Relazione I anno - Chiara Michelotti

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Relazione di Fine I Anno della Scuola di Formazione in DanzaMovimentoTerapia presso Sarabanda – Anno Accademico 2011/2012

Chiara Michelotti, Allieva in Formazione

18 novembre 2011, primo giorno del primo anno di formazione in DanzaMovimentoTerapia… si parte subito dall’esperienza. Questo è l’aspetto da cui vorrei partire, per descrivere questo cammino… la mia esperienza passo dopo passo. Si apre la porta di Sarabanda e si entra subito in contatto con il silenzio. Il silenzio è un aspetto molto importante nel metodo della danza terapeutica (scoprirò poi che qui ci si dedica a questo originale indirizzo della danza movimento terapia). Il silenzio che ho incontrato qui mi ha allontanata dal prima (lavoro, rumori, traffico, pensieri…) e mi ha riportata al qui ed ora. Il silenzio ha creato il contatto con me stessa, mi ha riportata verso il centro di me. Il silenzio si è fatto ponte. Ecco il primo contatto, quello con me stessa. Questo contatto inizia a ristabilirsi, già dallo spogliatoio, dal bagno, dal corridoio… Il primo anno di formazione sento che prima di tutto mi ha riportato a me. Tanto si è mosso in me a partire dal gesto, dalla danza, dal silenzio… chi ha varcato quella soglia quasi un anno fa ha varcato anche una soglia dentro di sé… anzi forse diverse soglie. Anche l’ingresso in aula è un varcare la soglia.


Se attraverso la soglia con consapevolezza, e qui mi aiuta la formalità/il rito dell’entrare con il piede sinistro e inchinandosi, percepisco il passaggio. Si entra in aula… ma l’aula non è una semplice aula. E’ il contesto in cui si svolge la danza terapeutica e ne percepisco subito l’unicità. Lo spazio è vuoto, per accoglierci. Si iniziano anche a vedere alcuni dei materiali che poi si utilizzeranno negli incontri. Qui tutto ha il suo posto. Il luogo è protetto, perché quando si comincia tutto il resto rimane fuori dalla porta. Lo spazio è dedicato all’incontro, è stato precedentemente preparato dal terapeuta. Incontro dopo incontro ritroverò questo spazio, sempre più noto, sempre più intimo e avrò sempre più fiducia. Ciò mi aiuterà nell’espressione della mia danza, nell’incontro con la musica, con l’altro… Scoprirò strada facendo che parliamo di setting, quando vogliamo indicare lo spazio dedicato all’incontro, preparato dal terapeuta. Ma indichiamo più estesamente con questo termine lo spazio-tempo dedicato all’attività e tutte le regole che la delimitano. Questi elementi chiari e precisi consentono a terapeuta e utenti di condividere un terreno comune, di avere chiarezza su ciò che si farà e sul come lo si farà e tutto questo genera un senso di tranquillità. Come leggerò poi nella definizione del termine inglese c’è anche la parola scena: “l’ambiente in cui qualcosa si trova o ha luogo”. In effetti il setting in cui si svolge la danza terapeutica è anche scena, in cui si svolge la nostra tragedia umana attraverso la danza, e in quanto tale ha anche una finalità catartica.


Quest’aula di Sarabanda custodisce tante delle mie emozioni, lacrime, sudore, impronte, ricordi… è un luogo dove ho vissuto, dove la mia vita si svolge nella mia danza. Lo spazio è spazio scenico, accoglie e ambienta il nostro spettacolo, anche lo spazio diventa arte. Già dai primi incontri, percepisco bene lo spazio e il mio spazio con la danza della terra. Ove mi muovo in uno spazio mio personale, senza invadere lo spazio altrui. Esploro il mio spazio, il mio contatto con la terra. Si crea un rapporto con questo pavimento, con la mia gravità, con il mio andare su e tornare giù. Il mio spazio prende forma.

