Memezone Photo & Visual Culture #issue -1

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MEMEZONE photo & visual culture

MATTEO sky ZANVETTOR over celebritis

FRANCESCO il foro CAPPONI stenopeico

MATTEO fotografia PICCININI e audiovisivo

Numero -1

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indice

Numero -1

matteo zanvettor sky over celebritis di Gianluca Orrico

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francesco capponi il foro stenopeico di Luca Tabarrini

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matteo piccinini fotografia e audiovisivo

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Image credits Copertina: “Fragile” di Matteo Zanvettor - http://www.photozanve.it/ Pag_28: “Film roll 1” di Travis Hornung - http://www. flickr.com/photos/awfulshot/456852642/ Pag_29: “Static water” di Jsome1 - http://www.flickr.com/ photos/jsome1/2063050058/ Pag_29: “Movement_2” di MacKinnon Photography - http:// www.flickr.com/photos/seanbuchandpt/5397250706/ Pag_27 “Movement” di Geoffrey Fairchild - http://www.flickr.com/ photos/gcfairch/4572974209/ Pag_30: “Ice Cave” di Derek Gavey - http://www. flickr.com/photos/derekgavey/4399587141/

Memezone photo & visual culture Editore: Gianluca Orrico Direttore: Francesco Ianora Art Director: Sabatino Moccione Redattore: Marco Briziarelli Hanno collaborato: Matteo Piccinini - Luca Tabarrini Paola Faraca - Giovanna Nido


editoriale Numero -1

di Gianluca Orrico e Francesco Ianora

Ciao a tutti sono Gianluca Orrico editore di questo progetto. Sono veramente felice di darvi il benvenuto al numero -1 di Memezineweb, la rivista di cultura e tecnica fotografica totalmente gratuita. Con Memezine vogliamo (io e tutta la redazione) fare un racconto di quello che è stato, di quello che è e di quello che sarà la fotografia. Narrare una storia popolare della cultura fotografica. Creare un racconto che indaga il carattere culturale della fotografia. Pensiamo che non si può parlare di cultura fotografica senza parlare anche di tecnica fotografica e viceversa. Questi due elementi sono un’unica entità: la fotografia intesa come creazione di cultura attraverso le immagini. Partendo da questa idea di fotografia ci sembra inutile prendere parte alle varie discussioni di carattere squisitamente tecnico come, ad esempio, la diatriba tra pellicola e digitale o quella più contemporanea tra smartphone e macchina fotografica. Quello che per noi ha significato è come la fotografia inventi e si reinventi nel flusso della storia della cultura umana. Il nome della rivista si rifà al concetto di meme che è definito come “un’unità auto-propagantesi” di evoluzione culturale, analoga a ciò che il gene è per la genetica. Ci piace definirci come la rivista dei geni fotografici in movimento perché pensiamo che la fotografia non sia morta o al capolinea. Al contrario, siamo fermamente convinti che sia più viva e in movimento che mai. Un movimento che gira tutto intorno al mondo e che si muove con mezzi e visioni che vanno dalla fotografia “vintage” a quella degli smartphone, dal reportage di guerra alla fotografia puramente artistica che crea sogni. Pronti per il viaggio? Allacciamo le cinture e partiamo col numero -1. Vi lascio alla presentazione del nostro direttore Francesco Ianora. Gianluca Orrico

Dare vita ad un nuovo progetto editoriale è sempre una sfida. Non a caso il primo passo è sempre il famigerato numero zero: zero come metafora dell’inizio di un viaggio, il punto zero che poi coincide con la pagina bianca degli scrittori, e noi ci siamo chiesti, appunto, come sfidare la pagina bianca. Invece dello zero ci mettiamo in viaggio a meno uno per due ragioni. Siamo all’inizio dell’inizio di questa storia e, soprattutto, abbiamo partorito i contenuti di questo numero nel freddo glaciale di Febbraio. In apertura troverete l’intervista a Matteo Zanvettor che ci porterà per cime, ghiacci e volti immersi in una luce immensa, dove anche i volti diventano paesaggi. In questo numero troverete il racconto per parole e immagini di Francesco Capponi, artista del foro stenopeico e alchimista visivo: come Dippold dell’antologia di Spoon River ci fornirà occhiali e lenti nuove per inventare con gli occhi il mondo che ci circonda. Matteo Piccinini ci condurrà nella sottile linea temporale che sta tra uno scatto fotografico e una ripresa audiovisiva, un saggio che vuole essere uno stimolo culturale e filosofico per chi volesse esplorare tanto l’istante cristallizzato di una foto che la sua evoluzione temporale nell’audiovisivo. Iniziamo da qui, la storia di Memezine inizia proprio ora, speriamo che il viaggio sia lungo e ci porti lontano. Buona visione.

