Rivista Wired

Page 1

ANNO

2017 EDIZIONE

Autunno

IN CERCA DI NUOVI CONFINI IL MONDO SI DIVIDE IN DUE. CHI VUOLE RIDEFINIRE LIMITI E REGOLE DELLA SOCIETÀ E CHI INVECE INTENDE COSTRUIRE MURI E BARRIERE. LE TECNOLOGIE DIGITALI E INTERNET SONO I PROTAGONISTI DI QUESTA BATTAGLIA. LE ANALISI DI 23 GRANDI AUTORI

NUMERO

82 PREZZO

€ 5,00


DI

Mikko Hypponen

L’UTOPIA DELLA RETE

UNA NUOVA CORSA AGLI ARMAMENTI DIGITALI, INTROMISSIONE DEI GOVERNI, I PERCOMPUTERIZZAZIONE, CYBER INSECURITY: ECCO PERCHÉ INTERNET È UN FALLIMENTO. E ANCHE LA CASA CONNESSA POTREBBE DIVENTARLO. TUTTA “COLPA” DI EDWARD SNOWDEN

ART

Meijn Hos 2

2


ella primavera del 1994, mentre mettevo online il sito web della nostra azienda, ho capito che la rete, allora agli albori dell’espansione, sarebbe presto diventata molto vasta. È andata in quel modo e la crescita è stata velocissima. Allora pensavamo che internet avrebbe tolto di mezzo i confini geografici e che avremmo potuto vivere in un mondo finalmente unito, senza più distanze né geografia. Era pura utopia. Anch’io lo credevo in quel periodo, ma la verità è che ci sbagliavamo tutti. Quella visione non corrisponde a quanto davvero è successo e, in realtà, i confini sono ancora qui. Anzi, con ogni probabilità contano più che mai. Ciascun paese ha regole, leggi e regolamentazioni diverse, per cui internet non è la stessa cosa in ogni parte del mondo e ciò che si può fare online cambia a seconda del luogo in cui ci si trova: la Cina è un ottimo esempio. Dal mio punto di vista uno dei lati deleteri della rete non è il crimine, contrariamente a quanto sostengono in molti. La delinquenza è senza dubbio un fattore negativo ma il peggio è rappresentato sia dalla corsa agli armamenti, sia dal fatto che governi, centri di spionaggio ed eserciti abbiano capito di poter svolgere il loro “sporco” lavoro online. Oltretutto in modo più efficiente che nel mondo fisico. Fenomeni quali lo sviluppo di kit di intrusione informatica utilizzati dalle diverse intelligence per spiare le persone, insieme alla creazione di cyber-armi destinate a svolgere attività di sabotaggio contro altri paesi, hanno avuto inizio una quindicina di anni fa. Ma una delle ragioni per cui questa corsa agli armamenti è cresciuta in modo esponenziale, e di recente ha avuto un’importante accelerata, è rappresentata, sorprendentemente, da Edward Snowden. Non era sua intenzione causare una simile escalation, è ovvio, ma portando in superficie e rivelando al mondo le capacità, la portata nonché gli illeciti della Nsa, la National security agency, ha mostrato ad altri governi cosa gli Stati Uniti fossero in grado di fare. Di conseguenza, anch’essi hanno deciso di avventurarsi nelle attività che gli americani stavano già da tempo praticando. Risultato: ora ci troviamo nel mezzo di una vera e propria corsa agli armamenti digitali.

