STUDI DI
MEMOFONTE Rivista on-line semestrale 2/2009
FONDAZIONE MEMOFONTE Studio per l’elaborazione informatica delle fonti storico-artistiche www.memofonte.it
COMITATO REDAZIONALE
Proprietario Fondazione Memofonte onlus
Direzione scientifica Paola Barocchi Miriam Fileti Mazza
Comitato di redazione Irene Calloud, Alessia Cecconi, Vaima Gelli, Martina Nastasi
Cura redazionale Irene Calloud, Alessia Cecconi
Ristampa ottobre 2015 Segreteria di redazione Fondazione Memofonte onlus, Via de’ Coverelli 4, 50125 Firenze info@memofonte.it
INDICE
P. BAROCCHI, Introduzione al Corso di alta formazione sulle metodologie di analisi delle fonti
p. 1
C. OCCHIPINTI, Roma 1587. La dispersione della quadreria estense e gli acquisti del cardinale Ferdinando de’ Medici
p. 5
F. GRISOLIA, Giuseppe Pelli Bencivenni e l’Indice di CXXII Volumi di Disegni della Real Galleria. Genesi e lettura di un inventario
p. 27
E. PELLEGRINI, Le arti di William Roscoe: biblioteca e collezione (I parte)
p. 44
A. SALANI, «Per dar pascolo a passeggiere dilettante». Autori e pubblico delle guide storiche di Pisa
p. 64
R. VIALE, Tommaso Puccini e i suoi diari di viaggio
p. 76
M. NASTASI, Note sulla cronologia del Catalogo di stampe e disegni di Francesco Maria Niccolò Gabburri
p. 90
B.M. TOMASELLO, C. BRUNETTI, I. CALLOUD, R. VIALE, Per un archivio digitale degli inventari storici del Museo Nazionale del Bargello
p. 95
M. FILETI MAZZA, recensione a V. Conticelli, «Guardaroba di cose rare e preziose». Lo Studiolo di Francesco I de’ Medici: arte, storia, significati, Lugano 2007
p. 103
Paola Barocchi _______________________________________________________________________________
INTRODUZIONE AL CORSO DI ALTA FORMAZIONE SULLE METODOLOGIE
DI ANALISI DELLE FONTI
Ritengo opportuno e doveroso riflettere sui possibili danni e vantaggi dell’informazione sul web, che si fa sempre più imponente ed agguerrita in un momento in cui l’Università impone corsi manualistici, senza esigenza di approfondimenti. Ad una didattica elementare si associa in tal modo la passività favorita dalla velocità di un’informazione, che resta episodica e dispersiva se non è associata ad una fattibilità di ricerca. La stessa mole dell’offerta di consultazione provoca una difficoltà di orientamento tra quantità vistose e qualità talvolta discutibili, nella non distinzione tra ciò che è attendibile e ciò che non lo è. È evidente che gli strumenti mutati e rinnovati esigono conoscenze tecniche sussidiarie e relazionali, ma anche la consapevolezza dei propri fini di fronte agli informatici e agli storici. Cerchiamo dunque quali possono essere i binari metodologici per un corretto orientamento. Prima di tutto un’obiettiva conoscenza delle offerte disponibili in consultazione, quindi una valutazione dei modi di strutturazione di informazioni diverse che possano aiutare la ricerca e al tempo stesso favorire nuove applicazioni. Solo in tal modo l’indagine medita sui dati e li articola. Facciamo qualche esempio. Il caso più semplice di tipologia storico-artistica è certamente quello degli abbecedari: nella loro successione alfabetica di artisti, le notizie derivano da testi precedenti alla stesura e vengono compendiate in una specie di dizionario monografico, atto a fornire i dati più necessari (nascita, morte, attività ecc.). L’autore più famoso è certo Antonio Pellegrino Orlandi, il cui Abcedario, pubblicato a Bologna nel 1704, ha avuto numerose edizioni e molti seguaci. Tra di essi Francesco Maria Niccolò Gabburri (1676-1742), gentiluomo fiorentino, Accademico della Crusca dal 1701, collezionista soprattutto di disegni e stampe, Provveditore dell’Accademia del Disegno dal 1730, corrispondente, tra gli altri, di Pierre Jean Mariette e di Rosalba Carriera, nonché autore di un suo abbecedario (Le Vite de’ Pittori). Il voluminoso manoscritto della Biblioteca Nazionale di Firenze, tralasciato persino dallo Schlosser (1924), è rimasto a lungo inedito o solo parzialmente edito per singoli artisti. La trascrizione integrale del manoscritto, è stata affidata nel 2007 a Memofonte, che ha eseguito la commissione in diciotto mesi, con cinque persone addette, cercando di colmare le lacune provocate dall’alluvione del 1966, grazie ad un precedente microfilm in suo possesso. Eseguita la trascrizione è maturata la ricerca, cercando prima di tutto di individuare gli strumenti usati dall’autore. Si è così ricostruita la bibliografia citata e valorizzato l’interesse di Gabburri per le stampe, non più come mere opere d’arte ma come testimonianze di una fortuna visiva, importante quanto la fortuna testuale. In tal modo il bibliofilo, il collezionista, i suoi rapporti con altri collezionisti e storici (come Baldinucci, Sandrart, Van Mander, ecc.) hanno potuto assumere nuove dimensioni, offrendo una orchestrazione di conoscenze e di iniziative assai significativa nella Firenze del secondo Seicento e primo Settecento. Molto più complessa si presenta, come secondo esempio, la problematica di uno storiografo, pittore e architetto da tutti citato ma non ancora esaurientemente indagato.
Quello che segue è un estratto del saluto introduttivo dedicato dalla Prof.ssa Paola Barocchi alla prima giornata del Corso di alta formazione e specializzazione Metodologie di analisi informatica delle fonti. Le guide storiche, tenutosi presso il Conservatorio Santa Chiara a San Miniato (Pisa) dal 20 al 22 maggio 2009, frutto della collaborazione tra la Fondazione Memofonte e la Scuola Normale Superiore di Pisa.
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Introduzione al Corso di alta formazione sulle metodologie di analisi delle fonti _______________________________________________________________________________
Ricordo sempre che nel 1950, quarto centenario della Torrentiniana, mi fu chiesto: «Ma cosa si può dire di nuovo su Giorgio Vasari?». In verità c’è ancora tanto da dire, come aveva affermato lo Schlosser nel 1924 nei complementi bibliografici della Letteratura artistica dove si legge: «Un’edizione storica-filologica del nostro scrittore è ancora un desiderio inappagato». Nel 1950 appunto, si cominciò ad accennare alla diversità tra la Torrentiniana e la Giuntina, cercando di far emergere le caratteristiche generali al fine di dare un quadro di valori complessivo. In realtà solo la pubblicazione comparata delle due edizioni (sofferta da Rosanna Bettarini e da chi scrive per più di venti anni: 1966-1987) può evidenziare le profonde differenze strutturali, lessicali, politiche e storiche, verificate, ad esempio, anche nella Vita di Michelangelo,1550-1568, edita in dieci anni di intenso lavoro. Per la prima edizione i problemi erano in certo senso più semplici. Si trattava di ridimensionare il culmine della parabola vasariana a confronto sia con la contemporanea fama di Michelangelo, che con l’unico scritto ufficiale del Vasari precedente le Vite: la lettera al Varchi sul paragone delle arti (1549). Tale indagine ha mostrato che molte iperboli vasariane rispondevano a motivi correnti (sulla «divinità» del Buonarroti, ad esempio, facevano coro Pietro Aretino, Anton Francesco Doni, Niccolò Martelli, il Pontormo, il Tribolo ecc., sull’assoluto primato convergevano il Billi, il Cellini, l’Anonimo Magliabechiano, il Gelli; sulla «vittoria sulla natura», il Tramezino e ancora l’Aretino), ma che nella loro accentuazione antiretorica, esse avevano una nuova validità storica e critica. Proprio alla Torrentiniana risalgono le letture più felici di Vasari e per comprenderle a fondo bisognava analizzare i loro criteri di giudizio alla luce di tutto il Vasari e d’altra parte con quelli della trattatistica e dello stesso Michelangelo. Così facendo si è constatato che i criteri di giudizio del nostro storico non si possono estrarre dal contesto originario o categorizzare, essendo uniformi ed unici solo in apparenza, nomine tantum. L’«imitazione della natura», il «giudizio», lo «studio», la «difficoltà», la «novità», l’«antico», la grazia», la «concordanza dei membri», il «terribile», la «varietà», l’«invenzione», le «attitudini», l’«ordine», la «bellezza architettonica», gli «scorci», la «grandezza», il «non-finito», l’«unione», non sono insomma nelle Vite vasariane, fissi, assoluti canoni, ma prendono nei singoli artisti e per le varie età accezioni diverse, specificandosi, storicizzandosi in una graduazione concreta, entro la quale vanno colti ed intesi. Le varianti della Giuntina che si riferiscono anche al testo del Cinquanta, ne rallentano il corso, ne arricchiscono i dati informativi, ne ampliano talvolta la visione storica, ma non ne alterano i nuclei interprativi più importanti. Superato il limite della Torrentiniana e delle riserve documentarie del Condivi e moralistiche dell’Aretino e del Dolce, nonché il dissidio profondo tra il Buonarroti e il Vasari, che nasceva dal fatto che l’artista non poteva accettare il mito di se stesso, quando andasse a scapito della sua ‘fatica’ di operare e di vivere, i problemi della Giuntina si fanno diversi. In quest’edizione, il pericolo del Vasari è un altro: un limitante autobiografismo. Assistiamo infatti al curioso fenomeno che più stretti si fanno i rapporti personali del Vasari col Buonarroti, più angusta appare la sua comprensione. I progetti per la scala della Laurenziana, e per San Giovanni dei Fiorentini, la fedeltà di Michelangelo all’impresa di San Pietro, che non gli consentiva di lasciare Roma per Firenze, sono temi sfocati dall’io vasariano, il quale li riduce nei limiti della propria dimensione. Particolarmente significativo in tal senso il confronto tra le testimonianze dirette di Michelangelo e l’interpretazione parziale del Vasari, il quale per avvalorare il proprio punto di vista, arriva ad alterare gli scritti del Buonarroti, amputandoli e rappezzandoli a suo piacere. La lettera dell’artista sulla nascita del figlio di Leonardo, come appare nel testo Giuntino, risulta ad esempio un montaggio di due lettere assai lontane nel tempo (l’una dell’aprile 1554, l’altra del 22 agosto 1551) e assai diverse nel contenuto: mentre nella prima Michelangelo 2
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Paola Barocchi _______________________________________________________________________________
reagiva al «trionfo» del nipote, come sempre aveva reagito, fin dalla giovinezza, alle velleità del parentado, nella seconda, espansivamente cordiale, ridimensionava con ironia, entro una prospettiva metafisica, le lodi degli ammiratori e dello stesso Vasari. L’intenzionalità del pastiche è comprovato dalle molteplici manomissioni del testo, le quali mirano evidentemente, a mitigare l’assoluta austerità del Maestro facendo ricorso a sue affermazioni più distensive. Di fronte a tali verifiche, Michelangelo nella Vita Giuntina è un complesso e inaspettato caso limite, che dimostra una possibile entità di varianti da valorizzare anche in altre Vite. Certamente i medaglioni letterari del 1550 (proemio, biografia, epilogo, epitaffio) vengono rotti da interessi diversi. La ecfrasi cede al racconto, le tecniche delle arti «congeneri alle maggiori» assumono prestigio, in particolare quelle che possono offrire, a committenti e collezionisti , testimonianze di prototipi famosi. Nasce così un’attenzione alle opere d’arte non più legata al sottile filo biografico ma alla trama della committenza, fruizione e divulgazione. In tale direzione l’intaglio e la stampa assumono un così forte rilievo che all’interno di un contenitore biografico, quale la Vita di Valerio Vicentino o di Marcantonio Raimondi, si pongono come storia di tecniche specifiche. Il confronto puntuale tra la Torrentiniana e la Giuntina è ancora una volta illuminante e denuncia una esigenza di riflessione che potremmo avvicinare, con le dovute precauzioni, al «non finito» di Michelangelo e di Tiziano, del resto pienamente compresi nelle biografie vasariane. Inseguire le infinite accezioni dei criteri di giudizio vasariani, è dunque un esercizio da frequentare ed il computer può certo aiutare a determinare l’estensione semantica dei vocaboli significativi. Uscendo dalle Vite è infine possibile, nella memorizzazione di tutti gli scritti vasariani (Ragionamenti, Ricordanze, Zibaldone, Carteggio), individuare molteplici registri linguistici (letterario, narrativo, descrittivo, popolare) spesso condivisi da amici e contemporanei (da Giovio al Caro, a Vincenzo Borghini ecc.). Così facendo il Vasari scrittore e storico può acquistare una pienezza nuova e rendere la sua larghissima fortuna più comprensibile, anche nei suoi limiti. Il terzo esempio che vogliamo proporre ha un valore più strutturale, volendo analizzare il rapporto tra bibliografie e biblioteche storiche. La necessaria classificazione di materiali reali talvolta induce alla distinzione di vari campi, che specificano un largo orizzonte culturale, non riducibile, come propone lo Schlosser, ad un prevalente interesse di qualità critica crociana, con la conseguente svalutazione dei contributi informativi (guide, cataloghi, riviste ecc.). Ripartiamo dalle tavole nella Parte Terza dell’Abcedario pittorico dell’Orlandi dedicate, per scrupolo didattico, a: - i «libri che trattano dei pittori, degli scultori e della pittura, con l’anno e luogo dove sono stampati»; - i «libri che trattano della architettura e della prospettiva, con l’anno e luogo dove sono stampati»; - i «libri utili e di varie notizie necessarie a chi professa il disegno», relativi agli «abiti», alle «favole», alle «storie» ecc.; - le «cifre e marche usate dai pittori e dagli intagliatori»; - un «abecedario di altri intagliatori in rame e in legnio». Il livello informativo è tutto sullo stesso piano, non prevede legami o giudizi, proposti invece da Gabburri, che pone, sull’esempio anche di Malvasia, gli elenchi delle stampe all’interno delle biografie, in modo da accennare alla fortuna visiva delle opere. Lanzi va ben oltre. Il suo primo indice di «professori nominati», indica anche «l’epoca della lor vita ed i libri onde son tratte», e, limitandosi ad una voce selezionata, crea un legame del
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Introduzione al Corso di alta formazione sulle metodologie di analisi delle fonti _______________________________________________________________________________
tutto personale tra la bibliografia e il suo giudizio storico. Le scelte bibliografiche sono quindi del tutto soggettive e riguardano guide, storie generali, cataloghi, lettere pittoriche, abbecedari, secondo una consultazione vissuta, che rimette in moto tutta la cultura figurativa del passato e soprattutto del presente, facendo ricorso a riviste e a manoscritti. La conoscenza di tali meccanismi consente ora alla ricerca informatica la possibilità di verificare le voci bibliografiche, le loro edizioni e i possibili rinvii e giudizi storici che acquisteranno maggiore valore via via che la sezione potrà comprendere altre voci. Pensiamo ad una artista come il Bossi, incline a esperienze letterarie, ad un antiquario come il Venuti, ma soprattutto a Cicognara la cui fondamentale biblioteca, oggi alla Vaticana, ha un ricchissimo catalogo articolato per sezioni e ricco di commenti puntuali sinora non adeguatamente valorizzati. Ma non vorremmo dimenticare esperienze più recenti, ad esempio la biblioteca di Ugo Ojetti oggi dispersa, ma ricostruibile sugli inventari di vendita. La varietà degli argomenti proposti può convalidare le urgenze didattiche denunciate e la disponibilità di Memofonte ad esplorare nuovi sentieri di ricerca.
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Carmelo Occhipinti _______________________________________________________________________________
ROMA 1587. LA DISPERSIONE DELLA QUADRERIA ESTENSE E GLI ACQUISTI DEL CARDINALE FERDINANDO DE’ MEDICI Al principio del 1587 grande risonanza ebbe a Roma la notizia che il duca di Ferrara Alfonso II, costretto dai debiti, già all’indomani della morte del fratello cardinale, prendesse la decisione di vendere all’asta parte dei quadri e delle statue che gli venivano allora trasmessi in eredità1. Eredità ingente, che comprendeva i ricchi arredi dei palazzi di Tivoli, del Quirinale e di Monte Giordano già appartenuti allo zio cardinale, il famoso Ippolito II che, scomparso nel 1572, alcuni scrittori di Chiesa adesso criticavano, in pieno clima di Controriforma, per avere egli sperperato una quantità scandalosamente grande di denaro nell’impresa gigantesca della villa di Tivoli2. La documentazione relativa alla vendita – che si conserva negli archivi estensi e che sarà prossimamente pubblicata nel sito internet della Fondazione Memofonte3 – apre importanti spiragli sul contemporaneo contesto culturale, oltre che sulla dispersione del patrimonio del cardinale. Ad attirare le attenzioni dei più ambiziosi collezionisti presenti sulla scena romana, in particolare dei cardinali Ferdinando de’ Medici e Alessandro Farnese, non erano soltanto le statue antiche (che, invero, il duca Alfonso stava facendo di tutto per non alienare, dando disposizione che esse fossero nascoste in un luogo segreto, nel borgo di Tivoli, essendosene in fretta fatti svuotare il palazzo e il giardino prima che, per effetto di un deprecato e purtroppo irrevocabile disposto testamentario, la Villa cadesse sotto il controllo del decano del Collegio Apostolico, che era il cardinale Farnese). Ragguardevole era infatti anche la quadreria, comprendente per lo più opere di provenienza emiliana, veneta, francese e anversese, tra le quali risaltavano, come vedremo, più di un Tiziano e un importantissimo Raffaello. Si trattava poi di tutta una lussuosa mobilia, di arazzi e di cuoi dorati, di oggetti di oreficeria, di orologi, di disegni, di stampe, di libri e, insomma, di svariate «galanterie da camera», «da camerino e da gabinetto» che il cardinale Ippolito aveva accumulato fin dagli anni dei suoi soggiorni giovanili alla corte di Francia. Un episodio spiacevole, verificatosi forse proprio nei giorni immediatamente successivi alla morte del cardinale fratello, Luigi, dovette indurre il duca di Ferrara a esercitare, attraverso i propri agenti, un controllo scrupolosissimo sull’affare dell’eredità romana, per evitare che i più rapaci collezionisti potessero trarre profitto dalle difficoltà finanziarie di Casa d’Este; per questa ragione egli incaricò un uomo di propria fiducia, il conte Alfonso Fontanelli – più tardi divenuto famoso come compositore di madrigali – perché procedesse personalmente alla valutazione dell’eredità, prendendo «nota di tutte le cose che venderà, del prezzo, della persona a chi vende, e dell’essito da’ danari per poterne render buon conto»4. Per madornale errore, del tutto inavvedutamente, era infatti accaduto che si desse in vendita, alla cifra davvero modica di cinque scudi, l’inestimabile quadretto di Raffaello. Come «Ho inteso che si venderanno le robbe del signor cardinale d’Este [scil. Luigi, fratello di Alfonso II, scomparso il 30 dicembre 1586], fra le quale vi sono molti belli argenti et di buona et fine lega et cose belle, che lo dico per avviso all’Altezza Vostra Serenissima» (lettera di Attilio Malegnani a Guglielmo Gonzaga duca di Mantova, datata Roma, 14 febbraio 1587, citata in FURLOTTI 2003, p. 134, e nota 1). 2 Il passo delle Relattioni Universali di Giovanni Botero (1602) è citato e discusso, tra l’altro, in GIUSTINIANI 1665, p. 151 e in SENI 1902, p. 45. 3 La vendita estense del 1587 è documentata nel «Giornale d’intrata et uscita di dinar fatta in Roma per l’eredità del signor cardinale d’Este» (Archivio di Stato di Modena, d’ora in poi citato come ASMo, Camera Ducale, Amministrazione dei Principi, 176b). Gli inventari e i registri estensi qui di seguito citati saranno integralmente pubblicati nel sito della Fondazione Memofonte, nella sezione dedicata al «Collezionismo estense», per cura mia e dei miei studenti del Corso di Laurea in Scienze dei beni culturali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma Tor Vergata. 4 ASMo, Cancelleria Ducale, Ambasciatori, Roma, 144, lettera di Alfonso Fontanelli, datata Roma il 18 febbraio 1587. 1
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ho in altra sede dimostrato, il quadretto va indentificato con la Sacra Famiglia con l’agnellino del Prado (Fig. 1)5.
Fig. 1 Raffaello, Sacra Famiglia con l’agnellino, Madrid, Museo Nacional del Prado.
Il duca si adoperò subito per recuperare il quadretto, affidandosi alla mediazione dello stesso Fontanelli e del conte Ercole Estense Tassoni. Quest’ultimo riusciva così, nel settembre del 1587, a dare conto dell’accaduto: il quadretto era stato effettivamente svenduto per totale ignoranza degli amministratori dell’eredità, che non si erano accorti del suo immenso valore; sul quadretto aveva frattanto messo le mani Lodovico Bianchetti, maestro di camera di papa Gregorio XIII, che ne aveva fatto eseguire una copia (e, di certo, il Bianchetti era uno scaltro intenditore, perché nel 1585 si era assicurato nientemeno che l’acquisto del Ritratto di Navagero e Beazzano del Sanzio, oggi nella Galleria Doria Pamphili6, già appartenuto a Pietro Bembo il cui celebre Museo stava ancora lentamente smembrandosi). Stando alle indagini compiute per conto del duca di Ferrara, il quadretto di Raffaello risultava finito nelle mani di un non meglio identificato prete di Reggio su cui si dovettero allora esercitare le pressioni del conte Fontanelli e del cardinale ferrarese Giulio Canano, col risultato di ottenerne fortunatamente la restituzione e la spedizione, in tempi brevi, a Ferrara7. I documenti estensi ci dicono, fra l’altro, 5 Madrid, Museo Nacional del Prado, inv. 296 (olio su tavola, 29x21 cm), per cui rinvio a OCCHIPINTI, Materiali. Il dipinto del Prado, di provenienza sconosciuta, è finora documentato con certezza solo dal 1830, quando fu ritrovato dall’infante don Sebastiano nell’oratorio dell’Escorial, essendo stato acquistato probabilmente alla fine del secolo precedente da Carlo IV di Borbone. Si veda RAFAEL EN ESPAÑA 1985, pp. 91-95. Ulteriore bibliografia si trova segnalata infra. 6 Sulla relativa documentazione ha fatto ordine recentemente SHEARMAN 2003, p. 1329. 7 Il resoconto si trova solo sintetizzato in CAMPORI 1863, pp. 142-143, senza che a tutt’oggi sia stato possibile reperire il documento originale; riferendosi alle suppellettili ritrovate nell’eredità del cardinale Luigi d’Este, il conte Tassoni segnalava un «quadretto di Raffaello non conosciuto e perciò stimato solamente cinque scudi, il quale era tenuto da lui per cosa rara e di cui il Maestro di Camera di papa Gregorio XIII aveva fatto levar copia. Aggiugneva che esso quadro era caduto in mano di un prete reggiano che gli aveva ricusato l’offerta di quindici scudi; ma che poi per interposizione del cardinale Canano e del conte Alfonso Fontanella l’avea dato in dono a D. Alfonso
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Carmelo Occhipinti _______________________________________________________________________________
che lo stesso monsignor Canano (il cui nome si sarebbe di lì a poco registrato tra quelli dei compratori della preziosa suppellettile delle residenze di Ippolito8) sarebbe contemporaneamente entrato in possesso di una copia della stessa Sacra Famiglia con l’agnellino, poi facendone dono alla giovane Lucrezia d’Este andata sposa a Francesco Maria della Rovere9. Una delle ragioni – forse la determinante – per cui il quadretto destasse all’epoca così forti contese era il fatto di essere datato e firmato («Rapha[el] Urbinas MDVII»10). Esso risaliva cioè al momento di più intensa elaborazione del tema degli affettuosi raccoglimenti di Madre e Bambino da parte del Sanzio giovane, dietro la suggestione leonardiana degli anni fiorentini: era cioè il tempo in cui, discostatosi dalla maniera del Perugino, Raffaello conseguiva nelle figure – le parole sono di Vasari – quella «certa semplicità puerile e tutta amorevole», così che i dipinti di quel periodo «tanto ben coloriti e con tanta diligenza condotti parevano di carne viva lavorati di colori e disegno»11. Erano, come si è detto, anni di ormai avanzata Controriforma, e a Roma le quotazioni di Raffaello, scomparso da più di mezzo secolo, salivano vertiginosamente, mentre teologi e scrittori di Chiesa – Andrea Gilio e Onofrio Panvinio, fino a Gabriele Paleotti – vedevano nel classicismo raffaelliano, per così dire, l’antidoto più efficace contro il formalismo michelangiolesco, che si era rivelato agli occhi degli stessi teologi così irrispettoso dei contenuti e dei generi. Allora, persino le copie dai rari originali di Raffaello erano fatte oggetto di grande ambizione: copie che inevitabilmente riducevano i capolavori dell’Urbinate – quelli, specialmente, degli anni fiorentini – alla dimensione meramente devozionale (si ricordino, in tal senso, le repliche frequenti di Siciolante da Sermoneta, una delle quali risultava esposta a Villa Medici12; anche Ippolito d’Este aveva fatto ricorso al Sermoneta, che – se non mi sbaglio nell’osservare una vecchia fotografia – gli avrebbe dipinto la pala d’altare per la cappella piccola del palazzo di Tivoli, poi regalata ai reverendi della vicina S. Pietro alla Carità e, quindi, andata perduta sotto i bombardamenti del 1945) 13.
