1. Don Peppe Diana Iolanda, madre di scout
«... Non si va più per boschi, la colomba è ferita. Non andiamo più al bosco, l’abbiamo già abbattuta…» (da La colomba di Jacques Brel, cantautore e poeta)
Iolanda se ne stava zitta su una sedia nel centro dell’androne. Attorno a lei, seduti per terra a semicerchio, aveva una ventina di giovanissimi scout. A un certo punto iniziò a raccontar loro la storia di suo figlio. Partendo, come faceva sempre, da quella mattina del 19 marzo del 1994, quando il giorno del suo onomastico sentì Peppe uscire per l’ultima volta di casa. Si fece silenzio. I ragazzi, arrivati a Casal di Principe da Ivrea in un’assolata domenica d’agosto, la guardavano dal basso in alto, i gomiti appoggiati sulle ginocchia e la testa fra le mani. Con la faccia rapita come nipotini che guardino la nonna intenta a raccontar loro una favola. Iolanda esordì, come al solito, con un lamento doloroso, quasi una colonna sonora che avrebbe accompagnato il suo ricordo: «Che m’hann’ fatto, che m’hann’ fatto. Nun me passa. Nun me passa», ripeteva in dialetto, come una cantilena, mentre scuoteva la testa. I ragazzi non capivano ogni parola, ma le sue lacrime bastavano a coinvolgerli senza eccezioni. Piangeva come le accade sempre quando vede entrare nel suo cortile i pantaloncini corti e le camicie azzurre degli scout. È come se rivedesse il figlio che ritorna. Don Peppe, lo scout. 15
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Iolanda era scesa con fatica dalla sua casa al primo piano di via Garibaldi 29. Il marito, Gennaro Diana, l’aveva informata che il gruppo che aspettavano era arrivato. Lei era avanzata con il passo incerto per spostarsi fin sotto l’androne dell’abitazione. In quel cortile una volta si praticavano molte attività agricole, come certifica la classica tettoia per gli attrezzi ora inesistenti, sostituita da vasi di fiori e piante ornamentali, soprattutto cicas, una pianta sempreverde originaria dell’Asia che da queste parti è molto diffusa. Il marito anziano e i figli insegnanti hanno detto addio da tempo al lavoro dei campi, che aveva rappresentato a lungo per la famiglia l’unica fonte di reddito. Osservata da vicino, Iolanda zoppicava vistosamente. Non aveva ancora assorbito i doppi postumi di un’operazione al femore e di un tumore al seno. Indossava, come al solito, maglia e gonna nera, il segno quotidiano del suo lutto. Portava un frontino grigio nei capelli bianchi e al collo l’inseparabile medaglina a forma di cuore, con dentro la foto del figlio “Pinuccio”. Cercava di nascondere l’emozione alla vista degli scout, ma con scarsi risultati. Quei ragazzi erano arrivati da così lontano fino a Casal di Principe in treno, con il sacco a pelo e alcune provviste al seguito, per conoscere la terra di don Peppe Diana, i suoi amici, la sua famiglia. La sera dovevano dormire al Santuario della Madonna di Briano, lì vicino. E lei, Iolanda Di Tella, la mamma di don Peppino, 76 anni e molti acciacchi, il portamento fiero di contadina, ancora una volta non si era tirata indietro. Pronta a mostrare il suo dolore, ma anche a comunicare il suo affetto a quei ragazzi. Battagliera come sempre. Soprattutto quando si è trattato di difendere la memoria di suo figlio. Molto di quel che si è fatto in proposito lo si deve anche a lei. Che non si è mai stancata di telefonare ai magistrati, agli amici, al vescovo di Caserta Raffaele Nogaro e a don Luigi Ciotti. Gli scout di Ivrea non la conoscevano. Chi partecipò ai funerali di don Peppe quel 21 marzo del 1994, quando ventimila persone attraversarono tutta Casal di Principe dietro il feretro, se la ricorda bene, invece. Dai balconi penzolavano centinaia di lenzuoli bianchi. Per una volta quei portoni impenetrabili come for16
tini assediati avevano mostrato un altro volto: più umano, sensibile e solidale. Tutta la città era fuori dalle case. Anche da quelle in stile hollywoodiano o piene di colonnati stile impero che imperversano in ogni dove. Che vorrebbero simboleggiare la grandezza e la potenza di chi le abita, ma raccontano solo il gusto kitsch e l’incultura diffusi con la nuova ricchezza. Ai lati del corteo funebre la gente piangeva sinceramente mentre osservava quella fiumana di persone che avanzava lenta come un magma uscito d’improvviso da un vulcano. Pian piano la folla si spandeva per i vicoli stretti, li occupava, li copriva di uno spirito nuovo. Il vociare di sottofondo faceva uscire dalle case altra gente. E dai balconi si srotolavano lenzuoli bianchi che facevano da ala al funerale. Una scena che si ripeteva con l’avanzare del feretro del giovane parroco, portato a spalla dai suoi amici e dagli scout. L’uccisione di un sacerdote per mano della camorra era troppo anche per chi da anni era abituato a vedere e a subire decine di morti ammazzati. Sembrava la madonna Addolorata, quel giorno, Iolanda. Con gli occhi asciutti rivolti verso il cielo, senza più lacrime da versare. Camminava con la testa quasi all’indietro, lo sguardo assente. «Pensavo solo al mio Peppe», avrebbe raccontato. Con il marito e i figli, Emilio e Marisa, se ne stette immobile nel piazzale del cimitero dove si celebrò il funerale. Uno slargo enorme, e tuttavia incapace di raccogliere le ventimila persone che accompagnavano suo figlio. I più dovettero accontentarsi di sostare nelle strade laterali e ascoltare la messa dagli altoparlanti. Lei era tutta chiusa nel suo abito nero. Teneva lo sguardo fisso nel vuoto, come se stesse chiedendo conto direttamente a Dio di quel che era accaduto al figliolo, che pure aveva scelto di servirlo. «Sono passati più di tredici anni da quel giorno, ma il dolore non mi passa, non mi può passare e non mi passerà mai» continuava a ripetere sottovoce nell’androne, mentre gli scout la scrutavano commossi. Quasi si scusò e abbassò la testa per non farsi sentire. L’emozione contagiò tutti quanti. I ragazzi cercavano di resistere abbassando la testa. Qualcuno si girava di lato. Ma le lacrime di Iolanda non si fermavano. Fu Valerio Taglione, capo 17
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scout dell’Agesci, responsabile provinciale di Libera e portavoce del comitato don Peppe Diana a rompere il ghiaccio e a togliere tutti dall’imbarazzo. «Su, adesso non facciamo di questo incontro solo un momento di dolore». «No, è che sono contentissima di vedere questi ragazzi – fece lei – Ma è che ho una fitta al cuore. Non mi può passare. Non me lo dovevano fare – continuava a ripetere – Non mi passerà mai». Quel giorno di agosto gli scout erano arrivati alla stazione ferroviaria di Aversa alle 9,00 del mattino. Ad attenderli c’era, appunto, Valerio Taglione. A lui si erano aggiunti Salvatore Cuoci, presidente della scuola di Pace “Don Peppe Diana”, e altri due scout di Aversa, Emiliano Addelio e Lucia Cacciapuoti. Tutti insieme se li erano portati con le proprie auto al Santuario della Madonna di Briano, una chiesa costruita intorno all’anno Mille, che si trova nelle campagne di Casal di Principe, e che conserva all’interno alcuni affreschi medioevali e bizantini. Era lì che gli scout avevano stabilito la loro base per alcuni giorni. La piccola carovana di macchine si era avviata verso la