N

l termine funziona alla perfezione perché le cyber weapon sono efficienti, convenienti ed estremamente “discrete”. Varie agenzie governative possono di conseguenza svolgere il proprio lavoro online con la massima efficienza: rubare informazioni a un paese avversario ora è più semplice, perché si parla di dati e non c’è più bisogno di introdursi fisicamente in qualche luogo ben sorvegliato, saccheggiare archivi e copiare dossier top secret. Basta entrare in un network connesso. Queste armi poi sono economiche, se paragonate a un bombardiere B52. Inoltre il loro utilizzo è facile da negare: mentre un governo può tranquillamente smentire ogni coinvolgimento, provare il contrario è difficile. Negli anni Ottanta, durante la Guerra Fredda, mi angosciava la possibilità di un conflitto nucleare e, di conseguenza, della fine del mondo. Oggi questa eventualità – è magnifico – è assai più remota. La corsa agli armamenti nucleari, durata sessant’anni, è finita, sì, ma siamo passati immediatamente alla successiva, quella delle cyber weapon, destinata a durare altrettanto. Siamo solo all’inizio. È diversa dalla precedente, perché gran parte del potere delle armi tradizionali risiede nella loro capacità di deterrenza: basta possederle, non c’è bisogno di usarle. Nove paesi al mondo oggi possiedono ordigni nucleari. Siamo informati al dettaglio circa la dotazione di ciascuno e, di conseguenza, sappiamo anche chi non far arrabbiare. Nulla o quasi nulla, invece, conosciamo a proposito degli armamenti digitali: né quali nazioni li possiedano, né che cosa effettivamente possiedano. Sappiamo invece che non esiste alcun effetto deterrente nel campo delle cyber weapon. Certo, abbiamo dettagli sugli arsenali digitali degli Stati Uniti, della Russia o della Cina, i paesi più avanzati del settore, ma ignoriamo quasi tutto delle capacità, per esempio, di Italia, Svezia o Vietnam. Ogni stato ha una propria capacità di cyber attack, ma determinarne la portata è impossibile: si tratta di armi non tradizionali, quindi fare la solita ricerca su Google per scoprire quanti carri armati ha la Russia o quanti aerei possiedono gli americani, non serve a niente. Ciò significa che quando la Difesa investe miliardi in armamenti digitali, non ottiene alcun effetto deterrente; se vuole un ritorno sull’investimento deve usarli. Inoltre hanno, in un certo senso, una data di scadenza perché i sistemi che dovrebbero attaccare diventano obsoleti con grande rapidità e, di conseguenza, le armi stesse durano di norma poco tempo. Questo è uno sviluppo davvero negativo, oltre che il segnale più evidente di come i confini nazionali siano tornati più impenetrabili che mai. No, internet non è l’utopia che ci avevano promesso e anche l’internet of

I

WIRED

AUTUNNO 2017

3


things (IoT) fa presagire gravi problematiche per il futuro. Perché gli utenti non sanno che cosa davvero succeda quando comprano i loro nuovi gadget: non sono consapevoli che, in realtà, la lavatrice è connessa al wi-fi. In sostanza, stiamo tramutando ogni cosa in un computer. Questo però significa trasferire a ogni elemento connesso tutti i problemi che i computer già hanno, non solo in termini di security ma anche di privacy, aggiornamento, manutenzione e hacking. È un problema molto grave e ho l’impressione che non ci si renda realmente conto delle implicazioni di una simile evoluzione. In ogni caso sono e resto un ottimista. Certo, la rete ha dei problemi importanti ma, allo stesso tempo, è evidente che ha portato molte più cose positive che negative. Chiunque sarebbe d’accordo su questo punto. Mi piace pensare che quanto è accaduto a internet accadrà anche all’internet delle cose e che nel 2027 o nel ’37 avremo queste stesse discussioni, concludendo che l’IoT ci ha sì esposti a nuovi rischi e problemi ma che alla fine i benefici sono stati maggiori degli svantaggi. È solo una speranza, però.