d’Este zio del duca. Non altro sappiamo di questo negozio, senonché lo stesso D. Alfonso informato del desiderio della Duchessa, le profferse il quadro del quale ignoriamo l’argomento e le posteriori vicende»); si veda da ultimo SHEARMAN 2003, pp. 1346-1347, che invano ha tentato di recuperare il documento nell’Archivio di Stato di Modena, senza peraltro poter suggerire un’identificazione del dipinto, in assenza degli ulteriori riscontri documentari. 8 Cfr. infra. 9 La copia del Raffaello, pochi anni dopo, sarebbe presumibilmente passata per eredità, insieme a tutti gli averi di Lucrezia d’Este, al cardinal Pietro Aldobrandini; non sono però riuscito a trovarne una menzione nell’Inventario dei dipinti del cardinal Pietro Aldobrandino compilato da Giovan Battista Agucchi nel 1603, pubblicato in D’ONOFRIO 1964. In effetti nel 1592, quando fu redatto l’inventario dei beni di Lucrezia d’Este duchessa d’Urbino, vi si menzionava «uno quadretto di Raffaello in cassa di legno dorata donato dall’Illustrissimo Cardinale Cunnano a Sua Altezza», che poche righe dopo si ritrova descritto – ancora «in una cas[s]a» – come «una Madonna che viene da Raffaello con nostro Signore a cavallo dell’agnello, cornisato di legno d’oro e nero». Anche la trascrizione di quest’inventario, datato 12 settembre 1592, edito da DELLA PERGOLA 1959, è stata di recente ricontrollata sul manoscritto dell’Archivio Segreto Vaticano da SHEARMAN 2003, pp. 1386-1387. Allo Shearman mancavano però le informazioni per identificare l’opera e ripercorrerne la vicenda. 10 Il dipinto è firmato e datato lungo la scollatura dell’abito della Vergine: «Rapha[el] Urbinas MDVII IV», dove il «IV» si è pensato doversi riferire all’anno di regno di Giulio II. Cfr. RAFAEL EN ESPAÑA 1985, 1985, pp. 9195. 11 VASARI [1550 e 1568] 1966-1987, IV, p. 160 (1568). 12 Come nel caso di una Madonna con Cristo, San Giovanni Bambino e San Giuseppe «che serve per tavola dell’altare a Villa Medici» (Archivio di Stato di Firenze d’ora in poi abbreviato come ASF, Guardaroba Medicea 790, c. 199v). 13 La fotografia è conservata a Roma nella Fototeca dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione. Nel XIX secolo il dipinto in questione, una Madonna col Bambino e due Santi, si attribuiva a Francesco Salviati per via di certa eleganza disegnativa nelle posture, mentre Alessio Valle lo credette, nientemeno, di Giulio Romano; da quel poco che si indovina sotto le ridipinture, potrebbe anche essere, appunto, cosa di tarda Scuola perinesca. Cfr. BULGARINI 1848, pp. 71-72: «Il quadro in tavola della Vergine in detto altare è buona pittura di Cecchin Salviati
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Della Sacra Famiglia con l’agnellino, d’altronde, lo stesso Ippolito aveva fatto eseguire una copia (chissà se non proprio quella di cui monsignor Canano sarebbe entrato in possesso): l’intenzione di Ippolito, nel far copiare il dipinto, era stata evidentemente quella di tener sempre con sé, e sempre davanti agli occhi, il capolavoro raffaelliano, sia che egli si trovasse a Roma, nel palazzo di Monte Giordano, sia che si trovasse a Tivoli, a Villa d’Este. Si attesta infatti a Tivoli nel 1572, in un contesto decisamente non devozionale, il «quadro dipinto della Madonna con un puttino a cavallo dell’agnello»14 che, in effetti, si trovava esposto in compagnia di due originali di Jacopo Palma il Vecchio, da identificarsi con la Schiava e la Bella15, e di due ritratti, di Alfonso I d’Este e di re Enrico II di Francia 16: dipinti che, tutti insieme, si vedevano appesi alle pareti di uno stesso camerino situato al di sopra dell’appartamento personale di Ippolito, a Tivoli, al cui interno essi apparivano corredati di sontuose cortine di raso, verdi e rosse. Ma, contemporaneamente, una replica del Raffaello era visibile nel palazzo estense di Monte Giordano a Roma («un quadretto di una Madona con San Giuseppe e l’Agnello»17), dove per contro non è difficile sospettare che il dipinto assumesse funzioni devozionali. Del resto, della Sacra Famiglia con l’agnellino del Prado esistono tuttora numerosissime copie, spesso di qualità molto gradevole, la maggior parte delle quali risalenti, con ogni probabilità, proprio a questo momento, cioè agli anni successivi alla vendita estense del 158718. Si comprende, in definitiva, come a quell’epoca le attenzioni dei collezionisti si centrassero soprattutto sui possibili Raffaello che si trovassero immessi nel mercato d’arte: persino gli arazzi dovevano essere ritenuti, da questo punto di vista, importanti testimonianze di linguaggio figurativo. Accadde infatti che, nelle medesime circostanze, gli amministratori dell’eredità estense vendessero, a quanto pare anche stavolta per errore, una preziosissima serie di arazzi, che subito dopo il duca di Ferrara cercò invano di riacquistare, trovandone con qualche ritocco, quivi trasportato dall’abbandonata chiesa della Confraternita della Carità, la quale ebbe da Pio VII questa chiesa e convento soppresso de’ Carmelitani nel 1815» e VALLE [1925-1930] 1988, p. 192. 14 Cfr. l’Inventarium bonorum bonæ memoriæ Hippoliti Estensis Cardinalis de Ferrara, Roma, 2 dicembre 1572, Archivio di Stato di Roma, Notai del Tribunale A.C., notaio Fausto Pirolo, vol. 6039, c. 370v. L’inventario è stato già pubblicato nel sito della Fondazione Memofonte. 15 Rispettivamente in collezione privata e in collezione Thyssen-Bornemisza di Lugano, come da me dimostrato in OCCHIPINTI, Materiali. 16 Sui quali torneremo più oltre. 17 Cfr. il citato Inventarium bonorum bonae memoriae Hippoliti Estensis (1572), c. 482v. Il dipinto è poi descritto nel 1573, sempre a Tivoli, come «un quadro della Madonna con Santto Ioseppe» (secondo un inventario frammentario degli arredi del palazzo estense di Tivoli, redatto il 23 marzo 1573, conservato nell’ASMo, Archivio per materie, b. 7/1, s.i.p) e più chiaramente nel 1579, ancora a Tivoli, come «una Madona con il Cristo cavallo di un agnello in un quadretto con la cornice di legno indoratto col suo taffettà di raso» (secondo l’Inventario della Guardarobba di Tivolli consegnata al magnifico messer Giovan Battista Iumati, ASMo, Camera Ducale, Amministrazione dei Principi, 1350, c. 33). 18 In effetti, l’autografia del dipinto di Raffaello nel secolo scorso era ancora contesa tra un paio di copie di notevole qualità della cui provenienza nulla sappiamo (a meno di non volerle ricondurre al contesto della vendita estense del 1587): l’esemplare del Musée des Beaux-Arts di Angers e quello di collezione privata (già appartenuto a Lord Lee of Fareham che ne aveva con molta forza difeso l’autografia, e oggi invece ritenuto una replica addirittura di secondo Cinquecento, replica sulla quale era stata riprodotta anche la firma e, poco correttamente, l’anno, l’inattendibile 1504). L’esistenza di queste, ma pure di qualche altra copia di qualità meno gradevole, impone comunque la massima cautela. Bibliografia sul dipinto del Prado, anche in relazione alle copie più discusse: RAPHAËL DANS LES COLLECTIONS FRANÇAISES 1983, scheda 18 (redatta da J.-P. Cuzin, relativamente all’esemplare del Musée des Beaux-Arts di Angers); LEHMANN 1996, p. 28 (sull’esemplare del Prado, con ulteriori riferimenti bibliografici), scheda 1, p. 38 (sull’esemplare appartenuto a Lord Fareham), scheda 2, p. 44 (sull’esemplare di Angers), scheda 3 (sulla copia di Kassel, Staatliche Museen, Gemäldegalerie Alte Meister, inv. 1749 n. 665) e scheda 4 (sulla copia di Münich, Bayerische Staatsgemäldesammlungen, inv. 6422); MEYER ZUR CAPELLEN 1996, p. 180, fig. 115; MEYER ZUR CAPELLEN 2001, scheda 20; RAFFAELLO. DA URBINO A ROMA 2004, scheda 60 (redatta da T. Henry); RAFFAELLO. DA FIRENZE A ROMA 2006, scheda 13 (redatta da A. Coliva, che ritiene l’esemplare già appartenuta a Lord Lee of Fareham copia di fine Cinquecento).
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invece nel mercato una replica meno pregiata19; per la spesa di 3229 scudi, il 6 aprile 1587 tale Beniamino Ebreo, che lavorava per conto del cardinale Farnese, si aggiudicava la più imporante serie di arazzi posseduta a Roma dai cardinali estensi, i dodici pezzi dei Trionfi di Scipione intessuti ad Anversa sui cartoni di Giulio Romano20. Erano cioè i famosi cartoni che Francesco Primaticcio aveva presentato nel 1532 al re di Francia, che ne fece quindi eseguire la famosa serie, più tardi da Ippolito d’Este fatta replicare per la propria casa di Fontainebleau21: il Primaticcio aveva fatto così irruzione, da Mantova, sulla scena francese imponendosi fin da subito, in concorrenza con Rosso Fiorentino, quale divulgatore dell’insegnamento tardo di Raffaello. Un insegnamento che tanta importanza aveva dato all’architettura e all’antiquaria, e di cui, in certo qual modo, doveva considerarsi esito anche la straordinaria ricchezza del linguaggio di Giulio Romano che a sua volta aveva influito, pure in terra francese, sui più diversi aspetti del costume e della vita di corte, fino nelle arti minori e nell’ornamentazione. Intanto, però, sfuggiva alla documentazione scritta ciò che gli osservatori dell’epoca non si lasciavano sfuggire: dovette saltare all’occhio qualcos’altro di Raffaello, o, meglio, di scuola raffaelliana, al momento in cui fu inventariata la biblioteca del cardinale di Ferrara, dove si conservavano molte cartelle di disegni e di stampe, alcune delle quali – lo apprenderemo tra breve – furono comprate dal cardinale Ferdinando de’ Medici: Sette carte pecore di desegni di paesi diversi, una delle quali è la [Na]vigazione delli Portoghesi all’Indie miniata chiusa in cannone di latta […]. Un’Italia dipinta in una tela grande non messa in opera. Decidotto carte in tela di diversi paesi e discrittioni. Una tela di Fiandra con paesi. [...]. Libri di più sorte centoquarantadoi22. Un messale miniato coperto di velluto cremesino. Un libro de desegni coperto di carta pecora23. Sedici volumi di cose da messa scritti a penna. Tre volumi sciolti. Doi breviari et un messale vecchi antichi [...]. Quattro carte della descrittione de la navigazione de li paesi dell’Indie Nove in carta pergamina messi in tellari di noce in doi casse di legno. Una spinetta alla franzese dipinta a grottesca di dentro coperta di corame. Un gravicembalo a doi registri con cassa dipinta verde […]24. 19 ASMo, Cancelleria Ducale, Ambasciatori, Roma, 144, lettera dell’11 gennaio 1588 del conte Ercole Estense Tassoni al duca di Ferrara: «Già s’incomincia dar principio alla vendita delle robbe dell’illustrissimo signor Cardinale Savello et le tappezzerie di Scipione che Vostra Eccellenza desidera per quanto mi verà confermato dal conte Nicolò della Genga, si metterano pur all’incanto, come le ho scritto per altre mie, onde mi è paruto di farglielo sapere [...]». 20 ASMo, Camera Ducale, Amministrazione dei Principi, 176b, c. 5. 21 Cfr. JESTAZ-BACOU 1978, pp. 130-131; OCCHIPINTI 2001, pp. 141, 320, 322. 22 L’inventario dei libri è pubblicato in OCCHIPINTI 2001, pp. 316 e sgg. 23 Tra i disegni doveva probabilmente trovarsi la serie di ventiquattro fogli illustrati da Camillo Filippi con scene bibliche, per i quali il conte Estense Tassoni, «commissario generale» del cardinale, aveva pagato il pittore in data 23 settembre 1561 (cfr. ASMo, Archivio per Materie, Arti Belle, Pittori, busta 14/2: «Illustrissimo signor conte bellissimo Esten[se] Tassone commissario generale dell’illustrissimo et reverendissimo cardinale da Este. Piaccia a Vostra Signoria illustre di far pagare a maestro Camillo di Felippi pittor scudi quattro d’oro in oro qualli sono per havere fatto di ordine di Sua Signoria illustrissima et reverendissima pezzi numero ventiquattro de disegni piccoli a figurine di più sorte retratti della Bibia et dui altri pezzi grandi delle [spozadice] de Hercolle per far uno quadro da Pan di Arento per bisogno di quella li qualli disegni sua predetta Signoria illustrissima et reverendissima tiene apreso di lei […]»; documento adoperato già da PACIFICI 1920, p. 392). 24 Cfr. il citato Inventarium bonorum bonae memoriae Hippoliti Estensis (1572), c. 478. Gli stessi oggetti si ritroveranno nell’Inventario di Monte Giordano nel 1573, in ASMo, Camera Ducale, Amministrazione dei Principi, 1349, c. 12: «[...] Una nostra donna di alabastro in una cassa di legno. [...] Una fontana di bronzo, due satiri, un mostro, un asino et altre figure. [c. 16v] Otto teste di marmoro et una figura senza testa, et un busto dinanzi. [...] Cartapecore sette di disegni di paesi diversi, una delle quali è la navigatione delli Portughisi all’Indie, […] chiuse in cassini di latta. Un Italia dipinta in una tela grande non messa in opera. [c. 17] Diciotto carte in tela di diversi paesi et inscrittioni. Una tela di Fiandra co’ paesi. [...] Un messale dorato coperto di velluto cremisi. Un libro di disegni coperto in cartapecora. Sedici volumi di cose da Messa scritti a penna. [...]. Quattro carte della descrittione della navigatione de paesi del’Indie nuove in carta pergamena, messe in telari di noce, che stanno in due casse di legno. [...] [c. 26] Sedici pezzi di stampe di corame. Una tromba a tasti, con la sua cassa di legno. [...] Uno orologio quadro in cassa di velluto nero. Uno orologio a cupola con l’arme di Mons. di Guisa in cassa di corame. Uno orologio a cupola
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Purtroppo, nessuno allora pensò di stilare inventari meglio dettagliati, che descrivessero anche i contenuti delle singole cartelle; ma da una testimonianza del pittore bolognese Denis Calvaert, assai più tardi riportata dal Malvasia, apprendiamo che si trattava di «superbissima raccolta de’ disegni di tutti i più valenti maestri d’ogni scuola»: ne facevano parte due studi di figura dalla Scuola di Atene di Raffaello e uno dal Giudizio finale di Michelagelo. Sarebbe stato però lo stesso Calvaert a confessare che quegli studi di figura, posseduti dal cardinale d’Este, erano stati da lui stesso eseguiti, quindi invecchiati e accortamente affumicati in modo da sembrare originali25. Un’importantissima testimonianza, quanto mai vicina a Ippolito d’Este perché dovuta ad uno dei suoi segretari personali, l’umanista francese Marc-Antoine Muret (ben noto agli studiosi di Villa d’Este per avere scritto i versi della Dedicatio hortorum Tyburtinorum26), potrebbe adesso offrire più che una vera riprova della presenza di opere di Raffaello tra Tivoli e Roma, almeno uno spiraglio sulla fortuna contemporanea dell’Urbinate in ambito estense: un Raffaello di cui, come è apparso evidente, si ammirava immensamente tanto la produzione giovanile, quanto l’evoluzione di linguaggio avvenuta nella Roma di Giulio II e di Leone X. In un forbito epigramma latino, edito per la prima volta nel 1575, Muret, nel lodare la capacità mimetica della pittura di Raffaello, faceva ricorso al topos ellenistico della gara tra techne e physis: e vedeva la pittura farsi imitatrice della natura al punto da insinuarsi il dubbio paradossale che fosse invece la natura a imitare l’arte di Raffaello27; niente di molto diverso, d’altronde, Muret aveva creduto di leggere nelle prime righe della biografia vasariana: «di costui fece dono al mondo la natura quando, vinta dall’arte per mano di Michelagnolo Buonarroti, volle in Raffaello esser vinta dall’arte e dai costumi insieme»28. Nulla però nei versi con cui Muret immaginava di dar voce alle spoglie di Raffaello nel Pantheon, nemmeno il troppo generico cenno alle tabulae che ingannavano prodigiosamente la natura stessa, permette in verità alcun esplicito riferimento alla quadreria del cardinale d’Este. Tuttavia, guardando alla vasta opera poetica del Muret (dove ritornano frequenti e più espliciti elogi del mecenatismo di Ippolito), ne risulta che Raffaello fosse l’unico pittore ad esservi nominato, insieme a Tiziano29. E se Raffaello e Tiziano vi si trovavano celebrati entrambi quadro in cassa di corame. [...] Cinque libri di seta tinta di vari colori. Uno corporale con la sua anima lavorato tutto di bianco. [...]». 25 MALVASIA [1678] 1841, pp. 196-197: «Ammirò ad ogni modo il valore del Calvarte quel porporato e allora anche più lo conobbe e lodollo, che mostrandogli con suo gran ristoro e contento la superbissima raccolta de’ disegni di tutti i più valenti maestri d’ogni scuola, non solo seppe Dionisio conoscerne tutti gli autori, ma giunti ad un nudo di Michelangelo di que’ di Giudizio e a due figure di quelle di Rafaelle nella Scuola d’Atene, l’avvertì non essere originali, ma da lui fatti e copiati dall’opre medesime, ancorché in qualche luogo mutati, così comandatogli da un tal Pomponio, che gli l’avea commessi; e che per l’appunto era stato quello, che affumicata poi quella carta e fattala venir logra a loco a loco, gli avea venduti per originali al Cardinale, come successivamente verificossi, confessandolo allora colui e chiedendone perdono, che si vide convinto». 26 Al riguardo vedere almeno, di recente, BARISI-FAGIOLO-MADONNA 2003, pp. 86-87. 27 Pubblicato per la prima volta in MURET 1575; lo si veda anche nelle opere complete (MURET 1777, III, pp. 35-36): «Raphaelis Urbinatis Pictoris eximii Tumulus ispe loquitur. XLVIII»: «Sic mea naturam manus est imitata videri/ posset ut ipsa meas esse imitata manus./ Saepe meis tabulis ipsa est delusa, suumque/ credidit esse, meae quod fuit artis, opus./ Miraris, dubitasque? audito nomine credes./ Sum Raphael. Hei mi, quid loquor? Immo fui./ Et tamen, his dictis, quid opus fuit addere nomen?/ Alterutrum poterat cuilibet esse satis./ Nam mea et audito est notissima nomine virus,/ et praestare vicem nominis ipsa potest»; cfr. ora SHEARMAN 2003, pp. 1243-1244. 28 VASARI [1550 e 1568] 1966-1987, IV, p. 155 (1568). 29 MURET 1777, III, p. 36 («Ad Claudium quendam», XLII): «[...] Gratia dis, qui mentem homini celeremque dederunt,/ et quævis habilem fingere spectra sibi./ Illa et plumipedem superarit Persa cursu,/ et celerem invicti Bellerophontis equum./ Nec mihi, se cuius rerum natura creatrix/ expressam in tabulis cernit, ut in speculo,/ tam bene te docto Titianus pollice pingat,/ quam mens te assidue pingere promta mea est/ atque utinam tibi sit de nobus mutua cura! [...]». Interessi di Muret per la ritrattistica emergono soprattutto in una sua epistola indirizzata a
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come i maestri sommi, d’altra parte nessuna considerazione si concedeva a Michelangelo, né ad altro artista. Per tale ragione gli epigrammi di Muret, pure nella genericità dei topoi letterari in essi adoperati, potrebbero rispecchiare alcune precise predilezioni culturali, quelle predilezioni che in ambito estense, non a caso, erano ugualmente condivise – in senso cioè filoveneto e filoraffaelliano, ma, occorre ribadire, in chiave sostanzialmente controriformistica – anche dall’anziano Pirro Ligorio, che era morto nel 158330. In effetti, sulle vicende della storia pittorica cinquecentesca, Ligorio aveva di recente meditato nel corso dei suoi ultimi anni trascorsi alla corte di Ferrara. L’amarezza delle vicende romane e la carcerazione subita dovevano avergli accresciuto l’astio nei confronti di Michelangelo e degli artisti della sua cerchia, da lui chiamati i «michelagnolastri» 31. Pirro aveva inteso proprio rifuggire dall’Urbe per lui così corrotta, da quella modernità per lui così decaduta, da quel precipitare dell’arte moderna nella goffezza delle più anticlassiche seduzioni, nei rovelli formali dei «michelagnolastri», appunto. In fondo, anche il Ligorio antiquario non aveva fatto che richiamarsi all’insegnamento di Raffaello e della sua scuola, mentre allora più che mai si poneva la necessità, ribadita dagli uomini di Chiesa, che il pittore di storia fosse esperto dei costumi del mondo antico, ove poterli fedelmente raffigurare. Già mentre si faceva vecchio, Michelangelo era diventato agli occhi di Ligorio l’esempio negativo di anticlassicismo e di licenza, nello stile e nei contenuti, l’esecrando responsabile della crisi di tutta l’arte moderna, di pittura, scultura e architettura32. Ma la polemica antivasariana si sarebbe fatta particolarmente sfrontata durante l’esilio ferrarese di Pirro: nella città estense le glorie del passato pittorico e la vicinanza dei Baccanali di Tiziano (che, dal silenzio dei camerini di Alfonso I, di lì a poco, avrebbero violentemente deflagrato sul panorama artistico di Roma di inizio Seicento) dovevano rendere ancor più drammatica ai suoi occhi la piccolezza dei pittori viventi, asserviti com’erano agli intenti di celebrazione allegorica della corte ducale (ho già avuto modo di mostrare come Ligorio giudicasse, assai negativamente, le immagini allegoriche eseguite da maestri esangui come Battista Dossi e Camillo Filippi33). La città estense stava ormai smarrendo il senso di una continuità con le migliori tradizioni pittoriche (che invece il buon Alfonso I d’Este aveva inteso valorizzare), quelle tradizioni che, secondo gli scritti tardi dell’antiquario, facevano capo a Giorgione (il che voleva dire anche a Tiziano), a Correggio e Parmigianino oltreché, naturalmente, a Raffaello, che era l’unico uomo che si potesse Torquato figlio di Pietro Bembo, datata Padova, 7 maggio 1563 (MURET 1777, II, p. 162): «[...] Equidem non solum quae ille nobis monumenta ingenii sui plurima ac pulcherrima reliquit, accurate pervolutare, verum etiam imagines corporis ipsius studiose contemplari soleo, magnamque ex eis oblectationem capio, quod illae mihi ipsum ante oculos constituere videantur. Iam si aut depictam in tabula, aut marmore expressam, aut in aere argentove insculptam Petri Bembi imaginem [p. 163] prope divino cultu afficere solitus sum; quid me tibi facere par est, Torquate Bembe, quem nobis divinus ille vir cicam et spirantem tum corporis tum multo magis ingenii ac virtutum suarum imaginem reliquit? Itaque ut intelligas, te a me tanti fieri, qui paternae gloriae praeclare omni ex parte repondeat: mitto ad te muneri Tibullum, hoc est eum poetam quem pater tuus felicissime expressit, emendatum a me […]». 30 Per un esame degli scritti di argomento figurativo di Muret devo ancora rinviare al mio volume in preparazione, OCCHIPINTI, Giardino delle Esperidi; un’utile bibliografia è segnalata al riguardo in SHEARMAN 2003, p. 1244. 31 Approfondisco la questione nell’articolo in corso di stampa negli «Annali di architettura», Ligorio e la storia dell’architettura: il caso di Bologna e il ricordo di Peruzzi. 32 Sulla polemica antivasariana, e in particolare contro l’opinione che chi «seguita il stile di Rafael da Urbino nel dipignere, il Parmigianino, il Correggio, Giorgione sia persona senza giudizio e dispiacevole», cfr. LIGORIO, Torino, vol. 29, c. 12v; si tratta perciò anche di una polemica antimanierista, contro le «cose sforzate e dispiacevoli da spiritati», contro «quel che chiamano snocciolamento o vogliamo dire delli sforzamenti degli atti del corpo, delle mani e delle braccia e coscie dell’uomo» (per cui si deve rinviare a BAROCCHI 1971-1977, II, pp. 1412-1470). Considerazioni sugli affreschi di Raffaello e di Peruzzi di Casa Chigi, si trovano in LIGORIO, Oxford, c. 13; sulle Stanze di Raffaello, si veda LIGORIO, Napoli, vol. 3, c. 24; apprezzamenti su Raffaello «pittore sopra ogni altro divino et eccellente», LIGORIO, Napoli, vol. 3, c. 236v; su «Raffaello, pittore miraculoso in natura», LIGORIO, Torino, vol. 13, c. 48v; sulle tombe di Raffaello e Peruzzi nel Pantheon, LIGORIO, Torino, vol. 13, c. 48v. 33 Devo rinviare a OCCHIPINTI, Ligorio iconologo.
