Bandiera arancione la trionferà

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1. Dopo l'URSS: come ti coloro la democrazia

Da Vilnius, la capitale lituana, il centro dell’Europa dista poco meno di mezz’ora di macchina. La strada che inizialmente è a due corsie diventa sempre più stretta col passare dei chilometri. A un certo punto, sulla statale che porta a Moletai, trovate anche un cartello stradale che vi indica il cuore del Vecchio Continente. Le autorità lituane per rappresentarlo hanno optato per un grosso masso. Non una scelta leggiadra. Se, come sempre accade d’inverno, c’è la neve, individuare la collinetta e il suo grosso sasso tondeggiante non sarà facile. Una volta trovato e tolto il manto bianco, vi compare la scritta Europos Geografinis Centras. Siamo in un punto della terra, sperduto nel nulla, che ha una latitudine di 54° 54 e una longitudine di 25° 19. A giudizio dell’Istituto geografico nazionale francese e del governo lituano (che ne va particolarmente fiero) è il centro geografico d’Europa. Non l’unico, visto che questo primato è conteso da molte città. Fino a qualche tempo fa la maggioranza dei geografi sembrava certa fosse in Germania, nel land della Renania-Palatinato, ma non era ancora caduto il Muro, non era ancora cambiata la faccia dell’Europa. La crisi seguita all’11 settembre ha catalizzato l’attenzione del 21


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mondo sì verso oriente, ma verso quello meridionale, ossia al cosiddetto Medio Oriente. Il baricentro europeo è invece sempre più spostato verso nord-est. Non c’è bisogno del sasso lituano o di un navigatore satellitare per scoprirlo. La geopolitica è cambiata e sta cambiando. Con l’ingresso di dodici nuovi Paesi nell’Unione europea, l’Italia è diventata periferia sud dell’Unione e il cuore dell’Europa che prima ci era vicino (collocabile tra Francia e Germania) ora è spostato più a est. Il problema della nostra collocazione sul mappamondo non è nuovo, come ricorda lo storico Martin Clark: “Gli italiani non si sono mai messi d’accordo riguardo a dove si trovino i loro interessi nazionali”.1 Non sono tematiche limitate ai soli cultori della politica estera se è vero che il gas con cui prepariamo il caffé proviene proprio, in larga parte, da quella Russia che sta cercando di ridiventare un impero. A spese degli Stati con cui confina. Per il gas si è già combattuta la prima guerra fredda del nuovo millennio, ma battaglie si susseguono ogni mese. Da un lato c’è il principale produttore del mondo, la Russia di Putin. Dall’altro capo dei gasdotti, l’Europa occidentale sempre più affamata di questa materia prima con la quale (soprattutto in Italia) si produce anche energia. In mezzo, tra Putin e noi, molti Paesi che un tempo erano sotto il tallone sovietico e che ora stanno cercando la loro indipendenza da Mosca e che per questo vengono sottoposti a ricatti politici e commerciali dal nuovo corso del Cremlino. Gli aneliti di libertà nei Paesi dell’ex spazio sovietico vengono chiamati rivoluzioni democratiche, arancioni, colorate o di velluto. Hanno tutte le stesse fondamenta: sono filo-occidentali ed europeiste, di massa e nonviolente. Sono unite da un’altra caratteristica: l’uso di un colore o di un simbolo che segnali la differenza tra chi li indossa e gli altri, i burocrati del regime o i nostalgici filo-russi. Il colore della rivolta Le bandiere arancioni sventolano ormai in molti angoli dello 22


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spazio ex sovietico. Il mondo le ha conosciute alla fine del 2004 in piazza dell’Indipendenza a Kiev, la capitale dell’Ucraina, ma con diversi colori avevano cominciato ad agitarsi, un anno prima, in Georgia e all’inizio del millennio in Serbia. Quelle bandiere hanno cambiato il panorama politico di molte nazioni dove  dopo la caduta del Muro  democrazia ha spesso significato solo andare a votare ma dove la libertà non è stata di casa. Sono state rivoluzioni liberali che hanno portato democrazia e diritti. La rivoluzione democratica non è riuscita, nel 2006, a travolgere il regime para-sovietico che soffoca la Bielorussia ma ha obbligato il satrapo Lukašenko a mostrare i canini nascosti dietro il sorriso da contadino. La paura di cambiamenti liberali sta attanagliando anche la più grande democrazia controllata d’Europa, quella Russia che da quando è governata da un ex colonnello dei servizi segreti ha perso gran parte delle conquiste civili che erano state introdotte da Gorbaèëv ed El’cin. Putin ha paura. Solo così si spiegano leggi come quelle che impongono, con la scusa dello spionaggio, la chiusura delle Organizzazioni non governative non in linea col Cremlino e gli arresti arbitrari per impedire a chi lo voglia di andare a manifestare con la (debole) opposizione. Eppure, malgrado le premesse e le prospettive, per qualcuno quelle bandiere arancioni, quei fazzoletti sventolati orgogliosamente, quelle tende piazzate sulle strade e sulle piazze ghiacciate, sono null’altro che simboli dell’invasione americana. Per un meccanismo pavloviano in gran parte della vecchia Europa tutto ciò che è sponsorizzato (economicamente e politicamente) da Washington viene visto solo come l’attacco del capitalismo più becero e non come un vento di libertà, non come un’occasione (da rintuzzare col tanto decantato riformismo politico tipico della Vecchia Europa) ma come un pericolo. Le difficoltà degli arancioni in Ucraina (sconfitti dai filorussi alle politiche del 2006) sono state accolte con entusiasmo dai siti internet del radicalismo post-comunista italiano (come ad esempio resistenze.org) dove si parla di “battuta d’arresto delle 23


