo rivolto qualche domanda a Franco Cologni, cavaliere del Lavoro, fondatore e attuale presidente della Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte. Il dibattito tra arte e artigianato artistico è un tema di grande attualità. Spesso i presupposti da cui partono le due professioni sono i medesimi, però gli esiti sono spesso divergenti. Che cosa sono i mestieri d’arte? In che cosa si differenziano dal fare arte? Esiste un punto di contatto tra arte e artigianato? I mestieri d’arte sono quelle attività di alto artigianato in cui creatività, maestria e competenza dialogano con la tradizione, l’innovazione e la cultura del progetto. Non sono semplici attività manuali: il maestro d’arte, infatti, non è un mero esecutore, ma un vero interprete. Se l’artista è sempre libero di esprimere la sua visione del mondo, il maestro d’arte sa che invece deve tener conto anche di altri fattori: la committenza, la funzionalità, il gusto. Tra artisti e artigiani ci sono certo innumerevoli punti

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di contatto: per secoli, anzi, arte e artigianato hanno rappresentato due facce della stessa medaglia, ed è ormai tempo di rivalutare la figura del maestro d’arte. La fondazione si ispira al concetto di «nuovo Rinascimento italiano», un riferimento culturale ambizioso e controcorrente in un’epoca dominata dalla velocità e dalla superficialità. In che cosa consiste? In questa prospettiva umanistica, che ruolo hanno i maestri d’arte, da una parte, e i giovani apprendisti, dall’altra? Saper fare bene il proprio lavoro, e farlo con passione, è uno dei grandi segreti per vivere una vita felice, e poche attività danno soddisfazione come i mestieri d’arte. È la grande eredità rinascimentale che vogliamo far rivivere: progettare, creare, raccontare prodotti che abbiano un’anima, che siano autentici e originali, che veicolino una bellezza sempre contemporanea. In questo, il dialogo tra i grandi maestri e i giovani apprendisti è vitale: solo dallo scambio può nascere una visione sempre sorprendente del bello ben fatto. Come insegna Platone, la saggezza e la sapienza nascono dal

dialogo e anche la trasmissione del saper fare non può essere efficace se non grazie al confronto e al rispetto. Tramandare il know how alle generazioni future è un atto dovuto, e necessario, per conservare la tradizione e la cultura del saper fare. Secondo la definizione riportata nella convenzione Unesco, queste conoscenze si classificano come beni immateriali. Quali abilità artigiane e quali spazi di lavoro preserva la Fondazione Cologni? Con il progetto Una scuola, un lavoro. Percorsi di eccellenza abbiamo finanziato centodieci tirocini formativi per giovani artigiani di talento, in tutti i settori dell’eccellenza italiana, dalla liuteria alla gioielleria, dalla pelletteria alla moda, dal restauro all’ebanisteria, fino a lambire settori di nicchia o all’avanguardia, come la prototipazione 3D. Le abilità artigiane che apprezziamo e promuoviamo sono quelle che rappresentano l’autenticità dei nostri territori, che richiedono talento e competenza e che si pongono in dialogo con le sfide del futuro. Ormai la Fondazione opera da più di vent’anni. Sarebbe tempo di bilanci,

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ma penso sia più interessante conoscerne gli sviluppi. Che cosa ci aspetta nel suo futuro? La Fondazione Cologni cercherà sempre di promuovere la cultura del mestiere d’arte, tenendo desta l’attenzione sul valore che l’artigianato artistico, il design e l’eccellenza generano. Promuovere questo vantaggio competitivo sarà sempre la nostra missione, che cercheremo di sviluppare con programmi originali ed efficaci. Credo infatti che per fare la differenza occorra essere un po’ sognatori e un po’ visionari, certo, ma anche un po’ rabdomanti: saper trovare le correnti sotterranee che portano acqua e quindi vita è fondamentale per poter investire sul futuro. In questi anni abbiamo cercato di essere i rabdomanti dei mestieri d’arte, e spero che questo talento ci accompagnerà anche nel futuro. Grazie all’impegno della Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte il lavoro delle botteghe, dei laboratori e dell’atelier d’impresa ha ripreso vigore e, soprattutto, un patrimonio invisibile, probabilmente destinato all’oblio, è stato salvaguardato e trasmesso a giovani promettenti.