Francesco Ianora

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matteo zanvettor sky over celebritis di Gianluca Orrico

Matteo Zanvettor è un fotografo che si è dedicato e si dedica alla fotografia di paesaggio. Diciamo subito che Matteo non è un fotografo professionista perché per noi di Memezine questo non costituisce una barriera. Crediamo che chiunque dedichi tempo per la sua formazione e tanta dedizione può arrivare ad ottenere buoni risultati. E’ con queste premesse che abbiamo chiesto a Matteo come sia arrivato a trasformare le sue idee e visioni in fotografie attraverso la sua macchina fotografica. Siamo sicuri che il suo percorso potrà essere utile a molti nostri lettori, non solo dal punto di vista strettamente tecnico. Matteo ci ha anche spiegato come ha “preso forma” una sua foto, “Sky over Celebritis”.

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Ciao Matteo parlaci di te e della tua formazione fotografica. Come hai iniziato? “Innanzi tutto ciao Gianluca saluto tutti quanti. Io penso di aver sempre fotografato virtualmente con gli occhi e con la testa, ma effettivamente la prima reflex l’ho acquistata solo nel 2005. Mi sono formato attraverso l’uso di libri e di internet. E’ una crescita continua e, tuttora, sto imparando.” Da sempre il mondo della fotografia è in evoluzione, anche se oggi le sue trasformazioni sono rapide e radicali. Molti addirittura dicono che la fotografia sia morta. Altri dicono che la fotografia si sia trasformata in immagine atta al consumo. Tu cosa ne pensi? Cos’è per te la fotografia? “Non penso che la fotografia sia morta anzi è più viva che mai. Sostanzialmente la fotografia è una forma di espressione a prescindere dai tempi e dai mezzi tecnologici che si possono usare. Una volta la pellicola, adesso il digitale. Io non vedo una differenza tra le due forme di espressione, è solo cambiato il modo e son cambiati i tempi e la cultura ma, la fotografia di certo non è morta. Certamente la diffusione che ha avuto tramite internet e i vari forum, blog e social network ha un po inflazionato il mondo della fotografia, però questo era inevitabile. D’altro canto ha anche consentito ai giovani fotografi talentuosi di emergere.”


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matteo zanvettor

Già, e tu sei uno di quelli... Le tue foto di paesaggi ritraggono per lo più scenari di alta quota dove l’elemento umano è assente. Ci parleresti di cosa rappresenta per te la fotografia di paesaggio e in particolar modo di paesaggio montano? “Io sono di Merano, sono cresciuto in mezzo alle montagne e non potevo che ritornarci per fotografarle. La fotografia è una passione che non ho da tantissimo tempo, mentre quella per la natura e la montagna era presente fin da bambino.” Le foto delle Dolomiti sono molto imponenti, mi ricordano l’amore per la natura incontaminata delle foto di Ansel Adam per il Parco dello Yosemite. “Il discorso del paesaggio incontaminato, secondo me, è fondamentale perché trovo che la massima perfezione della natura stia proprio nel paesaggio incontaminato. Io penso che la montagna sia un ambiente selvaggio e che debba essere mantenuto tale.” Dacci dei consigli per chi volesse iniziare a cimentarsi con questo particolare genere fotografico, quello della foto di paesaggio fatta in alta quota. Cominciamo dall’abbigliamento.

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“L’abbigliamento è fondamentale: quando si va in montagna è utile attrezzarsi con scarponi e abbigliamento tecnico, perché le condizioni climatiche possono cambiare velocemente. Le temperature cambiano molto, tra il giorno e la notte c’è molta escursione termica e quindi è bene sapere certe cose prima di avventurarsi in montagna.”