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rivoluzioni dei colori di importazione Usa, sapientemente accreditate in Europa, anche a sinistra”. Insomma, invece di migliorare quanto stanno facendo gli americani ai confini orientali dell’Unione europea, preferiamo chiuderci nel nostro isolamento. Basti pensare che gli aiuti economici dell’Unione europea verso l’Ucraina non sono cresciuti nemmeno dopo la vittoriosa rivoluzione filo-europea di Kiev. La scarsa attenzione che si è avuta verso l’Ucraina, la Georgia e che si ha ora verso la Bielorussia – scomparsa ormai da telegiornali e dai quotidiani, così come dai settimanali  non è positiva. E il silenzio su quel che tuttora accade laggiù è ancora più colpevole in un mondo globalizzato. Ignorare quel che avviene a pochi chilometri da noi è, infine, sciocco. Perché ormai è evidente che un battito di farfalla a Minsk può far tremare il Colosseo. Globalizziamoci Eppure tutto è globalizzato tranne la politica e  secca dirlo, lavorandoci  i mass media italiani. Altrimenti come si spiegherebbe lo stupore con cui si è accolta nell’inverno tra il 2005 e il 2006 la guerra del gas tra Russia e Ucraina? Non è scoppiata da un giorno all’altro. È stata, di fatto, un vendetta russa alla rivoluzione democratica che aveva spodestato il clan Kuèma, il regime ucraino legato politicamente a Mosca. Una vendetta commerciale preceduta da numerosi avvertimenti. Ignorati in maniera suicida a Kiev e inascoltati nel resto d’Europa. Come nel Bel Paese: «Enrico Mattei non sarebbe stato colto di sorpresa come invece sembra sia successo all’amministratore delegato di Eni, Scaroni», commenta Nerio Nesi, un tempo ministro socialista dell’Industria. In Italia, fortunatamente, la democrazia è più consolidata e il Paese non dipende politicamente da Mosca. Così nelle elezioni del 2006, abbiamo avuto la caduta di un presidente del Consiglio che, per amicizia col nuovo zar di Mosca, ne aveva persino invitato le figlie in Sardegna mentre le mogli, Veronica e Ljudmila, diventavano amiche. Berlusconi ha sempre difeso a spada tratta 24


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Putin: ha negato persino che l’ex spia del Kgb sia stato comunista (lo chiama “l’amico sinceramente democratico”, un po’ come l’ex cancelliere tedesco Schröder che lo definisce un “democratico puro”), e lo ha assolto per la guerra in Cecenia (“dove c’è un’attività terroristica con molti attentati verso cittadini russi senza una risposta corrispondente”, ha detto, ignorando, o fingendo di farlo, i 250 mila morti della seconda guerra cecena scatenata proprio dall’amico Vladimir). Ma Roma non è Minsk e Milano non è San Pietroburgo e al voto, seppure a fatica, il premier di destra che difendeva l’uomo forte del Cremlino viene mandato a casa e al suo posto sale un professore che ha guidato la Commissione europea. Fidarsi di Putin? Dopo le elezioni del 2006, qual è stata la nuova politica estera italiana verso il mondo russo, quale il suo filo conduttore? La prima risposta non è stata la più convincente. Il tentativo lanciato da Romano Prodi, poche settimane dopo essere stato nominato premier, di stabilire rapporti bilaterali stabili con la Russia di Putin, è un modo rischioso di affrontare un Paese che sta facendo dell’aggressività verso l’Europa la sua strategia. L’Italia, Paese che è davvero a rischio energetico, non può attualmente prescindere dal gas russo. E l’Eni di Scaroni ha stretto (con l’accordo firmato nel novembre del 2006) rapporti privilegiati con la società grimaldello della politica estera di Putin: la Gazprom. Se invece di muoversi in ordine sparso l’Unione europea (che dipende largamente dall’energia russa), andasse a Mosca mettendo sul piatto il peso di 145 milioni di utenti, si potrebbe avere una forza maggiore nelle trattative. Un’azione comune da intraprendere subito perché attualmente la Russia ha i gasdotti tutti rivolti a ovest. Se non lo vende a noi il gas, lo può certo dare a Cina e India. Ma con costi di trasporto infinitamente più alti. Almeno fino a quando (e non manca molto) le tubature russe, oltre che ad ovest si dirigeranno anche a sud-est. Senza la forza d’urto dell’Unione europea (prima potenza 25