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veramente reputare divino, inarrivabile esempio per ogni moderno pittore di storie, perché «ricchissimo inventore, giocondissimo nel stile», prodigiosamente dotato di conoscenze universali e, dunque, in certo qual modo enciclopediche. In definitiva, credo che Ligorio si rendesse ben conto che la Ferrara di Ariosto, precipitando nel suo nebbioso provincialismo, avesse perso, dopo la morte di Dosso Dossi, l’occasione singolarissima di unificare anche l’Italia pittorica34. D’altra parte, era ormai prossimo l’avvento dei Carracci quando il vecchio Ligorio, nel corso delle sue perlustrazioni dentro le chiese bolognesi, esprimeva tutta la propria emozione di fronte ai Parmigianino degli anni 1527-1528, amorevolmente ricordati dall’antiquario in considerazione dell’«ammirabile stile» del San Rocco, dell’intensità nella resa degli affetti nelle Nozze mistiche di Santa Margherita, di bellezza straordinaria35. Di fronte alla Santa Cecilia, infine, così Ligorio esaltava «Rafael d’Urbino, maraviglioso e sopra ogni altro di quella etate eccellente, ove si mostra tanta bontà e tanta onestà di bellezza che si puote dire che l’Angeli immortali fussero nell’animo, nell’intelletto e nella mano di tanto degno artefice»36. Tante considerazioni danno ragione del fatto che i quadri da cavalletto realizzati dai sommi maestri di inizio Cinquecento fossero visti, in quegli stessi anni di fine secolo, tra le cose più prodigiose che mai mano umana avesse fatto. Intanto, anche tra Tivoli e Roma, in Casa d’Este, a Ligorio e a Muret non era mancato il modo di ammirare le prove della maestria di Tiziano; gli esempi di scuola tizianesca, documentabili allora anche dentro il palazzo tiburtino, spaziavano infatti dalla ritrattistica ufficiale (l’Alfonso I d’Este), alla pittura mitologica (una Venere col putto)37, al paesaggismo, più o meno ‘devozionale’, d’ambito muzianesco (penso agli affreschi veneteggianti di Villa d’Este, ma anche alle stampe di Girolamo Muziano che ambientavano nelle valli selvose dell’Aniene i San Girolamo in solitudine anacoretica), fino alla pittura sacra, con particolare riguardo al dipinto con l’Adorazione dei Magi del Vecellio, che si trova oggi all’Ambrosiana. Persino il cardinale Carlo Borromeo dovette affacciarsi sul mercato romano, alla morte del cardinale Ippolito, nel 1572, per potersi procurare un Tiziano tra quelli dell’eredità estense: riuscì infatti ad entrare in possesso dell’appena citata Adorazione dei Magi che Tiziano stesso, al principio degli anni Sessanta, aveva fatto spedire a Ippolito (questi, inizialmente, avrebbe voluto farne dono al re di Francia, ma alla fine – forse a causa della morte improvvisa di Enrico II e dei ritardi di Tiziano nella consegna – pensò di destinare l’opera alla cappella del palazzo di Monte Giordano a Roma). Pure se ritenuto oggi non del tutto autografo, il dipinto ambrosiano aveva ugualmente suscitato l’enorme soddisfazione di Ippolito38, oltreché le lodi del Vasari39 e più tardi l’entusiastico apprezzamento di Federigo Borromeo, il quale nel suo Musæum avrebbe riconosciuto nel quadro, in ragione de «la moltitudine delle cose che contiene», «una scuola per i pittori, perché ne possono trarre, come dal corno di Amaltea, molti insegnamenti»40. Affermazione, quest’ultima, che era ben consapevole della straordinaria 34 Riflessioni
spesso dimenticate sul provincialismo di Ferrara si possono trovare in ANTAL 1948, pp. 83 e 87. Rinvio ancora una volta a OCCHIPINTI, Ligorio e la storia dell’architettura. 36 LIGORIO, Torino, vol. 4, c. 74. 37 Dipinto descritto, dentro il palazzo di Monte Giordano, come «Un quadro in tela di pittura con una Danae et un Cupido», secondo il citato Inventarium bonorum bonae memoriae Hippoliti Estensis (1572), c. 455. 38 Nei cui registri di spesa del 1564 risulta il pagamento della cornice fastosa (tuttora conservatasi, con le imprese di Enrico II e Diana di Poitiers), che era stata intagliata dall’ormai affermato intagliatore Flaminio Boulenger (documenti relativi sono riportati in PACIFICI 1920, p. 393). 39 VASARI [1550 e 1568] 1966-1987, VI, p. 166 (1568): «Fece ultimamente Tiziano, in un quadro alto braccia tre e largo quattro, Gesù Cristo in grembo alla Nostra Donna et adorato da’ Magi, con buon numero di figure d’un braccio l’una, che è opera molto vaga, e sì come è ancora un altro quadro che egli stesso ricavò da questo quadro e diede al cardinal di Ferrara vecchio». 40 Acquistato da Carlo Borromeo, come pare, il dipinto si trovava nel 1584 già nell’Ospedale Maggiore di Milano. Cfr. TIETZE CONRAT 1954, pp. 3-8; JONES 1993, pp. 114-116 e 262; HOCHMANN 2004, p. 434. 35
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varietà di indirizzi e di generi pittorici che al tizianismo facevano capo, ai quali il pittore devoto, su istanza degli uomini di Chiesa, avrebbe dovuto utilmente guardare41. Il ritratto tizianesco di Alfonso I, già più volte menzionato, si trovava a Tivoli esposto insieme alla Sacra Famiglia con l’Agnellino di Raffaello, alle due «donne antiche» di Palma il Vecchio, la Bella e la Schiava (tanto ammirate da Federico Zuccari che ne lasciò due vibranti versioni grafiche)42 e a un ritratto di Enrico II re di Francia: si trattava di pochi quadri, selezionati esclusivamente in considerazione della loro alta qualità. Che il ritratto di Alfonso I fosse posto a dialogare col ritratto di Enrico II di Francia, verosimilmente di ambito di François Clouet, voleva dire mettere a confronto il cromatismo carnale di Tiziano con l’acutezza disegnativa dell’algido Clouet, che era il migliore specialista francese del genere. Purtroppo, il ritratto tizianesco di Alfonso II, celebrato da tante fonti e noto da diverse repliche antiche, è andato perduto. È probabile che Ippolito ne possedesse a Tivoli una replica di alta qualità, dalla quale si può ipotizzare che fosse derivata la copia grafica che Federico Zuccari ne eseguì di certo proprio nei mesi di lavoro a Villa d’Este, quando poté vedere e copiare, all’interno dello stesso camerino, anche le due «donne antiche» di Palma il Vecchio43. Del resto, alcune delle copie documentate del ritratto ducale in questione, come quella di Palazzo Pitti dipinta (Fig. 2), come oggi pare certo, dal Bastianino, furono dipinte su commissione di Ippolito d’Este fra il 1563 e il 156544. La tela appena citata di Palazzo Pitti – documentata a Firenze chiaramente solo dal XVIII secolo – dovrebbe essere quella stessa che il Bastianino eseguì per ordine del cardinale di Ferrara (in proposito, i registri di spesa ricordarono addirittura due copie dello stesso ritratto di Alfonso I eseguite dal Bastianino in contemporanea, una delle quali per essere regalata proprio al granduca Cosimo nel 1563)45. 41 Studio recente sulla fortuna del venetismo nell’Italia del tardo Cinquecento è quello di HOCHMANN 2004, in particolare pp. 436 e sgg.; vi si segnalano alcune efficaci citazioni Dell’Uffizio del cardinale di Giovanni Botero (Roma 1599): «Massime che Michel’Angelo, stato ai tempi nostri eccellentissimo nella scultura e di molto credito nella pittura, ha introdotto nelle chiese una forma d’immagine molto aliena, per non dir contraria allo scopo della chiesa [p. 32]»; «Tra i pittori non mi pare che ve ne sia alcuno che si debba preferire nelle pitture ecclesiastiche a Tiziano perché l’opre sue hanno molto del religioso e del decente [p. 35]» (HOCHMANN 2004, p. 434). 42 Cfr. OCCHIPINTI, Materiali. 43 Devo ancora rinviare a OCCHIPINTI, Materiali. 44 Firenze, Galleria Palatina di Palazzo Pitti, inv. n. 311 (olio su tela, 154,7x123,3 cm). La bibliografia sul ritratto di Palazzo Pitti si è negli ultimi anni notevolmente accresciuta, sulla base ancora degli spogli archivistici a suo tempo condotti da VENTURI 1882, p. 30, note 2 e 3, dove in particolare lo studioso aveva osservato come le copie del ritratto estense eseguite dal Bastianino fossero state ben due, una delle quali risultava essere stata donata, da parte di Ippolito d’Este, al granduca Cosimo I de’ Medici nel 1563; cfr. TIZIANO NELLE GALLERIE FIORENTINE 1979, pp. 326-328 (scheda redatta da A. Cecchi, che riproponeva l’identità del pezzo donato dal cardinale estense con quello oggi di Palazzo Pitti); SOVRANE PASSIONI 1998, p. 148 (scheda redatta da C. Nicosia); HEIKAMP 1999, p. 354; PATTANARO 2000, p. 50, nota 9 e scheda 7a (dove si negava l’attribuzione del ritratto di Palazzo Pitti a Girolamo da Carpi, in favore di Anonimo ferrarese); GLI ESTE A FERRARA 2004, p. 388 (scheda redatta da C. Nicosia che, pur non ritenendo agevole l’identificazione tra il dipinto di Pitti e quello documentato nei registri di pagamento del cardinale Ippolito d’Este, sosteneva comunque l’attribuzione al Bastianino, in considerazione della buona qualità del ritratto). 45 ASMo, Camera Ducale, Amministrazione dei Principi, 847 (registro del 1564), c. 55v: «Spesa Straordinaria. […] E a dì 7 novembre scudi quattro moneta e per la detta al magnifico Agostino de Mosti per tanti che lui ha spesi in far fare un tellaro con la sua tella per lo retrato dell’illustrissimo signor duca Alfonso di felice memoria come in zor[nale] a c. 36»; ASMo, Camera Ducale, Amministrazione dei Principi, 848 (registro del 1565), c. 27v «Al nome de Dio 1565. Spesa da Roma […]. E adì 13 detto [marzo] scudi quarantasei soldi sedici moneta sono la valuta di scudi dodici d’oro in oro et per la detta a messer Bastiano dipintore per sua mercede di haver fatto un retrato d’un duca Alph[onso] padre di monsignor illustrissimo come in zorn[nale] […]» (anche c. 65v, dove si registra la spesa per l’«adornamento» di detto quadro che venne allora portato da Ferrara a Bologna forse per essere spedito, appunto, a Roma; i relativi pagamenti erano stati versati a partire dal 1562); cfr. VENTURI 1882, p. 30, nota 2, dove si riporta il seguente documento: «Adì 16 giugno [1563]. E più scudi d. datti al Signor Cav. Priorato per altrettanti dono [sic] in Fiorenza a un maestro falegname qual vene da Bologna a Fiorenza con un gran quadro depintovi la felie memoria del Duca Alfonso di Ferrara quale Sua Signoria illustrissima ha donato al Signor Duca di
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Fig. 2 Sebastiano Filippi detto il Bastianino, Ritratto di Alfonso I d’Este, Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina.
Ma un più antico dipinto probabilmente derivato dallo stesso prototipo tizianesco dovette riscuotere successo anche in Francia, dacché il re Francesco I lo vide esposto, a Fontainebleau, dentro il camerino del cardinale Ippolito all’interno del palazzo che per il prelato ferrarese aveva costruito Sebastiano Serlio; in tale occasione il re aveva espresso il desidero di avere quel ritratto per sé, con l’intenzione di farlo sistemare – come l’oratore ferrarese ebbe a riferire nel 1546 – all’interno del cosiddetto «gabinetto», dentro il castello reale46. Che negli stessi anni quaranta Ippolito facesse anche dono al re di un’altra copia da Tiziano, una Venere col putto, eseguita da Girolamo da Carpi, la dice lunga sulle chiare intenzioni che Ippolito nutriva di far conoscere Tiziano in una Francia dove Tiziano era completamente sconosciuto47. Della conseguente fortuna francese dell’iconografia di Alfonso I d’Este avrebbe preso atto di lì a poco André Thevet, storico e cosmografo del re di Francia, quando pubblicò nel 1584 la raccolta di ritratti degli uomini famosi, Les vrais pourtraits et vies des hommes illustres48, opera che, secondo le dichiarazioni dello stesso autore, era stata il frutto di molti anni di ricerca, trascorsi dentro le biblioteche e i cabinet di tutt’Europa. Ebbene, il ritratto a stampa di Alfonso I, inserito in una delle sezioni de Les vrais pourtraits riservata ai condottieri famosi, Fiorenza». Il Venturi riteneva trattarsi del ritratto per cui fu pagato Bastianino: «c. 66 leggesi “Spesa straordinaria. E adì detto [30 dicembre 1563] L. quarantasei solti quattro m. et per la detta a m. Sebastiano pittore, per tanti che li fu pagati a nota de cassa l’anno 1561 per sua mercede di haver fatto un retrato della felie memoria dell’Illustrissimo Signor Duca Alfonso duca di ferrara, come in Zor. c. 45”». 46 Cfr. OCCHIPINTI 2001, p. 135, la lettera dell’ambasciatore estense, datata 17 maggio 1546. Anche il Vasari aveva intanto sentito parlare d’un certo ritratto tizianesco del duca di Ferrara (di Ercole II, egli credeva) fatto copiare da Girolamo da Carpi per il re di Francia, VASARI [1550 e 1568] 1966-1987, VI, p. 417 (1568). L’argomento è stato approfondito da PATTANARO 2000, p. 51, con utili rimandi biliografici. 47 OCCHIPINTI 2001, pp. CL-CLI. 48 KEVERT-CHAUDIERE 1584.
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riproduceva un esemplare che Thevet diceva di aver visto nel cabinet del duca di Nemours, che a sua volta probabilmente dipendeva da quello del cabinet di Francesco I; il principe e condottiero ferrarese vi veniva raffigurato in armatura (come richiedeva la circostanza celebrativa, allo stesso modo in cui lo aveva già descritto Vasari nei Ragionamenti, nell’illustrare gli affreschi della Sala di Leone X in Palazzo Vecchio) 49; ma la mano sinistra poggiata sull’elsa della spada e la destra sul cannone rispettavano la fortunata iconografia tizianesca (nota, del resto, allo stesso Vasari, che aveva visto a Ferrara il ritratto originale a olio, il capolavoro perduto, descrivendolo, appunto, «con un braccio sopra un gran pezzo d’artiglieria»50). Di lì a poco, tra il 1588 e il 1592, dalla versione di Bastianino donata a Cosimo I de’ Medici veniva ricavata da Cristofano dell’Altissimo una copia in formato ridotto perché facesse parte della serie di ritratti di uomini illustri da destinarsi agli Uffizi, «in fra li altri [collocati da Francesco I] in Galleria verso Palazzo, ordinati per il Cavalier Gaddi, con ordine di loro Altezze Serenissime»51. Tanti ricordi, legati al ritratto tizianesco e alle vicende internazionali della carriera del cardinale di Ferrara, erano però destinati a perdersi quando nel 1587 la quadreria estense venne smembrata e dispersa. Alla luce di tali vicende non sorprendono le istruzioni scrupolose, in apparenza anche futili, che il duca di Ferrara, Alfonso II, trasmise al Fontanelli nell’affidargli i beni della guardaroba di Roma e di Tivoli. Il 2 febbraio 1587, egli dispose anzitutto che non fossero venduti «tutti gli uccelli e cani» appartenuti al cardinale, che invece si donassero «al signor cardinale de’ Medici parte, e parte ad altri signori e cavalieri che si dilettano di caccia, sì che habbino a gradire l’intentione di chi li fa donare»52. Quanto a ogni «fornimento d’altare» di cui era ricca l’eredità cardinalizia, il duca ordinò che si conservassero i pezzi migliori, soprattutto quelli d’argento, perché fossero mandati a Ferrara, anziché essere venduti al primo offerente53. Fontanelli avrebbe dovuto preoccuparsi di fare eseguire il «disegno dei candelieri e della croce d’argento che si dimanda di sopra nel fornimento d’altare»; quindi «se si trovaranno le due statue che desidera Sua Eccellentia alte tre piedi, conforme a quanto sa il conte, in tal caso sarà trattenuto un altro mullo dei migliori, per poter caricare commodamente dette statue sopra due di loro con qualche tellaro da letiera [...]». La vendita delle statue fu alla fine autorizzata, ma solamente delle poche che si trovavano in guardaroba: Si vendino le statue e l’altre cose di guardaroba54, salvo le principali, come sarebbe padiglioni, travache, razzi, corami di Spagna55, tapedi e spaliere d’oro e di seta, delle quali tutte ne mandarà VASARI [1588] 1906, p. 126. VASARI [1550 e 1568] 1966-1987, VI, p. 159 (1568). Nell’elogio con cui Thevet accompagnava il ritratto di Alfonso – per cui bisogna tener presente GIOVIO 1597, pp. 13-14 – si ricordava come il principe amasse esercitarsi nella fusione dei pezzi d’artiglieria, tra i quali era rimasto famoso un cannone detto «lo terremoto», che era di certo lo stesso famoso ordigno chiamato «la Giulia», il cui bronzo era stato ricavato dalla fusione del ritratto bolognese di Giulio II, fatto da Michelangelo, VASARI [1550 e 1568] 1966-1987, VI, pp. 32-33 (1568). 51 Sulla copia di Cristofano cfr. almeno BERTI 1979, p. 626, ma vedere anche BAROCCHI-BERTELÀ 2002, I, pp. 37, 92 e 93, dove il pittore risulta pagato tra il 1588 e il 1592 per il ritratto del duca di Ferrara da inserire nella galleria. 52 ASMo, Cancelleria Ducale, Ambasciatori, Roma, 144 (l’istruzione del 2 febbraio 1587, s.i.p.). 53 Tra le cose da mandare a Ferrara si richiede «un apparamento per tre preti da celebrare magnificamente e li vestimenti ancora per il Vespero, che sien belli, ma non però de’ principali» (ASMo, Cancelleria Ducale, Ambasciatori, Roma, 144). 54 Guardaroba che conteneva a Tivoli, secondo il citato Inventarium bonorum bonae memoriae Hippoliti Estensis (1572), c. 379v: «Uno satiro di marmo piccolo appoggiato ad un tronco di marmo. Un Cupido piccolo con un vaso in spalla da fontana di marmo. Doi puttini di marmo piccoli con doi conchigli in testa. Nel discoperto sopra la guardarobba. Un Bacco nudo di marmoro alto 4 palmi piccolo. Un Fauno ignudo intero di marmo. Una Venere ignuda con un delfino a’ piedi intiera di marmo. Un Mercurio di marmo con la [bursa] in mano [...] in spalla intiero 49 50
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Roma 1587. La dispersione nella Quadreria Estense e gli acquisti del Cardinale Ferdinando de’ Medici _______________________________________________________________________________ nota insieme con la stima loro et il parere del medesimo conte. Si manda parimenti l’inventario di tutta l’argentaria con la stima. Tutti i pani da dosso del cardinale si vendino [...]56.
Quanto invece alle statue più prestigiose, quelle che erano state esposte nel giardino di Tivoli, il duca Alfonso dovette esigere la massima attenzione perché esse non accendessero gli appetiti di qualsivoglia compratore; così l’agente Fontanelli prontamente rassicurava il padrone: Illustrissimo et eccellentissimo signor mio collendissimo. Quando le statue furono levate del palazzo e giardino di Tivoli e poste nella casa dove sono hora in detto luogo non ne fu fatto inventario né consegna alcuna, né meno tenuto memoria del numero, ma solo posto che furno in detta casa della qualle se ne paga anche il fitto se gli chiusero dentro sotto dua chiave, una n’hebbe il governatore di Tivoli e l’altra il signor Alessandro de’ Grandi la quale tiene ancora apresso di lui il quale m’ha detto che ’l crede sieno da 68 in 70 statue che possono valere da 4 mila scudi57.
Di tutte le suppellettili minute che erano appartenute al cardinale, il duca raccomandò di conservare orologi e varie «galanterie da camera», oggetti d’oreficeria sacra e reliquie, ma soprattutto la collezione di medaglie, insieme alle «cose antiche da gabinetti e camerini» che Ippolito aveva accumulato fin dagli anni trascorsi alla corte di Fontainebleau: Si trattenghino l’orologgi et altre galanterie da camera che sieno belle e di valore, di che medesimamente se ne avisi a Ferrara, sì com’anco sarà dato conto d’ogn’altro fornimento per altare. Se vi sarà biancheria di Fiandra che sia bella la trannenirà e ne darà conto, sì come pur farà de’ crocefissi, d’immagine de’ santi in tellari et altri quadri belli. Se vi saranno qualche reliquie, legno della croce del Nostro Signore, corone, gioie et altre cose d’oro se ne avisarà et altrettanto farà di medaglie, cose antiche da gabineti e camerini58, cose dell’Indie, di quelle di Francia che sieno belle, con anelletti, cortelli turcheschi, daghe e spade. Se vi si trovaranno telle di Fiandra suttili e dilicate parimente se ne darà conto [...]59.
et nudo. Un altro Mercurio piccolo di marmo nudo intiero di marmo con la borsa in mano. Una mascara di marmo con un piedistalo. Un’altra mascara grande in doi pezzi. [c. 380] Un torso di marmo nudo e piccolo. Una testa di una Faustina senza naso di marmo. Una testa di un Antino guasta di marmo. Sette teste di marmoro bianco. Quattro lanternini. Un frigietto di marmoro con doi mascarine et una aquila. Un tondo di serpentino». 55 Cfr. la lettera di Ippolito II d’Este al maresciallo Pietro Strozzi, datata Roma il 14 marzo 1545, a proposito di «certa quantità di corami, che mi hanno da venir di Spagna, che saranno circa 60 o 70 casse col nome del cardinale Poggio, per avermeli Sua Signoria Reverendissima fatti venire» (Archivio di Stato di Firenze, d’ora in poi citato come ASF, Miscellanea Medicea, 43, 3, c. 112). 56 ASMo, Cancelleria Ducale, Ambasciatori, Roma, 144 (l’istruzione del 2 febbraio 1587, s.i.p.). 57 ASMo, Cancelleria Ducale, Ambasciatori, Roma, 145 (lettera di Alberto da Como al duca di Ferrara, datata Roma, 23 marzo 1588, s.i.p.). Intanto don Cesare d’Este, non ancora duca, aveva fatto asportare le statue dal palazzo e dal giardino di Tivoli nel 1587, probabilmente per difenderle dalle mire di Alessandro Farnese (ASMo, Camera Ducale, Amministrazione dei Principi, 176, c. 2, dove si registra il pagamento a maestro Maturino muratore «per haver trasportato le statue dal palazzo et giardino di Tivoli di Sua Signoria illustrissima doppo la sua morte nel Palazzo delli heredi del signor cavalier Roma detto il Spagnuolo [...]»; vedi anche busta 177, s.i.p., «Registro di mandati de Tivoli», in data 10 gennaio 1587). 58 Cfr. per esempio il citato Inventarium bonorum bonae memoriae Hippoliti Estensis (1572), c. 479, relativamente al palazzo di Monte Giordano: «[…] Un pendente d’oro da cinta lavorato. Una medaglia d’agata legata in oro con un Laocoonte. Quatro medaglie d’argento [c. 481v]. […] Una medaglia d’argento indorato del re Henrico. Un Agnus Dei d’argento indorato con il legno de la Croce dentro. Un zaffiro legato in oro con l’arme di Paolo terzo. Un anello antico. Una penna d’argento lavorata d’oro tirato con perle e granatine. Un retratto del re Francesco in un lapislazzaro. Una medaglia d’una corniola con una figurina legata in oro. Una medaglia d’oro con un cavallo d’oro inpresso. Una medaglia di corgnola legata in oro dentrovi un cacciatore. Un colonnella d’agata legata in oro. [...] Una medaglia antica coll’aquila». 59 ASMo, Cancelleria Ducale, Ambasciatori, Roma, 144, istruzione del 2 febbraio 1587, s.i.p.
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Tra le reliquie si segnalava particolarmente il braccio di S. Sebastiano60. Tra i disegni, come si è visto, dovevano distinguersi alcuni fogli creduti di Raffaello. Anche l’archivio privato del cardinale venne fatto oggetto delle attenzioni del duca, cui in particolare premeva di riavere le carte personali dello zio prelato, quelle riguardanti gli affari esteri, e il carteggio con i principi francesi che era ingentissimo: carte che, perciò, si sono interamente conservate61. Inventariato e valutato il patrimonio, si poté infine procedere all’incanto. Le difficoltà finanziarie in cui si trovava il duca portarono a vendere indiscriminatamente oggetti d’oro e d’argento preziosissimi, che erano ricordo di anni irripetibili trascorsi dal cardinale di Ferrara alla corte di Francia, quando per lui lavorava Benvenuto Cellini62. Alessandro Farnese non perse tempo a inviare propri agenti per far comprare anzitutto i corami di Tivoli, quelli decorati «a termini» provenienti dalla Sala delle Virtù di Villa d’Este, i cui ornamenti allegorici erano stati inventati da Pirro Ligorio63. Contemporaneamente, Alessandro entrava in possesso della serie di arazzi dei Trionfi di Scipione, già ricordati, ma anche della serie di arazzi della Storia di Paride64, di svariati candelieri di ottone, coprifuoco, armadi, arazzi a fogliami e due paparelle d’argento dorato65. Ad oscuro compratore, tale signor Candido Cittelli, furono venduti gli arazzi della Storia di Absalon66; ad uno speziale di nome Giovan Battista Marino gli arazzi dei Trionfi del Petrarca, che erano stati esposti nella cappella di Monte Giordano67. Lo stesso giorno si vendettero gli arazzi della Storia di Tobia68. Giuliano della Rovere comprò un baldacchino e drappi vari69. Il cardinal Giulio Canano corami d’oro a broccati, che erano in tutto duecentosessantadue pezzi70. Tale «Gabriele Hebreo» invece comprò «quattro teste di marmo et un busto»71. Di tanti quadri venduti all’incanto nel 1587 non disponiamo però di informazioni sufficienti. Il «quadro di Cleoppatra», acquistato da tale «Romano Hebreo» (il quale, per lo stesso prezzo di sette scudi e trenta, si aggiudicava anche «un quadro della Madalena») 72, si era sempre trovato a Tivoli, registrato come «una Cleopatra con la cornice indorata», cui faceva pendant la stessa «Santa Maddalena granda con la cornice indorata». È possibile dunque che si trattasse di dipinti di notevole valore. La Maddalena, in particolare, poteva essere l’ormai consueta copia da Tiziano. 60 «Non
mi fu detto ch’io empiegassi più uno che un altro in materia della grazia di portar il bracchio che si dice di S. Sebastiano [...]» (ASMo, Cancelleria Ducale, Ambasciatori, Roma, 144, lettera del 15 luglio 1583, s.i.p.); vedi anche la lettera del 13 settembre 1587 del conte Ercole Estense Tassoni: «Intesi quando fui a Ferrara che Sua Altezza desiderava d’aver delle reliquie. Io che non ho al mondo desiderio maggiore che di farle palese in qualche maniera la prontezza del divotissimo animo mio verso di lei, subito arrivato a Roma procurai di haverne per mandargliene, ma per molta diligenza ch’io habbia usata, non mi è stato possibile di ritrovarne di più sorte, che di questa che l’Altezza Vostra vederà nell’inclusa nota [...]». 61 Nella lettera del 15 luglio 1583 (ASMo, Cancelleria Ducale, Ambasciatori, Roma, 144, s.i.p.), Alfonso Fontanelli dava conto delle scritture del cardinale, che sarebbero state spedite di lì a poco a Ferrara (vedere anche la lettera del 27 aprile 1588). 62 ASMo, Camera Ducale, Amministrazione dei Principi, 176b, cc. 22v e 37: il 3 agosto 1587 «Beniamino Hebreo» comprava per il cardinal Farnese «raci della caccia usi [...]», una «saliera una d’argento dorata», un «damasco verde» e (c. 40v) un «bacillo uno d’argento de l’historia di Fetonte». 63 ASMo, Camera Ducale, Amministrazione dei Principi, 176b, c. 8v. 64 ASMo, Camera Ducale, Amministrazione dei Principi, 176b, c. 22v. 65 ASMo, Camera Ducale, Amministrazione dei Principi, 176b, c. 14, c. 6v: «Beniamino Ebreo» comprava «due paparelle d’argento sopra indorate». 66 ASMo, Camera Ducale, Amministrazione dei Principi, 176b, c. 3v. 67 ASMo, Camera Ducale, Amministrazione dei Principi, 176b, c. 4. 68 ASMo, Camera Ducale, Amministrazione dei Principi, 176b, c. 4v. 69 ASMo, Camera Ducale, Amministrazione dei Principi, 176b, c. 11. 70 ASMo, Camera Ducale, Amministrazione dei Principi, 176b, c. 11v. 71 ASMo, Camera Ducale, Amministrazione dei Principi, 176b, c. 21. 72 ASMo, Camera Ducale, Amministrazione dei Principi, 176b, c. 18r-v.