Consigli di fare l’escursione con una guida alpina? “Se una persona è a digiuno di montagna può sempre fare uso di una guida. Bisogna tener presente che gli orari per la fotografia sono un po particolari. La classica escursione che viene fatta negli orari centrali della giornata può non andare bene per la fotografia. E’ meglio cercare una luce radente come quella dell’alba e del tramonto. Se si va con lo scopo primario di fotografare è bene fare anche questi calcoli. Trovarsi al posto giusto con la luce giusta richiede una certa programmazione e una certa conoscenza geografica, le informazioni sul meteo sono importanti. Bisogna mettere in conto un rientro al buio, quindi fornirsi di torce o attrezzatura per la permanenza in un rifugio o in un bivacco.” E per l’attrezzatura tecnica c’è qualcosa in particolare da portarsi dietro? “Chi fa foto di paesaggio in altre condizioni può benissimo usare la stessa attrezzatura per la montagna. Ad esempio un buon cavalletto è essenziale. Prima di tutto per la composizione, perchè comporre un’immagine con la macchina sul cavalletto consente sicuramente di riflettere meglio e perfezionare l’inquadratura. Il secondo motivo e di ordine tecnico: aumentando la chiusura del diaframma e scattando in situazioni di poca luce è inevitabile dover mettere la macchina sul cavalletto.”


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matteo zanvettor

I tuoi ritratti sono eterei come i tuoi paesaggi, molto rilassanti, con una luce avvolgente e alcuni soggetti sembrano esseri magici che li abitano. E’ importante la dimensione del “sogno” e della sua comunicazione quando si scatta una fotografia con un soggetto umano? “A differenza dei paesaggi, dove cerco la perfezione pura, con le persone cerco di cogliere l’espressione, lo sguardo e l’intensità dello sguardo più che la perfezione fisica.”

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Usi dei lampeggiatori e come? “In interno si. Il fatto di avvolgere il soggetto con molta luce mi consente di togliere le imperfezioni della pelle e concentrare tutto proprio sull’espressione e sullo sguardo. Inoltre, il fatto di dare luce all’immagine, mi piace molto stilisticamente, quindi arrivo quasi a sovraesporla.”


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francesco capponi il foro stenopeico di Luca Tabarrini

Per la nostra prima chiacchierata su queste pagine, abbiamo scelto un artista sospeso a metà fra fotografia e scultura, che non ama definirsi un fotografo e che ha uno strano rapporto con la fotografia. Il fulcro di quasi tutti i suoi lavori è il foro stenopeico. Francesco Capponi ha trentacinque anni, è nato e vive a Perugia, dove porta avanti i suoi progetti. E ora ve lo presentiamo.

Ciao Francesco, parliamo un po’ della tua formazione artistica. Tu sei un fotografo ma anche uno scultore, Come s’incontrano queste due discipline artistiche in quello che fai? “Ho sempre cercato di farle incontrare. Ho studiato scultura a Perugia e, nel mentre, ho iniziato a giocare con le lenti e le camere oscure all’interno delle opere. In contemporanea ho cominciato a fare fotografia e a sperimentare in camera oscura e in maniera naturale il modo migliore per fondere queste due cose: tutto questo si è rivelato essere la fotografia stenopeica (pinhole). Ho lavorato con la pinhole perché mi ha dato la possibilità di creare effettivamente la macchina rendendola un oggetto artistico, quindi più vicino alla scultura. Del resto con la fotografia ho sempre avuto un rapporto strano, ed ho preferito da subito un approccio basato sulla sperimentazione, sul gioco, sulla creazione di oggetti che siano sculture. Poi amo giocare con la luce e, la fotografia, in questo è un mezzo/media perfetto.” Il tuo nome d’arte è Dippold l’ottico, una scelta letteraria. Ci racconti perchè ti ha colpito?