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commerciale del mondo), c’è poi il rischio che il presidente russo continui a fare il bello e il cattivo tempo: usando Gazprom come una clava, alleandosi un giorno con gli algerini, scambiando il giorno seguente armi in cambio di gas con il Venezuela di Chavez o ancora esportando tecnologia nucleare all’Iran. D’altronde come sostiene la giornalista russa Elena Tregubova: «Finché la Russia sarà fondamentale nell’approvvigionamento energetico mondiale nessuno in Occidente oserà dirle niente». Così il Paese di Putin è diventato talmente forte e sfrontato da aver chiamato a corte persino il primo ministro tedesco appena sconfitto alle elezioni. Con quello che viene chiamato il nuovo zar del Cremlino occorrerà quindi muoversi con prudenza e ricordarsi sempre che con lui l’economia russa è sì cresciuta, ma a scapito delle libertà individuali dei suoi concittadini. In clinica psichiatrica Parlare di violazioni di diritti umani, non è un modo di dire. E non riguarda solo la Russia ma anche altri Paesi ex sovietici. Verso la fine degli anni Settanta in Urss c’erano un centinaio di ospedali psichiatrici per dissidenti, malati di mente che osavano opporsi al regime. La pratica era chiamata psichuška. Qualcosa dei vecchi metodi del Kgb deve essere sopravvissuto se è vero che Albert Imandayev, imprenditore russo che voleva candidarsi nel 2005 alle regionali di Èeboksary, sul Volga, è stato richiuso in un ospedale psichiatrico. La malattia diagnosticata (“grave forma di schizofrenia”) è guarita in una settimana, non appena sono state chiuse le liste elettorali. Lo stesso trattamento trova adepti anche in Bielorussia dove, nell’autunno 2006, un’attivista dei diritti umani, Katsjarjna Sadouskaja, arrestata dal Kgb per aver insultato l’onore e la dignità del presidente bielorusso, è stata poi trasferita nella clinica psichiatrica dell’ospedale Navinki. La donna, insieme al marito ha creato il gruppo Vjasna che ha pubblicato un dossier sulla repressione durante la campagna elettorale 2006. Anche in Turkmenistan se, come Kakabay Tejenov, scrivete una lettera di protesta (classica forma di protesta nonviolenta) al 26


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vostro sindaco, finite in una clinica psichiatrica. Se avete settant’anni e la detenzione in un reparto di psichiatria vi ha debilitato, dopo dieci mesi (ottobre 2006), vi sposteranno in un ospedale vero e proprio. Tejenov è l’autore di un testo sulla “violazione dei diritti umani in Turkmenistan”. Il documento è circolato solo tra ambasciate e Organizzazioni non governative. Leggendo nell’ottavo capitolo la situazione dei diritti civili in Turkmenistan e i rischi che corrono gli oppositori, forse concorderete sul fatto che l’anziano Tejenov è davvero un po’ pazzo. Punto di frattura Solo muovendosi sui punti di frontiera si capiscono quali siano i termini dello scontro tra i vari mondi. Tra comunismo e capitalismo, una volta. Tra religioni nell’ex Jugoslavia, tra est e ovest nei Paesi dell’ex blocco sovietico. Le frontiere, o i posti di frontiera, sono non luoghi dove anche la globalizzazione arranca, dove emergono tutte le contraddizioni del pensiero unico. Raramente capita di trovarsi in luoghi che diano la sensazione di essere sul punto di confine: non mi riferisco alle frontiere presidiati da stanchi doganieri e nemmeno a quelle che si superano senza accorgersene in montagna o al mare. No, quelli davvero interessanti sono i confini tra due mondi. Si attraversavano più volte e inconsciamente durante la guerra in Croazia o in Bosnia, dove capitava di andare controcorrente rispetto ai profughi che fuggivano o si credeva di trovarsi in un territorio controllato da un esercito e invece si incappava in un carro armato dell’altra fazione. Un confine tra due mondi è stato il centro storico di Kiev durante la rivoluzione arancione. Forse anche lì i lituani avrebbero potuto mettere le loro indicazioni geografiche sul cuore d’Europa: di fronte al palazzo presidenziale ucraino. Da una parte c’erano le forze speciali in assetto da battaglia che presidiavano i luoghi simbolici del potere (che nel frattempo stazionava in tranquille dacie di campagna); dall’altro le vie erano bloccate da camion e da migliaia di manifestanti arancioni in picchetto. A turno, malgrado il freddo pungente, i ragazzi gridavano agli 27