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Il 20 aprile 1587 il signor Cristofaro Scavione comprava, tra l’altro, «un quadretto pintato Nostro Signore»73. Quattro paesaggi senza cornice venivano acquistati, il seguente 12 maggio, da tale maestro Giulio Romanino, sarto, che nel mese successivo riusciva a impossessarsi di un quadro «con Cristo in croce e altre figure», svenduto per poco più di quattro scudi74. Un «quadro della Madonna con S. Giuseppe» era venduto il 6 luglio a tale Francesco Ruggieri75. Un quadretto «di Nostro Signore» veniva venduto il 3 agosto a «monsigor Petino»76. Intanto, alla morte di Luigi d’Este, il cardinale Ferdinando de’ Medici ventilava la possibilità – evidentemente poi sfumata – di prendere in affitto il palazzo di Monte Giordano dove avevano abitato i prelati estensi, che, secondo lui, era «il più bel sito di Roma» 77. Di lì a poco il futuro granduca di Toscana riusciva a entrare in possesso di numerosi oggetti personali appartenuti a un personaggio magnifico come Ippolito d’Este, che aveva manifestato curiosità ed interessi molto vari, che spaziavano dalla statuaria classica78 alle rarità scientifiche ed esotiche, ai diversi generi della pittura79. Il 14 luglio 1587 Ferdinando faceva acquistare, stando ai documenti estensi, una «lettiera d’ebano», una «spinetta da sonare», un «orologio da svegliare», «putto uno di marmo et un quadro pinto Tivoli»80, «cinque paesi rotti et una carta stampata», un quadro di una «Madonna con la Natività di nostro Signore»81. La documentazione degli archivi fiorentini, con particolare riferimento agli inventari di Villa Medici del 158882, integra utilmente queste informazioni, permettendoci adesso di seguire le vicende di alcuni dipinti provenienti dalla vendita estense. Il «quadro pinto Tivoli», citato qui sopra tra gli acquisti di Ferdinando, si deve identificare nella veduta prospettica, già inventariata a Villa d’Este nel 1579 e così descritta: «il retratto di Tivolli in tella, cioè del palazo e giardino»83. Il quadro, come si apprende ancora meglio dai precedenti registri di spesa, era stato eseguito su richiesta di Ippolito, nell’estate del 1571, da Étienne Dupérac84: dunque è inevitabile pensare che Dupérac ritraesse il palazzo e il giardino così come essi si vedono ritratti su una delle più antiche raffigurazioni grafiche che si ASMo, Camera Ducale, Amministrazione dei Principi, 176b, c. 9v. ASMo, Camera Ducale, Amministrazione dei Principi, 176b, cc. 14v e 19. 75 ASMo, Camera Ducale, Amministrazione dei Principi, 176b, c. 29v. 76 ASMo, Camera Ducale, Amministrazione dei Principi, 176b, c. 32v. 77GASPARRI 1983, pp. 217-232; GASPARRI 1985, pp. 7-25; BUTTERS 1991, p. 171; GASPARRI 1991, pp. 443-485. 78 Sulle statue provenienti dal Quirinale estense, acquistate dal cardinal Ferdinando per la Villa sul Pincio, si rinvia a GASPARRI 1985, pp. 7-9 e 15 («Alla morte del cardinale, mentre il resto del suo patrimonio artistico, parzialmente in mano ad altri collezionisti e mercanti, veniva rapidamente disperso, il complesso delle sculture nella villa sul Quirinale, passato in proprietà del nipote, cardinal Luigi, e poi alla morte di questo, al cardinale Alessandro d’Este, rimane sostanzialmente intatto»); GASPARRI 1983, p. 223. 79 BAROCCHI-BERTELÀ 2002, p. 83. 80 ASMo, Camera Ducale, Amministrazione dei Principi, 176b, c. 31. 81 ASMo, Camera Ducale, Amministrazione dei Principi, 176b, c. 41: «[...] dall’illustrissimo Signor cardinale di Medici per prezzo di un quadro della Madonna con la Natività di Nostro Signore». 82 ASF, Guardaroba Medicea, 790, c. 186 «Inventario delle Masseritie et robbe che si ritrovano nel Palazzo et Giardino del Serenissimo Cardinale de’ Medici Gran Duca di Toscana alla Trinità de’ Monti in Roma, che restano alla cura di M. Marentio Marenti custode del detto loco» (1588). 83 Secondo il citato Inventario della guardaroba di Tivolli del 1579, c. 21. 84 ASMo, Camera Ducale, Amministrazione dei Principi, 856, c. 68v (spese del 1571): «E a dì 3 luglio scudi vintitre di moneta per Sua Signoria illustrissima pagati a maestro Steffano Duperac pittore francese per fattura di una prospettiva del giardino di Tivoli fatto in pittura sopra un quadro sopra la tela [...]»; c. 95 (spese del 1572): «E a dì 28 detto scudi undeci di moneta e [...] sessanta per Sua Signoria illustrissima a maestro Angelo d’Ambosia pittore per fattura d’una prospetiva di pittura sopra la tela del giardino et palazzo di Tivoli [...]»; c. 95v: «a Iosso de Gasso pittore per fattura di una giunta fatta alla prospettiva di Tivoli [...]»; c. 167v: «Maestro Angelo d’Abonzia pittore fiamingo deve dare adì primo luglio scudi quattro di moneta [...] a conto di dipingere dui quadri della prospettiva di Tivoli [...]». 73 74
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realizzassero di questo genere, la stampa famosa de Il sontuosissimo et amenissimo palazzo et giardini di Tivoli (Fig. 3) pubblicato nel 1573 su disegno del Dupérac stesso, con dedica alla regina di Francia Caterina de’ Medici (la stampa si vendeva nella bottega dell’editore Antoine Lafréry, dove essa si trovava inserita nella raccolta dello Speculum Romanae Magnificentiae). In effetti, mentre in Francia circolavano le vedute prospettiche dei castelli di corte disegnate da Jacques Androuet du Cerceaux, in Italia dovette apparire del tutto nuova l’idea di illustrare, a stampa, il prospetto di un’intera villa moderna. Sta di fatto che il ricordo della veduta prospettica a volo d’uccello di Villa d’Este, dipinta a olio da Dupérac, comprata da Ferdinando de’ Medici nel 1587 e oggi perduta, dovette rimanere ben presente fino al momento in cui Giusto Utens venne incaricato di realizzare la serie di lunette raffiguranti le ville medicee, che rispettano, non a caso, la stessa convenzione prospettica e rispondono allo stesso intento illustrativo. Il consapevole richiamo all’esempio di Dupérac, e ad una delle ville più famose dell’Europa del tempo, è perciò molto significativo.
Fig. 3 Etienne Dupérac, Il sontuosissimo et amenissimo palazzo et giardini di Tivoli. Roma 1573.
Ed è molto significativo anche il fatto che del putto comprato insieme al dipinto di Dupérac, di lì a poco registrato a Villa Medici, si sarebbe ben conservato il ricordo della illustre provenienza: «uno putto di marmo che piange con un canino in braccio con pero insieme co’ altri arnesi dalli eredi dell’Illustrissimo Signor Cardinale da Este sotto dì 12 di maggio 1587 a Roma»85. Tra questi «arnesi», come apprendiamo dal confronto tra l’inventario di Villa Medici e i registri estensi, dovevano essere capitate le cose più varie, come per esempio «quattro carte da navichare in carta pergamena tirate in sulle cornice di noce comperate insieme con altre cose dalli eredi dell’Illustrissimo Signor Cardinale da Este sino sotto dì 11 di maggio 1587 a Roma»
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ASF, Guardaroba Medicea, 79, c. 34s.
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(provenienti dalla vendita della mobilia del palazzo di Monte Giordano) 86. Quanto alla serie di «cinque paesi», capitati tra questi «arnesi», forse non sarà possibile avanzare alcuna identificazione: che essi fossero di fattura anversese non è difficile immaginare, dato che da Anversa il cardinale Ippolito d’Este aveva a più riprese mandato a ritirare numerosi paesaggi a olio, fin dagli anni del soggiorno francese (1536-1549)87; in un elenco di dipinti da lui portati a Roma dalla Francia nel 1550 troviamo infatti così citata, insieme alle carte geografiche, una prima serie di cinque «paesi» nordici, chissà se proprio quei cinque che sarebbero finiti nelle mani di Ferdinando de’ Medici (ricordati appunto nei registri di vendita, il 14 luglio 1587, come «cinque paesi rotti et una carta stampata»88): La descriptione del mondo dipinta a vari colori in tela grande. La descriptione del mondo in carta pecora grande scritta a mano e miniata con oro. [c. 35] Alpinarum regionum descriptio stampata in tela a vari colori. Un quadro di Fiandra con la fabula de Daphinede [sic]. Un quadro di Fiandra con Medusa e Perseo. Un quadro di Fiandra col ratto di Ganimede. Un quadro di Fiandra con la fabulla di Syla e Minos. Un quadro di Fiandra con l’incendio di una città. La descriptione del mondo di Orontio stampata in tela a varii colori. [...] Instrumentorum novum utriusque luminaris stampato in tela a vari colori. [...] Un quadro di Fiandra a paese col tellaro89.
Queste veloci citazioni richiamano alla mente le consuete vedute selvose dove si ambientavano piccole figure mitologiche dipinte alla maniera dei discepoli anversesi di Joachim Patinier, verso il cui esempio avevano da tempo saputo guardare, nelle aperture di paese dei loro quadroni, anche i pittori estensi, da Garofalo ai Dossi e Girolamo da Carpi, mentre a Ferrara la pittura diventava sempre più provinciale, nel contesto ormai europeo della geografia artistica. Il «quadro di Fiandra con l’incendio di una città», qui sopra citato, sembra riconducibile alla tematica, piuttosto ricorrente tra quei pittori, delle Distruzioni di Sodoma, tematica che in Italia si apprezzava particolarmente in considerazione degli effetti di resa fenomenica che, secondo gli argomenti messi in gioco nelle dispute teoriche sul «paragone», erano ritenuti prerogativa dell’arte pittorica, tanto più perché tali effetti erano ritenuti
ASF, Guardaroba Medicea, 79, c. 428s. Quanto alle «cose indiane» presenti a Villa Medici nel 1588, cfr. Guardaroba Medicea 790, c. 186v: «In Sala Grande. […] Quadri quattro indiani mezzani di tela con boscaia et uccelli et figure. Quadri dua indeani piccoli con boscaie et uccelli. Quadri quattro in cartapecora in modo di carte da navicare di tutto il mondo con ornamento di noce». Ferdinando trasferì da Roma a Firenze nel 1587 «un libro di pitture dell’Indie […]. Tre libri in carta reale, stampati e coperti di corame verde con oro, che uno tratta della natura degli uccelli, uno de’ pesci e uno della natura delli animali» (BAROCCHI-BERTELÀ 2002, p. 99 nota 343, citando da Guardaroba Medicea 132, c. 484). 87 LESTOCQUOY 1961, pp. 604-605. Sulla provenienza di questi «paesi di Fiandra» comprati da Ippolito d’Este, cfr. OCCHIPINTI 2001, pp. 319-320, 353. Ancora nel 1560 Ippolito inviava nelle Fiandre il suo agente e tesoriere, Galeazzo Beccadelli, incaricandolo di comprare ben altri sedici «paessi a pitture in telle» (ASMo, Camera Ducale, Amministrazione dei Principi, 928, c. 304v). 88 ASMo, Camera Ducale, Amministrazione dei Principi, 176b (intitolato «Giornale d’intrata et uscita di dinar fatta in Roma per l’eredità del signor Cardinale d’Este»), c. 31. Cfr. OCCHIPINTI 1997, pp. 603-604 e nota 10. 89 Cfr. ASMo, Camera Ducale, Amministrazione della Casa, Guardaroba, 169, cc. 28v e sgg. Quadri del genere figuravano sotto l’attribuzione al Civetta per esempio negli inventari di Ranuccio Farnese compilati nello stesso anno 1587: «Due quadretti sopra l’asse sopra il quale è dipinto un naufraggio et un paese, et l’altro un paese fatto a oleo di mano del Civetta con suoi ornamenti et cortine di cendale» (CAMPORI 1870, p. 53); altro paesaggio si trovava nello stesso inventario attribuito a Giovanni Fiamingo, cioè il Soens, che aveva grandemente contribuito all’affermazione del genere a Roma. 86
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impossibili da imitare da parte degli scultori. In tal senso i paesi del Civetta stavano largamente affermandosi nel collezionismo contemporaneo, anche a Roma90. Non sarà per il momento possibile identificare i quadri dell’Ascensione91 e della Natività92, acquistati per la Villa Medici sul Pincio tra i beni di Ippolito d’Este. Con assoluta certezza, invece, siamo risaliti ai quadretti del ferrarese Ludovico Mazzolino, la Strage degli innocenti93 e la Circoncisione94 degli Uffizi, che, trasmessi in eredità a Luigi d’Este, e acquistati dal cardinale Ferdinando de’ Medici nel 1587, sarebbero stati esposti nella Villa sul Pincio dentro l’appartamento privato del padrone95. Scomparso nel 1528, Mazzolino aveva lavorato lungamente al servizio degli Este, e la sua produzione dovette risultare di particolare gradimento ancora nel quarto decennio, se è vero che nel 1535 Ippolito scelse per la propria quadreria, prelevandole dalla guardaroba ducale a Ferrara, ben quattro delle opere del maestro ferrarese, tra cui figuravano, appunto, i due quadretti degli Uffizi. Questi ultimi, in ragione della loro qualità, cioè della loro singolarità di stile, avrebbero suscitato nel corso del XVII secolo, dopo essere stati trasferiti a Firenze, esposti nella Galleria, le attribuzioni più singolari: la Strage degli Innocenti fu creduta una cosa addirittura di Brueghel, ma qualcuno suggerì anche il nome di Gaudenzio Ferrari96; e avrebbe persino meritato, molto dopo, l’attenzione del Roberto Longhi di Officina Ferrarese97. 90 Cfr. la nota precedente. Si veda, per esempio, una Distruzione di Sodoma di Herri met Bles detto il Civetta, al Museum of Fine Arts di Boston (cfr. OCCHIPINTI 1997, p. 604, fig. 61); la resa del fuoco in una veduta era, secondo le dispute contemporanee sul ‘paragone’, un argomento ricorrente a favore dell’universalità della pittura (si pensi già solo a quanto scriveva Baldassar Castiglione: «[Il marmoraro] non può mostrare il color de’ capegli flavi, non il splendere dell’arme, non una oscura notte, non una tempesta di mare, non que’ lampi e saette, non lo incendio di una città, non il nascere dell’aurora di color di rose, con que’ raggi d’oro e di porpora; non può in summa mostrare cielo, mare, terra, monti, selve, prati, giardini, fiumi, città, né case, il che tutto fa il pittore», testo citato e discusso in BAROCCHI 1998, p. 36 e note; inoltre pp. 63-64, per la lettera di Vasari al Varchi, p. 71 per la lettera del Bronzino). 91 Non identificabile, questa Ascensione si trovava nel 1588 a Villa Medici così descritta: «Un quadro d’altare in tela co’ suo telaio grande dipintovi dentro la Scensione del Nostro Signore Iesù compero dalle eredi dell’illustrissimo signor cardinale da Este […] di settembre 1587» (ASF, Guardaroba Medicea, 79, c. 428s, per cui si veda CECCHI 1991, p. 502). Nemmeno siamo in grado di affermare che allo stesso dipinto si riferisca la successiva descrizione inventariale: «Un quadro in tela grande co’ suo telaio dipintovi dentro l’Ascensione di Nostro Signore Iesù Cristo donò Sua Signoria Illustrissima a’ reverendi padri Cappuccini di Bracciano a dì 5 di settembre 1592 […]» (ASF, Guardaroba Medicea, 79, c. 428d), dato che un’Ascensione risultava sempre a Villa Medici nel 1602 (ASF, Guardaroba Medicea, 790, c. 27v: «Un quadro dell’Ascenzione di Cristo dipinto in tella»). 92 «Un quadro in tavola dipinto la Natività di Cristo quando i pastori vanno a offerire con ornamento nero dorato et suo ferro» (ASF, Guardaroba Medicea, 79, c. 194); si troverà ancora a Villa Medici nel 1602 «Uno quadro della Natività di Cristo quando li pastori vanno a offerir dipinto in tavola con adornamento nero tocco d’oro col suo ferro» (ASF, Guardaroba Medicea, 790, c. 21v). 93 OCCHIPINTI 1997, pp. 602-603. Il dipinto compare per l’ultima volta nell’elenco del 1583, tra i beni del cardinale Luigi d’Este a Tivoli (CAMPORI 1870, pp. 46-47: «un quadro depinto in tavola, dentro l’Innocenti, con cornice dorata con grottesche»), prima di essere acquistato da Ferdinando I de’ Medici (CECCHI 1991, p. 502; BAROCCHI-BERTELÀ 2002, p. 83). 94 OCCHIPINTI 1997, pp. 602-603. Prelevata anch’essa dalla ducale guardaroba, a Ferrara, nel 1535, la ritroviamo nel citato Inventario di Monte Giordano nel 1573 (c. 23 «un quadro dipintovi la Circoncisione con cornice di noce»), e infine in quello del cardinale Luigi del 1583 (CAMPORI 1870, pp. 46-47: «un quadro depinto in tavola della Circoncisione corniciato di noce con una cortina d’ermesino cremisi»), prima di essere acquistata da Ferdinando de’ Medici, che la espose nella sua villa sul Pincio (CECCHI 1991, p. 502; BAROCCHI- BERTELÀ 2002, p. 83). 95 ASF, Guardaroba Medicea, 790, c. 192v: nella «seconda camera del detto appartamento» a Villa Medici si trovano il «quadretto in tavola dell’istoria delli Innocenti con ornamento dorato dipinto a groteschi» e (c. 193) il «quadretto in tavola dipinto la Circoncisione di Cristo con ornamento verniciato tocco d’oro»; vedere anche, ASF, Guardaroba Medicea 79, c. 428s: «Un quadretto della Circumcisione con adornamento di noce con pero dalli eredi dell’Illustrissimo Cardinale da Este […]. Un quadretto delli Innocenti chon ornamento di noce coperato chome supra […]». 96 Cfr. PALAZZO VECCHIO 1980, p. 264, scheda 492. 97 LONGHI 1934, p. 69.
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Francesco Grisolia _______________________________________________________________________________
GIUSEPPE PELLI BENCIVENNI E
L’INDICE DI CXXII VOLUMI DI DISEGNI DELLA REAL GALLERIA. GENESI E LETTURA DI UN INVENTARIO «Sono occupato fra pittori» Giuseppe Pelli Bencivenni, Efemeridi, 1782 Diverso da tutti gli altri nella sua idea è il quartodecimo gabinetto, ordinato a foggia di biblioteca; i cui scaffali non molto alti parte girano il recinto delle pareti, parte sono disposti in mezzo. In essi è collocata la doppia raccolta delle stampe e de’ disegni, distribuita in molti volumi legati splendidamente. […] Più singolar cosa è la raccolta de’ disegni, notissima sin da’ tempi del Card. Leopoldo de’ Medici per una delle più doviziose del mondo. È ripartita in censettanta volumi in circa; ottanta di essi han ciascuno un suo proprio autore, e questo de’ più segnalati; il resto son miscellanee d’italiani e di stranieri. Più di quaranta volumi son dovuti alla generosità del R. Sovrano presente. Egli ha fatte in pochi anni ben molte compre in genere di stampe e disegni; e specialmente dalle nobili Case Gaddi e Michelozzi; e dalla eredità Hugford, che ha forniti al gabinetto assai disegni di moderni. Così la serie che non si era supplita da lungo tempo è divenuta assai piena: comincia da Cimabue e dalla infanzia della pittura; e scendendo per le altr’età, termina con due grandi luminari di questi ultimi anni, Battoni e Mengs1.
In questi termini Luigi Lanzi descriveva, nella sua Real Galleria degli Uffizi, il Gabinetto dei disegni e delle stampe e riassumeva, benevolo, l’operato di Giuseppe Pelli Bencivenni, nominato direttore nel 1775. La sistemazione «a foggia di biblioteca» di tanti volumi «legati splendidamente», nei quali erano conservati i disegni e le stampe provenienti dalla illustre collezione medicea e dalle acquisizioni di epoca lorenese, era il risultato parziale e più evidente di una gestione sistematica, che non aveva precedenti nel museo fiorentino2. L’immagine offerta dall’’aiutante’ Lanzi illustra, in una sintesi esemplare, la situazione della collezione di grafica e rende merito al faticoso lavoro di ordinamento intrapreso dal nuovo direttore fin dal suo ingresso agli Uffizi: Il punto sarà ben’esaminato e discusso dal più volte rammentato con lode direttor Pelli; che dopo aver dato a tutto il gabinetto il bell’ordine, che vi si vede, ha composto un dettagliato catalogo di quanto racchiude; e delle cose migliori darà notizia al pubblico in una erudita opera, che va preparando3.
Questo contributo è parte di uno studio specifico sulla collezione Hugford. Sono particolarmente grato a Marzia Faietti, Direttrice del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, per aver sostenuto e stimolato la mia ricerca e gli approfondimenti sull’inventario di Giuseppe Pelli, oggetto di questo intervento. Ringrazio Paola Barocchi e Miriam Fileti Mazza per aver scelto di includere questo studio nella rivista della Fondazione Memofonte. Ringrazio inoltre il personale del GDSU e della Biblioteca degli Uffizi per la generosa collaborazione quotidiana. 1 LANZI 1782, pp. 148-150. 2 Sulla figura di Giuseppe Pelli Bencivenni e il suo contributo alla moderna organizzazione museale della Galleria degli Uffizi si rimanda ai primi interventi di Paola Barocchi, Fabia Borroni Salvadori e Giovanna Gaetà Bertelà (BAROCCHI 1982; BORRONI SALVADORI 1983a; BAROCCHI-GAETA BERTELÀ 1991) e ai recenti contributi di Miriam Fileti Mazza e Bruna Tomasello (FILETI MAZZA-TOMASELLO 2000; FILETI MAZZATOMASELLO 2003; FILETI MAZZA 2004; FILETI MAZZA-TOMASELLO 2005; FILETI MAZZASPALLETTI-TOMASELLO 2008; FILETI MAZZA 2009, pp. 44-78). Sul personaggio si veda anche CAPECCHI 2006, con ulteriore bibliografia. Per la storia del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, sui disegni e sulle collezioni si veda FORLANI TEMPESTI 1973-1974, FORLANI TEMPESTI 1980 e FORLANI TEMPESTI 1983. 3 LANZI 1782, p. 155.