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“Dippold l’ottico proviene da -Antologia di Spoon River-. Tra le varie poesie quella dedicata all’ottico mi è sempre piaciuta molto: è un botta e risposta tra un ottico e un cliente a cui cambia le lenti. Dippold fa in modo che con ogni lente possa vedere cose assurde, immagini oniriche, si tratta di lenti magiche


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francesco capponi

che aprono del porte del sogno e della fantasia. Una cosa che mi piace particolarmente è il finale quando, mettendo l’ultima lente, Dippold chiede al cliente cosa stia osservando e lui risponde: -vedo soltanto luce che trasforma il mondo in un giocattolo-. Per quello che facevo io mi sembrava perfetto!” Pellicola contro digitale. Non sempre coincide con qualità bassa contro qualità alta. Tu hai scelto per la maggior parte dei tuoi lavori l’analogico. Qualità altra? “Mi piace -qualità altra-. Diciamo che l’uso della pellicola mi è sempre venuto molto spontaneo. Per il tipo di fotografia che faccio, molto sperimentale, con un’ottica meccanica e un po’ di sforzo di fantasia riesco ad intervenire sul mezzo mentre, col digitale, è più difficile farlo. Mi piacciono le cose fatte a mano, artigianali, un po’ retrò, era naturale quindi usare la pellicola. Per lavoro ho usato spesso il digitale, ma non sono mai riuscito a farci prodotti artistici. Sono due cose diverse e quindi rappresentano per me due tipi diversi di fotografia. E’ come disegnare con l’acquarello o con il carboncino. Per me cambia molto anche l’approccio che si ha nello scattare con digitale e con la pellicola: avere soltanto un numero finito di scatti ti pone dietro l’obiettivo in maniera diversa, pensi di più prima di scattare. E accetti quello che capita. Con la digitale è molto piu facile, scatti molto di più, senza pensare, ne fai copie su copie, riguardi e se vuoi cancelli. Però pensi dopo. A me viene più naturale usare la pellicola, più costoso ma anche più naturale, quindi si, forse è una scelta -altra-.”

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La fotografia ruba l’anima. E’ molto bello pensare alla fotografia come qualcosa di magico. Gli automatismi e la tecnologia hanno fatto in modo che questa pratica sia alla portata di tutti e questo per molti aspetti è un bene. Avere un mezzo magico fra le mani, come un cellulare, non significa saper fare la magia. Tu invece parti dalla costruzione degli oggetti utili al tuo fine. E non c’è niente di più magico di un cilindro fotografico... “Mi piace l’idea della fotografia come un atto magico, del resto la fotografia nasce come una sorta di illusionismo, basti pensare alle sue origini, ancora prima del cinema, quando appariva come una magia. Adesso, con l’apertura alla massa questa cosa è cambiata, tutti hanno una macchina o comunque un cellulare che dà la possibilità di fare foto. Il gesto -magico-, lo scatto, l’attesa, lo sviluppo, un po’ si sono persi. Aspettare una settimana che ti arrivino le foto o stare tra gli acidi e fare da alchimista mentre guardi nascere le immagini aumenta la sensazione di magia.” E’ bello che per ogni lavoro scegli un mezzo diverso, per ogni lavoro affronti una sfida costruttiva e ben precisa... “Mi piace costruire e mi piace la sfida, di conseguenza una volta costruita la macchina e raggiunto l’obiettivo preposto perdo l’interesse verso l’oggetto. Potrei usarlo ancora per altre foto, per altri soggetti, ma mi sembra che abbia già raccontato quello che doveva raccontare... poi, chissà, magari su alcuni ci ritornerò.”


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Le “10 regole semplici” delle Lomography e il manifesto Slow Photo. Due modus che sembrano essere diametralmente opposti, o quanto meno in conflitto l’uno con l’altro. Da una parte il ragionamento e la lentezza, per favorire una maggiore riflessione nell’atto dello “scattare”, dall’altro l’ormai famoso “non pensare, scatta!”. Tu, anche come amante delle plasticose macchinete lomo, come ti relazioni nei confronti di queste linee guida? “Conosco bene slow photo e conosco alcuni dei fondatori, soprattutto Mario Beltrambini. Ho firmato il manifesto e condivido il suo approccio aperto che non ti costringe all’uso di macchine particolari. Queste idee hanno a che fare più sull’ipotesi di un progetto fotografico. Non c’è lo scattare per scattare ma, piuttosto, c’è una foto che abbia un pensiero dietro, una cosa che cerco spesso. Le regole della Lomography sono invece molto più goliardiche, giocose. Le lomo le ho conosciute mentre iniziavo a costruire le mie prime macchine, erano divertenti, differenti da quello che costruivo io ma con la possibilità comune di giocarci. C’è un atteggiamento diverso, un -vai e scatta- e, difatti, le lomo le uso così. Non so dove possano relazionarsi i due temi, so che abbracciano i due modi con cui mi rapporto alla fotografia. Il primo si avvicina al modo di fare fotografia artistica, il secondo approccio, quello con le lomo, è il mio modo di giocare.” Per il lavoro Ritratto ideale di Duchamp e Man Ray hai agito sotto molteplici ambiti, ricostruendo la partita a scacchi tenuta dai due artisti nel film Entr’acte di René Claire, fotografandola mossa dopo mossa dal punto di vista delle pedine e trasformando queste ultime in piccole pinhole. Osservando un lavoro del genere viene da chiedersi se esponi le tue macchinette a fianco delle foto oppure esponi foto a fianco delle macchinette... 20