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agenti di unirsi alla lotta; si incontravano anche gruppi musicali improvvisati che intonavano canzoni del folklore locale. Quello era il luogo di confine tra due mondi molto distanti. La frontiera tra giovani che sognavano l’Occidente e soldati costretti a difendere il confine russofilo e russofono. La terra di nessuno tra i due fronti, forse anche tra l’Europa cattolica e quella ortodossa. Chi critica la globalizzazione dovrebbe sforzarsi di fissare l’attenzione, anziché al McDonald sotto casa, proprio a quelle zone di confine tra l’area di influenza dell’Unione europea (e degli Stati Uniti) e quella della Russia. È in quei luoghi o non luoghi che si percepisce come la fetta del mondo in cui viviamo sia, al momento, con tutte le sue contraddizioni, la migliore possibile. Il mondo senza le Twin Towers La globalizzazione pone ogni Paese del pianeta, anche il nostro, in una situazione in cui i criteri giuridici della sovranità nazionale sono posti in secondo piano. Se qualcuno pensa che dopo l’11 settembre la politica estera americana abbia cambiato registro solo verso il mondo islamico, probabilmente non è stato nei Paesi che una volta erano oltre la Cortina di ferro. Molti di quegli Stati, riacquisita l’indipendenza, hanno aderito (o cercato di aderire) alla Nato, all’Unione europea, all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto). È un’area geografica nella quale, più che altrove, si sta decidendo dove puntare la propria bussola. Per chi pensa (e chi scrive tra questi) che quei Paesi dovrebbero orientarla verso ovest, verso i valori della democrazia liberale occidentale, osservare quel che accade nell’ex Patto di Varsavia conferma che quei valori sono condivisi da larghe fette della popolazione e, cosa importante, da quelle più giovani e scolarizzate. Può essere considerato unilateralismo anche esportare la democrazia nell’est Europa? Forse sì, se lo lasciamo gestire solo all’America di Bush, e ai neoconservatori statunitensi. Perché come ci ricorda Christian Rocca2: «I neocon sono idealisti prag28


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matici. Non vogliono esportare la democrazia ovunque. Non vogliono abbattere tutte le dittature del mondo, ma solo dove sia conveniente per l’interesse americano». In realtà era stata l’amministrazione Clinton a teorizzare per prima l’esportazione della democrazia. Fu allora che gli Stati Uniti, rimasti unica superpotenza al mondo, hanno elaborato una teoria geopolitica: sfruttare la scomparsa dell’Urss per estendere le democrazie nel mondo, per avere più sicurezza. Diceva Clinton ancora impegnato nelle primarie: «La difesa della libertà e la promozione della democrazia in giro per il mondo non sono soltanto un mero riflesso dei nostri valori più profondi, sono vitali per il nostro interesse nazionale. Le democrazie non si fanno la guerra. Le democrazie non sponsorizzano atti terroristici contro altri Paesi». Il retro pensiero di questa teoria è: più democrazia uguale più mercato e quindi, in un mondo globale, più soldi per il capofila del mercato, gli Stati Uniti stessi. Ma questa via consumistica alla democrazia non deve spaventare. Per fare l’esempio della Bielorussia, lì aprire un negozio è un’impresa davvero stoica. Idem per un operaio iscriversi al sindacato che preferisce o per uno straniero acquistare un terreno. La possibilità di comprarsi il vestito che si vuole, è una grande libertà, perché come ricordava Tocqueville «fra libertà e industria vi è uno stretto legame».3 Estendere la democrazia ed estendere i propri confini a est temo siano sinonimi per l’Unione europea. Con tutto il gradualismo possibile, un’ulteriore espansione a quei quattro o cinque Paesi ex sovietici che desiderano essere governati da Bruxelles avrebbe anche enormi vantaggi economici, oltre che di stabilizzazione di un’area inquieta. Guardate i Balcani. Da quando la prospettiva è quella di entrare nell’Unione, i contrasti si sono assopiti. A giudizio di David Polansky «alla fine l’Ue – se non subito almeno nel prossimo futuro – ha molto più da offrire, economicamente e politicamente, ai Paesi europei più filoamericani, che non gli Stati Uniti».4 L’Europa ha infatti il vantaggio di poter estendere la democrazia senza dover impugnare le armi, ma semplice29