In alto Daniela Guida al lavoro su una volta affrescata Foto di Susanna Pozzoli A sinistra Vincenzo Di Martino nell’atelier di ceramica Foto di Susanna Pozzoli A pagina 90 Il liutaio Andrea Palmas Foto di Susanna Pozzoli

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ARTE IMPRESA

COMUNICARE AD ARTE DI ROSSELLA NERI

L’ARTISTA GUALTIERO MARCHESI Dal raviolo aperto all’idiosincrasia per il termine «impiattare», Gualtiero Marchesi ha dettato le regole della cucina italiana come solo Pellegrino Artusi prima di lui. La sua vita e la sua carriera – se non senza volerlo, almeno con leggerezza – hanno creato seguaci, idolatri e invidiosi. Dopo di lui il trono resterà vacante? Per il momento, il maestro si concede di mettere nero su bianco la sua poetica, e lo fa con un catalogo di piatti, permettendosi pure di prescindere dalle ricette. «Il bello puro è il vero buono», una frase che definisce con precisione la sua estetica in cucina. Se dovesse però spiegare ai suoi allievi all’Alma – Scuola Internazionale di Cucina Italiana il rapporto tra arte, cultura e cottura nell’alta cucina, che cosa direbbe loro? Prima di tutto bisogna imparare la cottura, senza conoscerla si può sempre sbagliare. Al cuoco, poi, serve la cultura, deve essere curioso e viaggiare il più possibile. L’arte c’è se c’è l’artista. La differenza tra Alma e l’Accademia Gualtiero Marchesi, nelle sedi di Milano e Varese, sta nel fatto che solo chi ha imparato a cuocere può, in un secondo momento, aspirare a trasformare la cucina in un linguaggio artistico, affinando la propria cultura e la propria sensibilità. Il suo ultimo libro è costruito come il catalogo di una personale d’artista, le ricette sono accennate con parsimonia e i piatti non sono «narranti» ma de-

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IL NUOVO LIBRO «Questo è un libro di piatti e non di tecniche o di ricette. Un libro che fa appello alle immagini, alla composizione, all’idea. Dietro ognuno di questi piatti c’è un pensiero e l’ispirazione legata di volta in volta a un oggetto, un libro, un incontro, una situazione in cui la libertà di spirito non esclude il piacere del gioco. L’idea e l’immaginazione corrispondono al concetto che la forma è materia, che il bello puro è il vero buono». G. Marchesi Gualtiero Marchesi Opere, Works 188 pagine Cinquesensi Editore

scritti con una didascalia. Tuttavia, i piatti non sono in ordine cronologico come ci si aspetterebbe. Quale ordine ha seguito? Ci sono le date accanto a ogni piatto, ma non ho sentito il bisogno di mettere le opere in successione cronologica: sono in ordine sparso, in un rapporto reciproco di pieni e vuoti, di forme e colori, di armonia e contrasti. La sua biografia potrebbe essere quella di un musicista professionista: dai tre ai venticinque anni ha suonato il pianoforte, poi ha sposato la sua insegnante. Nel libro afferma che la musica è la forma d’arte più presente nella sua cucina: ci spiega in che senso? La musica mi è penetrata dentro, fa parte di me. Con la cucina ha in comune il rigore, la precisione, lo slancio. E poi, ho sempre detto che gli ingredienti delle ricette vanno letti sul piatto come le note su un pentagramma.

Il palato è come l’orecchio assoluto? Si tratta di un talento innato? Sì. Ne ho parlato, la prima volta, con Ermanno Olmi. Quando gli ho detto che, secondo me, accanto all’orecchio esisteva anche il palato assoluto, mi ha risposto che la cucina è la più grande delle arti perché comprende la scienza. Dialogando con lei, Gillo Dorfles afferma che la cucina è sempre una «anti-natura» perché è artificiale. Lei dice inoltre che l’uomo, con il suo intervento, «rovina sempre tutto». Dunque che cosa può voler dire l’espressione, tanto in voga oggi, «cucina naturale»? È un’espressione sensata a suo avviso? La cucina naturale è il contrario della cucina che dà spettacolo, pensata, costruita e propinata per stupire. Naturale è il sacrosanto rispetto per la materia prima, che impone di lasciare il più possibile le cose come sono. Un concetto che ho espresso con la co-