C’è anche un rituale di inizio: come la meditazione, la ciotola. C’è un rituale di fine: ancora la ciotola, la danza in cerchio, il bastone parlante… Questi rituali scandiscono il tempo degli incontri, demarcano l’inizio e la fine. Contengono ciò che è avvenuto. Faccio anche l’incontro con il tempo: il tempo dell’arrivare, del prepararmi, dell’incontro, della ciclicità degli incontri, il tempo concesso qui ed ora perché il cambiamento avvenga. Ma già dalla prima volta che sono entrata in aula ho fatto un altro incontro, ho trovato altre persone, altri utenti… il gruppo. Si, perché il lavoro terapeutico si svolge in gruppo. Anche questo è un importante principio del metodo. Il gruppo è importante perché nell’altro ci si specchia, ci si incontra.


Il gruppo protegge, perché insieme ci si sorregge a vicenda, ci si supporta con uno sguardo, con un gesto, con un contatto, con un respiro. Tra le persone del gruppo si creano delle relazioni, anche in un solo incontro. Entrare in relazione con l’altro mi permette di entrare in relazione con me stessa. Piano piano nei tirocini che ho potuto fare fin qui, mi sono resa conto che quando mi trovo di fronte agli altri, se voglio creare una relazione d’aiuto è solo attraverso il contatto profondo che posso farlo. Solo dimenticandomi dei miei piccoli egoismi, della mia necessità di essere accettata, della mia paura di essere giudicata, solo abbandonando la mia mente che vuole controllare tutto. Avendo liberato lo spazio interno, avendo fatto il vuoto, posso entrare in relazione con l’altro. Allora lo sguardo, il gesto, il movimento diventano autentici ponti tra me e l’altro e di rimando tra l’altro e me. Il contatto empatico con l’altro permette di arrivare al cuore. In questo istante di contatto del qui ed ora avviene un piccolo miracolo terapeutico. L’energia si muove, arriva là dove non speravo arrivasse, l’emozione si libera. Il contatto consente una trasformazione in me e nell’altro. E’ solo attraverso il mio cambiamento che anche l’altro può cambiare. Se io non cambio nemmeno l’altro può cambiare. Il mio cambiamento è stato percepire il distacco dall’altro: se continuavo a cercare l’altro attraverso le sue conferme non l’avrei mai incontrato. Ho dovuto dimenticare me per incontrare l’altro e tornare a me. Ho dovuto lasciare andare. Si usa anche dividere gli utenti in due gruppi, ci si guarda a vicenda. Prima uno danza e poi danza l’altro. E ancora una volta nell’altro che danza ci si specchia, a volte ho visto parti di me inesplorate, che mi hanno fatto vibrare. Chi guarda sostiene chi danza e chi danza dona a chi guarda in uno scambio reciproco, con continuità. Non c’è discontinuità.


Alla fine l’applauso è spontaneo, è condivisione di emozioni, è catartico. Arriviamo al contatto gradatamente, confrontandoci con l’altro istante per istante con reciproco ascolto per non invadere per non creare un limite. Il contatto può iniziare con lo sguardo, può seguire il filo di una nota comune, di un respiro, può avvenire con un tocco, un abbraccio, un sorriso… Il momento del distacco è altrettanto importante, avviene con la stessa modalità del contatto. Attraverso l’empatia con l’altro comprendiamo quando è il momento di lasciare andare. Ho in mente una delle esperienze di gruppo più belle. Siamo durante un incontro esperienziale della scuola di formazione. Il lavoro nel quale Elena Cerruto ci guida è “la radice e l’albero”. Mi faccio radice, sento la mia pelle spessa, resistente ma elastica, mi muovo con la pancia a terra e le mie estremità spingono la terra con forza per spostarmi anche di poco, la mia testa spinge come quella di un bimbo che cerca di uscire dalla pancia della mamma. Sento la fatica, la forza che ci metto per muovermi. Penso: non è forse la stessa forza che adopero nella vita, come se tutto ciò che devo fare mi richieda uno sforzo enorme? Allora inizio a mettere meno forza e capisco che se trovo una breccia nel suolo posso spingere un po’ meno, se sfrutto un movimento da cui ne nasce un altro mi stanco un po’ meno… Poi un piccolo contatto… La radice Chiara ha incontrato un’altra radice intenta nella sua spinta. Che bello trovarsi! Non sono più sola nella mia fatica… Un contatto che è come una carezza, già mi rallegra, mi dona emozione. Poi scopro che spingendo insieme a lei faccio meno fatica e insieme possiamo anche trovare la direzione giusta per andare verso il