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mente con la forza d’attrazione che esercita sui suoi vicini. È quello che Robert Cooper chiama «il miraggio della cooptazione».5 Espandere ulteriormente l’Unione significherebbe isolare Mosca? Forse sì. Ma è possibile accettare, come stiamo accettando, che sia sempre Putin a dettare le condizioni? Chi si oppone ai cambiamenti occidentali (ossia, in buona sostanza, all’introduzione dell’economia di mercato accompagnata però da rigide regole democratiche, la famosa divisione dei poteri, sconosciuta in Urss e tuttora in alcuni Stati sorti dalle sue ceneri) non ha al momento altra scelta che ricorrere ai meccanismi del passato sovietico. A Minsk come a Mosca. Oggi a Kiev, domani a Minsk «È affascinante come le rivoluzioni di velluto d’Europa siano concatenate», dice Timothy Gratin Ash. In effetti la prima cosa che, nel 2004, da profani, si notava sulla piazza dell’ Indipendenza a Kiev erano le decine di bandiere georgiane. Lì c’erano molti giovani provenienti da Tblisi (dove la rivoluzione era scoppiata un anno prima). Ma quanti sventolavano il vessillo bianco con la croce rossa di san Giorgio erano spesso gli stessi giovani ucraini che esprimevano così l’auspicio di far fare a Kuèma la stessa fine di Ševernadze: archiviarlo pacificamente, rinchiuderlo per sempre in un libro di storia. In Bielorussia, nel 2006 i rivoluzionari in jeans non hanno utilizzato bandiere straniere. Stranieri dietro i giovani manifestanti di Minsk ce n’erano: serbi, polacchi, georgiani, ucraini. Ma nessuno voleva dar appigli al dittatore che sosteneva (e sostiene, essendo ancora saldamente in sella) che la rivolta fosse guidata dall’estero. E poi di bandiere da sventolare i giovani di Minsk ne avevano già una super illegale: quella bianca e rossa a strisce orizzontali, che il regime considera illegittima per quanto abbia sventolato sui palazzi del potere di Minsk per quasi tre anni, dal 1992 al 1994. Gli anni della libertà da Mosca. Gli anni in cui però le riforme economiche radicali avevano lasciato i supermercati vuoti e molta gente senza stipendio. Ma questa è un’altra storia e non è certo un buon motivo per rendere illegale un vessillo. 30


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È una battaglia di simboli, di colori e di bandiere quella che si sta silenziosamente combattendo ai confini orientali del nostro mondo. Miraggio Europa Muovendosi verso est (e abbandonando le autostrade), in molte città troverete bar che si chiamano Euro. Fatto buffo se si pensa che da noi invece il 42% della popolazione vorrebbe tornare sui suoi passi6 mentre nei giochi televisivi ci si sforza ancora di tradurre il valore della moneta europea con quella della vecchia lira italiana. Un anelito nostalgico che la dice lunga sull’incapacità per il nostro Paese di guardare avanti. L’Unione europea da noi vecchi europei tanto criticata e persino detestata è invece un miraggio per tanti popoli in difficoltà: georgiani, armeni, moldavi, ucraini, forse anche azeri. In molti di questi Paesi la bandiera blu con le stelle d’oro è un simbolo che ha rimpiazzato nell’immaginario collettivo quella a stelle e strisce. Il mito americano, intendiamoci, resiste nei Paesi dominati per 50 anni dall’ideologia sovietica e dall’economia statale. Ma se l’America è lontana l’Europa è invece appena al di là del muro di Shengen, che abbiamo creato con le quote e con norme tanto assurde quanto costose e inutili. Anche per questo l’euro ha soppiantato in gran parte di questi Paesi il dollaro nelle transazioni finanziarie. Andando nell’ultima nazione risorta dalle ceneri della storia europea, proprio sulle coste di fronte a Bari, troverete un Paese che da anni ha abbandonato il dinaro per sostituirlo con l’euro. È il Montenegro, Paese divenuto indipendente nel 2006 grazie a un referendum. Nessuno a Bruxelles ha ammesso Podgorica nel club monetario, ma per uscire dalle sabbie mobili dei Balcani, la piccola repubblica ha voluto precorrere i tempi. Così, seduti sulla riva del Mediterraneo ammirando le bellissime Bocche di Cattaro, potete sorseggiare una birra pagandola con gli stessi centesimi che usate a Rotterdam. L’Europa probabilmente attira a sé tutti questi Paesi perché ha gli stessi modelli di vita americani, senza averne l’atteggiamen31