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pertina della Lettura del Corriere della Sera dove si vedono solo due trance di branzino cotte al vapore, dentro una cornice di verdure dipinte sul bordo del piatto. Basta il branzino. L’idea vale anche in altri campi: pensi a una bella stoffa, non va rovinata. In Broccolo, il broccolo è cotto intero e servito tale e quale perché, afferma, «già molto bello così». Con questo piatto crede di aver raggiunto l’essenziale o si può andare ancora oltre? Io, per adesso, sono arrivato là, cuocendo il cavolo romano intero, trinciandolo in sala e servendolo con un accompagnamento di salse. Lei ha una certa fissazione per i microclimi, e la sua storia dimostra come la pianura Padana l’abbia resa cantore di un prodotto, il riso, che non era mai stato al centro della cucina italiana. Se cominciasse la sua carriera oggi, su quale prodotto punterebbe?


Non saprei, bisognerebbe avere l’effettiva possibilità di ricominciare. Forse, al posto del riso sceglierei gli spaghetti. In almeno due dei suoi piatti (Piramide di barbabietola e Piramide di riso venere) ritorna una piramide, simbolo alchemico dell’unione dei numeri perfetti quattro e tre. Nella sua ricerca della purezza e dell’equilibrio c’è qualcosa di spirituale? Non c’è dubbio che la simbologia delle forme abbia il suo peso, ma mi sono ispirato a molte cose, compresa una montagna che si affaccia sul lago d’Iseo. La composizione non ha solo un riferimento musicale, né ha solo a che fare con gli equilibri e le dissonanze. Composizione è anche una creazione per lo sguardo. Nel libro racconta che la foglia d’oro sul suo celeberrimo risotto fu la trovata di un fotografo e racconta anche dei piatti scovati in Franciacorta o commissionati a Villeroy & Boch per quella determinata ricetta. Quanto tempo dedica a guardare il piatto finito prima di decidere di consegnarlo al resto del mondo? Quando penso un piatto è già definito nei minimi particolari. Poi, si prova e riprova fino alla perfezione. A proposito di posate lei afferma: «Molti si preoccupano del manico e non della forchetta in sé. Le mie sono diverse a seconda dell’utilizzo: a

quattro rebbi lunghi per gli spaghetti; a quattro corti per raccogliere; a due per non infilare troppo la carne; con il doppio taglio per il dolce e i mancini, senza dimenticare il cucchiaio per il riso o il bicchiere largo per l’acqua liscia e lungo per quella frizzante». Dunque, il concetto di funzionalità in cucina deve essere considerato superiore a quello di bellezza? Che rapporto corre tra i due? Monsieur Dassault, il costruttore dei caccia Mirage, diceva che un buon aereo è anche bello. La funzionalità fa parte della bellezza e la bellezza si sposa alle cose ben fatte, intelligenti. In Achromes di branzino, omaggio all’amico Piero Manzoni, lavora sul colore bianco del pesce appena scottato. Il piatto, come in molte delle sue creazioni più famose, è invece nero. Anche il Riso, oro e zafferano è composto da due sfumature del colore giallo, ma lo sfondo è nero. Il nero è per lei come la tela bianca per un pittore? Non solo. A partire dalla soluzione del bordo nero per fissare il piatto di Riso, oro e zafferano, ho iniziato a prestare molta più attenzione al contenitore. Nella primissima versione il piatto era bianco. Credo che il contenitore svolga la stessa funzione della carrozzeria per un’automobile: è quella che noti per prima e in base alla quale scegli questo o quel modello.