4

l problema con la sicurezza dell’internet of things è che la ragione per cui si vende un elettrodomestico è quasi sempre il prezzo: al momento di comprare la lavatrice di cui parlavo, la prima domanda che ci si pone è quanto costa, non certo se la sua security è all’altezza. A nessuno interessa sapere se monta un firewall. Questo però comporta che i produttori sarebbero stupidi a investire più soldi nella sicurezza, visto che ciò renderebbe i loro dispositivi più costosi e quindi meno appetibili. E, visto che nessuno chiede la cyber security, ci stiamo avviando verso un inevitabile fallimento, verso uno scenario in cui quegli stessi dispositivi saranno inevitabilmente insicuri. Il problema è davvero complesso, non si risolverà da solo. Per questo abbiamo bisogno di una regolamentazione per la sicurezza informatica, come accade per quella fisica o la prevenzione degli incendi. Torneremo all’idea utopica di una rete indipendente e senza confini? Temo che sia molto improbabile. Saremmo destinati a fallire di nuovo, accadrebbe esattamente quanto è già avvenuto con internet. Per anni, agli albori, politici e decision maker l’hanno ignorata perché pensavano che fosse irrilevante ma, a un certo momento, hanno dovuto rendersi conto di quanto invece fosse importante e centrale. Solo a quel punto si sono accorti di quanto fosse essenziale usare e controllare la rete e, allo stesso tempo, di quanto servisse che gli eserciti e le agenzie di intelligence se ne servissero allo stesso modo. Ma, in quello stesso momento, i governi si sono svegliati e hanno preso il controllo. Se ci mettessimo a costruire un’alternativa all’attuale internet per ripartire da zero, la nuova rete sarebbe ignorata dalla politica fino al raggiungimento di un certo successo, poi finirebbe di nuovo sotto il suo controllo. È un processo ciclico. Possiamo lavorare alla costruzione di network limitati, come Tor, ma questi sarebbero inevitabilmente limitati anche per quanto attiene a portata e utilizzo. Tor è ottimo per l’anonimato ma quanti usano il suo network? Possiamo costruire qualcosa grande quanto internet, ora? Impossibile, fallirebbe nel medesimo modo. Odio dover dire che internet è un fallimento ma, per quanto la ami ancora, è così.

I

MIKKO HERMANNI HIPPONEN è nato nel 1969 in Finlandia, vive con la famiglia e molti cervi su un’isola vicino a Helsinki. Chief research officer di F-Secure, azienda leader di sicurezza hardware e antivirus, collabora con Scientific American, New York Times, Wired

CAPITOLO 6

Us e vari organi di sicurezza di Europa, Asia e Stati Uniti. Nel 2003 ha diretto il team che ha debellato il virus “Sobig.F worm” ed è stato il primo a lanciare l’allarme per lo “Storm Worm” nel 2007, quando PC World l’ha incluso fra le 50 persone più importanti del web.

DEVIAZIONI



Thomas Piketty

DISUGUAGLIANZE

DI

6


Johnny Miller

MODERNE

FOTO

I PASSI AVANTI DI SCIENZA E TECNOLOGIA OGGI CONSENTIREBBERO UN PROGRESSO SOCIALE MAI VISTO MA L’AUMENTO DELLE DISPARITÀ ACUISCE REAZIONI IDENTITARIE E CHIUSURE NAZIONALI 7