centro. Ed ecco che incontriamo altre radici, tanti contatti leggeri e poi più intensi e il corpo entra sempre più in contatto con gli altri. Ci appoggiamo uno nell’altro. Finalmente possiamo riposare e com’è bello riposare appoggiata e abbandonata sugli altri, ci sosteniamo tutti a vicenda con poca fatica e con tanta leggerezza. Il mio abbandono sul corpo degli altri mi commuove. Sento che la mia fragilità è protetta, qui. Sento la linfa dell’albero che ci attraversa tutti. Siamo un unico albero. Poi tutti insieme ci solleviamo in un maestoso tronco, siamo scossi dal vento ma siamo stabili, abbiamo radici salde e il tronco è compatto. Posso muovermi con fiducia, gli altri mi sostengono! E via via il movimento mi fa venire voglia di muovermi sempre di più e divento sempre più leggera, finché mi stacco e volteggio. Sono proprio una foglia libera e trasportata dall’aria, ma sono cresciuta sull’albero e quindi sono forte e posso volare senza paura e… cadere a terra!

Un altro episodio di contatto che porto nel cuore, l’ho vissuto durante un tirocinio con un gruppo di bambine nel giorno della loro lezione aperta con i genitori. Dovevano danzare in aula e io mi trovavo nel “dietro le quinte” con loro (eravamo nella stanza da bagno dell’aula di Sarabanda). Qui potevo vederle solo dallo spiraglio della porta e attendere le loro uscite per poi prepararsi a rientrare. Potevo solo essere lì per loro, senza fare nulla che non fosse l’accoglienza nel momento della loro uscita dalla scena. Il contatto nell’accoglienza dello stare con il cuore vuoto per cogliere loro, il loro bisogno in quei piccoli e brevi momenti. Emozioni profonde nella semplicità. Piccoli istanti miracolosi.


Inter-siamo. Come ci insegna Thich Nhat Hanh . Non esistiamo in quanto esseri isolati, ma siamo in relazione ad ogni altra cosa. Questo foglio di carta non esisterebbe senza alberi, senza pioggia, senza nuvola, senza sole, senza taglialegna, senza noi che lo guardiamo… Inter-siamo con il gruppo, con la relazione terapeutica, con l’altro, con la sala di Sarabanda, con il cielo sopra di noi…

Parlando di contatto, penso a un altro incontro che ho fatto qui a Sarabanda: l’incontro con lo shiatsu. Attraverso lo shiatsu ho compreso il significo dell’entrare in contatto con l’altro. Si stabilisce un contatto, lo si mantiene per il tempo necessario e poi si lascia andare. Proprio ciò che avviene nella danza terapeutica. Ho appreso, ricevendo il trattamento, l’importanza della presenza dell’altro, della continuità del contatto. Ricordo un giorno in cui tori ha lasciato il contatto con me (uke) prima della fine del kata. Che vuoto! Era troppo presto e si è creata una discontinuità che ha reso difficile tornare alla continuità precedente. Nello shiatsu si crea una relazione paritaria: tori non è il terapeuta e uke non è il paziente. Masunaga ribalta il punto di vista e mi insegna che il maestro è il mio paziente. Ci sono due persone in relazione attraverso il contatto e ciò consente all’energia di passare da uno all’altro, ciò consente il cambiamento, entrambi cambiamo. Per questo, nell’incontro con il paziente il terapeuta ha il dovere di essere sincero.


Tutto questo avviene nella danza terapeutica! La forma del kata crea un rito che si ripete trattamento dopo trattamento. Esso ha una sua durata, i movimenti sono precisi, la pressione avviene senza forza. Da qui comprendo, incontro dopo incontro, l’importanza della forma, del rito. La presenza di regole chiare e precise consente di dare sicurezza e contenimento. Mi permette inoltre di mantenere la consapevolezza del qui ed ora.