meta prevista, attraversando la periferia di Aversa. Poi San Marcellino, Frignano, Villa di Briano. E finalmente via Kruscev, quella che porta direttamente al Santuario, diventato negli anni il luogo simbolo del movimento anticamorra. Qui avvengono le manifestazioni più importanti: tutte quelle che ricordano don Diana; i campi antimafia; i convegni di Libera. E ci arrivano pure le carovane antimafia. A reggere il Santuario è don Paolo dell’Aversana, uno dei sacerdoti che firmò con don Peppe Diana il documento Per amore del mio popolo. Un percorso fatto chissà quante volte. Ma quando la stessa strada si fa con i “forestieri”, si notano meglio quanto sono sporche le vie di questi paesi. Capita anche a quelli che in queste contrade ci vivono da sempre e che sono assuefatti a tutte le brutture del territorio. Sì, viaggiare con i forestieri fa bene. I rifiuti erano sparsi dappertutto; l’incuria dei marciapiedi saltava agli occhi; le strade piene di buche; le tabelle pubblicitarie rotte; i segnali stradali inesistenti; i muri pericolanti; le auto parcheggiate ovunque; i ragazzi in motorino senza casco. «A un certo punto 18
abbiamo cominciato a provare vergogna dei nostri paesi» aveva confessato Salvatore Cuoci, quando finalmente, dopo una decina di chilometri, erano arrivati al Santuario della Madonna di Briano a cui la devozione popolare attribuisce molti miracoli, a partire dalla scampata peste del 1656. Là, dopo aver posato i sacchi a pelo e trovato una sistemazione per la notte, gli scout prima di incontrare la famiglia di don Diana avevano chiesto di assistere alla proiezione del film documentario Per amore del mio popolo. Volevano saperne di più su quel prete ammazzato dalla camorra e di cui avevano sentito parlare solo dai loro amici più grandi. La casa di don Peppino Diana, quasi al centro di Casal di Principe, è una tappa obbligata per gli scout. E la madre e il padre ne sono felici. Don Diana era un loro capo e nessuno in famiglia se lo è dimenticato. È ancora vivo il ricordo di quando partiva per i campi dopo essersi preparato lo zaino. Pantaloncini a gamba corta, una camicia azzurra, calzettoni, un foulard al collo, un cappello boero a falda larga, scarpe pesanti, e via. Nemmeno gli scout l’hanno dimenticato quel prete così anomalo. Ne arrivarono tantissimi ai suoi funerali. E in migliaia sfilarono a un mese dalla sua morte per le strade di Casal di Principe. Così come di nuovo a migliaia arrivarono da ogni parte d’Italia nel marzo 2004, per ricordarlo a dieci anni dalla sua uccisione. E poi sempre, anche una settimana prima di quel 5 agosto, quando era venuto un altro gruppo dal Piemonte. Prima di andare a casa della famiglia, i ragazzi erano passati dal cimitero, in via Cavour. Avevano espresso il desiderio di “andare a salutarlo”. Il sole picchiava forte. E nei viali del camposanto si incontravano poche persone. Che non si meravigliavano affatto della loro presenza. Sapevano che sarebbero andati sulla tomba di don Peppe. Il piccolo corteo di visitatori era passato tra viali di loculi e cappelle gentilizie. Alcuni scout si erano avvicinati, colpiti, incuriositi, a diverse tombe per leggere l’età di morti che dalle foto sembravano giovani. Lo erano davvero. Quasi tutti morti tra i venti e i trent’anni. Decine di ragazzi. Per lo più affiliati ai clan della camorra. Vittime delle guerre intesti19
ne. Una vita breve, trascorsa sognando potere e ricchezza. La cappella gentilizia della famiglia Diana era chiusa. Avevano dovuto accontentarsi di guardare la tomba dall’esterno. Valerio Taglione, da buon capo scout, aveva invitato tutti a tenersi per mano e a recitare un padrenostro, il modo dei seguaci di Baden Powell per condividere un momento particolarmente emozionante. Pochi minuti dopo il gruppo era finalmente arrivato in via Garibaldi 29. In linea d’aria sono sì e no ottocento metri dal cimitero. La via dell’abitazione è una stradina cieca. Era quasi mezzogiorno. Venne ad aprire l’enorme portone di legno color marrone Gennaro Diana, l’anziano padre, 80 anni ben portati. Li stava aspettando. Portava il cappello come sempre, nonostante il caldo di agosto. Li accolse con un largo sorriso. «Per voi la nostra casa è sempre aperta – disse mentre spalancava il portone – Ho sempre la stessa sensazione quando entra qui un ragazzo vestito da scout. Mi sento più vicino al mondo di mio figlio. E questo allevia un po’ le nostre sofferenze. Perché era davvero questo il suo mondo. Anche se io gli dicevo sempre di finirla di andare a fare tutte quelle riunioni, perché oramai si era fatto grande e con tutti gli impegni seri che aveva non poteva continuare a indossare quei calzoncini corti, a fare campi, uscite, a correre avanti e indietro… no! Ma ora me ne dispiace di avergli detto quelle cose, e sono orgoglioso che mio figlio facesse parte della comunità degli scout. Ma entrate, vi prego…». Killer in sagrestia «…La sera prima non aveva fatto molto tardi perché l’indomani doveva alzarsi presto, e non cenò nemmeno. Solamente un bicchiere di latte – Iolanda, sempre seduta sulla sedia sotto l’androne, riannodò per loro i suoi ricordi – Venne a salutarmi in cucina e poi si diresse verso la sua camera. È l’ultima immagine che ho di don Peppe. Il giorno dopo si alzò più presto del solito, alle 6,00. Era il suo onomastico. Aveva dato appuntamento al bar ai suoi amici, subito dopo la messa. Qui noi usiamo che si offre 20
a tutti un caffè con una bella polacca calda, un dolce tipico di queste zone. Praticamente è un cornetto più elaborato, con al centro crema pasticcera e amarene. Stessa cosa avrebbe fatto poco più tardi all’Itis Alessandro Volta di Aversa, dove insegnava religione. Aveva già dato incarico ad alcuni suoi amici di far arrivare polacche per tutti i colleghi. Lo sentii che camminava per le stanze e, poco dopo, udii provenire dalla cucina i soliti rumori: il frigo che si apriva, il caffè che saliva, il profumo che invadeva la casa, le ante dei mobili che si chiudevano, la tazzina sul lavandino. Conoscevo a memoria quei rumori, perché ogni mattina erano uguali. Spesso ero io ad alzarmi prima di lui per preparagli il caffè. Poco dopo la porta si chiuse dietro di lui e sentii i suoi passi mentre scendeva le scale della cucina. Aprì il portone per uscire e si incamminò a piedi verso la sua parrocchia di San Nicola di Bari, che da qui dista dieci minuti. Immaginai il percorso che faceva, perché l’avrò fatto centinaia di volte. Lo seguii col pensiero. Ecco, adesso avrà girato l’angolo. Ora, magari, avrà salutato le prime persone mattiniere che ha incontrato sui suoi passi. Udii le campane che il sagrestano, Agostino Iaiunese, aveva incominciato a suonare. Pochi altri passi ed era arrivato nello slargo davanti alla parrocchia. Ad aspettarlo all’entrata della chiesa c’era il suo amico fotografo, Augusto di Meo, per fargli gli auguri. Le suore e una decina di donne anziane erano già dentro, sedute nei banchi a pregare. Entrò in sagrestia per prepararsi per la messa. Incominciò a indossare i paramenti sacri. Erano da poco passate le 7,20. Nel frattempo anch’io mi ero alzata e stavo sistemando la sua stanza, come tutte le mattine. Prima di andare a scuola Peppe ripassava da qui e gli preparavo un altro caffè. Quella mattina non sarebbe tornato perché andava di fretta. Proprio in quei minuti arrivò anche il killer che non lo conosceva di persona. Indossava un giubbotto di pelle e aveva i capelli lunghi. La sua età poteva essere quella di una persona sulla trentina. Avanzò a passi veloci. Chiese a una vecchietta dove fosse il prete. E lei gli indicò la sagrestia. Pochi momenti prima era uscito il fotografo. Incrociò il killer, che entrò mentre Peppe stava ancora preparandosi. Mio figlio era girato di spalle. “Chi è don Peppe?”, chiese ad alta 21