8

L’impegno politico, in Francia, come in tutti i paesi, non si limita alle elezioni. La democrazia si basa innanzitutto sul confronto permanente delle idee, sul rifiuto delle certezze acquisite, sulla rimessa in discussione senza sconti delle posizioni di potere e di dominio. Le questioni economiche non sono questioni tecniche, da lasciare a una ristretta casta di esperti. Sono questioni eminentemente politiche, di cui ciascuno deve impadronirsi per farsi la propria opinione, senza farsi spaventare. Non esistono leggi economiche: esiste semplicemente una molteplicità di esperienze storiche e di percorsi nello stesso tempo nazionali e globali, fatti di biforcazioni impreviste e di costruzioni istituzionali instabili e imperfette, nell’ambito delle quali le società umane scelgono e inventano diversi modi di organizzarsi e di regolare i rapporti di proprietà e i rapporti sociali. Sono convinto che la democratizzazione del sapere economico e storico e della ricerca sociologica possa contribuire a cambiare i rapporti di forza e a democratizzare la società nel suo complesso. Esistono sempre delle alternative: questa è senza dubbio la prima lezione di una prospettiva storica e politica sull’economia. Un esempio molto chiaro è il debito pubblico: vorrebbero farci credere oggi che i greci e gli altri europei del Sud non hanno altra scelta che ripagare per decenni le enormi eccedenze di bilancio, laddove proprio l’Europa si è battuta negli anni Cinquanta per l’annullamento dei debiti del passato, in particolare a beneficio della Germania e della Francia, cosa che ha permesso di investire nella crescita e nel futuro. Questi scambi hanno anche rafforzato la mia convinzione che le disuguaglianze prodotte dall’attuale capitalismo globalizzato e deregolato non hanno molto a che vedere con l’ideale meritocratico ed efficientistico dichiarato da chi da questo sistema trae vantaggi. Con variazioni infinite tra paesi, la disuguaglianza moderna combina elementi antichi, fondati su rapporti di dominio puro e semplice, su discriminazioni razziali e sociali, ed elementi più nuovi, che conducono a volte a forme di sacralizzazione della proprietà privata e di stigmatizzazione dei perdenti ancora più estreme che nelle fasi anteriori della globalizzazione. Tutto ciò in un contesto in cui i progressi della conoscenza e della tecnologia, la diversità e l’originalità delle creazioni culturali, permetterebbero un progresso sociale senza precedenti. Purtroppo, in mancanza di una regolamentazione adeguata delle forze economiche e finanziarie, l’aumento delle disuguaglianze rischia di esacerbare le reazioni identitarie e le chiusure nazionali, nei paesi ricchi come in quelli poveri ed emergenti. e si tenta di fare un bilancio del periodo 2012-2016, gli avvenimenti più significativi e drammatici sono la guerra in Siria e in Iraq e l’esplosione del Medio Oriente, che ha comportato una rimessa in discussione radicale e forse duratura del sistema di frontiere istituito dalle potenze coloniali in base all’accordo SykesPicot del 1916. Le cause di questi conflitti sono complesse, coinvolgono nello stesso tempo sia antichi antagonismi religiosi che moderni e infruttuosi tentativi di costruzione dello Stato. Ma è evidente che i recenti interventi occidentali – in particolare le due guerre in Iraq del 1990-1991 e del 2003-2011 – hanno giocato un ruolo decisivo. Se si assume una prospettiva più di lungo periodo, colpisce l’osservazione che il Medio Oriente – inteso qui come la regione che va dall’Egitto all’Iran passando per la Siria, l’Iraq e la Penisola Araba, cioè circa 300 milioni di abitanti – costituisce non solo l’area più instabile del mondo, ma anche la più ricca di sperequazioni. Tenendo conto dell’estrema concentrazione delle risorse petrolifere in territori spopolati (disuguaglianze territoriali all’origine del tentativo di annessione del Kuwait da parte dell’Iraq nel 1990), possiamo stimare che il 10% degli individui più privilegiati della regione si appropri del 60-70% complessivo dei redditi, più di quanto avviene nei paesi meno egalitari del pianeta (fra il 50 e il 60% dei redditi al 10% più privilegiato in Brasile e Sudafrica, circa il 50% negli Stati Uniti) e molto più che in Europa (fra il 30 e il 40, contro il 50% circa di un secolo fa, prima che le guerre e lo Stato sociale e fiscale intervenissero a creare condizioni più eque) È altrettanto significativo osservare che le regioni del pianeta con le maggiori disuguaglianze hanno in parte un passato pesantemente segnato dalla discriminazione razziale (questo è evidente in Sudafrica e negli Stati Uniti ma anche in Brasile, che al momento dell’abolizione, nel 1887, contava circa un 30% di schiavi). Ma non è il caso del Medio Oriente. In questa regione le disuguaglianze massicce hanno un’origine molto più “moderna” e direttamente legata al capitalismo contemporaneo, con al centro il ruolo chiave del petrolio e dei fondi finanziari sovrani (oltre che, è ovvio, delle frontiere coloniali, molto arbitrarie al momento della loro definizione e poi difese militarmente dai paesi occidentali).

S

IMMAGINARI



INTERVISTA A

Renato Mazzoncini

L’EVOLUZIONE DEL VIAGGIO UNA NUOVA PIATTAFORMA DIGITALE CHE INTEGRI INSIEME I BIGLIETTI DI TRENI, AEREI, TAXI E CAR SHARING: L’AMMINISTRATORE DELEGATO DI FERROVIE DELLO STATO ITALIANE RACCONTA L A “SANTA ALLEANZA” PER SCONFIGGERE LO STRAPOTERE DELL’AUTO