La sensazione prodotta dalla pressione può rendere il paziente consapevole del proprio malessere (ciò che accade nel suo organismo) e del suo potere autorisanante, perché, se le sue condizioni non sono gravi, può guarire in virtù delle sue sole risorse fisiche. Il trattamento è adattato al singolo paziente e non alla malattia.

Tutto ciò risuona anche con quanto leggerò poi di Trudy Shoop, che parlerà del lavoro sulla parte sana della persona. Non ci rivolgiamo ad una persona identificandola con la sua malattia, ma alla persona nella sua totalità e in particolare alla sua parte sana che può agire guarendo la parte malata.

Tornando ai miei passi a Sarabanda… entrando qui entro anche in contatto con la musica. Se siamo liberi, la musica ci penetra e ci fa muovere (Maria Fux ). Il suono esercita una pressione fisica, se si lascia che tale pressione si propaghi il corpo inevitabilmente si muove, se si muove con la musica… danza.


Sono quindi tutt’uno con la musica, non sto eseguendo passi sulla musica, come spesso mi è capitato di fare nei miei anni di studio della danza. Danzando inter-sono con la musica. Qui a Sarabanda ho anche imparato l’importanza del silenzio. La musica è anche silenzio, silenzio che prelude a una nota, silenzio che consente di riscoprire il proprio ritmo interno, di danzare la propria musica. E anche qui il silenzio si fa ponte. “Noi udenti, con memoria auditiva, possiamo avere spazi di incontro con il silenzio, ed è lì che il ritmo interno si fa presente per partecipare con il corpo” .

E la danza? La danza semplicemente avviene. Già il respiro se lo lascio andare mi consente di danzare, il suo ritmo si propaga come un’onda e se lascio che ciò avvenga già danzo. “La danza terapeutica è la danza nella sua forma più semplice, il linguaggio delle emozioni profonde”, ci insegna Elena Cerruto. Nella radice del metodo ecco la danza moderna: caduta e recupero (D. Humprey), danza come espressione divina dell’essere umano (I. Duncan), danzare in gruppo, con il ritmo del gruppo, ogni movimento del corpo che danza è un tutt’uno con il resto dell’essere umano che danza… e tanto altro. Riscopro qui la danza in un’altra forma, quella che scaturisce dall’espressione delle mie emozioni.


Passo dopo passo si compongono dunque gli elementi della danza terapeutica… ecco la formazione!

Dopo un primo periodo di formazione, a febbraio inizia il primo contatto con le utenti attraverso i tirocini durante la settimana dedicata a Maria Fux. Qui passiamo quasi tutta la settimana a Sarabanda immersi nelle basi del metodo. I gruppi esperienziali mi consentono di sperimentare approfonditamente il lavoro con i materiali: canna, sedia, carta crespa, elastico… I materiali consentono il lavoro con le quattro fasi dell’incontro con l’altro: incontro, contatto, trasformazione, distacco. I materiali sono i simboli di ciò che è già dentro di noi… ricordo ancora il lavoro con la canna che ad un certo punto da leggera e flessibile si trasforma in un bastone che mi sorregge e poi via via sul quale mi appoggio fino a schiacciarlo a terra e a farlo diventare limitante e rigido. I materiali diventano anch’essi ponte per raggiungere noi stessi e consentire la trasformazione.

Il lavoro con i materiali prelude all’incontro con l’altro che avviene nei successivi tirocini. I primi tirocini sono iniziati con il cuore pieno di emozioni, di voglia di incontrare gli utenti, di entrare in relazione… Non è stato affatto immediato interiorizzare la necessità di entrare nello spazio del tirocinio con il cuore vuoto per poter accogliere.