voce l’uomo appena entrato in sagrestia. E lui, sentendosi chiamato, si girò: “Sono io don Peppe”. Ebbe solo il tempo di dire queste parole e di guardare in faccia il suo assassino. Il killer tirò fuori dalla cintola una pistola, ed esplose quattro o cinque colpi. Due dei quali lo colpirono al volto, mentre gli altri, esplosi alla distanza di qualche metro, lo colpirono al capo, al collo e alla mano destra provocandogli una morte istantanea. Cadde all’indietro. Il sangue cominciò a scorrere sul pavimento. Il killer fuggì. In chiesa furono attimi di terrore. Accorsero le poche donne che erano lì, le suore, il sagrestano e Augusto il fotografo. Le urla attirarono altre persone che in quel momento passavano fuori la chiesa. Qualcuno tentò di rianimarlo. Ma non c’era più nulla da fare. Era morto. Passarono pochi minuti e venne di corsa il sagrestano ad avvisarmi. Suonò il citofono in maniera concitata. Mi spaventai. Il cuore cominciò a battermi. Aprii il portone da sopra, con il pulsante elettrico. Mi affacciai alla balconata e vidi il suo volto pieno di disperazione. Ebbi paura: “Iolanda, Iolà – gridò – hanno levato ’a don Peppe ’a miézo”. Capii bene che voleva dire che l’avevano ucciso, ma non ci volevo credere. Mi sembrava una cosa così assurda, che risposi con scetticismo: “Ma che stai dicendo?”. “Sì, Iolanda, hanno ucciso a don Peppe”. Mi crollò il mondo addosso. Dovetti sedermi. Mi pareva una cosa talmente impossibile che stentavo a prenderla per vera. Ma quando vidi che fuori casa mia si faceva un vociare di persone che accorrevano dopo aver appreso la notizia, il mio cuore cominciò a sussultare forte. Sembrava che dal petto fosse passato alla gola e mi sentii scoppiare. Chiamai mio marito e mio figlio Emilio: “Gennaro..., Gennà…, Emilio…, correte..., correte, andate a vedere cosa hanno fatto a Pinuccio”. Aveva 36 anni e ancora tanto da vivere». Gli sguardi dei ragazzi che ascoltavano immobili, in un silenzio assoluto, il racconto di Iolanda Di Tella, si velarono. Lei abbassò la testa. Si guardò l’immaginetta che portava appesa al collo con la foto del suo Pinuccio. La baciò, la strinse tra le mani e continuò con i ricordi delle prime ore dopo la morte. Quelle delle discussioni sul perché e sul percome era stato ucciso e su chi avrebbe avuto interesse a farlo. «In casa mia erano 22
venuti un po’ tutti a portarmi le condoglianze. Anche quelli della famiglia Schiavone, con la quale c’è una parentela alla larga. I primi giorni girava la voce che era stato proprio il gruppo Schiavone a fare assassinare mio figlio. È stata dura in quei momenti. Pregai mio figlio morto di farmi rimanere calma. Feci ricorso a tutte le mie residue forze, altrimenti in quelle ore avrei cacciato quelli che mi erano stati indicati come i mandanti. Mi rivolsi ancora al mio Peppino che stava in una cassa da morto: “Fammi restare serena, non farmi prendere dall’odio”. Non so come, ma ebbi la forza per riuscirci. Questa ostilità nei confronti di quelli che io consideravo comunque colpevoli l’ho espressa apertamente. Tanto che per molto tempo la moglie di Francesco Schiavone, Giuseppina Nappa, cercò di parlarmi. Lei è coetanea di don Peppe. Si conoscevano. Erano andati a scuola insieme. Alcuni giorni dopo il delitto aveva cercato di contattarmi attraverso don Carlo Aversano, ma io avevo sempre declinato l’invito. Lei voleva chiarire che la famiglia del marito non c’entrava niente con la morte di mio figlio. Non gliene diedi l’occasione. Però, siccome abbiamo parenti in comune, avremmo potuto incontrarci casualmente da qualche parte. Ma ogni volta che c’era questo rischio, se io ero da un parente o c’era già lei, gli altri uscivano di casa e avvertivano: c’è la mamma di don Peppino, non ti vuole incontrare, non entrare. Qualche anno dopo, io mi trovavo a casa di una mia zia e arrivò anche lei, Giuseppina Nappa. Fu un incontro occasionale. Io non la conoscevo. C’era mio figlio Emilio che stava con me. Lei entrò e disse a Emilio che voleva parlarmi. Così si presentò e volle spiegarmi la sua versione dei fatti: “Voi avete pianto don Peppe perché è vostro figlio, ma il dolore nostro è stato altrettanto forte. Con don Peppe ci conoscevamo da piccoli, eravamo andati a scuola insieme e spesso ci incontravamo. Aveva battezzato un mio bambino. Mio marito, per come la pensa, non avrebbe mai ucciso un sacerdote, perché se avesse avuto qualcosa da dire, avrebbe anche avuto il coraggio di parlare con don Peppe e don Peppe faceva lo stesso. Dovete sapere che a casa ho l’immagine di don Diana con i fiori davanti”. Le risposi che a me non 23
interessava quale fazione avesse ucciso mio figlio. Quelli che scelgono certe strade, per me sono tutti uguali. Poi mi hanno detto che il 19 marzo del 2004, quando c’è stato il corteo per il decennale della morte di don Peppe, era presente anche lei». «Ora senza mio figlio la mia vita non è più la stessa – disse Iolanda – Avevo avuto sempre paura che gli potesse accadere qualcosa. Quando andavo a messa ed era lui a spiegare il vangelo, parlava spesso contro la camorra. Io mi sedevo sempre nelle ultime file dei banchi, quasi per non farmi vedere. Ma dopo la funzione andavo in sagrestia e con la scusa di prendergli i paramenti sacri per lavarli, lo prendevo da parte e gli dicevo: “Peppì, ma perché parli sempre di queste cose. Qui l’ambiente è difficile...”. “Mammà – mi rispondeva – ma è la Chiesa che mi dice di parlare così. La Chiesa di Roma”. Allora io, non convinta, quando andavo a casa accendevo il televisore e lo sintonizzavo dove facevano la messa. Volevo ascoltare con le mie orecchie se era vero che anche a Roma parlavano in quel modo o era lui che insisteva. Avevo paura per la sua incolumità. Poi a volte sentivo che anche in televisione parlavano come lui e mi calmavo. Pensavo che qui ai preti, in fondo, non li hanno mai toccati. Queste cose, fino a qualche anno prima, accadevano solo in America Latina. Solo che pochi mesi prima accadde una cosa che mi turbò molto, come turbò anche mio figlio. Il 15 settembre del 1993 venne ucciso a Palermo, nel quartiere di Brancaccio, don Pino Puglisi, nel giorno del suo compleanno. Me la ricordo bene quella sera in cui diedero la notizia in televisione. Stavamo in casa, in cucina, e c’era anche lui. Quando sentii che avevano ucciso un prete in Sicilia, mi sentii mancare. Era proprio accanto a me che preparavo la cena. Gli dissi: “Peppì, hai sentito? Ora se la prendono anche con i preti”. “Mammà – mi fece – ma perché ti preoccupi? Se ci ammazzano, in qualche modo dobbiamo esserne contenti, perché noi abbiamo fatto la scelta di servire il Signore. E, se è necessario, dobbiamo donare anche la vita per testimoniarlo”. Non risposi, ma ci restai male, perché vidi che lui parlava della morte come di una cosa che poteva accadere. Come mamma me ne preoccupavo. Avevo paura. Sapevo bene che aveva fatto la scelta di opporsi apertamente alla camorra. “Se hanno ucciso 24