ART

Gilles Tran 10


Gli Over the Top sono quelle aziende che basano la loro fortuna sulla infrastruttura di altre. Over, appunto. Qualche esempio? Google, Facebook, WhatsApp. Senza la Rete non esisterebbero. Qualcosa di simile sta accadendo nei trasporti. C’è chi possiede le infrastrutture (aerei, ferrovie, alberghi), e chi fa i soldi senza possederle (Booking, Expedia, Airbnb). Fino a qualche anno fa il rapporto con il cliente era esclusivamente dei padroni delle infrastrutture. Oggi non è più così, ma c’è chi come Ferrovie dello Stato prova a difendersi e a rilanciare. Tra qualche mese presenterà una nuova piattaforma digitale per rimanere protagonista del business del viaggio. Un progetto che l’a.d. svela a Wired in anteprima. Questa futura piattaforma digitale, come sarà? «Secondo i nostri dati, il primo sito di ecommerce del paese è Trenitalia.com, mezzo milione di consultazioni al giorno. Le vendite migrano sul digitale anche se in stazione vedi ancora gli sportelli. A Roma Termini ne abbiamo 22 e presto saranno obsoleti. Com’è successo in banca. Il sito ha sei milioni di utenti profilati e quotidianamente in attività; l’app ha un potenziale enorme. La sfida della mobilità la vinciamo dando al cliente uno strumento facile. Pensa al car sharing, 15 anni fa. Un fallimento. Poi sono arrivate Car2Go ed Enjoy». Già. Ma la differenza l’ha fatta proprio lo smart phone. «Esatto. Data all’utente un’applicazione semplicissima, hanno fatto il botto. Eppure oggi, se vuoi fare un viaggio door-to-door è dura, anche se in molte zone esistono buona densità di servizi e integrazione commerciale – cioè le coincidenze fra treni e treni, treni e bus e via dicendo. Ma non quella di informazioni e biglietti. Ecco perché la gente prende

WIRED

l’auto: zero pianificazione, chiavi nel cruscotto, pieno di benzina, navigatore e vai; ecco perché lavoriamo a un progetto di extended customer experience, una piattaforma digitale semplice da usare come un’app. Inserisci origine e destinazione, ti crea il viaggio». Mettiamo che debba andare dacasa mia al giornale: c’è il taxi? «Sì. Anche la bici, anche le gambe. Ogni servizio integrabile entrerà nella piattaforma. Partiamo da un profilo iniziale in cui l’utente si descrive, dice se privilegia il tempo, i soldi o il comfort, se odia l’aereo o vola e continueremo ad affinarlo per offrirgli alternative sempre più simili ai suoi interessi». Come funzionerà? «In Italia le regioni avrebbero il compito di pianificare gli orari dei treni, le province degli autobus extraurbani, i comuni di bus, tram e metropolitane. Il problema? Hanno strumenti di pianificazione preistorici. Ora immagina un’app in cui milioni di persone, ogni giorno, inseriscono origine e destinazione: se alla fine uno compra vuol dire che il

AUTUNNO 2017

11


«Con alcuni dei principali fornitori di tecnologia che hanno creato Pico, il motore di vendita di Trenitalia di cui condividiamo la proprietà. Se funzionerà, la montagna della macchina privata subirà una slavina».

servizio soddisfa i suoi bisogni; ma alla quinta volta che salta l’acquisto, capisci che c’è la domanda ma non l’offerta. Manca un orario, una coincidenza. Oltretutto per fare un viaggio intermodale oggi devi comprare un biglietto dell’Atm, uno di Trenitalia o di Ntv, un altro di Atac, magari un car sharing. Tanti acquisti diversi. Il nostro obiettivo consiste invece nel proporre a tutti i player un’integrazione commerciale, per fornire un unico ticket alla tariffa migliore».

12

Come gestirete gli abbonamenti, gli spostamenti di tutti i giorni, quelli che prevedono l’uso di treno, car sharing, bicicletta? «I pendolari hanno esigenze di gran lunga minori, sanno tutto, hanno orari fissi, biglietti pagati per tutto il mese. Quindi avranno un basso livello d’interazione con l’app e continueranno a comprare l’abbonamento nel solito modo. Invece il commuter che usa l’auto, spesso la sceglie perché teme di arrivare tardi in u¡cio o a casa, se il mezzo pubblico avesse qualche problema. La creazione di un backup come la piattaforma potrebbe persuaderlo ad abbandonarla: devo convincerlo che gli conviene usare il treno, la metro o una delle altre opzioni e dargli mezzi confortevoli, climatizzati, dove può usare il suo tempo».