I piatti Uovo al Burri e Composizione in nero sono entrambi dedicati ad Alberto Burri. Ci racconta che cosa le ha ispirato la sua arte? In Burri ho trovato il senso della materia che mi interessa e mi affascina. Creò il raviolo aperto perché temeva che le si aprissero i ravioli durante la cottura o perché voleva tentare di sollevare il velo di Maya che racchiude un ripieno? La verità ultima è che avevo una sfoglia di pasta con una fogliolina di prezzemolo in bella evidenza. Fare il raviolo aperto mi ha permesso di utilizzarla. Bianco di branzino ai finocchi: un piatto del 1986, e uno dei primi in cui è il cliente in prima persona a perfezionare il piatto finito mescolando la zuppa calda al branzino crudo. Allo stesso modo, il Dripping di pesce del 2004, ispirato all’opera di Jackson Pollock, diventa palese solo quando il cliente mescola i colori con la posata. Lei, prima di tutti gli altri, ha fatto in modo che chi mangia cooperi alla realizzazione del piatto. Perché? Far partecipare il cliente, farlo agire, è un modo per spiegare il senso della ricetta, per farti capire. Lei usa il termine «impaginare un piatto»: che cosa ne pensa del termine «impiattare»? Bruttissimo! Quasi come l’espressione «buttare giù la pasta».

A sinistra Uovo al Burri A pagina 94 Il grande chef Gualtiero Marchesi A pagina 92 Riso, oro e zafferano Foto Coimbra

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ARTE IMPRESA

IL MERCATO DELL’ARTE DI GIACOMO NICOLELLA MASCHIETTI

INVERSIONE DI TENDENZA?

Dopo cinque anni di incessante crescita, il mercato dell’arte scricchiola. La notizia può essere maneggiata da prospettive differenti, ma quello che i mercanti e i galleristi più attenti avevano già subodorato nel settembre 2015, dopo la pausa estiva, si è verificato in maniera perentoria nelle aste newyorchesi di gennaio e in quelle della city a febbraio. La prestigiosa collezione Taubman, che doveva garantire a Sotheby’s oltre mezzo miliardo di dollari, non ha raggiunto i target previsti. Christie’s ha addirittura rinunciato a proporre la consueta vendita di Old Masters a New York, a gennaio, probabilmente colpevole di non aver trovato capolavori sufficienti per giustificare una piazza così prestigiosa. E ancora, a febbraio i fatturati di entrambe le major, sia per quanto riguarda gli impressionisti che il Post War hanno dimezzato letteralmente le cifre del 2015. Da Christie’s solo gli inglesi hanno tenuto: David Hockney, Lucian Freud, Peter Doig, qualche fioco lampo di Bacon. Un dato probabilmente inevitabile, perché se si calcola che nel primo trimestre 2016 sono stati bruciati decine di miliardi sulle borse di tutto il mondo, la precauzione diventa un obbligo e la timidezza si diffonde anche sui mercati secondari come quello dei dipinti e delle opere d’arte a tutto tondo. Secondo alcuni importanti player del mercato che abbiamo intervistato recentemente, come Marco Voena della Galleria Robilant+Voena, occorre «prendere coscienza di una tendenza. Ce lo aspettavamo, era nell’aria. Abbiamo lavorato be-

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nissimo negli ultimi cinque anni, ora per continuare a commerciare è il momento di prendere per mano artisti e opere che non necessariamente superano il milione». Un’inversione rispetto alla corsa al capolavoro assoluto sempre e comunque, che nel 2015 ha fatto registrare i maggiori record di tutti i tempi. Il più alto, centosettantanove milioni per una tela di Picasso a New York. Venendo agli artisti nostrani, il record di Alberto Burri a otto milioni di sterline per un sacco del 1959 (Sotheby’s London) non va interpretato come un episodio straordinario. È evidente che i colleghi americani hanno prezzi ancora molto più alti rispetto ai nostri alfieri degli anni sessanta, dunque per i big italiani senza dubbio esiste ancora ampio spazio di crescita. Parliamo di Fontana, Castellani, Manzoni, Burri. E anche arte povera, Gruppo Zero o pittura analitica si stanno affacciando senza troppi complimenti sui palcoscenici internazionali. La galleria Cardi ha recentemente dichiarato di aver avuto ottime soddisfazioni in Brasile e in Asia proprio con Pistoletto e Penone. Attenzione però alla speculazione facile: il caso Paolo Scheggi che in un lustro passa da venti-trentamila euro per un lavoro medio a oltre il milione di euro è significativo. Ricordiamo anche i tre mi-