Gesù Cristo – mi ribadì – vuol dire che potranno ammazzare anche noi che seguiamo i suoi insegnamenti”. E io insistevo, per cercare di proteggerlo: “Ma tu porti anche questa barba che sembri un pregiudicato. Cammini a ogni ora del giorno e della notte. E se ti prendono per un malvivente?”. “Mamma, ma di che ti preoccupi – mi diceva – se mi fermano, io gli caccio il rosario, gli dico che sono un sacerdote, e se vogliono togliermi l’auto o i soldi, glieli dò volentieri. Ma sono sicuro che vicino a me non ci vengono”. Lo diceva per tranquillizzarmi. Invece non è stato così». A quel punto Iolanda abbassò la testa e mise le mani davanti agli occhi. Voleva nascondere le lacrime. Ma ancora una volta non ci riuscì. Il risveglio Ma com’era andata davvero? Che cosa aveva portato, anno dopo anno, la camorra fin dentro la sagrestia di don Peppino Diana? Forse è bene ripartire dal 1990. Quell’anno prese il via una guerra tra i clan per definire i nuovi equilibri di potere dopo la morte di Antonio Bardellino, il grande capo ucciso in Brasile ad opera di Mario Iovine nel maggio del 1988. Lo Stato sembrava assente. Gli omicidi si susseguivano a ritmo quotidiano. A cadere sotto i colpi delle lupare e dei kalashnikov furono molti giovani e anche persone innocenti capitate per sbaglio sulla linea di fuoco dei camorristi. Tra questi un giovane testimone di Geova di Casapesenna. Si chiamava Angelo Riccardo e faceva il muratore. Era il 21 luglio del 1991. Venne ucciso nella sua auto da un proiettile “impazzito”, mentre attraversava la strada che collega Casal di Principe a San Cipriano d’Aversa. In quell’occasione furono ferite anche altre cinque persone. Un clima da guerra civile permanente. La gente non ne poteva più, ma non aveva la forza per reagire, né c’erano organizzazioni sociali e politiche in grado di rappresentare la voglia di dire basta. Sino ad allora il silenzio complice della stragrande maggioranza dei cittadini di Casale ma anche di Casapesenna, San Cipriano di Aversa, Villa Literno, San Marcellino, Frignano, Villa di Briano, era stato l’humus su cui la camorra aveva proliferato e di cui si 25
era alimentata. I clan avevano assicurato alle popolazioni del territorio una piccola fetta della spesa pubblica intercettata con i lavori del dopo terremoto. Negli ultimi decenni le braccia dei casalesi hanno costruito strade, ponti, case, palazzi in tutta Italia. Sono di qui, quasi per antonomasia, gli operai specializzati dell’edilizia. Una merce preziosa per le società edili di Casale, ramificate dove meno te l’aspetti. E ramificatesi anche al seguito dei clan, autentici maestri nel controllare il ciclo del cemento. Durante la ricostruzione post terremoto non fu lasciato niente al caso. Tutto pianificato, controllato: dal movimento terra fino agli impianti elettrici nelle case. Famiglie intere erano state garantite da questa economia parallela che spesso diventava l’unica fonte di reddito. Con quella mattanza, però, il rapporto tra il clan dei casalesi e la sua base sociale si incrinò. Fu la Chiesa di Casal di Principe a proporsi come punto di riferimento e don Peppino Diana divenne la guida e la voce del movimento di protesta. Non s’era mai vista una cosa del genere. Fu distribuito fuori da tutte le chiese un volantino. Aveva un titolo emblematico: Basta con la dittatura armata della camorra. Fece il giro di tutte le case del circondario. Venne inviato alle più alte cariche dello Stato e al Vescovo di Aversa. Ci fu un forte consenso. Si capiva che il vento stava cambiando anche dal punto di vista politico. La prima Repubblica cominciava a scricchiolare. Il prefetto di Caserta, Corrado Catenacci, portò personalmente ai parroci firmatari del volantino un messaggio di solidarietà del Ministro dell’Interno, Vincenzo Scotti. E il 29 settembre del 1991, furono sciolti «perché condizionati dalla camorra» i consigli comunali di Casal di Principe e Casapesenna. La causa scatenante della lunga guerra di camorra era stata l’interruzione di un summit del clan dei casalesi da parte dei carabinieri. Era il giorno di Santa Lucia, il 13 dicembre del 1990. A quella riunione, che si svolgeva nella casa di un assessore del Comune di Casal di Principe, Gaetano Corvino, mancava uno dei pezzi da novanta del clan, Vincenzo De Falco, su cui ricaddero subito i sospetti di una soffiata. Vi fu un conflitto a fuoco e furono catturati Francesco Schiavone (Sandokan), Raffaele 26
Diana, Francesco Schiavone di Luigi, Giuseppe Russo, Salvatore Cantiello e Francesco Bidognetti, mentre, coperto dalle armi dei complici, era riuscito a fuggire Mario Iovine, uno dei capi storici del clan. L’assessore Corvino, nel frattempo, se ne stava in Municipio per una seduta di Giunta. Per Vincenzo De Falco, il “traditore”, fu emessa una sentenza di morte senz’appello. La sentenza venne eseguita a Casal di Principe il 2 febbraio del 1991. Quasi un mese dopo, il 6 marzo, Mario Iovine, il latitante, fu raggiunto e assassinato in Portogallo, a Cascais. A ordinarne l’uccisione era stato Nunzio De Falco, fratello di Vincenzo. Ormai si era scatenata una guerra aperta tra i clan SchiavoneBidognetti e i clan Caterino-De Falco. Fu in quel clima che, in un giorno di ottobre del 1991, un corteo di auto sfilò per le strade del paese. L’insolita folla di persone si mosse lentamente per le strade di San Cipriano, Casapesenna e Casal di Principe. Budelli stretti dove è già difficile passare quando si incrociano due auto. A fianco e dietro le macchine c’erano uomini armati di tutto punto. Alcuni erano seduti sui cofani. Erano circa le sei del pomeriggio. I negozi, i bar, i circoli e tutti i locali pubblici abbassarono le saracinesche. La gente scappava. Le tapparelle delle finestre affacciate sulla via si chiudevano una dopo l’altra. Le strade furono ben presto deserte. Come se fosse stato decretato il coprifuoco. Come se si fosse nel far west, quando all’improvviso arrivano i banditi a cavallo per scorrazzare nei saloon, rapinare banche o ammazzare persone. Qui al posto dei cavalli c’erano le auto. Ma la situazione era la stessa. Nemmeno un poliziotto, né un carabiniere passò in quel momento, né intervenne dopo. Per tornare al far west, proprio come quando lo sceriffo si nasconde nel momento del bisogno. Fu una dimostrazione di forza che il clan Schiavone-Bidognetti diede davanti a tutti i cittadini. Il controllo del territorio, se ancora fosse stato necessario dimostrarlo, era pienamente nelle mani della camorra. Il corteo passò sotto le case degli esponenti del clan perdente. I guaglioni degli Schiavone li provocavano, li invitavano a uscire di casa per ammazzarli. Durò circa un’ora. Per due giorni di seguito al 27