Niente aerei, però. «Invece sì, e anche i nostri concorrenti: per me il vero competitor è l’auto privata, che oggi ha l’80% del mercato della mobilità. Una delle due domande che ho posto appena arrivato è stata: “Il nostro cliente è un utente del treno?”. Risposta: no, ha un’esigenza di viaggio e lo sceglie se è il modo migliore per spostarsi». E la seconda? «Eccola: “Quale quota dell’intera mobilità ha FS, che detiene circa l’87,5% del trasporto ferroviario?”. Risposta: solo il 5,2!».

Da vent’anni l’evoluzione del treno è un sinonimo di innovazione. Non a caso Elon Musk lavora anche su Hyperloop. «La levitazione magnetica, da sola, non mi pare un vantaggio. Un nostro treno che va a 350 km all’ora è operabile su tutta la rete mentre un Maglev viaggia punto a punto, è una navetta. Non a caso in California, dove siamo in gara per l’Alta Velocità San FranciscoLos Angeles, hanno scelto il nostro standard. Il vero plus di Hyperloop è un’intuizione di Musk: s’è inventato una capsula con la turbina anteriore che di fatto “succhia” l’aria davanti e riduce l’attrito. Ma non sarà mai trasporto di massa: oggi sui Frecciarossa 1000 a doppia composizione viaggiano 900 persone mentre i progetti Transpod e Hyperloop One riguardano capsule da 60 passeggeri. Ma non sottovaluto mai quello che fa Musk. Anche perché viaggio da tre anni con una vettura Tesla».

La piattaforma sarà endorsed da FS per evitare l’inaffidabilità tipica delle start up digitali. «Sì, altrimenti morirebbe prima ancora di partire. Se qualcosa non va con chi deve prendersela il cliente? Ferrovie deve assumersi la responsabilità della qualità. Ovunque un anello della catena sia debole, siamo pronti a occuparcene perché basta uno a spezzarla... e la gente ricomincia ad andare in macchina». Torniamo alla piattaforma. Quando la vedremo? «A una macchina che già viene interrogata da mezzo milione di persone al giorno aggiungeremo altri 3,9 miliardi di viaggi... ci aspettiamo che arrivi a 3-4 milioni di ricerche al giorno e funzioni al 99,99%. Vorremmo rilasciarla all’inizio dell’anno prossimo». Con chi la sviluppate?

(di Federico Ferrazza)

MIKKO HERMANNI HIPPONEN è nato nel 1969 in Finlandia, vive con la famiglia e molti cervi su un’isola vicino a Helsinki. Chief research officer di F-Secure, azienda leader di sicurezza hardware e antivirus, collabora con Scientific American, New York Times, Wired

CAPITOLO 2

Us e vari organi di sicurezza di Europa, Asia e Stati Uniti. Nel 2003 ha diretto il team che ha debellato il virus “Sobig.F worm” ed è stato il primo a lanciare l’allarme per lo “Storm Worm” nel 2007, quando PC World l’ha incluso fra le 50 persone più importanti del web.

IMMAGINARI



DI

Ryan Merkley

CTRL+C CTRL+V LE LEGGI SUL COPYRIGHT SONO STATE STABILITE NEL 1662. MA LA RETE HA CAMBIATO TUTTO. SECONDO IL CEO DI CREATIVE COMMONS OGGI CIASCUNO DI NOI È DETENTORE DI UN DIRITTO D’AUTORE ED È LIBERO DI COPIARE