lioni e rotti pagati alle ultime Italian Sales per un’opera, certamente molto iconica, di Luciano Fabro. Decisamente troppo. Insomma non bisogna farsi prendere dalla foga, occorre oggi più che mai tanta informazione sull’opera, sull’artista, sull’archivio, su chi lo tratta e sulle quotazioni a cui lo sta vendendo. Se l’aria di incertezza che si respira in questi mesi può da un lato spaventare, dall’altro ha anche aspetti positivi. I lavori storici, le riscoperte, hanno molto da dire a livello accademico e si portano a casa spesso con prezzi al dettaglio sotto i venti-trentamila euro. Il contemporaneo è ovviamente la fascia che ha risentito di più della frenata: la sua fisionomia di terroir perfetto per gli speculatori ne è la causa. Dove dunque è possibile comprare senza rischiare grosse scottature? Un consiglio ragionevole potrebbe essere quello di seguire i «cani da tartufo» di taglia minore, che lo scorso anno hanno regalato interessanti lavori ai collezionisti più attenti. Sono le case d’asta nazionali, come Pandolfini, Wannenes, che ha da poco potenziato anche la sezione dedicata al moderno, Il Ponte, Cambi. In queste sedi si possono spuntare ottimi prezzi per cose «piccole», per loro natura scartate dalle major, storiche, talvolta molto interessanti. Buona fortuna.

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In questa pagina Il dipinto di Peter Doig The Architect’s Home in the Ravine, del 1991, battuto a 483.228 euro, e Sacco rosso di Alberto Burri, del 1959, che ha raggiunto la cifra record di 11.779.799 euro, entrambi battuti da Sotheby’s. A sinistra, un’immagine dell’asta di Christie’s


VELASCO VITALI L’inizio è segnato dall’incontro con Giovanni Testori e dalla partecipazione alla mostra Artisti e scrittori presso la Rotonda della Besana di Milano. Dopo alcune mostre personali, la sua pittura si concentra sulla tragedia che distrugge parte della Valtellina alla fine degli anni ottanta. Alla fine dei novanta è invitato alla Quadriennale di Roma e nello stesso periodo comincia un percorso artistico che gravita sui porti del Mediterraneo e del Sud Italia: nascono Isolitudine con Ferdinando Scianna, nel 2000, e MIXtura con Franco Battiato, nel 2003. Nel 2004 Electa pubblica Velasco 20, monografia sui primi vent’anni di lavoro dell’artista. Con la curatela di Danilo Eccher, realizza Immagini, forme e natura delle Alpi (2007) e Lato4 (2008). A cura di Fernando Mazzocca e Francesco Poli è Sbarco (2010), allestito in piazza Duomo e nel complesso di Sant’Agostino a Pietrasanta e a Milano, in piazza Duca D’Aosta e a Palazzo Reale. Nel 2011 è invitato al Padiglione Italia della Biennale di Venezia e viene pubblicato Apriti cielo, che raccoglie acquerelli sul tema del sacro: tra questi figurano alcuni dei disegni realizzati per la pagina culturale del Corriere della Sera, con cui collabora dal 2007. Nel 2012 realizza Foresta rossa, intervento artistico a Verbania e sull’isola Madre, presso Stresa. La riflessione sulle città fantasma porta alla mostra Foresta rossa: 416 città fantasma del mondo alla Triennale di Milano. Lo stesso anno vede l’installazione del gruppo di sculture Branco da un progetto di Flavio Arensi presso il Vittoriale degli Italiani, e il progetto monumentale Medi terraneo al castello Ruffo di Scilla. Nel febbraio 2015 è invitato alla Berlinale (sezione Forum, vincitore del premio Fipresci) come produttore e protagonista del documentario Il gesto delle mani, per la regia di Francesco Clerici. Nel giugno dello stesso anno, su invito di Emilio Mazzoli, torna a esporre nella omonima galleria modenese, con la mostra Fuga.

A sinistra In esclusiva per Sofà, l’acquerello di Velasco Vitali Branco, 2016, 41 x 31 cm

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