primo imbrunire ci fu il coprifuoco senza che nessuno lo avesse proclamato. Per le strade non si trovava anima viva. La Chiesa, ancora una volta, scelse di non stare in silenzio. A Natale del 1991 i parroci della Foranìa di Casal di Principe (di cui fanno parte le parrocchie dei comuni di Casal di Principe, San Cipriano di Aversa, Casapesenna, Villa Literno, Frignano, Villa di Briano e San Marcellino) stilarono un documento con il quale invitavano il popolo a ribellarsi. Il titolo, che riprendeva un documento dei vescovi meridionali di alcuni anni prima, era simbolicamente forte: Per amore del mio popolo. Cominciava con queste parole: «Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della camorra. Come battezzati in Cristo, come pastori della Foranìa di Casal di Principe ci sentiamo investiti in pieno della nostra responsabilità di essere “segno di contraddizione”. Coscienti che come Chiesa “dobbiamo educare con la parola e la testimonianza di vita alla prima beatitudine del Vangelo che è la povertà, come distacco dalla ricerca del superfluo, da ogni ambiguo compromesso o ingiusto privilegio, come servizio sino al dono di sé, come esperienza generosamente vissuta di solidarietà». Il documento esprimeva un giudizio di condanna senza appello per la camorra e i suoi affiliati. «La camorra oggi è una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana. I camorristi impongono con la violenza, armi in pugno, regole inaccettabili: estorsioni che hanno visto le nostre zone diventare sempre più aree sussidiate, assistite senza alcuna autonoma capacità di sviluppo; tangenti al venti per cento e oltre sui lavori edili, che scoraggerebbero l’imprenditore più temerario; traffici illeciti per l’acquisto e lo spaccio delle sostanze stupefacenti il cui uso produce a schiere giovani emarginati, e manovalanza a disposizione delle organizzazioni criminali; scontri tra diverse fazioni che si abbattono come veri flagelli devastatori sulle fami28
glie delle nostre zone; esempi negativi per tutta la fascia adolescenziale della popolazione, veri e propri laboratori di violenza e del crimine organizzato». Individuava, infine, nella politica le responsabilità di una corruzione e di una inefficienza che devastava tutte le istituzioni democratiche. «È oramai chiaro – scrivevano i parroci – che il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli. La camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche è caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi. La camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale, privo però di burocrazia e d’intermediari che sono la piaga dello Stato legale. L’inefficienza delle politiche occupazionali, della sanità ecc. non possono che creare sfiducia negli abitanti dei nostri paesi; un preoccupato senso di rischio che si va facendo più forte ogni giorno che passa, l’inadeguata tutela dei legittimi interessi e diritti dei liberi cittadini; le carenze anche della nostra azione pastorale ci devono convincere che l’Azione di tutta la Chiesa deve farsi più tagliente e meno neutrale per permettere alle parrocchie di riscoprire quegli spazi per una “ministerialità” di liberazione, di promozione umana e di servizio. Forse le nostre comunità avranno bisogno di nuovi modelli di comportamento: certamente di realtà, di testimonianze, di esempi, per essere credibili (…)». E concludeva con un appello alla mobilitazione per ridare speranza ai cittadini: «Le nostre chiese hanno, oggi, urgente bisogno di indicazioni articolate per impostare coraggiosi piani pastorali, aderenti alla nuova realtà; in particolare dovranno farsi promotrici di serie analisi sul piano culturale, politico ed economico coinvolgendo in ciò gli intellettuali finora troppo assenti da queste piaghe. Ai preti nostri pastori e confratelli chiediamo di parlare chiaro nelle omelie e in tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa. 29
Alla Chiesa che non rinunci al suo ruolo “profetico” affinché gli strumenti della denuncia e dell’annuncio si concretizzino nella capacità di produrre nuova coscienza nel segno della giustizia, della solidarietà, dei valori etici e civili (Lam. 3,17-26). Tra qualche anno, non vorremmo batterci il petto colpevoli e dire con Geremia “siamo rimasti lontani dalla pace... abbiamo dimenticato il benessere... La continua esperienza del nostro incerto vagare, in alto e in basso,... dal nostro penoso disorientamento circa quello che bisogna decidere e fare... sono come assenzio e veleno”». Per la prima volta la Chiesa parlava un linguaggio chiaro, netto, immediato, capace di arrivare subito al cuore del problema. Il documento fu distribuito nelle chiese. Furono soprattutto i giovani dell’Azione Cattolica a impegnarsi per la sua diffusione. Il consenso riscontrato tra i cittadini di Casal di Principe e dei comuni limitrofi fu straordinario. La voce della protesta varcò i confini dei paesi dov’era nata. Don Peppino Diana incominciò a girare per le scuole della provincia e della regione. A portare la voce del suo popolo alle marce anticamorra. Diventò un simbolo riconosciuto da quanti volevano combattere la camorra. Tuttavia la guerra combattuta a furia di omicidi tra le due fazioni del clan non conobbe praticamente sosta. Furono uccise decine di persone. Quando non si potevano uccidere i diretti avversari, a cadere sotto il piombo della camorra erano i parenti più prossimi. Nel giro di qualche anno il clan SchiavoneBidognetti, numericamente più consistente, ebbe la meglio sui suoi nemici. Fu così che la fazione De Falco-Caterino decise di giocare una carta decisiva: uccidere il parroco della chiesa di San Nicola di Bari di Casal di Principe, “quello che parlava sempre”. La sua morte – questa era la strategia – avrebbe provocato una reazione dello Stato. La repressione che ne sarebbe seguita avrebbe decimato il clan Schiavone-Bidognetti. Ma, ovviamente, non si trattava solo di questo. L’obiettivo era doppio. Con la morte di don Peppino Diana si voleva fermare anche la voglia di riscatto delle popolazioni locali, impartire loro una terribile lezione a futura memoria. 30
Delitto passionale Per l’uccisione di don Giuseppe Diana, il 27 marzo 2003 la quarta sezione della Corte di Assise d’Appello di Napoli ha condannato all’ergastolo Mario Santoro e Francesco Piacenti quali coautori dell’omicidio, mentre ha riconosciuto come autore materiale Giuseppe Quadrano. L’autopsia ha accertato che don Giuseppe Diana fu colpito da quattro o forse cinque colpi di pistola semiautomatica calibro 7.65 Browning Beretta a canna rigata. La Corte ha smontato gli alibi del killer e dato credito ai due testi più importanti, in particolare al fotografo Augusto Di Meo che sin dalle prime ore aveva riconosciuto il Quadrano nelle foto segnaletiche. Quest’ultimo, diventato collaboratore di giustizia, ha beneficiato di uno sconto di pena, venendo condannato, invece che all’ergastolo, a quattordici anni. Il 4 marzo 2004 i giudici della Corte di Cassazione hanno confermato l’ergastolo per Santoro e Piacenti e la condanna minore per Quadrano. Quanto ai mandanti, la giustizia ha accertato che la morte di don Diana venne ordinata dalla Spagna dal boss Nunzio De Falco detto ’o Lupo, con l’intento di colpire il clan SchiavoneBidognetti. In altra sentenza il 20 gennaio 2003 la prima Corte d’Assise del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, presieduta da Maria Rosaria Casentino, ha accolto in pieno la richiesta avanzata in proposito dal pm Francesco Curcio della Dda, condannando il boss all’ergastolo. Ma prima di arrivare, dieci anni dopo l’omicidio, alla sentenza definitiva contro il mandante, la figura di don Giuseppe Diana è stata oggetto di vari tentativi di infangarne la memoria. Tentativi che iniziarono sin dalle prime ore dopo la sua morte, quando venne fatta circolare la voce che fosse stato ucciso per vicende di donne. La camorra casalese, a cadavere ancora caldo, aveva sguinzagliato i suoi affiliati diffondendo la voce che fosse stato un delitto passionale. Una strategia tipica della mafia siciliana che il clan dei casalesi – sin dall’epoca di Antonio Bardellino, che con Cosa Nostra aveva stretto un patto di ferro – aveva imparato a utilizzare con grande disinvoltura. Le voci 31