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to un po’ colonialista e un po’ yankee che caratterizza quelli che in Sud America vengono bollati come gringos. L’Europa attrae anche perché la sua moneta è qualcosa di più di un pezzo di carta o di metallo. È un po’ un simbolo, come la bandiera per i bielorussi. Alla periferia di Trieste inizia la Slovenia. Tra i dieci Paesi entrati in Europa nel maggio 2005, è la nazione con la situazione economica più stabile.7 Buona crescita economica, con disoccupazione e inflazione sotto controllo. Il Paese, in base alle regole stabilite da Bruxelles anni fa, sarebbe dovuto entrare nell’area Euro non prima del 2009. Dall’inizio del 2006 i negozianti sloveni hanno cominciato a indicare il prezzo delle loro merci con la doppia valuta: talleri ed euro. Il tutto per far abituare le persone all’utilizzo della nuova moneta. Risultato: quella che viene chiamata la “Svizzera dei Balcani” è il tredicesimo Paese ad entrare nel Club dell’Euro e con due anni di anticipo sulla tabella di marcia. La Slovenia confina con l’Italia. Ma anche con l’Austria e questo, temo, l’aiuti di più a costruirsi il futuro. Anche nei Paesi ex sovietici l’Europa è un obiettivo cui puntare. Da qualche mese, le bandiere europee sventolano un po’ ovunque nelle strade di Tblisi, la capitale georgiana. E quando hanno chiesto al leader dell’opposizione bielorussa perché il simbolo della loro rivolta contro il regime di Lukašenko sia diventato il jeans lui ha spiegato che i jeans sono blu, il colore della bandiera europea. Insomma, è facile che la Costituzione europea contro cui si sono accaniti i (sovvenzionati) contadini francesi e la sinistra al caviale, in tanti Paesi che ancora non fanno parte dell’Unione europea avrebbe avuto un plebiscito. E non solo perché l’erba del vicino è sempre più verde. L’allargamento dell’Unione europea ha stabilizzato l’Europa orientale, aiutando la democrazia di Paesi usciti a pezzi da regimi comunisti e dispotici (si pensi, ad esempio, alla Romania). Ora, però, alle frontiere di Shengen è comparso il cartello tutto esaurito. Peccato perché persino l’euroscettico 32


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Economist ha dovuto ammettere che “l’espansione all’est è stata il più grande successo di politica estera dell’Unione”. Per tutte le altre nazioni invece qualcuno ha deciso che la ricreazione è finita. Chi è dentro è dentro. Per accogliere gli altri, come ha recentemente detto anche il presidente della Commissione Barroso ai rappresentanti ucraini: We are not ready, non siamo pronti. Porte chiuse Poco dopo la sua nomina a cancelliere tedesco, Angela Merkel ha spiegato bene quale sia il pensiero suo, e purtroppo di gran parte dei vecchi europei sul limes dell’Unione che, secondo la Cancelliera, «deve darsi dei confini. Non è possibile che qualsiasi Paese si candidi a entrare in Europa ». Già, non è possibile. Ma quali sono allora i criteri? Gunter Verheugen (allora commissario europeo per l’allargamento, e sottolineo per l’allargamento, termine col quale penso si intenda l’allargamento dell’Unione) ha risposto così alla Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung che lo sondava su una possibile inclusione dell’Ucraina tra le stelle europee: «Se lo scopo della Unione europea fosse l’allargamento, nel mondo, della democrazia, della legalità e dei diritti dell’uomo, del rispetto delle leggi, dovremmo proporre l’affiliazione all’Unione ovunque questi valori non vengano osservati a sufficienza. Infatti, il nostro problema non è come estendere la democrazia e il rispetto delle leggi, bensì quale sia l’interesse degli europei ». Ah sì, proprio un bel discorso da commissario per l’allargamento. L’Ucraina non è forse in Europa? Ucraina, Moldova, Azerbaijan, Georgia e Armenia sono stati inseriti nella Politica di vicinato dell’Unione. Con quale obiettivo? Con quali prospettive? Hanno aderito al Consiglio d’Europa. Sono Paesi europei o no? Il loro ingresso è o non è un nostro interesse? Il senso di questa chiusura lo dà sull’Espresso Andrzej Stasiuk, polacco illuminato: «La libertà all’interno dell’Unione europea, il conforto nel viaggiare, la scomparsa delle barriere 33