“Le espongo insieme direi, l’una non ci sta senza l’altra. Se espongo la macchina da sola non ha senso, se espongo la partita a scacchi non verrebbe capita. Una gioca con l’altra, sono collegate. Credo che un mezzo all’interno di un’opera diventi anch’esso opera e quindi la cosa diventa più completa. Anche io mi ci ritrovo più dentro, essendo anche io un mezzo. Spero così di far avvicinare il pubblico all’opera. Quando questa relazione viene percepita mi sono accorto che scatta più curiosità. Incuriosire è quello che desidero ed è quello che mi piace.” Hai costruito Pinhole con pinoli (il Pinholo per l’appunto), con delle noci, hai costruito casette per uccelli stenopeiche. Hai addirittura trasformato un albero in una gigantesca, e difficile da trasportare, pinhole, l’ulivo stenopeico. Sembra che tu prenda in prestito dalla natura diversi oggetti... “Prendo in prestito quello che ho intorno, non solo dalla natura. Mi piace prendere dalla natura perché sono oggetti vivi, l’albero è una macchina fotografica viva. Parto da oggetti che mi ispirano e che siano, in un certo senso, delle scatole fotografiche. Nella natura ce ne sono tante, ma come del resto ce ne sono anche con oggetti creati dall’uomo. Fare una foto con un pinolo riporta il gesto ad un certo tipo di semplicità: la luce passa da un foro nel guscio, l’immagine viene trasportata dalla luce che si proietta al contrario e appare all’interno. Così il pinolo acquista un nuovo significato: un seme da cui non nasce una pianta ma una foto. Certo è anche vero che il nascere e vivere qua in umbria mi ha spinto a scegliere oggetti naturali. Ad esempio l’albero stenopeico è nato in un incontro d’arte all’aperto a Galgata, verso Gubbio. Scegliendo l’opera da fare sono rimasto affascinato dalla presenza di olivi cavi, ho cercato quello perfetto che è diventato una macchina fotografica. E’ stato l’ulivo a scegliere l’inquadratura e a raccontarmi il suo sguardo.”


Nel tuo studio è presente un bellissimo pianoforte modificato, che unisce due dimensioni, quella fotografica e quella musicale. Cos’è la Fonografia? “E’ un lavoro che avevo portato avanti per la tesi e che dovrei riprendere. E’ un pianoforte dove ogni tasto è collegato a un otturatore e suonandolo si aprono, più premi su un tasto più si aprirà quell’otturatore, più la nota è lunga più la foto sarà chiara, se la suoni più volte avrai una multiesposizione. Si ottengono una serie di ritratti della persona che suona collegati alla musica. Unire la fotografia alla musica, due arti per certi versi difficilmente conciliabili, due linguaggi diversi. E’ una bella sfida, riuscire a fotografare la musica, fare una -fotofonia-.”