ebbero un effetto immediato: indirizzarono le forze dell’ordine proprio verso questa pista. Il vescovo di Aversa, Lorenzo Chiarinelli, qualche ora prima dei funerali, ebbe un colloquio riservato con il prefetto di Caserta, Luigi Damiano. Si incontrarono in un autogrill nei pressi del casello autostradale di Caserta Nord. Damiano comunicò al presule che la ragione per cui era stato ucciso don Diana forse era più imbarazzante di quel che si potesse immaginare. Tanto che monsignor Chiarinelli nella sua omelia funebre, tenuta il 21 marzo, adottò una “linea di prudenza” e non nominò mai la parola “camorra”. Una prudenza che purtroppo la Chiesa ha fatto sua fino alla sentenza definitiva della Cassazione. Ci hanno pensato infatti i tribunali della Repubblica a fare crollare accuse e illazioni contro don Peppe, stabilendo che egli fu condannato a morte per quel che rappresentava: un simbolo nella lotta alla camorra. I giudici smontarono almeno tre teoremi: 1) quello del delitto passionale; 2) quello di avere, don Diana, rifiutato di celebrare in chiesa i funerali di un parente di Giuseppe Quadrano; 3) quello di aver custodito armi di proprietà del clan De Falco e di averle poi consegnate al clan avversario di Francesco Schiavone. «…La scelta di uccidere don Giuseppe Diana – recita la sentenza di secondo grado, confermata in Cassazione – ebbe soprattutto una forte carica simbolica, come segnale che avrebbe dovuto essere dirompente e risolutorio nella contrapposizione tra il gruppo De Falco-Quadrano e i casalesi (mafia docet!)». «La cosa che più di ogni altra mi ha procurato immenso dispiacere – continuò a raccontare Iolanda ai ragazzi venuti dal Piemonte – è stata quella di sentire e di leggere un sacco di schifezze sul conto di mio figlio. Scrissero che l’avevano ucciso per questioni di donne. Neanche fosse stato il peggiore dei criminali. Per tutta la durata del processo, ci siamo sentiti anche noi della famiglia come dei criminali. Mi riferirono anche di amministratori comunali che alcuni giorni dopo i funerali dissero ai preti di Casal di Principe, riuniti da don Carlo nella chiesa del Santissimo Salvatore: “Ma chi ve 32
lo fa fare, non lo sapete che don Peppe è stato ucciso per via delle donne?” Ho chiesto a Dio in quel momento, con tutte le mie forze, di punire coloro che andavano diffondendo quelle voci infamanti. È come se me l’avessero ucciso ancora una volta». Quelle infamie furono riprese e amplificate dal quotidiano il Corriere di Caserta. Un’innocente foto scattata in un momento di svago durante una gita, dove venivano ritratte persone sedute sul letto, venne fatta passare da quel giornale come la foto di un prete che faceva sesso a letto con donne e uomini. «Quei titoloni sul Corriere di Caserta: Don Peppino a letto con due donne, erano una pugnalata allo stomaco – continuò Iolanda mentre si girava verso una ragazzina fissandola negli occhi – Tutto falso, ovviamente. La giornalista che firmò quell’articolo si venne a scusare da me in lacrime. Voleva essere perdonata per quell’infamia. Mi confessò che era stata costretta a scrivere quelle cose». La famiglia di don Diana citò in giudizio il Corriere di Caserta. Il 3 aprile del 2003 venne emessa anche una dura sentenza nei confronti del quotidiano, del suo direttore responsabile e del giornalista estensore dell’articolo. «E poi quell’altro titolo: Don Diana era un camorrista, sempre sul Corriere di Caserta – ricorda ancora Iolanda – Una nuova infamia per una campagna di stampa che voleva mio figlio coinvolto nella guerra tra clan. Nulla di più lontano dalla realtà». A difendere la memoria di don Peppe ci ha spesso pensato il vescovo di Caserta, Raffaele Nogaro. Il prelato reagì sui giornali contro il procuratore di Napoli, Agostino Cordova, che aveva preso per buona la tesi che il parroco avesse nascosto un borsone con le armi nella sua chiesa. Anche questa accusa evaporò molto presto. Nogaro andò a testimoniare al processo su questa vicenda. «Certo, nella vita può capitare di tutto – dichiarò il vescovo di Caserta – ma i racconti fatti erano così fantomatici come le porcherie che dicevano, che assumevano proprio i toni del giallo. Conoscevo bene don Diana e non sono mai riuscito a credere 33
che quelle insinuazioni, quelle calunnie che gli venivano rivolte, potessero essere vere». In tanti si domandavano perché, e per conto di chi, venissero architettate quelle campagne di stampa. Chi volesse alimentare quello squallido scenario per delegittimare l’immagine del parroco che predicava contro la camorra. La risposta non era difficile. Il tentativo arrivava da più parti: dai collaboratori di giustizia, dagli avvocati difensori degli imputati e dal Corriere di Caserta, pronto ad accreditare le tesi più svariate. L’opera di demolizione della figura di don Peppe aveva un obiettivo più ambizioso e andava oltre la stessa figura del parroco: si voleva colpire, delegittimare il movimento anticamorra che si era sviluppato a Casal di Principe e nell’Agro aversano dopo la sua uccisione. Così il 30 marzo del 2003 fu avviata dal comitato “don Peppe Diana” una campagna di boicottaggio del Corriere di Caserta che all’epoca veniva venduto nelle edicole insieme a La Stampa di Torino. Fu anche dato un titolo alla campagna di boicottaggio: “Non comprate i giornali spazzatura”. In seguito alla denuncia di alcuni imprenditori casertani, l’11 dicembre del 2003 fu arrestato Maurizio Clemente, definito dai magistrati “l’editore occulto” del Corriere di Caserta. Fu accusato di “estorsione a mezzo stampa”. Il processo è ancora in corso. In realtà, spiegò Iolanda quel mattino ai giovani scout piemontesi, lei e i familiari avevano dovuto subire polemiche e insinuazioni già quando don Peppe era in vita. Vere assurdità. Come quando don Diana girava con un braccio fasciato e voci malevole dissero che lo avevano picchiato perché infastidiva qualche donna della sua parrocchia. «Cadde dalle scale – raccontò la mamma – nella parte ancora in costruzione, dove adesso abita mio figlio Emilio. Non c’erano le transenne di protezione alle scale. Doveva uscire la mattina presto e per non svegliarci non accese la luce, credendo di potercela fare. Ma il caso volle che cadde da un’altezza di quattro o cinque metri. Dal primo piano andò a cadere sulla cap34