ART

Pawel Bajew 14


un certo punto, più o meno fra una ventina d’anni, si potrà viaggiare con un volo spaziale suborbitale di tipo commerciale da ogni punto della terra a un altro. Pechino, Città del Capo, Toronto. Qualunque città scegliate, meno di venti minuti. Pensate a quanto diventeranno complesse le leggi, i regolamenti e le procedure che renderanno possibili questi voli spaziali. Saranno accessibili a tutti, non più un’esperienza riservata a un’élite di astronauti. Si viaggerà per migliaia di miglia al giorno, superando confini territoriali a 22mila chilometri all’ora, attraversando un cielo solcato da migliaia di satelliti e dalla Stazione spaziale internazionale. Adesso immaginate di regolare questo nuovo settore prendendo il Codice della strada e aggiungendovi semplicemente la parola «spaziale». È quanto è successo alle leggi sul copyright nell’era del web, degli smartphone e dei social media: abbiamo preso le vecchie norme e abbiamo aggiunto «digitale» e «online». Ha funzionato più o meno come ci aspettavamo. L’applicazione delle vecchie regole sul diritto d’autore, per esempio, ha provocato situazioni assurde. Quando la pratica della condivisione è esplosa grazie al web, l’abbiamo applicato in modo automatico su tutto. In tal modo, da un giorno all’altro ci siamo trovati di fronte a miliardi di titolari di diritti d’autore, che perlopiù nemmeno sanno di detenerli. Internet ha reso facile ed economico creare database di contenuti e, dato che non c’è più bisogno di registrare i propri lavori, identificarli diventa impossibile. In Italia per esempio non esiste la cosiddetta “Libertà di panorama”, una legge cioè che regoli la possibilità di pubblicare online fotografie di edifici e luoghi pubblici e monumenti. Ecco cos’è diventato oggi il diritto d’autore. Ma non è certo nato per questo: è stato creato secoli fa per l’era dei libri, non per quella di internet in cui i dati viaggiano per tutto il mondo in un secondo. Oggi la questione è solo un singolo punto di un’infinita lista dei negoziati commerciali, un intricato insieme di accordi in cui sono mischiate cose molto diverse come le tariffe sulle esportazioni del settore automobilistico o le quote sulle importazioni degli abiti da ufficio da uomo. Difficile capire come affrontare la questione, anche se va riconosciuto che le leggi sul diritto d’autore non sono state fondate su norme consuete come la raccolta di prove, la ricerca del movente e l’accertamento dei fatti. Dovremmo anzi chiederci come sarebbero se lo fossero state.

A

Sento dire che le mie considerazioni sull’attuale limitazione della condivisione online non sono corrette, perché in rete tutto sarebbe condiviso. Provate a dirlo a un documentarista che cerca di acquisire i diritti per usare una certa musica nel suo film o a un imprenditore denunciato da un cosiddetto “patent troll”, un truffatore che registra online il maggior numero di brevetti possibile solo per fare soldi; oppure a un remixer che ha ricevuto un avviso di violazione del copyright e una notifica di rimozione delle proprie composizioni. Provate a chiederlo, magari, a uno scienziato che vuole visionare documenti sulla ricerca contro il cancro e si trova di fronte a una sottoscrizione a pagamento dopo l’altra; e provate magari a chiederlo anche all’insegnante di una scuola con pochi fondi pubblici che cerca contenuti per i suoi studenti. Eppure il diritto d’autore, originariamente, era stato concepito per regolamentare il rapporto fra interesse pubblico e privato. In modo da stimolare l’innovazione, incoraggiare la scoperta, motivare la creatività. Invece oggi sembra uno strumento ideale per riuscire a sfruttare al massimo il lavoro creativo e a ricavare la maggiore quantità di denaro possibile. Fare in modo diverso è considerato una follia, tipo trasformare il vino in acqua. Ignoriamo che la creatività, l’innovazione e la scoperta sono spesso il risultato diretto della libera e piena condivisione di informazioni. I dati ci dicono invece che dovremmo fare proprio quello, rinunciare ai nostri vantaggi economici. Scrive il docente di business di Harvard Adam Grant nel suo saggio Più dai più hai. Un approccio rivoluzionario al successo: «Chi sarà disposto a dare via per primo si troverà in vantaggio dopo». L’atto del dare, secondo gli studiosi, non solo gratifica chi lo compie ma ispira gli altri a fare altrettanto. Qualche anno fa ero al Massey College di Toronto per una conferenza del futurologo Stewart Brand sul progetto Long Now Foundation, la creazione di un orologio meccanico studiato per segnare il tempo per i prossimi diecimila anni (“Clock of the Long Now”). Per sviluppare il progetto, Stewart lavora con governi, aziende e multinazionali facendo pianificazioni che coprono un lasso di tempo che va dai 50 ai 100 anni.

S

WIRED

AUTUNNO 2017

15



Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.