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Giuseppe Pelli Bencivenni e l’Indice di CXXII Volumi di Disegni della Real Galleria _______________________________________________________________________________
Prima di prendere in esame l’ultimo inventario di disegni compilato dall’incensato Pelli, l’Indice di CXXII volumi di disegni della Real Galleria, relativo in gran parte ad acquisizioni dal 1769 al 1785 ed ora disponibile in una trascrizione completa, è opportuno un rapido excursus sui fatti che lo precedono4. Giuseppe Pelli aveva abbracciato e portato avanti l’idea, già avanzata dal suo predecessore Raimondo Cocchi, di dare alle stampe una descrizione dettagliata dell’intera Galleria degli Uffizi, un Inventario generale diviso in tipologie, o ‘classi’. Tra queste anche un «Catalogo dei disegni della nobilissima raccolta che è in Galleria»5. L’opera presupponeva un faticoso e complesso programma inventariale e il nuovo direttore era consapevole che tale lavoro avrebbe occupato «certo tutto il rimanente dei miei giorni, per genio e per dovere, se qualche fatalità non me lo impedisca, vedendomi come io sono dal caso sbalzato in diversi mari»6. Allo stesso modo comprendeva le esigenze conservative dei preziosi fogli, ordinati in libri fin dai tempi del cardinal Leopoldo de’ Medici e di Filippo Baldinucci. Alcuni volumi erano in attesa di «qualche risarcimento», a causa di molti disegni liberi di circolare in pericolosi fogli sciolti, soggetti a danni, smarrimenti e furti 7. I tomi medicei, come noto, si presentavano divisi in due categorie. La maggior parte raccoglieva disegni dello stesso artista, i cosiddetti ‘Particolari’, numerati in ordine cronologico per autore o, per usare le parole dello stesso Baldinucci, «secondo la successione degli artefici, cronologicamente disposta e compartita», in un inquadramento di dichiarata ispirazione storiografica. I restanti, gli ‘Universali’, anch’essi ordinati su basi cronologiche, riunivano fogli di autori diversi8. Ancora a Baldinucci si dovevano i primi tentativi di catalogazione del patrimonio grafico così organizzato, ovvero le note listre di disegni, dove in un elenco alfabetico per artista era riportata la quantità dei rispettivi pezzi, e la Nota de’ libri de’ disegni del 1687, fondamentale per la ricostruzione del fondo mediceo9. È su queste basi che si proseguì, nei decenni successivi, a conservare i disegni e a compilarne gli inventari, fino a quelli del 1769 e del 1773, i più vicini a Giuseppe Pelli e da lui ampiamente indagati 10. Il 5 agosto 1775 annota nel suo diario: INDICE CXXII VOLUMI DISEGNI 1784. La trascrizione completa è consultabile in FILETI MAZZA 2009, Appendice XV. Su questo importante inventario si veda: BORRONI SALVADORI 1983b, pp. 1052-1053; GAETA BERTELÀ 1987, p. 521, nota 3; AGOSTI 2001, Post scriptum, pp. 475-476; PETRIOLI TOFANI 2005, p. XIII; GRISOLIA 2008; GRISOLIA 2009; FILETI MAZZA 2009, pp. 52-55. 5 EFEMERIDI, s. II, III, 1775, c. 464v, 19 maggio. Le Efemeridi di Pelli sono consultabili, fino all’anno 1790, su www.bncf.firenze.sbn.it/pelli/it/progetto.html. 6 EFEMERIDI, s. II, III, 1775, c. 464v, 19 maggio. 7 «Finalmente ho riconosciuto che alcuni dei molti libri di disegni originali di eccellenti maestri, che come un deposito famoso esistono in questo luogo alla mia direzione affidato dalla clemenza della R.A.V., hanno bisogno di qualche risarcimento» (Archivio Storico Galleria degli Uffizi (AGU), Filza IX, n. 68, lettera di Giuseppe Pelli Bencivenni a Pietro Leopoldo, 20 luglio 1775). Oltre tre anni dopo scriverà: «Disegni esistenti nella Galleria. Chi vedrà la collezione dei disegni, e delle stampe della Real Galleria acquistate a mio tempo mi accuserà d’ignoranza, onde bisogna che prenda memoria di come stanno le cose. Baldinucci fece già una distribuzione dei disegni, come dico nella mia Storia, e la sua raccolta che aveva in consegna Lorenzo Gualtieri Dispensatore Maggiore venne nel 1700. 4.746 rifiuti dei libri, schizzi, copie ecc. furono mandati allo scrittoio della Galleria, e della Real Cappella in mano a Francesco Ambrogi scrivano (Archivio della Guardaroba). Questa raccolta è in volumi pesanti, e scomodi, e sono pieni. Quei disegni adunque i quali sono venuti a mio tempo gli ho fatti legare in libri, doppo avere aggiunti ai vecchi quei pezzi che ho trovati sciolti» (EFEMERIDI, s. II, VI, 1778, c. 1062, 24 novembre). 8 Dell’ampia bibliografia sulla collezione del cardinal Leopoldo e l’ordinamento di Filippo Baldinucci si veda: BAROCCHI 1982; CHIARINI DE ANNA 1982a; CHIARINI DE ANNA 1982b; GAETA BERTELÀ 1982; GAETA BERTELÀ 1987. 9 BALDINUCCI 1673-1675; NOTA DE’ LIBRI DI DISEGNI 1687. 10 INVENTARIO DISEGNI 1769: www.memofonte.it/home/files/pdf/disegni_inventario1769.pdf e in FILETI MAZZA 2009, Appendice X. Il ‘riscontro’ inventariale del 1773 fu stilato alla morte del direttore Giuseppe Querci (ASF, CC 79, fasc. II, 15 febbraio 1773). Sui due inventari si veda FILETI MAZZATOMASELLO 1999, p. 72 e FILETI MAZZA-TOMASELLO 2003, p. 46. 4
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Catalogo dei disegni della Galleria. Ho fatto un saggio dell’accennato catalogo dei disegni della Real Galleria principiando dal tomo che racchiude quelli di fra Bartolommeo della Porta, segnato di num. 1, ed a quest’effetto ho letto quello che scrive il Vasari, ed il Baldinucci semplice copiatore del primo. Questo saggio mi è riuscito bene, ma la cosa sarà lunga, e penosa. Finita che sia riuscirà dotta, piacevole ai professori, comoda, ed utile per assicurare l’interesse del Real Padrone anche in questa parte strapazzato dalla scelleratezza di Giuseppe Bianchi, il quale dubito forte che vendesse alcuni dei disegni ch’erano sciolti, e che io farò accomodare nei loro libri, giacché trovo esserne mancati prima del generale inventario del 176911.
Da queste parole emergono chiari i propositi del nuovo direttore e il suo primo approccio metodologico, che non poteva prescindere da un costante supporto storiografico e dalle istanze di tutela e fruibilità già menzionate. La sistemazione in volumi fu mantenuta e il restauro affidato ad Andrea Baragli, libraio di fiducia. Baragli si occupò anche, su iniziativa dello scrupoloso e lungimirante direttore, di «legare in cinque o sei filze i fogli di questo dipartimento, che ho trovati tutti sciolti e confusi, e dei quali ho già formato un indice per serie di tempo, minuto ed esatto», dando origine al fondamentale archivio storico di cui era priva la Galleria12. Esaminati gli inventari, ordinati i documenti e ‘risarciti’ i vecchi libri, ebbe inizio una scrupolosa catalogazione, che richiese un decennio di lavoro (Tabella 1). INVENTARIO
PERIODO DI COMPILAZIONE
PERIODO DI ACQUISIZIONE DEI DISEGNI DESCRITTI
Indice alfabetico dei disegni della R. Galleria. Parte I.
Agosto 1775Febbraio 1780
Fondo mediceo-1769
Marzo 1780-1784
1769-1784 Gli inserti n. 83, 84, 105-107, 176-182: ante 1769. Tomi I-III (copia): Fondo mediceo-1769. Tomo IV: indice riassuntivo dei volumi di disegni nel 1784. Indice riassuntivo dei volumi di disegni nel 1784.
(Firenze, Biblioteca Uffizi, ms. 463/3/1,2)
Indice di CXXII Volumi di Disegni della R. Galleria. Parte II. (Firenze, BU, ms. 463/3/3)
Inventario generale dei disegni.
1780ca-1784
(Firenze, GDSU, ms. 102)
Libri di disegni esistenti nei banchi, in Inventario generale della R. Galleria, Classe III, Disegni, stampe e Libri.
Terminato nel 1784
(Firenze, BU, ms. 113)
Tabella 1 Quadro sinottico degli inventari di disegni di Giuseppe Pelli Bencivenni
La grande novità rispetto ai precedenti inventari fu nell’analitica descrizione dei disegni, presentati in ordine alfabetico per artista e con la collocazione all’interno dei rispettivi volumi. Il nuovo Indice alfabetico dei disegni della R. Galleria costituisce, dunque, il primo catalogo descrittivo dei disegni degli Uffizi13. Compilato in due tomi, fu in seguito ricopiato in una nuova e più ordinata stesura dal titolo Inventario generale dei disegni, con poche varianti e integrata EFEMERIDI, s. II, III, 1775, c. 499, 5 agosto. AGU, Filza IX, n. 68, lettera di Giuseppe Pelli Bencivenni a Pietro Leopoldo, 20 luglio 1775. Cfr. FILETI MAZZA-TOMASELLO 2003, pp. 14-15. 13 INDICE DISEGNI 1775-1780. 11 12
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di un indice di tutti i volumi di disegni aggiornato al 178414. È questa la versione più nota e consultata dell’Indice alfabetico, conosciuta anche come ms. 102, che fu «ideato dal Direttore della Galleria nel maggio del 1775, iniziato nell’agosto successivo e terminato nel 1784». Questa bella copia non prendeva ancora in considerazione le importanti acquisizioni effettuate da Pelli, né quelle di poco precedenti la sua nomina, a partire almeno dal 1769. Ai due tomi della prima stesura, tuttavia, ne era affiancato un terzo (Fig. 1): Indice di CXXII Volumi di Disegni della R. Galleria. Parte II. Sono un seguito dei volumi descritti nella prima parte, di disegni per lo più acquistati da S.A.R. e questi disegni devono essere richiamati nell’Indice alfabetico che compone detta prima parte. La quale va dal n. I al n. CVI dei volumi della raccolta, meno i n. 83, 84, e 105 duplicato. I volumi si possono ritrovare col numero corrispondente all’Inventario del 1784 nell’Indice generale dei medesimi15.
Fig. 1 Giuseppe Pelli Bencivenni, Indice di CXXII volumi di disegni della Real Galleria, Firenze, Biblioteca degli Uffizi.
La natura dell’Indice di CXXII volumi di disegni della Real Galleria è dichiarata fin dal frontespizio e si rivela, alla luce di quanto ricostruito, pienamente comprensibile. Il codice pelliano prende ancora in esame i singoli disegni, ma in questo caso ordinati per volume, in previsione di essere ‘richiamati’ all’interno dell’Indice alfabetico con adeguate integrazioni. Gli esemplari descritti erano in gran parte il risultato delle accessioni più recenti e il direttore decise di catalogarli in un secondo momento e in separata sede rispetto a quelli conservati nei vecchi volumi. La veloce crescita della raccolta non avrebbe permesso una compilazione
INVENTARIO GENERALE DISEGNI 1775-1784: www.memofonte.it/home/files/pdf/invdispdf.pdf. Per un’analisi dell’inventario e un confronto con la bozza si rimanda a FILETI MAZZA 2009, pp. 52-53. In proposito si veda anche CHIARINI DE ANNA 1982b, pp. 152-154. 15 INDICE CXXII VOLUMI DISEGNI 1784, c. 1. 14
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costante e ordinata e Pelli non aveva intenzione di mescolare i nuovi esemplari con i disegni conservati nei tomi baldinucciani, in attesa della loro prima, sistematica catalogazione16. Nel marzo del 1780 ricordava la conclusione della prima parte dell’Indice, «avendo finito di descrivere tutt’i disegni ch’erano già alla R. Galleria, e riserbandomi a fare lo stesso degli altri sopravenuti in tempo migliore»17. Trascorsi oltre due anni, nell’agosto 1782 annotava: Mi occupo attualmente a finire l’indice dei disegni fatti da me legare, perché acquistati a mio tempo, avendo già più di due anni sono abbozzato quello degli antichi volumi aggiustati dal Baldinucci. Il lavoro è seccante, onde lo faccio a poco alla volta, nel mentre che rivedo correggo, termino il catalogo delle pitture18.
Sembra, dunque, che l’impegnato direttore avesse terminato la bozza della prima sezione già nel 1780, data che circoscrive il periodo di inventariazione dei vecchi libri a meno di cinque anni (agosto 1775-febbraio 1780). Nei successivi quattro fece realizzare la bella copia, completa di indici, e, soprattutto, concluse la descrizione dei nuovi disegni, il tutto alternato ai numerosi impegni di Galleria. Pelli non aggiornò mai i primi tre tomi dell’Inventario generale dei disegni del 1775-84 con le descrizioni presenti nella seconda parte della bozza. Al termine del quarto e ultimo tomo, tuttavia, ne elencò i volumi nell’indice riassuntivo, intitolato Indice di altri libri di disegni di vario genere nella R. Galleria, affiancandovi una breve descrizione, in modo da poterli lì «ritrovare col numero corrispondente»19. Questa lista, in aggiunta all’elenco dei Libri di disegni esistenti nei banchi, inserito nell’Inventario generale della Real Galleria20, consente di ricostruire la struttura di base del nostro Indice di CXXII volumi e di comprendere identità e fisionomia di determinati volumi21. Passiamo a esaminare l’impalcatura dell’inventario. L’Indice di CXXII volumi di disegni si presta a interpretazioni fin dall’intestazione, che costituisce, una volta compresa, una sorta di avviso per la consultazione, essenziale ed esauriente. Il numero dei volumi, ad esempio, è stato «Gli acquisti sono successi di mano in mano onde non ho potuto classare se non quelle partite che si compravano, e se vi erano delle cose inferiori bisognava che le serbassi con le altre. Il tener queste partite sciolte era un seppellirle. In un luogo pubblico non si possono tali cose tenere sciolte, perché o si guastano, o si sperdono, e classandole di volta in volta col tempo costituiscono un vero caos. Ma bisogna sacrificare questo inconveniente al buon servizio. Un privato deve tenere in portafogli le cose che mette assieme, per inserire ai propri luoghi quello che gli accade di ritrovare alla giornata, e se la collezione del Granduca si potesse tenere come quella di un particolare averei usato il medesimo metodo. Col tempo però se mai si facessero dei grossi acquisti si possono smontare i volumi, e riclassargli» (EFEMERIDI, s. II, VI, 1778, cc. 1062-1062v, 24 novembre). 17 EFEMERIDI, s. II, VIII, 1780, c. 1357, 4 marzo. 18 EFEMERIDI, s. II, XX, 1782, c. 1851v, 22 agosto. 19 INVENTARIO GENERALE DISEGNI 1775-1784, vol. IV. Il numero corrispondente di cui scrive Pelli nel frontespizio del nostro codice è la segnatura aggiuntiva e classificatoria per il nuovo ordinamento dei volumi di disegni, dei quali conserva anche la distinzione per Universali e Miscellanee, Piccoli, Mezzani, Grandi e Stragrandi, più dispersiva. 20 INVENTARIO VOLUMI DISEGNI 1784: www.memofonte.it/home/files/pdf/disegni_inventario1784.pdf e in FILETI MAZZA 2009, Appendice XIII. Pelli elenca qui anche i disegni incorniciati e appesi alle pareti e segnala per ogni volume le eventuali integrazioni dei fogli sciolti, rinviando sempre alla segnatura dell’inventario del 1769 (INVENTARIO DISEGNI 1769), con il quale effettua un utile riscontro. Lo stesso inventario del 1769 rimandava alle segnature che contrassegnavano i volumi nel precedente catalogo, risalente al 1704. Cfr CHIARINI DE ANNA 1982b, p. 152, nota 20. 21 Precoci tentativi di lettura del manoscritto e di identificazione delle collezioni di provenienza sono in BORRONI SALVADORI 1983b, pp. 1051-1053 e GAETA BERTELÀ 1987, p. 521, nota 3, quando, tuttavia, non erano ancora stati chiariti alcuni fattori problematici, come il documentato smembramento dei volumi originari e la creazione dei nuovi, avvenuta in momenti diversi e ancora da ricostruire, volume per volume. In proposito cfr. BORRONI SALVADORI 1983b, p. 1051. Le identificazioni di tutti i disegni descritti negli inventari di Giuseppe Pelli sono in corso da parte di Annamaria Petrioli Tofani, che ringrazio per la disponibilità. 16
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cancellato due volte e le cifre precedenti sono di difficile lettura. Queste correzioni testimoniano il progressivo e non facile aggiornamento del catalogo e anche l’ultimo «CXXII», a ben contare, non è definitivo. I libri descritti sono, infatti, centoventitre, per un totale di oltre diecimila disegni, all’epoca circa metà della raccolta. La numerazione parte dai nn. 83 e 84, per poi passare al n. 105 e da qui prosegue, senza interruzioni, fino al n. 225, ovvero il totale dei volumi di disegni nel 178422. Nell’indice riassuntivo dell’Inventario generale dei disegni, tuttavia, ne sono elencati altri tre, segnati di n. 226, 227 e 228, che vanno idealmente a completare la collezione23. Non riportati in nessuno dei tre tomi dell’Indice, erano conservati nello stanzino del direttore, come emerge dal confronto con l’inventario generale della Galleria, e contenevano recenti disegni di vasi, antichità e bronzi della collezione24. È necessario, a questo punto, chiarire il riferimento alla prima parte dell’Indice chiosato nel frontespizio, «la quale va dal n. I al n. CVI dei volumi della raccolta, meno i n. 83, 84, e 105 duplicato». L’ipotesi di lettura è che i tre volumi citati e il n. 106, i primi ad essere descritti nella seconda parte, dovevano essere considerati come appartenenti alla prima, anche se le descrizioni dei disegni non vi erano ancora state tutte inserite o, lo vedremo, proprio per questa ragione. Lo si ricava anche da una nota di Pelli su di una piccola carta, un tempo incollata prima dell’inserto 107: «Qui deve principiare la p[arte] II»25. Occorrono alcuni dettagli tecnici per comprendere quanto avvenuto. Per il tomo al n. 105 leggiamo: «Nel volume intitolato Miscellanea XXII. Disegni uno per maestro. I disegni sono numero come appresso. L’ho copiato anche a parte per nomi dei professori»26. Il «duplicato» riferito a questo libro si spiega con il fatto che le descrizioni dei disegni erano già state inserite nella prima parte e sono qui ripetute, come è possibile verificare per ogni artista. La Miscellanea XXII, inoltre, ultima dei vecchi Universali, era presente già nell’inventario del 1769, ma fu fatta integrare da Pelli di altri vecchi fogli, come si precisa nell’Inventario generale del 178427. Se il n. 105 ‘duplicato’, con 257 disegni, rientra quindi di diritto nella prima parte dell’Indice, per i nn. 83, 84 e 106, ossia i volumi LII e LIII dei ‘Piccoli’ e l’Universale XXIII, la situazione è differente.
La cifra, a differenza dei 170 volumi menzionati da Lanzi, aggiornato a prima del 1782, corrisponde a quella riportata dallo Zacchiroli nella sua Galerie de Florence, stampata nel 1783, dove i disegni erano descritti come «contenus dans plus de deux cent vingt grands volumes» (ZACCHIROLI 1783, p. 54). In merito all’inserto n. 83, si segnala una correzione da apportare alla trascrizione pubblicata in FILETI MAZZA 2009, Appendice XV, c. 3, dove è invece riportato il n. 80: Pelli era solito scrivere le cifre tre e zero in maniera molto simile e il n. 83, in questo caso, corrisponde a quanto dichiarato nel frontespizio. 23 INVENTARIO GENERALE DISEGNI 1775-1784, vol. IV, nn. 226-228: «226. Volume uno di disegni dei vari artisti del Gabinetto della R. Galleria; 227. Altro simile dei bassorilievi voti, lucerne ecc., di detto Gabinetto; 228. Volume uno di disegni di bronzi antichi del R. Gabinetto». 24 INVENTARIO VOLUMI DISEGNI 1784, Stanza del Direttore, nn. 310-312: 310. Un libro coperto di carta marizzata di c. 20 in foglio, contenente i disegni di alcuni vasi antichi di terra esistenti nel Gabinetto della R. Galleria; 311. Uno detto simile di c. 47 intitolato Disegni, di alcuni pezzi figurati di terra del medesimo R. Gabinetto. 312. Un volume coperto di cartapecora bianca di c. 154 intitolato Disegni de’ bronzi antichi inediti del R. Gabinetto, fatti da Francesco Marchissi. Vol. I». 25 INDICE CXXII VOLUMI DISEGNI 1784, c. 34/1. La stessa affermazione è ripetuta in INVENTARIO GENERALE DISEGNI 1775-1784, vol. IV, n. 245, 107: «A questo numero deve principiare la seconda parte dell’Indice». 26 INDICE CXXII VOLUMI DISEGNI 1784, c. 9. In INVENTARIO GENERALE DISEGNI 1775-1784, vol. IV, Pelli registra l’intero volume indicando solo i nomi degli artisti, affiancati dal numero dei disegni. 27 In INVENTARIO DISEGNI 1769, n. 3495, leggiamo: «Uno detto simile [Miscellanea di scolari diversi] segnato di n. XXII, cartolato da 1 a 79, entrovi numero 174 disegni, numero 158 maestri. Inventario suddetto n. 2666». In INVENTARIO VOLUMI DISEGNI 1784: «133. Uno detto simile intitolato come sopra [Miscellanee di scolari diversi], di c. 79, e segnato di n. XXII, entrovi dugentocinquantanove disegni di centoottantasette maestri, dei quali centosettantatre sono di centosettantadue maestri, benchè nell’inv. suddetto n. 3495 ne siano stati notati centocinquantotto (credesi per errore) e ottantasei ne sono stati aggiunti di quindici maestri, cioè […]» 22
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Di questi tre tomi non c’è traccia negli inventari precedenti e l’unico aiuto è offerto, ancora una volta, dallo zelo esibito da Pelli nei suoi cataloghi manoscritti. Al n. 106 del nostro codice scrive: «Universale XXIII. Segnato di n. 3585. Disegni 69 di autori incogniti»28. Proprio al n. 3585 dell’inventario del 1769 troviamo, tra i libri delle stampe, tre tomi di carte bianche, uno grande e due più piccoli29. Furono sfruttati dal direttore per raccogliere alcuni dei disegni trovati sciolti, mentre gli altri erano già stati tutti accomodati nei volumi esistenti30. Unici tomi ‘nuovi’ contenenti disegni medicei o ante 1769, ultimi arrivati anche nelle rispettive numerazioni dei Piccoli e degli Universali, furono segnati di n. 83, 84 e 106 e descritti nella seconda parte dell’Indice dei disegni, anziché nella prima, nella quale erano però contemplati. Già Gloria Chiarini osservava, a proposito dell’Inventario generale dei disegni del 1775-84, che «tutti gli inserimenti compiuti nei volumi tra il 1769 e il 1784 (841 pezzi) sono pienamente identificabili controllando l’inventario dell’84, mentre i tre volumi che, rimasti vuoti, erano stati riempiti con i disegni sciolti, non vengono descritti, così come tutti quei libri aggiunti alla collezione originaria fin dal 1769» 31. Adesso, dopo l’acquisizione del nuovo Indice di CXXII volumi, dopo aver ricostruito il percorso di questi tre libri, è possibile identificare, in base alle descrizioni pelliane, i disegni che raccoglievano e restituirli al fondo mediceo o ai non molti ingressi di prima età lorenese. Voltando pagina, approdiamo al volume che doveva dare avvio alla seconda parte, il noto Dante istoriato di Federico Zuccari (Fig. 2) che, tuttavia, accoglieva appena quattro pezzi di nuova acquisizione32. Giudicato meritevole di essere descritto «a parte», al libro si rinviava già nella porzione alfabetica dell’Indice33. Con l’eccezione di quattro fogli, era già segnalato, come precisa Pelli, nell’inventario del 1769: «È col numero 3598. Nell’Inventario del 1769 erano 83. Nel 1778 ne feci aggiunger quattro, cioè i due notati nel ristretto a carta 70 e due altri trovati di poi»34.
INDICE CXXII VOLUMI DISEGNI 1784, Ins. 106, c. 29. INVENTARIO DISEGNI 1769, n. 3585: «Tre libri di carta imperiale, bianche, coperte di sommacco rosso, filettati d’oro, che uno lungo braccia 1 soldi 8 e largo soldi 19 e due lunghi soldi 18 e larghi 2/3». 30 Negli indici riassuntivi all’interno degli inventari Pelli leggiamo degli spostamenti dei vari disegni. Sono informazioni fondamentali per risalire, sfruttando l’inventario del 1769, il riscontro del 1773, l’inventario del 1703 e i cataloghi precedenti, alla collocazione dei pezzi nei volumi baldinucciani, leopoldiani e medicei in genere, o ai pochi ingressi ante 1769. Nell’INVENTARIO VOLUMI DISEGNI 1784, nn. 134, 186, 187: «134. Uno detto simile segnato di n. XXIII, di c. 78, entrovi sessantanove disegni di autori incerti. Il detto libro era in carta bianca e viene dall’inv. suddetto n. 3585 e cinquantatre dei suddetti disegni vengono dal n. 3767, essendo gli altri sedici aggiunti» (è il nostro n. 106); «186. Uno detto simile segnato di n. LII, lungo soldi 18, largo 2/3, di c. 56, entrovi settantasei disegni di tre maestri. Il libro, che prima era bianco, viene dall’inv. suddetto n. 3585 e i disegni, settanta sono del n. 3641, uno del 3678 e cinque del 3623 e sono gli appresso cioè: Domenico Passignano 70, Mariotto Albertinelli 1, Guercino da Cento 5. In tutti n. 76» (è il n. 83); «187. Uno detto simile segnato di n. LIII, di c. 56, entrovi quarantadue disegni, dei quali alcuni sono col nome dell’autore. Il detto libro era prima bianco e viene dall’inv. n. 3585 e i disegni sono il residuo del n. 3767 a quali ne è aggiunto uno» (è il n. 84). Nell’INVENTARIO GENERALE DISEGNI 1775-1784, vol. IV, n. 106: «106 Universale XXIII n. 3585. 134, era uno dei tomi di carte bianche legate nell’inventario generale, t. II, a c. 603. Contiene 76 disegni di: Domenico Passignani 70; Mariotto Albertinelli 1; Guercino da Cento 5». 31 Cfr. CHIARINI DE ANNA 1982b, p. 154. 32 INDICE CXXII VOLUMI DISEGNI 1784, Ins. 107, cc. 34-44. I disegni i nn. inv. 3474 F-3561 F GDSU. Sulle vicende di questo volume e alcune testimonianze pelliane si veda FILETI MAZZA-TOMASELLO 2000, pp. 274-275; FILETI MAZZA TOMASELLO 2003, pp. 46-47 e FILETI MAZZA 2009, pp. 53-54. Si veda inoltre BRUNNER 1993; DANTE ISTORIATO 1999. 33 INVENTARIO GENERALE DISEGNI 1775-1784, nella voce dedicata a Federico Zuccari leggiamo: «Studi per i disegni che Federigo fece per l’Inferno di Dante dipinto nella cupola del Duomo. Quello di n. 96 è propriamente simile a quelli che sono nell’altro che si descriverà a parte ed è grande». 34 INDICE CXXII VOLUMI DISEGNI 1784, Ins. 107, c. 34. 28 29
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Giuseppe Pelli Bencivenni e l’Indice di CXXII Volumi di Disegni della Real Galleria _______________________________________________________________________________
Fig. 2 Federico Zuccari, Dante, Virgilio e i Giganti, Firenze, GDSU, 3500 F.