potta del trattore che stava di sotto. E lì si fece male. Alle braccia, alla gamba destra e al torace. E poteva anche morire in seguito a quella caduta. Nonostante il dolore, però, decise di non chiamarci per non farci preoccupare. Quando andò in bagno, quello al piano terra, per vedere cosa si era fatto, s’accorse di essere tutto insanguinato. Solo allora chiamò il fratello Emilio, il quale si rese conto subito che la cosa era seria. Così venne a bussare alla nostra porta: “Mamma, papà, svegliatevi, Peppe è caduto dalle scale. Si è fatto male”. Lo portammo in ospedale. Questo accadde molto tempo prima che venisse ucciso. E alcuni giornali locali, durante il processo ai suoi assassini, dissero che era stato picchiato. Un’altra volta scrissero che gli avevano sparato. Ma era tutto falso. A sostenere le nostre ragioni, c’erano solo gli amici di don Peppe, pochi preti, e il vescovo di Caserta, Raffaele Nogaro, sempre in prima linea a difendere la memoria di mio figlio. Quello che ha fatto Nogaro me lo sarei aspettato anche dalla diocesi a cui apparteneva Peppino. E invece non mi sono sentita circondata da affetto, non mi sono sentita confortata, amata. La Chiesa di Aversa mi ha fatto soffrire. Ma come? – mi sono detta – mio figlio è morto in quel modo, dentro una chiesa e voi ve ne lavate le mani? Eppure Peppe era un sacerdote, uno di loro. Avrei voluto che mi dicessero una parola di bene. Mi sarebbe bastato solo questo, perché quando vedo uno di loro è come se vedessi mio figlio. Invece niente. Solitudine e amarezza sono state le mie compagne in questi anni. La diocesi di Aversa non si è mossa nemmeno per scrivere a Roma per chiedere la beatificazione di Peppe. E vorrei capire perché! Il mio Peppe non era un prete come gli altri. Non era uno che si metteva in chiesa, diceva la messa e pensava di avere assolto il suo ministero. Ed è forse questo che gli altri sacerdoti non hanno mai voluto accettare come esempio da seguire». È un silenzio che le brucia come il fuoco. Le è bruciato soprattutto nei giorni precedenti il tredicesimo anniversario della morte del figlio a causa di un libro, Il costo della memoria, pubblicato nel marzo del 2007. Lo ha scritto un sacerdote siciliano, Rosario Giuè, che è stato anche parroco di San Gaetano 35
Brancaccio, a Palermo, dal 1985 al 1989, il quartiere dove fu ammazzato don Pino Puglisi. Giuè nel suo libro pone una domanda semplice: don Puglisi è stata ammazzato ed è stato accolto dalla propria Chiesa nel suo seno ed è stato elevato sugli altari. Perché questo non è successo per don Diana? La risposta è altrettanto semplice, e la dà con il suo realistico buon senso la mamma di don Peppe: «Non hanno avuto il coraggio di prendere a modello don Giuseppe Diana. Un modello di sacerdote per tutta la Chiesa e non solo quella aversana. Una persona che per servire il suo Cristo ha dato anche la vita». Un messaggio scomodo, scomodissimo, che poteva mettere in crisi il modello del prete che vive all’ombra del potere, ossia quello praticato dalla diocesi di Aversa negli ultimi cinquant’anni. Ma la cosa più grave è che quelle accuse hanno attecchito anche all’interno della Chiesa. «Qualche sacerdote della Foranìa – spiegò sempre Iolanda ai suoi visitatori – ha sostenuto che c’era un’appartenenza ai clan da parte di alcuni sacerdoti. In particolare si diceva che don Peppe Diana apparteneva al clan De Falco. Don Armando Broccoletti apparteneva ai Bidognetti e don Carlo Aversano agli Schiavone. E questa sarebbe stata anche la ragione della morte di mio figlio. Come si può arrivare a tanta cattiveria, come si può…». Certo, come si può... Eppure dopo gli anni della mobilitazione e del sostegno coraggioso a una crescita della coscienza civile, la Chiesa locale sembra essersi smarrita. E in questo “smarrimento” sono piombati perfino alcuni dei sacerdoti che insieme a don Peppe Diana avevano firmato il documento Per amore del mio popolo. Anche questi sono, purtroppo, gli effetti dei messaggi scritti con il piombo. La Chiesa abbassa la testa Se ne ebbe un piccolo, ma amarissimo saggio per il tredicesimo anniversario dell’assassinio, il 19 marzo del 2007, quando il comitato “don Peppe Diana” e l’associazione Libera organizzarono una serie di manifestazioni. Poco più di un mese prima c’era stato il tentativo di concordarle con i sacerdoti della 36
Foranìa di Casal di Principe e la diocesi di Aversa. Nella giornata di sabato 17 marzo, era prevista la manifestazione più importante, dal titolo “Io c’ero”. Una sorta di giorno del ricordo e della memoria per quanti erano stati a Casal di Principe sia nel giorno della uccisione di don Peppe che ai suoi funerali. Luogo prescelto dal comitato per le iniziative era il Santuario della Madonna di Briano, quello dove è parroco don Paolo dell’Aversana, che è anche vicario della diocesi. L’invito era stato rivolto pure a vescovi di altre diocesi, come Raffaele Nogaro di Caserta, Lorenzo Chiarinelli di Viterbo e Antonio Riboldi, vescovo emerito di Acerra. Ovvero i tre prelati che nel pomeriggio del 19 marzo 1994 parteciparono alla marcia di protesta contro l’assassinio. Il vescovo della diocesi aversana, Mario Milano, seppur con qualche cautela, aveva dato il suo via libera. Era stata programmata anche la presentazione del libro già ricordato, Il costo della memoria. Ma proprio sul libro di Giuè la diocesi di Aversa iniziò un ostracismo che finì per coinvolgere anche tutti i sacerdoti locali. Il libro doveva essere presentato simbolicamente nella parrocchia di San Nicola di Bari, quella della sagrestia violata e insanguinata. Una iniziativa analoga fu concordata anche con il portavoce della curia di Aversa per presentare il libro di Giuè in alcune chiese della città. Ma, inspiegabilmente, la curia aversana decise di non partecipare alla presentazione del libro, ritenendolo offensivo nei confronti della Chiesa. Addirittura Rosario Giuè, che era venuto per tre giorni a Casal di Principe e doveva essere ospitato al Santuario della Madonna di Briano, venne considerato come “ospite non opportuno”. Morale, la sera della presentazione ci furono diverse sedie vuote. C’erano solo gli amici stretti di don Diana. Quelli di sempre. Mancava la gente comune. Mancavano i preti amici di don Diana che con lui avevano condiviso tante battaglie. La Chiesa così fortemente radicata da queste parti aveva scelto di non far partecipare “il suo popolo”. Fu come se fosse stato organizzato 37