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doganali, il flusso libero di genti e di merci ha come effetto che chissà dove alle periferie dell’Europa ci toccherà innalzare una sorta di muraglia cinese. Oppure una sorta di cortina di ferro. C’è una diabolica ironia nel fatto che questo muro sarà costruito in nome della difesa delle libertà democratiche di fronte al resto del mondo. Sentiremo di essere un popolo eletto europeo perché la sera in tv potremo osservare folle di milioni di esclusi e di reietti bussare alle porte del nostro regno dell’abbondanza». Eppure, fin dal 2003, quando Bruxelles avviò la Politica di vicinato con i nuovi Paesi confinanti sembrava voler avere come strategia il superamento dell’unilateralismo: «L’Unione renderà più coerente la sua politica in materia di diritti umani. Nei suoi sforzi per sostenere e sviluppare il diritto internazionale, l’Unione continuerà a porsi come obiettivo prioritario della sua politica estera e di sicurezza la promozione e la tutela dei diritti umani, sia negli organi e nei consessi multilaterali che nei contatti bilaterali con Paesi terzi».8 Parole rimaste sulla carta. In assenza dell’Unione europea è sempre più la Nato (ormai trasformata in un’alleanza politica su basi militari) a svolgere le funzioni multilaterali. D’altro canto le porte sbattute in faccia agli aspiranti europei hanno invece favorito il ritorno della (pre) potenza russa. Bella difesa degli interessi europei, davvero. Non tutto è perduto però. La sfida è appena iniziata. E la bandiera democratica e liberale potrebbe essere raccolta dai riformisti europei. Esportare la democrazia, a sinistra Nel mondo globalizzato, però, chi vuole esportare democrazia, diritti e libertà oggi si trova spesso più destra che a sinistra. Qualcuno parla di imperialismo democratico. Ma una volta anche l’impero romano era imperialista. Oltre c’erano i barbari. E poi basta leggere Amartya Sen per rendersi conto che pensare che la democrazia sia solo europea e occidentale è una forma subdola di colonialismo. Per Sen «la lotta per la democrazia in tutto il mondo rappresenta la più grande sfida dei nostri tempi».9 34


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Qualcuno l’ha capito in Italia, anche a sinistra. E non sono più i soli Sofri o Pannella. Ma il segretario del primo partito della sinistra, Piero Fassino: «Globalizzazione della democrazia e dei diritti come questione ineludibile di fronte a un processo di globalizzazione che investe ogni aspetto e ogni sfera dell’attività umana, venir meno delle ragioni di convenienza politica, di realpolitik, che giustificavano altre logiche, hanno fatto sì che il tema della democrazie e dei diritti diventasse un tema strategico e centrale e venisse percepito da vaste opinioni pubbliche come un tema ormai ineludibile. Con la consapevolezza che affermare democrazia e farsi riconoscere diritti laddove sono negati, sono fattori principali di sicurezza del mondo e di ciascuno».10 Un leader laburista inglese ha detto: «C’è il mito che mentre noi amiamo la libertà, gli altri non la vogliano; che il nostro attaccamento alla libertà sia il prodotto della nostra cultura; che la libertà, la democrazia, i diritti umani, lo stato di diritto siano valori americani o occidentali. I nostri non sono valori occidentali, sono valori universali dello spirito umano. E in ogni luogo e in ogni tempo dove alla gente comune viene data la possibilità di scegliere, la scelta è la stessa: libertà, non tirannia; democrazia non dittatura; stato di diritto. La diffusione della libertà è la migliore difesa per i liberi. È la nostra ultima difesa e la nostra prima linea d’attacco. Abramo Lincoln diceva: “Coloro che negano la libertà per gli altri non la meritano per se stessi”. E questo è il senso di giustizia che rende morale l’amore per la libertà. In alcuni casi in cui la nostra sicurezza fosse sotto minaccia diretta, ricorreremmo alle armi. In altri alla forza della ragione. Ma in entrambi i casi il fine sarebbe identico: la libertà che cerchiamo non è soltanto per alcuni, ma per tutti, e questa è l’unica vera strada per vincere questa battaglia». Quel leader laburista era Tony Blair e questo discorso l’ha tenuto, nel 2003, al Congresso degli Stati Uniti. Il politico inglese, con quell’intervento si riferiva probabilmente a Iraq e Iran. Personalmente avendo i paraocchi rivolti a est, i suoi appelli alla diffusione della libertà mi fanno venire in mente un altro obiettivo: l’ex Patto di Varsavia. Dove, seguendo e confutando allo 35