I cinque tomi fin qui citati non erano i soli ad accogliere esemplari di più antica quanto incerta provenienza. Verso la fine del manoscritto, dall’inserto n. 176 al n. 182, scopriamo sette volumi di disegni di architettura, per i quali Pelli indica una segnatura, da n. 3600 a n. 3606, che corrisponde a quella dell’inventario del 1769, dove, infatti, furono descritti. Questi disegni, 762 pezzi, si vanno così ad aggiungere al gruppo che avrebbe dovuto far parte della prima parte dell’Indice35. I primi tre volumi accoglievano gli studi architettonici della Città ideale di Bartolomeo Ammannati (Figg. 3-4) e copie, eseguite dall’architetto Giovan Battista Nelli, dagli originali dello stesso Ammannati o dalla sua scuola, mentre il quarto, sempre del Nelli, disegni delle architetture e delle sculture di Michelangelo per la chiesa di San Lorenzo36. I rimanenti tre tomi contenevano disegni misti di antichità37. Dodici volumi di disegni, dunque, per un totale di circa 1290 pezzi, risalgono ad acquisizioni precedenti il 1769. Ne deriva che per essi, da un punto di vista documentario e Pelli li fa precedere, infatti, alla sua indicazione posta nell’INVENTARIO GENERALE DISEGNI 17751784, a ricordare l’inizio previsto per la seconda parte dell’Indice (cfr. nota 25). 36 INDICE CXXII VOLUMI DISEGNI 1784, Inss. 176-179, cc. 306-310: «176. Libro di piante di chiese ed altre fabbriche, in foglio. Segnato di n. 3601. Principia con la facciata di un tempio dedicato a S. Matteo, e questi disegni sono della scuola dell’Ammannati e furono copiati da Giovan Battista Nelli, nel volume segnato 3603»; «177 e 178. Segnato n. 3602. Città ideale di Bartolomeo Ammannati. O piuttosto disegni di fabbriche»; «Segnato n. 3603. Raccolta di disegni d’architettura di Bartol. Ammannati fiorentino, copiati da me G.B.N. Di pagine 109. Giovan Battista Nelli è il padre del senator Clemente, ancor esso senatore, operaio del Duomo e bravo ingegnere»; «179. Segnato n. 3604. Opere di architettura di Michelagnolo Buonarroti fatte per San Lorenzo di Firenze, misurate e disegnate da Giovan Battista Nelli al serenissimo Ferdinando principe di Toscana». Sul trattato della Città ideale di Bartolomeo Ammannati, i disegni (inv. nn. 3382 A-3464 A GDSU) e le copie di G.B. Nelli agli Uffizi si veda FOSSI 1970. 37INDICE CXXII VOLUMI DISEGNI 1784, Inss. 180-182, cc. 312-316 «180. Segnato n. 3600. Volume in foglio di vari disegni di antichità in numero di 277. Nell’Inventario intitolato Museo»; «181. Segnato n. 3605. Libro in quarto di disegni diversi di antichità ed altro, e sono carte n. 126 con disegni. […] Nella maggior parte vi è notato d’onde il tutto è preso, e pare che siano studi di qualche dilettante presi sul luogo»; «182. Segnato n. 3606. Disegni di vedute ecc. in quarto, n. 61. Sono per lo più qualche pezzo di antichità come a 14 ecc., qualche paese come a 7, 11, 47 ecc., e dal n. 48 in poi vi sono alcuni disegni del Virgilio vaticano ecc. Fino a 53 sono a penna e acquerello, gli altri sono a colori». 35
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per la ricostruzione delle provenienze, le filze di Galleria, con documenti a partire solo da tale data, non tornano utili se non per pochi, rintracciabili esemplari. In sintesi, i disegni nei volumi ai nn. 83, 84, 106 e anche 107, con eccezioni all’interno di ognuno che andrebbero esaminate nel dettaglio, e ai nn. 176-182, possono essere virtualmente ‘richiamati’ nella prima parte, in bella copia nei primi tre tomi dell’Inventario generale dei disegni del 1775-1784, dalla quale sono stati fino ad ora esclusi. Dell’inserto 105 se ne occupò lo stesso Pelli.
Fig. 3 Bartolomeo Ammannati, Pianta di cattedrale, Firenze, GDSU, 3383 F recto. Fig. 4 Bartolomeo Ammannati, Studi anatomici di braccia, Firenze, GDSU, 3383 F verso.
I volumi rimanenti e i disegni che accoglievano, invece, attendono ancora una puntuale e approfondita analisi delle rispettive vicende, in funzione di un corretto e non incerto lavoro di ricostruzione delle collezioni di provenienza, tutte documentate dal rigoroso direttore e variamente segnalate anche nel manoscritto. Tra inventario e documenti di acquisto, infatti, emergono i nomi di molti collezionisti noti e di altri meno conosciuti: la famiglia Gaddi e i Michelozzi, Sebastiano Resta e il marchese del Carpio, Ignazio Enrico Hugford e Lamberto Cristiano Gori, Anton Francesco Marmi, Vincenzo Frati, Antonio Poggi, Felice Ricoveri, Francesco Miliotti e Giuseppe Salvetti38. Collezioni eterogenee per qualità e quantità, Sulle acquisizioni di disegni di Giuseppe Pelli si rimanda a FILETI MAZZA-TOMASELLO 2000, FILETI MAZZA-TOMASELLO 2003 e FILETI MAZZA 2009, pp. 44-78, dove sono prese in esame alcune delle collezioni citate. Sulla collezione Michelozzi si veda BONFANTI 2001, dove l’inventario Pelli non è preso in considerazione. Per la collezione di Ignazio Enrico Hugford (1703-1778) e la sua figura di mercante e conoscitore: FLEMING 1955; BORRONI SALVADORI 1983b; MONBEIG GOGUEL 2006; GRISOLIA 2008; GRISOLIA 2009. Si segnala che tra i fogli in collezione Michelozzi non acquistati da Pelli, per le limitazioni imposte da Pietro Leopoldo, è emersa la presenza di un importante gruppo di 524 disegni, provenienti dalla nota collezione di Gaspar de Haro y Guzmán, VII marchese del Carpio, ambasciatore a Roma dal 1677 e viceré di Napoli dal 1683 al 1687. Il nucleo era descritto tra i disegni legati in libri: «524 Disegni in 13 tometti legati in sommacco rosso, raccolta fatta dal Marchese del Carpio Vice Ré di Napoli, di buoni autori» (AGU, Filza XII, 1779, n. 48, Inventario di disegni di diversi eccellenti autori e stime dei medesimi, Disegni legati in libri; cfr. EFEMERIDI, s. II, VI, 1778, c. 1006, 26 agosto). Il valore stimato era di 175 scudi romani. La presenza a Firenze di questi libretti, acquistati quasi certamente in Spagna dai Michelozzi e forse parte dei «quattordici libri in 4°» registrati in un inventario del marchese (cfr. CACCIOTTI 1994, p. 175, nota 35), apre nuove prospettive di ricerca sui disegni 38
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acquistate in momenti diversi dal 1769 al 1784, oggetto di sospetti smembramenti e incerte fusioni. Possiamo ora comprendere a pieno la generica precisazione di Giuseppe Pelli in merito ai fogli descritti, definiti nel frontespizio «per lo più acquistati da Sua Altezza Reale», l’illuminato Pietro Leopoldo. Emendato il catalogo dai disegni già in collezione, sarà possibile ottenere, con le opportune ricerche, il quadro esatto e completo di questi importanti acquisti. Alla luce di quanto esposto, chiarita anche presenza e identità dei volumi clandestini, è lecito cedere alla tentazione di etichettare l’Indice di CXXII Volumi di Disegni con la compendiaria ed efficace formula di inventario ‘lorenese’ tout court, per distinguerlo dall’Indice alfabetico in bozze e dalla sua bella copia, già indicata come inventario ‘mediceo’ tout court e come tale ampiamente accettata39. L’approccio metodologico e descrittivo adottato nel nostro inventario ‘lorenese’ è in continuità con quello riscontrato nella prima sezione dell’Indice. L’esperienza accumulata, tuttavia, unita alla crescente consultazione di cataloghi di altre collezioni e ad una compilazione slegata dall’austera struttura alfabetica per artista, rende il manoscritto una delle più riuscite prove pelliane. Trascorsi oltre due secoli, il disegno appare agli occhi del moderno lettore con un’immediatezza che non lascia indifferenti. Soggetto, tipologia, tecnica e supporto si sommano riga su riga a colmare di fogli i preziosi volumi e, scorrendo le vecchie carte, sorprendono la ricchezza e la varietà terminologica con cui sono esibiti gli studi maneggiati dal direttore. L’abilità sintetico-descrittiva raggiunta da Pelli permette oggi, smembrati i volumi, di identificare la maggior parte dei disegni, che una volta esaminati rendono il suo lavoro ancor più apprezzabile e comprensibile. Questa impostazione analitica si fa generica e ambigua solo nel caso dei disegni di paesaggio e degli studi accademici, in alcuni casi più difficili da ritrovare e da distinguere gli uni dagli altri. Scendere nel dettaglio di questo genere di fogli, ad esempio descrivendo l’esatta posizione dei diversi elementi, significava andare oltre le esigenze di sintesi dell’inventario e la scelta del direttore è la riprova di una coerente diligenza classificatoria. Le tipologie iconografiche sono inquadrate, se possibile, nelle primissime parole. Troviamo efficaci formule descrittive ripetute per l’intero Indice, usate per temi sacri o profani, e a volte è sufficiente una leggera variazione, apparentemente insignificante, per visualizzare un dettaglio che segna la differenza e del quale si apprezza la scelta solo dopo l’identificazione del foglio: «Vergine col Figlio in collo» è immagine ben diversa da «Vergine col Figlio in braccio» o «Vergine col Figlio fra le ginocchia». Tali specifiche non lasciano spazio a incertezze nel caso di disegni similari o difficili da reperire, sia in seguito allo smembramento del volume, sia per un precoce cambio di attribuzione, sia perché anonimi. A volte il livello di dettaglio supera il mero valore didascalico e compensa del tutto l’assenza dell’originale o di una sua riproduzione. «La Vergine sedente col Figlio sul ginocchio destro, con schizzo di due Santi allato, a acquerello e penna» oppure «Una grotta con l’incudine, tre figure che osservano un loro compagno caduto in terra, ferito da una freccia scoccata d’altra figura che sopravviene, su fondo giallo» », e ancora « Veduta di un fiume con fabbriche sulla riva ed un ponte nel fondo, a matita nera, per il largo, di Paolo Anezi» (Fig. 5), sono solo alcune delle tante soluzioni che contribuiscono alla resa di un inventario ‘parlante’ pur se privo di immagini40.
della collezione del Carpio, sulla stessa raccolta Michelozzi, sugli inattesi movimenti di questi tometti e dei loro fogli, sia prima della vendita Michelozzi del 1779, sia in seguito a tale data. 39 Cfr. CHIARINI DE ANNA 1982b, p. 153; GAETA BERTELÀ 1987, pp. 521-523. 40 Va anche segnalata la presenza, rara, di descrizioni la cui brevità può sorprendere, come «Un Presepio» o «Circoncisione», prive di qualsivoglia informazione accessoria. In questi casi l’essenzialità è spesso giustificata dall’appartenenza a una serie di cui sono già stati forniti alcuni dati, come l’artista o la tecnica adoperata.
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Fig. 5 Paolo Anesi, Veduta del Ponte rotto e dell'Isola tiberina a Roma, Firenze, GDSU, 443 P, provenienza collezione Hugford (già collezione Gabburri).
Si accalca così un popolo di nudi, figure, mezze figure, figurine, figurette, femmine nude, stanti, sedenti, giacenti, genuflesse e in viaggio. La medesima attenzione è dedicata alla tipologia di disegno e alla tecnica, così come non mancano eventuali segnalazioni di un supporto particolare o di un’iscrizione41. Dalla totale assenza di indicazioni sulla natura del foglio, come nella maggior parte dei casi, e dal generico «disegno» (203 occorrenze), si passa alle più corrette e frequenti definizioni di «schizzo» (809), «studio» (132) e «pensiero» (68) o ai rari casi di «sbozzo» (10 volte) o «bozzo» (1). Parole variamente accompagnate dal nome di un artista, dallo strumento del suo segno, dall’aspetto e tinta della carta, resa nei suoi colori più vari, con sfumature lessicali a volte indegne di un appassionato dantista e linguista e per questo più coraggiose e apprezzabili. Una graduale confidenza con il linguaggio che permea l’inventario, non privo di momenti curiosamente gustosi, e, in termini più ampi, con il metodo che governa il lavoro del suo estensore, consente un’identificazione dei disegni più agevole e meno soggetta a incomprensioni, errori o confusioni. Le soluzioni adottate da Pelli sono accorgimenti necessari, si penserà, e in stretto rapporto con la varietà e con la mole dei pezzi, ma che non meritano di passare in secondo piano e non devono essere dati per scontati. Tali risultati furono il frutto di un metodo ricercato e di una consapevole preparazione, già sottolineati dalla critica42. Negarlo equivale a sminuire l’intera conduzione pelliana e a non comprendere la modernità del suo contributo in termini di gestione museale e di organizzazione e tutela del ricco patrimonio, grafico e non solo, della Reale Galleria degli Uffizi. Ricerca e preparazione metodologica, storiografica, tecnica, innestate su una palese predisposizione caratteriale: le memorie del direttore informano ampiamente su questo percorso e gli inventari pervenuti ne confermano i risultati. La sua curiosità in materia era tanta e dichiarata. Il 5 gennaio 1779, in piena compilazione del catalogo dei disegni, affermava: Gabinetto di Pietro Giovanni Mariette venduto. Ho avuto (cioè lo possiedo) il catalogo con i mezzi che fu venduto nel 1775 il gabinetto di Pier Giovanni Mariette e lo trovo il Cfr. FILETI MAZZA 2009, p. 50, anche a proposito della moderna sintesi delle tipologie iconografiche inserita dallo stesso Pelli nella prima parte dell’Indice. 42 Cfr. FILETI MAZZA-TOMASELLO 2000, pp. 282-283; FILETI MAZZA 2004; FILETI MAZZA 2009, pp. 44-55. 41
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Giuseppe Pelli Bencivenni e l’Indice di CXXII Volumi di Disegni della Real Galleria _______________________________________________________________________________ più ricco di disegni, e di stampe che io conosca. Mi duole che si sperdesse. Io vi ho imparato qualche cosa, ed avendo potuto avere il comodo di esaminare un tal gabinetto si sarebbe acquistata una cognizione ed una pratica in quel genere ottimissima. Io ne son privo, e diffido di poterla fare, non vi essendo qua raccolte copiose. Che rarità aveva Mariette?43.
Questa fame di ‘cognizione’ e di pratica con il materiale grafico era solo in parte appagata dalla consultazione delle collezioni offerte in vendita al granduca, o dalla fitta trama di rapporti eruditi in cui Pelli era inserito. Nell’ottobre 1779 ricordava alcuni stimoli per la sua riflessione sui sistemi di classificazione, come il ricco e istruttivo catalogo della collezione Crozat compilato dall’apprezzato Mariette: «Io ho fra le mani per studiare, e vi acquisto dei lumi, il catalogo dei disegni e delle gemme di Crozat fatto da Mariette, e pubblicato nel 1741»44. L’obiettivo di questa ricerca era, ovviamente, in funzione del materiale di Galleria e del «dettagliato catalogo» dei disegni, ma occorre prudenza per non incorrere nel rischio di sminuire le aspirazioni e gli studi di Giuseppe Pelli, come il metodo che governa il suo lavoro, a un limitato interesse materialistico. L’approfondimento storiografico portato avanti dal direttore, di pari passo con lo spoglio dei disegni e con la gestione dell’intero patrimonio granducale, non si può desumere dalla sola lettura di un inventario, per quanto alcuni tra i commenti sparsi nel manoscritto siano un segnale di questa ricerca. Dalle tante carte di Pelli pervenute si ricavano, in proposito, molte informazioni utili e alcune intuizioni felici45. Emergono la conoscenza e la consultazione di numerosi testi di letteratura artistica, così come di altri strumenti dell’epoca, primi tra tutti gli abbecedari. Su tutte, è illuminante una memoria del caldo agosto del 1782, testimonianza delle giornate trascorse sui libri. Giuseppe Pelli, il giorno prima di alludere al catalogo in corso dei nuovi disegni, si dichiara, significativamente, ‘occupato fra pittori’: Sono occupato fra pittori. Quanti libri abbiamo sopra quest’arte, ma quanto siamo ancora mancanti di una storia perfetta, che indichi senza passione il merito, e le doti di ciascuno! Doppo il Guarienti, che accrebbe l’Abecedario pittorico del padre Orlandi, non si è veduto nulla di quanto vi aggiunse il cavalier Gabburri, i di cui scritti sono in casa Stufa, Pietro Mariette ecc. Eppure bisognerebbe anche questo aiuto per avere una perfetta EFEMERIDI, s. II, VII, 1779, c. 1083v, 5 gennaio. EFEMERIDI, s. II, VII, 1779, cc. 1234v-1235, 10 ottobre 1779. La lista proseguiva con molti cataloghi di collezioni straniere: «[…] quello delle stampe e delle carte geografiche del maresciallo duca d’Estrees (1741); quelli dei quadri del principe di Carignano (1742); quello delle statue del cardinale di Polignac, che acquistò poi il re di Prussia (1742); quello delle curiosità di Cressent ebanista del duca d’Orleans (1748); quello dei quadri di monsieur Pasquier (1755); quello delle stampe ecc. di monsieur Quentin de Lorangere fatto da Gersaint (1744) stimabile per il novero esatto dell’intagli di Callot; quello del duca di Tallard fatto da Remy, e Glomy (1756) che aveva una preziosa collezione di pitture; quello del gabinetto dell’avvocato Potier fatto dai suddetti (1757); quello dei quadri di monsieur Crozat baron de Thiers, che acquistò, per quanto mi dicono l’Imperatore di Moscovia (1755); quello di pittura, e scultura francese soltanto di monsieur de Lalive (1764); quello delle statue, figure, busti, vasi ecc. del suddetto monsieur Crozat (1750); quello del gabinetto del conte de Vence disteso da padre Remy (1760); quello delle cose raccolte da Coypel pittore francese di grido (1753); quello delle pitture, e sculture che aveva messe insieme il presidente de Tugny (1751); quello delle collezioni dell’abate di Fleury (1756); quello del ricco gabinetto di Mariette formato da Bassan (1775) ecc. ecc. Ho notizia di molti altri, che non potrei procurarmi senza grossa spesa e senza lunghe difficoltà.». Pelli cita il catalogo Crozat anche nel Catalogo delle pitture della Regia Galleria, nella sezione dedicata al Gabinetto dei disegni: «E Mariette nel tessere il catalogo della ricchissima collezione di disegni che messe assieme il celebre signor Crozat, si avvisò di fare il carattere ai più eccellenti maestri, e vi riuscì molto lodevolmente, come io stesso ho riconosciuto essendosi preso il piacere di esaminare giudizi nel tessere con lunga fatica il catalogo» (PELLI BENCIVENNI 2004, p. 155). 45 Oltre alle inesauribili Efemeridi e al carteggio, si vedano le osservazioni di Pelli dedicate ai disegni in PELLI BENCIVENNI 2004, pp. 153-159. 43 44
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Parole che son segno di grande libertà e attenzione critica oltre che di un rigoroso spoglio dei testi. Trapelano la consapevolezza dell’importanza di un contatto diretto con le opere e l’esigenza di una «perfetta cognizione» di tutti gli artisti, espressione in linea con la sua produttiva pignoleria. Che cosa intenda Pelli per «storia perfetta» è oggi assolutamente chiaro. Ironia della sorte, un inimicato aiutante di nome Luigi Lanzi andava elaborando il suo grande affresco della storia dell’arte italiana.
EFEMERIDI, s. II, XX, 1782, c. 1851, 21 agosto. Per la memoria del 22 agosto cfr. nota 18. Sui legami fra l’Abcedario orlandiano e le Vite di Francesco Maria Niccolò Gabburri si veda CECCONI 2008. 46
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Francesco Grisolia _______________________________________________________________________________
INDICE DISEGNI 1775-1780 G. PELLI BENCIVENNI, Indice alfabetico dei disegni della R. Galleria, Biblioteca degli Uffizi di Firenze, ms. 463/3/1, 2. INVENTARIO VOLUMI DISEGNI 1769 R. COCCHI, Inventario generale della R. Galleria (Disegni e Stampe), 1769, Biblioteca degli Uffizi di Firenze, ms. 98. INVENTARIO VOLUMI DISEGNI 1784 G. PELLI BECIVENNI, Inventario generale della R. Galleria, Classe III, Disegni, Stampe e Libri, Biblioteca degli Uffizi di Firenze, ms. 113. INVENTARIO GENERALE DISEGNI 1775-1784 G. PELLI BENCIVENNI, Inventario generale dei disegni compilato da Giuseppe Pelli Bencivenni, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi di Firenze, ms. 102 LANZI 1782 L. LANZI, La Real Galleria di Firenze accresciuta e riordinata per comando di S.A.R. l’Arciduca Granduca di Toscana, Firenze 1782 (rist. anast. Firenze 1982). LE DESSIN NAPOLITAIN 2009 Le dessin napolitain, Atti del convegno (Parigi 6-8 marzo 2008), a cura di F. Solinas e S. Schütze, Roma 2009, in corso di stampa. MONBEIG GOGUEL 2006 C. MONBEIG GOGUEL, Les artistes florentins collectionneurs de dessins de Giorgio Vasari à Emilio Santarelli, in ARTISTE COLLECTIONNEUR DE DESSIN 2006, pp. 35-65. NOTA DE’ LIBRI DI DISEGNI 1687 F. Baldinucci, Nota de’ Libri di disegni tanto grandi che mezzani, con la distinzione di quanti ne sono attaccati per libro,[…] e detta nota comincerà secondo il numero di che son notati e come stanno nell’armadio, Archivio di Stato di Firenze, GM 779, ins. 9, cc. 995-1027. PELLI BENCIVENNI 2004 G. PELLI BENCIVENNI, Catalogo delle pitture della Regia Galleria. Gli Uffizi alla fine del Settecento, a cura di M. Fileti Mazza, B. Tomasello, Firenze 2004. PETRIOLI TOFANI 2005 A. PETRIOLI TOFANI, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi. Inventario. Disegni di Figura. 2, Firenze 2005. ZACCHIROLI 1783 F. ZACCHIROLI, Description de la Royale Galerie de Florence, Firenze 1783. ZUCCARI E DANTE 1993 Federico Zuccari e Dante, Catalogo della mostra, a cura di C. Gizzi, Milano 1993.