un cordone di isolamento. Lo percepì e lo disse apertamente il viceprocuratore nazionale antimafia Lucio Di Pietro, relatore con il magistrato Donato Ceglie e con la giornalista Tina Cioffo. «Non ci si comporta così» si lamentò la mamma di don Diana, dopo aver saputo dell’atteggiamento della Curia aversana e dei sacerdoti casalesi. Lo avrebbe fatto sapere anche al vescovo di Aversa, Mario Milano. «Il libro dice tutte verità. Dopo tredici anni, subire questo affronto è un dolore che si rinnova». A casa della signora Iolanda Di Tella si recò allora don Franco Picone, il parroco che ha preso il posto di don Diana. «Mi disse che il libro l’aveva letto anche il vescovo – raccontò Iolanda – e che ci sono scritte cose che loro non condividono. Ma io gli ribadii che quelle contenute nel libro sono tutte verità. Quello della Chiesa aversana è un atteggiamento negativo che continua nel tempo. E non vuole finire». A parlare di «incomprensibile boicottaggio da parte della Curia» furono in quell’occasione anche don Luigi Ciotti, presidente di Libera, e il sostituto procuratore in forza alla Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere, Donato Ceglie, presenti alla manifestazione “Io c’ero”. Ma il giudizio più duro fu espresso da Emilio Diana, il fratello di don Peppe: «Mi meraviglio – dichiarò – che la curia aversana non si sia scandalizzata più di tanto quando alcuni mesi fa a San Cipriano d’Aversa è stato intitolato un centro pastorale a una persona coinvolta nel processo Spartacus, mentre oggi si scandalizza di un libro. Questo è un anniversario amaro. Ma oramai ci siamo abituati all’indifferenza del mondo ecclesiastico». Emilio Diana si riferiva alla vicenda del Centro diocesano della chiesa di Santa Croce di San Cipriano d’Aversa, comune limitrofo a Casal di Principe. Il quale è stato intestato a Dante Passarelli, coinvolto nel maxi processo Spartacus, concluso in primo grado il 15 settembre 2005, con ventuno ergastoli comminati al gotha del clan dei casalesi. Passarelli morì mentre il processo era ancora in corso. A tirare fuori tutta la vicenda fu il quotidiano Il Mattino, il 19 dicembre 2006, con un articolo a firma di Rosaria Capacchione, che ricordò come Passarelli, arrestato per associazione camorristica, fosse destinatario di una richiesta di condanna a otto anni di reclusione. 38
Amici miei «Qualche volta me lo sono sognato il mio Peppino. Quando erano passati solo pochi mesi dalla sua morte, mi venne in sogno per dirmi che era innocente». Iolanda di Tella riscoprì il sorriso mentre proseguiva il suo racconto ai giovanissimi ospiti, affascinati dalla forza dolorosa di una donna di cui a volte capivano dalla mimica ciò che non capivano dalle parole. Iolanda trasmetteva sentimenti ed emozioni forti. «Era un periodo durissimo – continuò – Anche i miei familiari, mio marito e mio figlio, non riuscivano a farsene una ragione. E avevano il rimorso di non averlo fermato, di non avergli impedito di andare oltre un certo rischio. “Se avesse fatto il prete come gli altri...” mi dicevano spesso. Ma lui mi venne in sogno una notte. Era tutto vestito di bianco. Entrò nella mia camera da letto, non lo faceva mai, si avvicinò a me delicatamente, mi prese la mano, e guardando anche il padre, disse: “Ma che volete da me, io sono innocente”. Quando mi svegliai e ripensai al sogno, scoppiai a piangere. Ho sempre saputo che il mio Peppino si comportava in quel modo perché voleva solo aiutare le persone, soprattutto quelle che ne hanno più bisogno. Per questo aveva tanti amici. Gli scout sono la sua seconda famiglia. Si sono costituiti parte civile al processo e sono loro, con gli amici, che oggi, più di tutti, ne custodiscono la memoria. È grazie a loro se in questo territorio gli vengono intestate strade, piazze e scuole. Se torno con la memoria a quel periodo, cosa che faccio ormai tutti i giorni da quando il mio Peppe non c’è più, insieme a tanto dolore mi viene sempre in mente un colore: l’azzurro. L’azzurro cielo delle camicie degli scout. Non so quanti ce n’erano in quei giorni a riempire le strade di Casal di Principe. Quasi tutti volti sconosciuti. Possibile, mi chiedo, che il mio Peppe avesse conosciuto così tante persone? E che tutti gli volessero così bene?». «Sono passati quasi quattordici anni, e ce l’ho sempre davanti agli occhi. Spesso mi domando se sia servita a qualcosa la sua 39
morte. E cerco di rispondermi da sola. Per gli altri sì. È servita per la gente, per quelli di fuori Casale, perché don Peppe è diventato un simbolo. Ma per me non è servita proprio a niente. Me l’hanno levato e basta. Io sono la mamma, vorrei averlo ancora qui. A me non ha dato niente nessuno. Io ho avuto solo il dolore dalla sua morte. Se potessi tornare indietro gli direi di non fare più quelle cose per le quali è diventato protagonista. Ma sono altrettanto sicura che lui continuerebbe a farle, come sempre». Ora la memoria di don Peppe si consolida anche a Casal di Principe. Appena dopo la sua morte era difficile entrare nelle scuole e tenere conferenze o dibattiti su quello che era accaduto il 19 marzo del 1994. Oggi non è più così. Tante scuole chiedono al “Comitato don Peppe Diana” di partecipare a dibattiti, manifestazioni per la legalità, di testimoniare il ricordo del prete coraggioso. Anche sulla sua tomba non mancano mai i fiori freschi e qualche cero acceso. «Sono i cittadini di Casale che si ricordano del mio Peppino – volle precisare Iolanda – Hanno pianto in tantissimi per lui. Ogni anno il 19 marzo gli facciamo dire una messa. E ci sono tante persone che partecipano. Ricordo quei lenzuoli bianchi e la gente a migliaia, nel giorno dei suoi funerali. Queste memorie mi aiutano a vivere. Per me sono importanti. Perché gli acciacchi che ho mi danno sempre più problemi. Sono stanca di vivere. Il dolore è stato tremendo e non se ne va. È il mio Peppe che mi dà la forza. Quando vado in ospedale ho paura, ma so che lui è vicino a me. Quando lui riterrà che sono pronta per raggiungerlo, per me sarà un sollievo, un dolce piacere». Appena Iolanda terminò il suo racconto, gli scout vollero visitare la stanza del figlio. È rimasta intatta, come allora. C’è il suo letto, e sul letto un bambinello. «È lì da sempre», spiegò il padre, Gennaro, accompagnando gli scout in visita alle due stanze e allo studio al primo piano che don Peppe condivideva nell’appartamento con i suoi genitori. Ci sono la sua scrivania, i suoi libri. Ci sono i ricordi, le foto, i regali e i pensieri che portano gli scout. Ognuno viene da un paese. «Qui dov’è?» doman40
dò una ragazza indicando una foto. «Dove stanno i coccodrilli – rispose il padre – Era andato con il suo amico fotografo, Augusto di Meo, il quale cadde dalla barca e finì nel fiume e Peppe si tuffò per ripigliarlo». Poi videro una foto di Peppe con i pantaloncini. Papà Gennaro raccontò che quella foto l’aveva scattata in un mese di giugno, durante la mietitura del grano. Era in campagna ad aiutarlo, proprio nella proprietà di famiglia, perciò lo si vedeva avanzare a torso nudo nel vialetto di campagna. «Questa che cos’è?» chiese un altro giovane scout, fermandosi davanti a una Madonnina. «Questa – rispose la madre – arrivò da Fatima proprio il giorno che lui cadde dalle scale e si ruppe il braccio. L’aveva comprata qualche settimana prima in uno dei suoi viaggi all’estero. Peppe era anche assistente generale dell’Opera pellegrinaggi Foulards Blancs. Andava a Lourdes ad accompagnare i malati. L’avevano spedita per posta». Un segno premonitore, fa intendere Iolanda. Non doveva morire quel giorno e in quel modo. Qualcuno in cielo aveva riservato a lui un sacrificio più grande. Scendendo dalle scale un giovane scout domandò d’improvviso a Iolanda: «Ma se oggi, a tanti anni di distanza, incontrasse gli assassini di suo figlio cosa le verrebbe da dire?». «Niente – rispose lei – Gli farei quello che hanno fatto a mio figlio».
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