Non è stato facile entrare in contatto con il mio limite, che si frapponeva fra me e l’altro impedendomi di entrare in relazione. A volte non è stato nemmeno facile muovere il corpo con la musica perché troppo teso nel tentativo di controllare la situazione. Anche qui, passo dopo passo incontro dopo incontro piccoli miracoli sono avvenuti dentro di me. Solo mettendo da parte il mio modo di percepire la realtà, posso sentire e rispondere alle esperienze della persona che incontro (così come ci insegna D. Brazier). Mi aiuta la meditazione, anch’essa è una conoscenza che si fa qui a Sarabanda. Quando mi siedo in zazen mi faccio respiro: inspiro ed espiro, uno e due… Così posso fare il vuoto e prepararmi all’incontro con l’altro. Ove mi è stato possibile ho cercato un momento di raccoglimento prima degli incontri. Ove non mi è stato possibile mi sono dedicata alla camminata consapevole o allo stare consapevole sul tram o in macchina, nel qui ed ora per tornare a me. Spesso ho percepito la difficoltà di relazionarmi con le utenti soprattutto trovandomi in uno stato d’animo turbato, agitato o irrequieto. Il respiro mi ha aiutata a tornare al centro, alla terra. E poi come dice Maria Fux danzando stiamo meglio e per questo danziamo e come dice Elena Cerruto , la danza stessa è terapeutica. Quindi è sufficiente lasciare che ciò avvenga, senza opporre resistenza. Altro aspetto alla base del metodo Fux è l’integrazione. Non c’è diversità, nella danza terapeutica siamo tutti insieme nel gruppo, non esiste un diverso. Nei gruppi e durante i tirocini siamo tutti insieme, udenti e non udenti, normodotati e diversamente abili… solo così può avvenire il recupero. La danza terapeutica si rivolge alla parte sana della persona e così tutti possono danzare.


Elena Cerruto parla spesso di “corpo-cuore” intendendo la persona, qualsiasi essa sia, che muove i suoi passi nel Cielo-Terra. Penso quindi a me, al gruppo, alle utenti, ai terapeuti i questi termini “corpi-cuore” che danzano, si incontrano, entrano in contatto, cambiano e si separano.

Ed eccomi qui, passo dopo passo è passato quasi un anno. Forse in questi fogli non sono riuscita a mettere tutto ciò che avrei voluto, tutto ciò che ho fatto, appreso, vissuto, tutto ciò che è diventato me… ma vorrei concludere con due considerazioni che mi stanno a cuore. Nel suo libro Brazier, riprendendo Tomoda, dice: “Il vero salto o la vera crescita di un individuo ha luogo quando egli è totalmente solo.” Qui con completamente solo non si intende fisicamente solo, ma liberato dagli “estranei interiori”. Gli estranei interiori sono le immagini di altri, temendo il loro giudizio non siamo soli. La terapia può liberarci da loro, perché se ne prende cura e ci solleva dal doverlo fare. Così liberati possiamo seguire il nostro cammino senza interferenze. Ho sentito questo dono liberatorio in questo anno ed è la danza terapeutica che lo consente. Non è il terapeuta che ma ha liberata (anche se ne riconosco tanti meriti!). E’ l’unione di tutto quanto ho qui descritto: io, gli altri, la terapeuta, la musica, il silenzio, i materiali, il respiro, il contatto, … Tutto questo ha curato e ha consentito di liberare uno spazio interiore, così mi sono sentita totalmente sola e liberata… ma il cammino continua e non senza tempeste! Si perché tutto questo percorso apre canali, crea connessioni, porta a galla lati nascosti e in quest’anno i cambiamenti hanno anche portato alla luce nodi e inevitabilmente creato conflitti e sofferenze. Ma anche l’ombra fa parte di me.


Pensando alla crisi, alla tempesta, penso alle parole sentite di recente nel racconto di una monaca del Plum Village, fondato da Thich Nhat Hanh, espresse durante un incontro tenutosi il 9 settembre e che qui cerco di riassumere: Durante la tempesta vediamo l’albero muoversi, scuotersi, i rami sono in balia del vento e guardando i rami piegati e strappati dal vento abbiamo l’impressione che l’albero non possa resistere, che verrà abbattuto. Ma se guardiamo il tronco vediamo che esso è solido e se guardiamo ancora più giù vediamo che le radici sono ben ancorate alla terra. Così se durante i periodi di tempesta della vita stiamo nella mente, possiamo essere sopraffatti e rischiamo di cadere vittima dei pensieri e delle paure, mentre se stiamo nella pancia restiamo centrati e riusciamo a superarli. A Sarabanda sto imparando a stare nella pancia. Passo dopo passo… pronti per un nuovo anno!


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