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Le arti di William Roscoe: biblioteca e collezione ________________________________________________________________________________
LE ARTI DI WILLIAM ROSCOE: BIBLIOTECA E COLLEZIONE (I parte) Al contrario di altri storici o eruditi vissuti tra la fine del diciottesimo e i primi decenni del diciannovesimo secolo, che non hanno fatto delle «belle arti» un campo privilegiato d’indagine, ma pure ne hanno trattato, William Roscoe fu un dichiarato appassionato e un attento studioso del mondo della figurazione. Ciò lo portò non solo a praticare in maniera dilettantesca la pittura, ma anche a riunire un importante nucleo di testi storico-artistici nella sua biblioteca e soprattutto una nutrita collezione, di dipinti e grafica, in parte smembrata nella vendita occorsa nel 1816, ma salvata almeno in quel nucleo centrale che tutt’oggi si conserva presso la Walker Art Gallery di Liverpool. A sostegno di questa non marginale passione stanno i suoi rapporti con alcuni artisti coevi, di cui Roscoe fu in qualche caso generoso mecenate, spesso direttamente coinvolti nella stesura delle digressioni artistiche presenti nei suoi scritti, nonché guide nella formazione del suo gusto. Tali legami sono verificabili grazie a una nutrita documentazione, da quelli maggiormente noti con Henry Fuseli a quelli, meno conosciuti ma non meno significativi, con Reynolds, Gibson, Haughton o Ottley1. Diversi sono gli scritti di Roscoe aventi per tema le arti figurative, alcuni tuttora inediti, la cui stesura può essere collocata lungo tutto il corso della sua vita, con un particolare addensarsi a partire dal secondo decennio dell’Ottocento. Essi rivestono un aspetto importante della sua complessa personalità, perché l’attività di studio e di scrittura si intreccia in modo indissolubile col versante del collezionismo, di libri e di opere d’arte2. William Roscoe, stando alla testimonianza di alcuni suoi biografi, aveva nutrito sin dall’infanzia una vivace passione per il disegno, concretatasi nella produzione di schizzi e bozzetti, che si conservavano ancora qualche decennio dopo la sua morte 3. Se tale aspetto può essere inteso nella sua mera occasionalità, ed è lecito pensare il rimarco dei biografi stessi su questo episodio perché capace di fornire una pertinente premessa giovanile, tecnico-operativa, agli esiti di mecenate e collezionista del Roscoe maturo, esistono senz’altro dettagli ben più tangibili del rapporto tra Roscoe e le arti. Rapporto molto concreto, costruito attraverso iniziative pratiche che ineriscono non soltanto il collezionismo privato, bensì l’organizzazione di attività culturali chiamate a far risorgere Liverpool e ad addolcirne la tumultuosa ascesa industriale. Proprio quella Liverpool che Roscoe non abbandonò mai, ove nacque l’8 marzo del 1753 e ove dimorò per tutta la vita, sino alla morte avvenuta il 30 giugno del 1831. Questa determinante pratica è una caratteristica di Roscoe in generale. Le sue iniziative intellettuali hanno un risvolto pragmatico, produttivo in senso lato, che mira a incidere sempre sulla società coeva. Basti considerare la multiformità dei suoi interessi, che spaziano dalla politica – l’attenzione per i moti rivoluzionari francesi e, soprattutto, la libertà degli schiavi africani con l’interruzione della loro tratta –, al commercio, all’agricoltura, alla botanica, per verificare come
Per il rapporto con Fuseli si veda MACANDREW 1959-1960, pp. 5-52; MACANDREW 1963, pp. 205-228; WEINGLASS 1982, passim. Molto precise, e pure affettuose, le parole dello scultore John Gibson che dovette a Roscoe, «kind patron», «man of true taste», la prima conoscenza di disegni e stampe italiane, avanti la sua partenza per Roma, nonché «the study of anatomy from the subject itself»: EASTLAKE 1870, pp. 29-34. Un elenco degli artisti con cui Roscoe fu in contatto è stato stilato da Mayer 1853, pp. 24, 36. Fonte primaria per lo studio di Roscoe è naturalmente tutta la massa delle sue carte, e particolarmente il carteggio che costituì già il riferimento principale per i suoi primi biografi che dichiaramente lo utilizzarono quale «principal source of information»: ROSCOE 1833, vol. I, p. V; TRAILL 1853, pp. 45-46; MACNAUGHTON 1996, pp. 161-176. I ritratti di Roscoe sono citati da [FASTNEDGE] 1952, p. 1. 2 Di fatto il primo e il più organico saggio da parte italiana sullo studioso è il piuttosto recente QUONDAM 2000, pp. 249-338. 3 ROSCOE 1833, vol. I, p. 10: interessante qui il riferimento al rapporto del giovane Roscoe con i disegnatori impiegati nella fabbrica del padre, ove si produceva «british chinaware». Cfr. anche TRAILL 1853, p. 11. Per l’albero genealogico della famiglia Roscoe si veda DUNSTON [1905], in part. pp. 1-46. 1
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ciascun ramo del sapere intenda ricadere in senso migliorativo sul quotidiano4. Un esempio concreto su tutti: lo studio delle piante, che portò Roscoe all’ampia pubblicazione sulle Monandrian plants of the order Scitamineae, edita nel 1828, anch’essa non marginale negli studi di settore, non restò un percorso scientifico isolato ma anzi fu l’esito di un interesse che rimontava ad anni addietro ed era collegato strettamente alla istituzione di un giardino botanico a Liverpool, aperto nel 18055. In maniera assai suggestiva già i primi biografi individuavano un richiamo stretto tra l’interesse per la botanica e l’indagine storico-artistica: un legame cioè metodologico, di impianto di studio, che riecheggia spesso, anche in via distintiva, in altri studiosi coevi 6. Conta qui soprattutto segnalare il Roscoe organizzatore e promotore di cultura nella Liverpool dei suoi giorni, riscontrabile in due settori: la creazione di società, o gruppi di studiosi riuniti con finalità di ricerca e trasmissione del sapere e l’organizzazione di mostre. I due aspetti sono strettamente connessi. Le prime iniziative espositive a Liverpool si compirono infatti grazie a quella «Society of artists» di cui si ha traccia per la prima volta nel 1769, legatissima al discorso manifatturiero ossia all’«improvement of product of design, particularly those connected with the earthenware and watch trades». Tale società, presto sciolta, era però stata subito sostituita da un’altra, più strutturata, inaugurata proprio da una pubblica lettura di Roscoe tenuta nel 1773 – che insisteva su una quasi ormai ‘scontata’ migrazione delle arti dalla Grecia all’Italia e quindi all’Inghilterra –, denominata ancora «Society of artists». A questa si deve l’organizzazione delle prime esposizioni di opere d’arte sempre a Liverpool, specialmente quella del 1774 che, seppure «very modest», è stata pur sempre giudicata la prima «provincial exhibition of art» d’Inghilterra7. Fu però nel corso degli anni Ottanta che tale organizzazione si impose con una serie di mostre più importanti, con la Society che aveva assunto la dizione di «Society for promoting painting and design in Liverpool»: se quelle del 1783 e del 1784 videro la partecipazione di artisti essenzialmente autoctoni, nella successiva, invece, del 1787, si raccolsero opere di Gainsborough, Wright of Derby – pittore da anni legatissimo a Liverpool –, del giovane Fuseli e di Reynolds, il quale aveva scritto direttamente a Roscoe affermando di voler sostenere in prima persona queste iniziative espositive8. Le arti, stando a quanto recita il catalogo della mostra del 1784, «now become indispensably necessary in most of those employments which contribute to […] elegance of life», e l’obiettivo della mostra era quello di
CLARK 1883, pp. 19-20; FOARD JAMES 1907, pp. 2, 11-12, 23; MACNAUGHTON 1996, pp. 25-26. Per un’analisi del Roscoe politico si veda in particolare SELLERS 1968, pp. 45-62; MORRIS 1993b, pp. 21-23. 5 ROSCOE 1828. Su questi temi si veda EDMONDSON 2005, in part. pp. 11-12; cfr. anche STANSFIELD 1955, in part. pp. 29-31; MORRIS 1993B, in part. pp. 25-26. 6 ROSCOE 1833, vol. I, p. 254. Luigi Lanzi, per fare un esempio ben noto a Roscoe, nella prefazione alla sua Storia pittorica, distingueva il metodo necessario per comporre una storia della pittura dai sistemi classificatori di botanici come di Linneo e Tournefort: LANZI 1968-1974, vol. I, pp. 6-7. Si veda anche ROSCOE 1818, pp. 2223. 7 Sulla lezione inaugurale di Roscoe, si veda MAYER 1853, pp. 6-9. Sulla mostra in particolare DARCY 1976, pp. 25-28; cfr. anche MATHEWS 1931, pp. 17-18 (catalogo composto da 85 voci). Fondamentale MORRISROBERTS 1998, in part. pp. 1-34. La Society venne fondata alla fine degli anni Sessanta; nel 1783 venne rifondata e la presidenza fu assunta da Henry Blundell of Ince, mentre Roscoe occupò il ruolo di vice presidente (DARCY 1976, pp. 17-18). Per Liverpool è opportuno ricordare la Philosophical and Literary Society fondata nel 1779. Essa conduce un’esistenza stentata fino al 1783, per venire poi ripresa nel 1784, ma non avrà una vera vita fino al 1812. Non si dimentichi che Wright of Derby si era spinto a cercare patroni a Liverpool: DARCY 1976, pp. 20-23. 8 ROSCOE 1833, vol. I, pp. 63-64; Mayer 1853, pp. 12-13. Reynolds scriveva a Roscoe il 2 ottobre 1784: «I am very glad to hear of the success of your exhibition. I shall always wish to contribute to it to the best of my power»: Ingamells-Edgcumbe 2000, p. 132 (si veda anche ivi, pp. 132-133, 135-136); TRAILL 1853, p. 18. Nel 1784 Roscoe espose un «Portrait of a gentleman, in crayons» e «A boy sleeping», voci 142-143 del catalogo: MAYER 1853, p. 21; MORRIS-ROBERTS 1998, in part. p. 525 (per le opere esposte da Roscoe e anche da sua moglie). 4
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unire «beauty and utility»9. La società artistica, stretto il legame con la Royal Institution di Londra e col suo presidente, allora proprio Joshua Reynolds, si era modellata sulle già attive e numerose società filosofiche e letterarie inglesi, tanto che in essa si tenevano lezioni in vari ambiti del sapere, tra cui «Anatomy and chemistry», «Theory and practice of painting», «Architecture», «Perspective»10. Alcune titolature di queste sessioni didattiche presentano chiare tangenze con quelli che erano i coevi interessi di Roscoe: proprio questi tenne lezioni nel corso dell’anno 1785 intitolate «On the history of art», «On the knowledge of the use of prints» e «On the history and progress of the art of engraving». Henry Roscoe, infatti, afferma che, nel corso del 1785, suo padre ebbe modo di tenere numerose pubbliche letture, di cui egli riporta a mo’ di esempio solo due titolature, che riuniscono i tre titoli sopra riportati: «On the history of art» e «On the knowledge and use of prints, and the history and progress of the art of engraving», ripercorrimento storico complessivo che si concludeva col presente e con la menzione di Fuseli11. Si deve ricordare che in questo stesso 1785 sarebbe stato pubblicato il Dictionnary of engravers di Joseph Strutt, nella cui prefazione sono riportati alcuni passi di uno scritto di Roscoe – su cui tornerò più avanti –, derivato da questi discorsi accademici. Questi ultimi potevano costituire interessanti banchi di prova per verificare la tenuta di certe sistemazioni teoriche; occasione di scrittura, insomma, e di espressione concreta di idee maturate attraverso lo studio. Jospeh Mayer avrebbe ricordato il grande numero dei manoscritti di Roscoe, «some of which were delivered as lectures at the meetings at the Society of arts, and which it is much to be regretted he did not live to see through the press»12. Tutta questa attività avrebbe assunto una dimensione più strutturata nei primi anni dell’Ottocento. Non solo per l’istituzione a Liverpool di una nuova «Academy», che avrebbe preso corpo a partire dai primi anni dieci del secolo e che vedeva Roscoe quale indiscusso leader13, o per la fondazione della «Liverpool Literary and Philosophical Society» avvenuta nel 1812, di cui Roscoe sarebbe stato presidente dal 1817 al 183114, ma anche perché è documentata da parte dello stesso Roscoe, ormai scrittore noto in tutta Europa, una più matura considerazione dei problemi che ponevano in stretta connessione sviluppo delle arti e sviluppo della città come, più in generale, della società stessa. Tale più matura riflessione è tangibile nel discorso inaugurale della «Royal Institution» di Liverpool, fondata nel 1814 e di cui Roscoe fu primo presidente nel 1822, tenuto nel 181715. Esso, infatti, non a caso Citato in CLARK 1883, pp. 6-7. I due cataloghi delle mostre del 1784 e del 1787, dal titolo identico (The exhibition of the society for promoting painting and design in Liverpool), sono pubblicati in MAYER 1853, risp. pp. 11-23 e 26-34. Nel primo caso Roscoe figura come vicepresidente, nel secondo egli rientra nel solo «Committee». 10 Come recita il catalogo della mostra del 1784: MAYER 1853, p. 13. 11 ROSCOE 1833, vol. I, p. 64 (per i rapporti con Fuseli, ivi, pp. 64-66 e anche MACANDREW 1963, pp. 5-52). I titoli di queste lezioni sono citati anche in DARCY 1976, pp. 30-31; cfr. anche Liverpool City Council Library, Roscoe Papers (da ora LCCL, RP), 920, 167-169. Colgo l’occasione per esprimere un sentito ringraziamento a tutto il personale della Liverpool City Council Library, e in particolare a Mr. Paul Webster, per la strordinaria cortesia dimostrata. 12 MAYER 1853, pp. 4-5, 34. 13 La nuova Academy era stata creata sul modello di quella londinese. Henry Blundell ne divenne il «patron», mentre Roscoe fu il «treasurer»; Traill «eminent scientist», poi biografo di Roscoe, era «lecturer on anatomy». Thomas Winstanley, senza dubbio il «leading auctioneer of the community», fornì alcune sue stanze per le esposizioni degli artisti, soprattutto inglesi viventi, che si tennero per la prima volta appunto nel 1810 e poi negli anni seguenti (si ricorda almeno 1811, 12, 13 e 14): questo portò anche a frizioni tra chi spingeva per mostre di «old masters» e chi voleva invece maggiormente arte contemporanea: DARCY 1976, pp. 33-38, 47-49, 136-149. Cfr. anche PULLAN 1998, pp. 32-35; BOREAN 2004, pp. 91-92. 14 WILSON 2007, pp. 198-199. 15 ROSCOE 1818 (in part. si veda pp. 46-47). Questo opuscolo venne presto tradotto in italiano: ROSCOELONDONIO 1824. Cfr. anche WILSON 2007, pp. 199-200. Ovviamente bisogna ricordare che nel 1805 era stata fondata la British Institution, altra accolita di nobili mecenati e collezionisti, creata con lo scopo di promuovere la produzione artistica: PULLAN 1998, pp. 27-44. 9
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presentato in quell’istituto che è visto come l’esito stabile dell’attività dei gruppi di intellettuali riunitisi intorno a Roscoe sin dagli ultimi decenni del Settecento, si gioca tutto sulla discussione del concetto di utilità delle arti. Era stato subito deciso, infatti, che la Royal Institution avrebbe dovuto essere creata principalmente «for promoting the increase and diffusion of literature, science and the arts», in cui anche la parte museale, ritenuta necessaria insieme alle pubbliche lezioni, era divisa tra le scienze e le arti figurative16. Peraltro non fu il solo Roscoe a trattare delle arti in quella Royal Institution, la cui attività culturale divenne, almeno nei primi anni, continua e tematicamente ad ampio raggio17. Esiste un ulteriore ambito in cui si lega strettamente cultura, commercio e società, ed è quello della poesia, altro fil rouge che si snoda lungo tutta la vita di Roscoe. I discorsi inaugurali, a cui in parte si è accennato, spesso assumevano la struttura del poema o dell’ode. Una delle prime prove di Roscoe è infatti l’Ode on the istitution of a society in Liverpool for the encouragement of designing, drawing, painting etc. read before the society, december 17th, 1773, edita a Liverpool nel 1774; ma si pensi anche al ben più noto Mount Pleasant, del 1777, in cui Roscoe «gave expression to his opinions on several subjects, on music, on painting, and on the iniquities of the slave trade», un canto secondo cui un buon governo, retto sulla libertà, deve misurare il proprio valore anche sulla propria capacità di promuovere tanto i commerci quanto le arti. Tale è, a ben vedere, una caratteristica della città di Liverpool: la prima formella a destra del fregio del palazzo del City Council recita «Liverpool, a municipality, employs labour and encourages art» e rappresenta un’ancella che sorregge un tempio greco; le statue di Raffaello e Michelangelo, ai lati dell’ingresso della Walker Art Gallery, sempre a Liverpool, siedono sotto una raffigurazione simbolica del commercio18. Passione per la poesia che, alla fine, sarà una delle principali chiavi di avvicinamento alla figura di Lorenzo il Magnifico, oggetto della prima grande monografia di Roscoe. Proprio in un poema, quello dedicato all’incisione, titolato The origin of engraving e da datare alla metà del nono decennio del Settecento, Roscoe menziona il Magnifico appunto nella sua qualità di restauratore delle arti; la biografia a lui dedicata stava prendendo concreta forma di scrittura nel corso di questo decennio19.
ORMEROD 1953, pp. 9-11. Roscoe aveva scritto anche un piccolo saggio sul rapporto tra le arti e le scienze: Roscoe 1790, pp. 241-260. Tale scritto era stato attaccato verbalmente da Fuseli, come Roscoe scriverà alla moglie in una lettera del 4 aprile 1791: WEINGLASS 1982, p. 64. 17 MUIR 1906, p. 26. Traill, tra le altre lezioni, tenne una relazione su «the origin of painting and sculpture in the ancient world and described the process of lithography»; nel 1829 Winstanley trattò il «progress of painting in England»; Roscoe a sua volta, nel 1821, tenne una conferenza sui manoscritti di Holkham, al cui catalogo si stava dedicando in quegli anni (cfr. infra). Una pubblicazione del 1821 raccolse tutti i vari contributi: DARCY 1976, pp. 98-100. Da rimarcare anche quella «Mechanic’s school», sempre a Liverpool, dietro la cui organizzazione c’era ancora l’attivissimo Traill, che insisteva sull’importanza dell’arte intesa come design e delle lezioni di disegno e storia dell’arte negli istituti meccanici; ivi, pp. 106, 107-109. 18 Su questi temi, mentre era in corso di elaborazione questo saggio, è uscito il volume di WILSON 2008. Si veda poi Sydney JONES 1931, p. 11; MACNAUGHTON 1996, in part. pp. 114-119; cfr. anche ROSCOE 1833, vol. I, pp. 30-31; MAYER 1853, pp. 6-9; HALE 2005, pp. 73-75; BOSSI-TONINI 1989, passim, in part. pp. 59-60. Per una visione diversa, tesa a rimarcare i distinguo tra le politiche medicee e quelle volute da Roscoe nella Liverpool di primo Ottocento (peraltro già segnalate in un articolo apparso sul «Liverpool Mercury» del 16 agosto 1811: cit. in DARCY 1976, pp. 37-38), si veda SELLERS 1968, pp. 45-62; MORRIS 1993b, pp. 20-21 (con rimandi ai “rifugiati” italiani Foscolo e Panizzi). I poemi di Roscoe furono pubblicati a ridosso del centenario della nascita: ROSCOE 1853. Lo stesso Reynolds, in una lettera del 2 ottobre 1784, si era complimentato con Roscoe per la sua vena poetica, detestata invece da Thomas De Quincey che vi leggeva un insopportabile gusto settecentesco: CHANDLER 1952, pp. 3-27; CHANDLER 1953 (qui i due poemi citati alle pp. 325-342). 19 ROSCOE 1833, vol. I, p. 67; HALE 2005, pp. 63-64. Sulla stretta connessione tra lo studio delle «fine arts» e della «poetry» e il miglioramento della società civile aveva insistito in modo molto chiaro e perentorio anche Joseph Turnbull decenni prima: TURNBULL 1740, soprattutto la «Preface concerning education, travelling, and the fine arts», in part. pp. XV-XXIII (anche pp. 109-110). Il tema ricorre anche in Robertson, uno storico a cui senz’altro Roscoe guardò con attenzione: ROBERTSON 1769, vol. I, pp. 72-73. 16
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L’ottavo e il nono decennio del Settecento costituiscono un momento decisivo per la nostra indagine perché, stando ancora a un preciso biografo come Thomas Traill, la passione per le arti si era notevolmente acuita in Roscoe, assumendo le dimensioni quasi di un interesse portante. Traill fornisce a riprova lo stretto carteggio intercorso tra Roscoe e Joseph Strutt, l’autore del sopra citato Dictionary of engravers20. Dopo i generici accenni alle arti contenuti nei poemi della seconda metà degli anni Settanta, il primo intervento edito di Roscoe vertente in toto sulle arti figurative si lega proprio al Dictionary dello Strutt. Per questo volume Roscoe aveva preparato due saggi, i «Remarks on etching» e «An idea of a chronological collection of engravings»21. Questi scritti di Roscoe confluiranno nell’opera edita nella parte saggistica intitolata «An essay on the art of engraving, with full account of its origin and progress», divisa in due parti tra primo e secondo volume, non come saggio integro a sé stante a firma di Roscoe, ma come un passaggio che Strutt riporta tra virgolette senza menzionare direttamente il nome dell’autore (nominato solo quale «gentleman of a great taste»), cioè trascritto e inserito nel discorso più generale da lui redatto22. In queste pagine Roscoe riassume le sue idee sull’incisione (nascita, utilità, differenze tra tecniche) e, soprattutto, sul collezionismo di incisioni: c’è da credere che queste brevi pagine edite da Strutt possano essere in effetti la fusione di quei saggi sull’incisione menzionati dai biografi, se non proprio questi saggi stessi, ricevuti e magari adattati dal medesimo Strutt. Dalle lettere dello Strutt a Roscoe è possibile chiarire quali erano gli interrogativi che stavano alla base di questa ricerca, che saranno i medesimi che avrebbero sorretto anche altri scritti roscoeani sulle arti. Scriveva infatti Strutt: «I mean to consider the antiquity, and progress, of the art of engraving, prior to printing; and also the gradual improvement since»; e ancora: «with respect to etching, the date of invention is certainly at present very incertain, but I doubt not it being first praticed in Germany; for tho’ I know not any dated etchings, older than what you mention of Albert Dürer»; e dichiarava di aver visto numerose incisioni tedesche, spingendosi poi a interessanti paralleli proprio tra le incisioni di area germanica e quelle del Parmigianino, le cui prove grafiche Roscoe racchiuderà in questi versi: «the potent acid fixed the fair design / where every elegance of form combined / show the just transcript of the master mind»23. Quindi la necessità, una volta usciti i primi due volumi del Dictionary nel 1785 e 1786, di costruire approfondimenti monografici, specificatamente dedicati all’acquaforte e costruiti con un intento catalogatorio: «a third volume must of necessity follow these two; exactly upon the plan you have proponed, it will be provided by a destination upon
STRUTT 1785-1786. ROSCOE 1833, vol. I, pp. 68-70. L’8 ottobre del 1784 Strutt scriveva a Roscoe di aver ricevuto «the excellent essay on the art of engraving […]; the observations contained in it, are, as you justly observe, entirely new; and from the mode of their arraingement, precisely what are highly necessary to precede a work like mine: as you have kindly permitted me to make use of them, I shall certainly give them to the public, in the form in which they stand»: LCCL, RP, 4732; cfr. quindi Strutt 1785-1786, vol. I, pp. 1-3. 22 «With respect to the use and excellency of the art of engraving, I beg leave to subjoin the following observations. They were drawn up by a gentleman of a great taste, and are the result of a critical examination of the works of the greatest masters; and will, I trust, be still more acceptable to the public, as they are not the remarks of an engraver, but of a gentleman, no otherways interested in the cause, than as a man of science, and a lover of the arts»: STRUTT 1785-1786, vol. I, p. 1; le parole di Roscoe seguono ivi, pp. 1-3. 23 LCCL, RP, risp. 4733, lettera del 24 gennaio 1785 e 4732, lettera dell’8 ottobre 1784. Si veda poi la lettera del 14 febbraio 1785 in cui Strutt spiega a Roscoe il piano del Dictionnary, che contemplava un excursus dall’antichità egiziana e greca a Marc’Antonio Raimondi: LCCL, RP, 4734. La seconda parte dell’Essay on the origin of engraving è dedicata nello specifico alla comparazione tra le scuole tedesca e italiana: Strutt 1785-1786, vol. II, pp. 1-9. La descrizione del lavoro del Parmigianino di Roscoe si trova nel poema The origin of engraving, appunto conservato ancora manoscritto tra le sue carte: LCCL, RP, 5493, c. 7r. Per un’analisi dell’opera dello Strutt si veda Haskell 1993, pp. 292-295. 20 21
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etching in general, and painters etchings in particular with compleat (or as nearly as possible) catalogues of the works of the greatest masters»24. Emerge insomma da questa collaborazione, oltre che la prova di un intervento scritto diretto sulle arti, anche una forte propensione per l’incisione, la cui invenzione viene paragonata da Roscoe a quella della stampa: What printing has been, with respect to general science, engraving has been to the arts; and the works of the old italian masters will be indebted to engraving for that perpetuity, which the invention of printing has secured to the Jerusalem of Tasso, and the tragedies of Shakespeare and Corneille25.