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francesco capponi

In uno dei tuoi lavori più recenti, EGG, hai sacrificato la “macchinetta” per farla diventare fotografia. Una macchinetta che prevede un solo scatto e che sembra completare un ciclo creativo. Ci parli di come hai trasformato un uovo in tutto questo? “Era da tempo che desideravo fare questo, far nascere una macchinetta che creasse un’unica immagine e finisse con lei. Come funziona? Ho preso un uovo (in realtà diversi) l’ho svuotato e ho reso l’interno fotosensibile, in modo che l’immagine si potesse stampare nell’interno del guscio, l’ho richiuso con un foro stenopeico, ho scattato l’immagine e poi l’ho riempito con gli acidi fotografici. Una volta riaperto l’uovo l’immagine era al suo interno. In questo modo l’oggetto stesso diventava fotografia. Certo è stato complicato, ma in fondo mi piace complicarmi la vita, trovo divertente anche questo.” “Una macchinetta per conquistarli”. Fare una 35mm e una 120mm stenopeica non è mai stato così facile grazie ai tuoi tutorial. Come nasce l’idea di progettare delle pinhole che possono essere costruite da tutti? “Avevo in mente da tempo di fare pinhole di carta. I tutorial su internet erano abbastanza complicati, troppi pezzi, io invece volevo qualcosa di veramente semplice. E’ nata alla fine da un’esigenza, con due artiste mie amiche, Alessandra Baldoni e Ilaria Margunti. Dovevamo fare un progetto con una scuola e dare ai ragazzi delle macchinette stenopeiche da portare in gita. Ho cercato quindi un modo semplice e veloce per fabbricare queste macchinette. In seguito ho messo in internet il mio tutorial. Ho avuto un’ottima risposta, ho visto macchinette fatte in vari angoli del mondo e questo mi ha veramente fatto felice perché non mi aspettavo che suscitasse un così grande interesse. In qualche modo stavo facendo foto in luoghi molto lontani, per esempio in Colombia oppure in Africa, senza esserci mai stato.” 22

So che hai fatto viaggiare alcune di queste macchine tu stesso... “Partecipavo a “Dedalo”, una collettiva a Palazzo della Penna con due artiste di due città gemellate a Perugia. Insieme al curatore, Antonio Senatore, abbiamo cercato un’idea per collegare in qualche maniera le città. Abbiamo per questo usato le mie macchinette. Prima ho scattato foto della mia città, e dopo le ho spedite alle altre artiste coinvolte che hanno riscattato sulla stessa pellicola. Al ritorno, una volta sviluppate le immagini, le tre città erano fuse sulle stesse foto, componevano un’unica città confusa. Senza esserci mai visti abbiamo comunque creato un legame con le altre due artiste e, anche questo, è di per sé un bel risultato.”


Ma tu non stai sempre chiuso nel tuo laboratorio, anzi ti trasformi, insieme ad altri loschi figuri, nel circense della fotomanipolazione istantanea. E qua si parla di Polaroid Pogo e di come le maltrattate. Com’è nato il circo Pogovic? E che metodi di tortura usate? per le vostre istantanee? “La polaroid Pogo stampa su una carta strana, termoreattiva, in più le polaroid mi son sempre piaciute perché appunto le puoi maltrattare, trasformare, aprire, graffiare. Ho iniziato a farci degli esperimenti e, in contemporanea, anche il mio amico Francesco Biccheri ha iniziato a fare una cosa simile. In chat ci confrontavamo sulle varie -torture- che stavamo mettendo in atto e, appena ci siamo resi conto di aver trovato un po’ di tecniche, utilizzando acetone, carta vetrata, accendini e tanto altro, abbiamo fatto un tutorial, molto semplice e giocoso, e l’abbiamo messo in rete. La cosa ha avuto successo e ci siamo trovati con una marea di contatti, altra soddisfazione quindi, perché vedere tantissime persone che mettono in pratica i nostri consigli sulle loro polaroid ti fa sentire un po’ papà della cosa. Da lì siamo stati coinvolti da Cinzia Aze durante il Festival di Savignano a fare manipolazioni per strada. Abbiamo montato una sorta di baracca itinerante, completa di un poster di Moira Orfei ed è nata un’atmosfera circense. Facevamo le foto alle persone dopo averle in qualche modo travestite e poi le lavoravamo sul momento con le nostre tecniche. La gente si divertiva e poi la cosa è continuata, ogni tanto facciamo qualche altro evento.”