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stesso tempo la logica di Blair (e applicando i principi gandhiani della nonviolenza dei forti), la vittoria si potrà sicuramente (e pazientemente) ottenere con le armi della ragione. In effetti: non è il sistema americano quello da esportare: è semplicemente quello democratico e del libero mercato, ampiamente codificato da filosofi e politici della Vecchia Europa. O vogliamo dar ragione a Paul Barman quando sostiene che «la sinistra odia Bush, non lo può vedere. Quello che fa Bush è sempre sbagliato. Per loro il nemico è Bush, anche se combatte le dittature»11 Prossima tappa: Mosca? Yalta dovrebbe ormai essere solo una cittadina costiera del mar Nero non la filosofia politico-strategica di Mosca. Sembra non sia così. Paralizzata dalla sua incapacità di superare l’empasse nel quale è finita dopo la bocciatura della Convenzione europea da parte di francesi e olandesi, l’Unione europea deve al più presto definire se stessa anche per gestire i rapporti con un vicino sempre più invadente come la Russia, dove – va precisato – una rivoluzione colorata è al momento inimmaginabile. Nei due capitoli finali di questo libro si parla di Putin, del suo Paese, delle sue risorse energetiche, dell’involuzione democratica nella quale è tornato a dibattersi. La Russia si è arricchita e sostiene entusiasticamente il nuovo simil zar che dal 1999 è al Cremlino, palazzo che dovrebbe, in base alla costituzione russa, lasciare nel 2008. I venti di guerra in Georgia e gli omicidi degli oppositori che si susseguono mentre completiamo questo libro fanno intendere che l’uscita di scena di Putin non sarà né facile né indolore, né per la Russia né per l’Unione europea. Perché se l’Europa non ha ancora deciso come relazionarsi con il suo sterminato vicino, Putin e i suoi collaboratori (quasi tutti ex Kgb) hanno le idee ben chiare, come dimostra il decreto del 10 gennaio 2000, intitolato La nuova concezione della sicurezza nazionale della Federazione Russa che esplicitamente dice: «Minacce alla sicurezza nazionale si manifestano anche 36


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con tentativi da parte di altri Stati di prevenire il rafforzamento della Russia quale uno dei centri di influenza del mondo multipolare, intralciare la realizzazione dei suoi interessi nazionali e indebolire la sua posizione in Europa, nel Medio Oriente. Questa minaccia è posta anche dal rafforzamento di alleanze politiche e militari, prima di tutto l’espansione della Nato a est, e la possibilità di basi militari straniere vicino ai confini russi. La Russia sarà risoluta e ferma nel garantire la propria sicurezza nazionale». Putin (che pericolosamente confonde governo e nazione) annuncia che Mosca sarà ferma e risoluta. E Bruxelles? E Roma? La lezione del Libano «Dopo l’Iraq sembrava che la forza fosse l’unica soluzione, oggi torna la politica» è la rassicurazione di Massimo D’Alema intervistato per il Corriere della sera da Gianni Riotta poco prima della partenza (estate 2006) dei soldati italiani per il Libano. «La democrazia si propone, non si impone» ha detto con la sua faccia bonaria Romano Prodi quasi in contemporanea, mentre si godeva le vacanze sull’Appennino bolognese. Una frase irrisa come banale da Mattia Feltri sulla Stampa. Una considerazione che invece, nella sua semplicità, nasconde proprio una filosofia geopolitica che, con la crisi dell’unipolarismo, potrebbe prendere il sopravvento. È lo stesso concetto ribadito dall’ex capo dello staff del dipartimento di Stato Usa e attuale presidente del Council of Foreign Relations (quello che pubblica Foreign Affairs) che dice: «Non credo sia efficace parlare di esportare la democrazia come una merce, al massimo possiamo parlare di diffonderla». È la stessa idea lanciata da Robert Cooper nell’interessante volume “The Breaking of Nations”12 quando ricorda che “le bombe possono distruggere le città, ma non possono creare lo stato di diritto o la non-discriminazione nelle assunzioni; le truppe possono riportare l’ordine, ma non possono creare il senso di comunità o una cultura della tolleranza, almeno finché l’ideologia occidentale è democratica, visto che la democrazia non si 37


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può imporre con la forza. Il codice militare d’altronde si basa sull’obbedienza, la gerarchia e l’uso della forza, concetti che configgono con gli ideali democratici». Sempre Cooper ricorda però che «gli Stati Uniti hanno ancora un grande potere almeno nel modello tradizionale. L’Unione europea no. È il potere che rende sicure le nazioni che hanno problemi, non la speranza. Non è un caso se le nazioni dell’Europa centrale, essendo più vulnerabili, tendono a essere più fedeli agli Stati Uniti. Il potere ha un attrattiva come la forza coercitiva». L’Italia, con l’intervento in Libano ha assunto un ruolo da protagonista. La nostra politica estera non è stata se non in rare occasioni muscolare. L’Italia ha sempre applicato quello che ora viene chiamato appeasment, ossia la pratica di calmare l’interlocutore con concessioni, di blandirlo per non innervosirlo. Non è un sinonimo di realpolitik. Il metodo potrebbe essere quello di realizzare processi di society-building, anziché di nation-building. Forse, generalizzando l’esperienza, questo sarebbe il momento di riproporre la procedura adottata per incanalare pacificamente la crisi tra Libano e Israele: riportare l’Europa al centro dello scacchiere mondiale, approfittando delle difficoltà degli Stati Uniti e temperando le pretese di Mosca. Il nuovo ordine mondiale ancora non c’è. Forse possiamo ancora dire la nostra.

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