Ci racconti cosa hai fatto in una delle ultime tue performance non potendo attaccare le foto ai muri? “La performance si chiamava: -Stavo solo riposando gli occhi-. Ero stato invitato ad una mostra a Milano che doveva durare 8 ore, infatti si chiamava Turno 14-22, e non si poteva intervenire sui muri. Doveva essere qualcosa che richiamasse il tema del lavoro e che coinvolgesse le persone. Io ho portato una cinquantina di scatoline stenopeiche cariche con carta positiva e ho chiesto alle persone un -sacrificio-, di stare immobili per cinque minuti con un faro da 1000 watt sparato in faccia. Quell’immobilità era una sorta di costrizione come può esserlo un lavoro o il non avere un lavoro, comunque una cosa non naturale, come lo è una catena di montaggio per esempio. Sviluppavo sul posto con una valigia che era stata trasformata in camera oscura e le esponevo dentro la stanza nelle scatoline aperte. L’unica cosa che chiedevo alle persone che fotografavo era di ripensare e reinventare il proprio lavoro in maniera ironica, onirica. Anche in questo caso la gente si è lasciata coinvolgere molto più del previsto ed è stato strano vedere poi quelle foto con i nomi, i cognomi e le loro occupazioni fantastiche. Quei volti non erano pose, erano attivi, davanti a me, seppur immobili.”

La tua citazione preferita? “Beh quella che ho anche sul sito, -la limitazione dei mezzi determina lo stile, dà vita a nuove forme e dà impulso alla creativitàsennò, tornando a Dippold -la luce che trasforma il mondo in un giocattolo-.” 23


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matteo piccinini fotografia e audiovisivo

La fotografia sta all’audiovisivo come un istante sta al flusso della vita. Questo non vuol dire che l’istante sia meno importante del flusso della vita, noi tutti sperimentiamo la monotonia di giornate “inutili” senza emozioni che non varrebbe la pena registrare o memorizzare su una SD card e poi ci sono attimi che valgono un’eternità. L’istante fa parte della vita e ci sono momenti in cui l’istante è tutto.

“Non credo sia necessario spiegare le differenze tra fotografia e audiovisivo in questa sede, ma certamente possiamo dire che le due arti si sono molto avvicinate negli ultimi tempi grazie al fatto che le macchine fotografiche sono diventate anche registratori d’immagini in movimento. Il fotografo che vorrà cimentarsi anche nel video catturato con la sua DSLR dovrà tenere conto di alcuni concetti che lo aiuteranno a entrare mentalmente nella materia. 1) Nella fotografia si registra un istante, si può dare l’idea del movimento o creare un’immagine dinamica, ma questa sarà sempre fissa, il taglio dell’inquadratura non varia. Nell’audiovisivo l’occhio dell’operatore è libero di seguire il soggetto e di muoversi con la camera, è una composizione dinamica e costantemente in divenire specie se i soggetti ripresi si muovono anch’essi.

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2) L’audiovisivo non generalizza e non astrae come la fotografia. La pittura può anche rappresentare una allegoria, la fotografia può anch’essa astrarre e raffigurare un concetto, ma l’audiovisivo fa molta più fatica, perché? Perché l’esperienza multisensoriale audiovisiva è la registrazione della percezione visiva (in modo limitato dall’inquadratura) e dalla percezione uditiva. Tanto per fare un esempio: se fotografo un mio amico con un cappello Havana con una determinata luce che entra dalla finestra, posso facilmente renderlo un avventuriero sbarcato su un’isola caraibi-


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matteo piccinini

ca, posso evocare tante sensazioni, ma se lo inquadro con la videocamera, anche se non parla, i suoi gesti possono tradire una certa insicurezza davanti alla macchina da presa, se poi parla italiano e sentiamo un accento del Nord, allora questo caratterizzerà la persona sempre più. Questo non per sostenere la tesi che non sia possibile astrarre o esprimere emozioni che evocano qualcosa di diverso dal soggetto ripreso e dalla sua realtà, ma sarà certamente molto più complicato.

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3) Il fattore tempo è l’elemento che non c’è nell’opera fotografica. Il flusso visuale dell’audiovisivo è inscindibile dal fattore tempo. Il fattore tempo è da tenere in considerazione prima della ripresa, pianificando quanto riprendere e che azione. Durante la ripresa il fattore tempo si modifica e si plasma sulla realtà, non si può pianificare tutto al secondo. Successivamente il fattore tempo è decisivo nella fase di montaggio. Montando il filmato si crea una nuova percezione audiovisiva che è fatta dal materiale girato, ma è da questo autonoma, cioè può essere più breve e acquista una sua autonomia temporale e un suo significato che può essere diverso da quello originale del girato. Se vi state avvicinando alla ripresa audiovisiva questi concetti vanno meditati per partire con la giusta impostazione mentale. Potete poi ampliare la riflessione e farla personale in base alle vostre aspettative e aspirazioni.”


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