Proprio in questi stessi anni, e non sarà mera coincidenza, Roscoe «commenced his fine collection of prints, which was particularly rich in painters’ etchings and engravings of the old masters. This collection was chiefly formed between the years 1780 and 1790, but continued for many years to receive valuable addition, by every journey to London, which his professional business often rendered necessary»26. I passaggi sono estremamente chiari: le iniziative spese per rinnovare la vita culturale, anziché esaurirsi nella promozione delle arti nel presente, rendono necessario un approfondimento dello studio delle arti figurative nel loro divenire cioè nella loro storia. Tale aspetto, in Roscoe, si traduce nella costruzione di una collezione personale che parte con gli «old masters» e arriva a Fuseli. Il figlio di Roscoe, Henry, leggeva la collezione di stampe paterna come una ricostruzione dello sviluppo storico delle arti, e in particolare «the progress of painting in Italy», «the progress of engraving in Italy, Germany and Flanders»27. Seguendo un percorso tipico di molti collezionisti della sua epoca, Roscoe comincia dalle incisioni, perché economicamente e dimensionalmente più gestibili, ma capaci, nella loro disposizione in serie, di ricostruire una storia visibile delle arti. Le incisioni sono al contempo agile strumento di studio e oggetto collezionistico; non occorrerà ricordare la centralità delle stampe nel contesto europeo di fine Settecento, né insistere sugli stessi modelli del collezionismo inglesi, col caso particolarmente significativo dei Richardson, teorici e collezionisti28. Numerosi studi hanno poi dimostrato come Liverpool fosse un’accolita di LCCL, RP, 4738, lettera del 25 agosto 1785. Il 28 ottobre del 1785 Strutt scriveva: «I have therefore in contemplation, an idea, of making a monthly publication», non soltanto legata all’incisione, divisa in tre parti: la prima con «historical and pratical observations, relative to the arts in general, including painting, sculpture etc. to which may be also added any curious or instructive anecdotes, concerning the artists themselves»; poi «a complete list of the works of some great master, or as much of it, as the limmits of the publication will permit; with the portrait of the artist»; quindi «a descriptive review of all the new prints, of any consequence, published in the course of the preceding month; and this part may consequently be enriched with a variety of historical, and classical anecdotes, which the subjects of the prints themselves, will naturally produce»: LCCL, RP, 4740. Iniziative poi abortite per il subentrare di altri impegni, anche se Strutt invitava Roscoe a proseguire da solo: «But let me endeavour to prevail upon you, to give them to the public from your own hand. I mean your ‘Remarks on etchings’ to which may properly be added the ‘Idea of a chronological collection etc.’»: LCCL, RP, 4741, lettera del 13 dicembre 1788. In effetti in fondo al suddetto poema sull’origine dell’incisione si trovano tre brevi medaglioni biografici, dedicati da Roscoe al Parmigianino, ai tre Carracci e a Marc’Antonio Raimondi: LCCL, RP, 5493, c. n. n. (16r-17v seguendo la numerazione delle carte). 25 STRUTT 1785-1786, vol. I, p. 3. Anche l’Heineken aveva dedicato grande attenzione ai primi libri a stampa e alle immagini inserite in questi volumi, in qualche caso pure riproducendole: HEINEKEN 1771, in part. pp. 292482. 26 TRAILL 1853, pp. 18-19; ROSCOE 1833, vol. I, p. 67. 27 ROSCOE 1833, vol. II, pp. 127-129. Si vedano anche altre sistemazioni teoriche coeve, sempre di area inglese, basate sulla ricostruzione diacronica delle arti: su tutti BROMLEY 1793-1795. 28 STRUTT 1785-1786, cit., p. 3. Sulla collezione di incisioni di Roscoe, anche il rapporto ad altri collezionisti inglesi coevi, si veda HOPKINSON 2007, pp. 84-103 e Idem, The print collecting of William Roscoe, intervento tenuto alla conferenza Roscoe and Italy, Liverpool, The Atheneum, 17 luglio 2008, a cura di S. FLETCHER, i cui 24
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attivissimi collezionisti, soprattutto di incisioni: da Henry e Charles Blundell, presidente della «Society» il primo, grande collezionista di manoscritti miniati il secondo, sino a Thomas Dodd che aveva raccolto una straordinaria quantità di materiale per elaborare un «biographical dictionary of engravers in England, commencing at the earliset period at which the art was practised, 1530 to 1800»29. A confermare insomma quella vitalità straordinaria del collezionismo privato inglese, non presente solo nel contesto londinese ma diffuso nelle maggiori città di quella nazione, che già Quatremère de Quincy aveva stigmatizzato nel 1796 nelle sue Lettres à Miranda30. In particolare interessa qui però Daniel Daulby, non solo in quanto cognato di Roscoe, ma anche perché fu un grande specialista di Rembrandt e proprietario di una importante collezione di incisioni, in particolare rembrandtiane. Roscoe aveva elaborato una breve vita del pittore olandese che verrà posta poi a premessa della monografia composta proprio da Daulby31. Essa appare molto aneddotica, si mantiene su una prospettiva generale e a volte persino generica, con una palese adesione alle notizie già note; dimostra però, pur nella concisione, una particolare attenzione alla cronologia delle incisioni e alla loro tecnica esecutiva. Tale interesse per l’incisione, che gioca un ruolo centrale all’interno della triangolazione tra lo studio delle arti figurative, la collaborazione con gli esperti e appunto la creazione di una raccolta, costituisce la base per il successivo, ragionato accrescimento della collezione di Roscoe. Consolida, anzi, quella prospettiva di studio delle arti figurative secondo un intendimento rigorosamente storico, diacronico e ripartito per settori geografici, nazionali e quindi regionali per l’Italia, comunque legato all’osservazione diretta dell’opera, se non nel suo originale, almeno nella riproduzione incisa. Soltanto più tardi, infatti, rispetto ai primi acquisti di stampe, Roscoe «began to collect drawings by great masters, and of these his collection was remarkably choice, his taste and judgement in that department being excellent»32. Deve essere chiaro quindi che il rapporto tra Roscoe e le arti figurative si basa su questo fecondo intreccio tra studio e collezionismo, due aspetti non separati o separabili. Henry atti si spera siano di prossima pubblicazione. Per Richardson si rimanda in particolare a GIBSON WOOD 2000; GIBSON WOOD 2003, pp. 155-171. 29 MAYER 1853, pp. 24-25. Per la figura del Blundell si veda Morris 2007, in part. pp. 177-178. Importanti notazioni in LONGMORE 2007, pp. 1-19 e HOPKINSON 2007, pp. 84-103. Sulla necessità di questi dizionari di incisori si era espresso anche Joseph Strutt, rilevandone la scarsità («very defective»), compreso quello tutto inglese elaborato dal Vertue ed edito poi da Walpole, che comunque De Murr aveva già inserito nella sua Bibliothèque: STRUTT 1785-1786, vol. I, pp. V-VI; DE MURR 1770, vol. II, pp. 654-655. Una panoramica generale sul collezionismo inglese in HERMANN 1999. 30 DE QUINCY-POMMIER 1996, p. 121. 31 D. DAULBY, A catalogue and description of the works of Rembrandt van Rhyn compiled from his etchings and from the catalogue of M. Gersaint: si tratta di un manoscritto non datato, l’unico, tra i molti del Daulby, con una prefazione (cc. 1-11) recante notizie di Rembrandt, che possono quindi essere quelle attribuite dalle fonti a Roscoe (anche la grafia appare similare a quella di Roscoe): ROSCOE 1833, vol. I, p. 277; MACNAUGHTON 1996, p. 144. Daulby aveva redatto nel corso degli anni un numero impressionante di cataloghi dell’opera di Rembrandt, tutti conservati manoscritti, in quaderni con copertina rigida incisa: si veda, ad esempio, Works of Rembrandt collected by Daniel Daulby, Liverpool 1792; A catalogue of the books, prints, pictures and drawings of Daniel Daulby, Liverpool 1793; D. DAULBY, Works of Rembrandt with their prices, 1795. La collezione di Daulby fu poi venduta in due diverse tornate: Catalogue Daniel Daulby 1798 (collezione battuta all’asta da T. Vernon a Liverpool il 27 agosto 1798; ottantadue pezzi in tutto). Seguì una vendita anche il 14 maggio 1800 a Londra: A catalogue of the whole and capital, genuine, and singularly valuable of etchings by Rembrandt, and his scholars, of the late Daniel Daulby esq. (questo catalogo è manoscritto). Sulla vendita della collezione Daulby si veda anche CLARK 1883, p. 6 e WEINGLASS 1982, p. 26. Tutto il materiale manoscritto sul Daulby è consultabile presso il Record Office della Liverpool City Council Library. Mi limito poi a richiamare anche il caso Blackburne (Catalogue Blackburne 1785): il catalogo di vendita di questa collezione, compiuta «in the beginning of march, 1786» a Londra, è presente tra i libri di Roscoe oggi conservati nella biblioteca dell’Atheneum di Liverpool. Verosimilmente sua è la grafia delle note a penna in cui sono specificati i prezzi delle singole opere. 32 TRAILL 1853, p. 19. Ci sono anche alcuni esempi di giudizi sulla qualità e l’autografia di alcune incisioni formulati nelle sue opere: si veda, ad esempio, ROSCOE 1805, vol. IV, p. 112, nota (c).
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Roscoe riporta una lettera del padre a Lord Dunchan, stando alla quale dichiara concluse, con il Leone X, le sue ricerche sulla storia e la cultura italiana, e declina altri lavori intorno a questo argomento: The history of the rise and progress of literature and fine arts in Italy […] is, indeed, a noble subject, but to execute it would require a fortunate uman of talents, acquirements and circumstances, which it has not fallen to my lot to enjoy […]. For perhaps the history of literature and of art should each be treated separately; and of these, if I were to make my choice, I should prefer the latter33.
Il fatto che però Roscoe non si fosse dedicato sistematicamente alle arti figurative, almeno con l’obiettivo di redarre uno studio organico, secondo il sempre valido schema del «rise and progress», non significa che le sue ricerche si fossero arrestate. Anzi, proprio le ricerche intorno ai Medici avrebbero senz’altro acuito il suo interesse particolare per la storia delle arti, rispetto anche ad altre branchie degli studi umanistici, la letteratura su tutti, che pure egli aveva approfondito. Non è casuale che Roscoe si fosse dedicato alla «illustration of his son’s translation of Lanzi’s History of italian painting, by a small collection of engravings»34. La scelta di tradurre la Storia pittorica del Lanzi, e illustrarla con incisioni, induce a una serie di riflessioni. Innanzitutto essa era un’operazione che si costituiva a via mediana tra l’interruzione e la prosecuzione degli studi italiani, perché consentiva di affrontare tematiche ancora legate all’Italia senza dover effettuare un viaggio nella penisola. La traduzione di Lanzi, la prima in lingua inglese, cui aveva inizialmente atteso Thomas Traill, venne effettivamente compiuta dall’altro figlio di Roscoe, Thomas, che la pubblicò nel 1828, tre anni avanti la morte di suo padre. Suo fratello Henry confermava questa vicenda: Another literary project entertained by Mr. Roscoe at this time was a translation of the excellent work of Lanzi: “Storia pittorica della Italia”. At his suggestion, his intimate friend, Dr. Traill, undertook the vision of the work, which was to be accompained by notes, and an introductory dissertation from the pen of his son, but the preliminary dissertation is not appended to it35.
La traduzione lanziana cadeva all’interno di una serie massiccia di ricerche sulle arti figurative portate avanti da Roscoe negli anni precedenti o ancora in corso, destinate a restare in parte inedite. In effetti, sempre stando al racconto dei biografi, questi alla morte aveva lasciato, oltre a una «extensive and valuable correspondance», anche «a large mass of papers». All’interno di tale corposo insieme di carte, Traill scrive di aver potuto visionare un testo, redatto proprio per la Liverpool Academy on the progress and vicissitudes of taste which remain in manuscript, and which he appears to have, at one time, contempled to publish, as I find among them a title page, thus ‘An historical inquiry into the rise, progress and vicissitudes of taste, as exemplified in works of literature and art. In two volumes. Vol. I’. The manuscript, however, does not seem to have received his last corrections, though many of the observations are original and interesting36.
Non solo, ma egli contava inoltre
ROSCOE 1833, vol. I, p. 350. TRAILL 1853, p. 42. 35 ROSCOE 1833, vol. II, p. 62; LANZI-ROSCOE 1828. La fortuna di Lanzi fu duratura per tutto l’Ottocento inglese: si veda Levi 2005, in part. pp. 34, 46, nota 8. Il 17 luglio del 1806 Henry Fuseli chiedeva proprio a Roscoe una copia di Lanzi in prestito: «I am writing something on art, in which I find it is indispensably necessary for me to consult Lanzi»: WEINGLASS 1982, pp. 348-350. 36 TRAILL 1853, pp. 15, 18. 33 34
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Le arti di William Roscoe: biblioteca e collezione ________________________________________________________________________________ various dissertations on the fine arts, some of which appear in a finished state. In the year 1814 Mr. Roscoe had proposed to the writer of this memoir to undertake the translation of Lanzi’s Storia pittorica della Italia, and he engaged to fournish notes, and a preliminary dissertation. I had made considerably progress in the translation, when Mr. Roscoe’s misfortunes, and my own professional avocations, interrupted the work; which has since been well executed by his son, Mr. Thomas Roscoe. Among the papers of my venerable friend, I find a very interesting introductory dissertation, intended for our joint work, tracing the history of the art of painting and sculpture to a much later period than their supposed extinction in the west, indeed almost to within 200 years of their supposed revival by the Pisani and Cimabue. This treatise is in such a state that it might be published, and it would form an excellent introduction to Lanzi’s work. It is entitled, ‘An historical sketch on the state of the fine arts during the middle ages’. I find also a curios dissertation ‘On painters drawings’; another ‘On the origin of engraving on wood and copper’; a third ‘On the engravings of early german school’. There are large fragments also of a work ‘On the etchings of italian painters, which contain much useful information’; and a lecture ‘On the use of prints’, another on the ‘Pratical part of painting’, and two ‘On the origin and progress of taste’. There is also a poem on the origin of engraving, written in 1783, of which there are two copies in MS. I have already mentioned, that the lectures on the origin and progress of taste were extended into a treatise, which is not finished. This is also the case with some dissertations on the state of letters and the arts anterior to the greeks, and their progress among that people. The whole seem to have been parts of a great work on the fine arts, which he left imperfected;
e infine un altro trattato «on the fine arts» che lo stesso Traill non esitava a dichiarare addirittura «far superior to any thing on that subject which British literature possesses»37. In questa accurata, anche se non ordinata lista di titolature, si possono riconoscere alcuni di quei temi toccati nelle lezioni accademiche degli anni Ottanta del Settecento (nella fattispecie quelle sull’incisione poi confluite anche nel Dictionary dello Strutt), tutte quelle pubbliche letture e conferenze che sbocciarono in seno all’attività delle istituzioni cui Roscoe dette vita, dalla prime societies alla «Royal Institution». I manoscritti di Roscoe sono ancora conservati e in parte sono stati pure identificati, anche se mai attentamente analizzati, tanto che si contano per lo più solo rapidi accenni, per la massima parte marginali, in varie pubblicazioni più o meno recenti. L’analisi di questa produzione manoscritta inedita meriterebbe davvero una ricerca autonoma, data anche la complicata gestazione dei testi, fitti di frasi ripetute, appunti sparsi, citazioni bibliografiche. Oltre al loro contenuto, unicamente accennato dal titolo riportato da Traill, non possiamo attestare la loro cronologia, lo stato della loro elaborazione, né soprattutto verificare se parte di questi manoscritti siano stati magari pubblicati, anche come singoli stralci nei passi delle opere edite di Roscoe in cui ritornano temi come l’origine delle arti, l’attenzione per l’incisione e le tecniche artistiche. Tale analisi, proprio per la sua ampiezza, e per la necessità di una più precisa individuazione anche a partire dalle preziose testimonianze dei biografi, esula dai limiti di questa ricognizione. Tuttavia è possibile illustrare alcune tracce portanti funzionali a inquadrare che tipo di ricerca essi rappresentano e in che modo si pongono rispetto a quanto edito. Il lavoro sull’origine del gusto («On the origin of taste») è un insieme di fascicoli, non privo di ripetizioni, dovute a ricopiature, e fogli sparsi, con tutta probabilità propedeutico alla lezione inaugurale tenuta da Roscoe per la «Royal institution» nel 1817, e che probabilmente risente delle prime discussioni della «Liverpool Philosophical and Literary Society», presso la quale è pure documentata la lettura di un testo intitolato «On taste». Nell’insieme di queste carte stanno anche le riflessioni sulle arti anteriori ai greci e ai romani, anch’esse redatte come abbozzo incompiuto, sicché entrambi questi lavori verosimilmente possono essere considerati 37
TRAILL 1853, pp. 43-45, 47; cfr. ad esempio ROSCOE 1805, vol. IV, pp. 86-88, 90-92.
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quelli indicati da Traill. La storia del manoscritto miniato in Italia, a cui Roscoe attese in occasione del lavoro di catalogazione dei manoscritti di Holkham Hall, che lo occupò tra la metà del secondo e la metà del terzo decennio dell’Ottocento, è stato pure in parte già citato negli studi, anche per la sua particolarità e importanza; in bella copia, invece, si trova il poema sull’origine della incisione, la cui redazione può essere seguita anche scorrendo il sopra menzionato carteggio di Roscoe con Joseph Strutt38. Tale massa di appunti serve per confermare ulteriormente come le arti figurative siano oggetto di una meditazione d’indagine sistematica e non occasionale. Il fatto che Roscoe non abbia pubblicato specificatamente su argomenti storico-artistici, o comunque che si tratti di scritti minori rispetto alle due grandi biografie Medici, non significa che le arti fossero solo corollario ad altri studi. Ma si può dire di più. La presenza di digressioni storico-artistiche all’interno delle biografie medicee, infatti, non appare un semplice tributo pagato alla volontà di scrivere una ricostruzione culturale complessiva di una data epoca, bensì si configura come un elemento preciso di questo stesso contesto. Anzi, il fatto che probabilmente il fiorire di ricerche specifiche sulle arti, o meglio, la volontà di pubblicazione di un’opera organica e autonoma sulle arti, cada dopo la pubblicazione del Leone X edito nel 1805, permette di rilevare come una meditazione a largo raggio sulla cultura dell’Italia tra Quattro e Cinquecento avesse portato Roscoe a focalizzare la propria attenzione proprio sull’aspetto artistico. E abbia poi contribuito ad avvicinarlo a Lanzi e all’opportunità della traduzione illustrata della Storia pittorica. Gli stessi manoscritti di Roscoe sopra elencati, redatti in forma più o meno compiuta, dimostrano di fatto un’applicazione continua al problema delle arti figurative, non limitata a una generica acquisizione di informazioni utili per aggiungere notizie su un versante culturale, accanto alla letteratura o al teatro. Tale messe di scritti certifica che il suo interesse per le arti si fonda su una base di studio e su una volontà non marginale di sistemazione teorica delle sue ricerche. Di notevole rilievo, inoltre, e sarebbe tutta una questione da approfondire in ottica comparatistica, appare il contributo alla conoscenza dell’arte italiana che sarebbe venuto a Roscoe dalle stesse traduzioni delle sue opere maggiori, le biografie di Lorenzo e di Leone X. Soprattutto quest’ultima, edita nel 1816 per cura di Luigi Bossi, conteneva numerose postille ai commenti di Roscoe sulle arti, che egli senz’altro meditò con particolare attenzione proprio perché di marca italiana, e che saranno senz’alto servite a far crescere il suo desiderio di un più compiuto approfondimento sui temi trattati. Basti pensare che Luigi Bossi dedicò una nota integrativa al passo del Leone X relativo allo stato delle arti figurative durante il suo pontificato che conta oltre cento pagine39. Tuttavia funzionavano anche quelle note minori, di stampo ‘locale’, come quelle apposte dal Mecherini alla vita di Lorenzo il Magnifico, che pure presenta un apparato integrativo molto meno corposo rispetto a quello messo in atto da Luigi Bossi per il Leone X. Ad esempio, commentando il riferimento di Roscoe alla rinascita delle arti, e quindi al ruolo di Cimabue quale primo restauratore della pittura, Mecherini appuntava: «L’amore della mia patria non mi permette di lasciare inosservato che l’onore d’avere il primo ristabilita la pittura deesi attribuire a Giunta Pisano, il quale è certamente anteriore non solo a Cimabue, ma ancora a Guido da Siena»40.
I manoscritti ricordati sono: LCCL, Roscoe Papers, 920, 5545 (sul gusto); LCCL, Roscoe Papers, 920, 5493 (il poema sull’incisione); LCCL, Roscoe Papers, 920, 5551 (sulla miniatura). Tra coloro che hanno menzionato o ricordato i manoscritti roscoeani cito COMPTON 1960-61, p. 28, nota 5; GRAHAM 1964-1968, p. 137; MORRIS 1993a, in part. pp. 91-92; MORRIS 1993b, in part. pp. 8-9; MORRIS 2007, pp. 159-161. 39 ROSCOE-BOSSI 1816-1817, vol. XI (1817), pp. 114-221. 40 ROSCOE-MECHERINI 1799, vol. IV, p. 6 (nota asteriscata). Sul Mecherini, nato nel 1768 e morto nel 1843, figura molto importante nella Pisa di primo Ottocento, e soprattutto nella vita artistica (fu membro della Deputazione sulla conservazione dei monumenti del 1813, presidente dell’Accademia di belle arti di Pisa), si veda BARSANTI 1999, pp. 28-29, 185-186; ROSINI 1844. Sarà stata certo decisiva l’autonoma lettura di Lanzi, ma va 38
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Informazioni spesso decisive, perché contribuivano a un ripensamento di determinati problemi nonché ad ampliare la ricognizione bibliografica. In effetti le traduzioni restituivano una lettura critica dell’opera: la rendevano all’autore con gli ‘interessi’, arricchita di precisazioni e approfondimenti. Proprio gli editori della traduzione bossiana del Leone X parlavano infatti di «un’opera che può considerarsi come in gran parte nuova ed originale», riferendosi non solo alla notazione e alle appendici, ma anche all’apparato iconografico aggiunto41. Si possono formulare ulteriori considerazioni, più nel merito. Innanzitutto non sembrano esistere limiti cronologici alle ricerche svolte da Roscoe. Se appare evidente un’attenzione specifica al problema del ‘risorgimento’ delle arti, individuato non in Cimabue e i Pisani ma oltre duecento anni avanti, attorno al Mille, l’apertura verso la produzione figurativa anteriore ai greci segna un ripercorrimento diacronico senza preclusioni dell’intera produzione artistica dall’età arcaica a quella moderna, al ‘rinascimento’ almeno; considerando essenziale, però, anche il fitto e documentato rapporto di Roscoe con gli artisti del presente che porta a una naturale estensione cronologica e critica verso i suoi giorni. Una scansione cronologica ampia, ma che cominciava a essere frequentata anche da altri studiosi, precedenti o coevi: penso anche agli stessi possibili modelli roscoeani, Lanzi e Tiraboschi su tutti, quest’ultimo difatti spesso citato nel manoscritto sulle origini del gusto e quello, ad esso comunque collegato non solo fisicamente, inerente proprio le arti avanti i greci. Le argomentazioni di Roscoe sono molto vicine, se non nel concreto dello svolgimento teorico, almeno nell’individuazione delle questioni da porre al centro della ricerca, alle coeve discussioni, specialmente italiane, sul primato degli etruschi rispetto ai greci e sulla labile distinzione tra questi e magnogreci; così come sul debito dei greci verso l’arte egizia, che proprio dai primi dell’Ottocento cominciava a circolare diffusamente in Europa. Quelle titolature dei manoscritti di Roscoe che mirano a documentare direttamente le tecniche o le pratiche artistiche, dimostrano quanto l’autore si spingesse anche verso il versante ‘operativo’ della produzione figurativa. Ciò è probabilmente dovuto sia a un’effettiva dimestichezza con il disegno, che Roscoe pure aveva, sia alla necessità di colmare quella lacuna avvertita dai «dilettanti» rispetto ai «professori», ritenuti più adatti a scrivere sulle arti perché artisti essi stessi e quindi automaticamente più competenti. Tale insieme di manoscritti, storie e trattati più settoriali, può aiutare a immaginare quel compendio sulle «fine arts» che addirittura Traill definisce una delle migliori produzioni sul tema delle arti in area inglese, quindi in suo stato di elaborazione quanto meno avanzato. L’opera di Roscoe, sia edita sia manoscritta, conferma il suo rapporto privilegiato con tre studiosi italiani, che, più di altri, incisero in maniera determinante nella sua tipologia di scrittura e di impostazione dei problemi artistici: il già ricordato Lanzi, Girolamo Tiraboschi e Ludovico Antonio Muratori. Il tema è centrale per due motivi: in primo luogo perché, dovendo scrivere sull’Italia e non avendoci mai viaggiato, diveniva vitale per Roscoe individuare ‘autorità autoctone’ affidabili per sostenere la propria argomentazione, che non è compilativa, ma spesso innovativa e autonoma. In questo senso il rapporto col Fabroni, autore di tre biografie medicee (Cosimo il Vecchio, Lorenzo il Magnifico e Giovanni, poi Leone X), è oltremodo indicativo42. In seconda battuta analizzare il suo rapporto con le pubblicazioni italiane dà modo di verificare in che modo esse fossero lette al di là della Alpi, quale beneficio e quale influenza ne derivasse.
considerato che anche Fuseli porrà Giunta Pisano tra i primi pittori della risorgente pittura toscana, nella sua breve History of art in the schools of Italy: KNOWLES 1831, vol. III, p. 154. 41 ROSCOE-BOSSI 1816-1817, vol. VIII (1817), p. VI. 42 FABRONI 1784; FABRONI 1788-1789; FABRONI 1797; PIROLO 1992, pp. 181-185. Per il rapporto con Roscoe si veda GHELARDI 1991, pp. 104-105; un accenno anche nell’intervento di E. Garin in BOSSITONINI 1989, pp. 300-301.
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Roscoe costruisce il proprio orizzonte di storiografo delle arti sullo sfondo di una produzione di settore che in quegli anni si trovava in grande fibrillazione, lanciata come era verso ripetuti tentativi di sistemazione storica a tutto campo dell’universo figurativo, dall’antico al moderno. Tiraboschi va menzionato soprattutto quale possibile modello per questo sapiente intreccio tra considerazioni sulle arti e sulle lettere, misurato su un perimetro cronologico ampio, che Roscoe ricalca con un’ulteriore specificazione su «arts and letters», anziché su tutta la ‘cultura’, che alla fine è lo scrivere tout court, stando proprio al fortunato impianto della Storia della letteratura italiana del Tiraboschi. Il ruolo di Lanzi, la cui Storia pittorica appare un sicuro riferimento e al contempo una sorta di detonatore per l’elaborazione di più articolati saggi sulle arti figurative apparsi in mezza Europa nella prima metà del diciannovesimo secolo, è altrettanto decisivo. I volumi lanziani, che Roscoe conosce bene già dall’edizione del 1795, di fatto sostanzia in maniera determinante una nuova e più matura riflessione sulle arti figurative, ma soprattutto, come tende a precisare il Traill, sulla «history» delle arti figurative. Infatti, il trattato manoscritto di Roscoe, pronto per la pubblicazione, che dimostrava come il vero rinascimento delle arti si dovesse collocare ben duecento anni prima di Cimabue, stando sempre a Traill, valeva come prefazione a Lanzi. Tale insistenza sulla individuazione di un ‘rinascimento’, ancora riconosciuto nel Quattrocento, essenzialmente fiorentino, ma che aveva lunghe e profonde radici nei secoli precedenti – radici che saranno lentamente riscoperte nei decenni a seguire –, rimanda senz’altro anche a Ludovico Antonio Muratori, in particolare al Muratori degli Annali d’Italia, che Roscoe conosceva molto bene, come attestano le ripetute citazioni anche nelle sue opere edite. Al medesimo Muratori andrà pure riconosciuto quel costante affondo strettamente documentario che Roscoe, seppur magari mutuandolo da altri autori come Fabroni, farà decisamente suo. Insomma una triade di studiosi italiani basilare per capire il fondo documentario e metodologico su cui Roscoe lavorò, e che costituiva un saldo ancoraggio, seppure cartaceo, a un paese rimastogli fisicamente estraneo. Si doveva però al «dilettante» Lanzi la prima e organica ricognizione specifica sulle arti figurative, la pittura nella fattispecie. Lanziano, infatti, anche il tema delle stampe e dell’incisione, indagate queste ultime in modo ripetuto da Roscoe, con affondi che in parte ricalcano l’interesse di altri eruditi europei sull’origine dell’incisione (si pensi all’Heineken o al De Murr), ma che si muovono allo stesso tempo con identica, onnivora curiosità verso temi vari dal punto di vista storico – e cioè la storia dell’incisione stessa – e geografico, grazie a scarti diretti verso l’incisione di area tedesca anche avanti Dürer oppure verso i Paesi Bassi e Rembrandt. Insomma, la cultura di Roscoe ha una buona parte di ‘radici bibliografiche’ italiane: e per capire bene la loro sussistenza bisognerà guardare quindi ai suoi libri.
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«Per dar pascolo a passeggiere dilettante». Autori e pubblico delle guide storiche di Pisa _____________________________________________________________________________________
«PER DAR PASCOLO A PASSEGGIERE DILETTANTE». AUTORI E PUBBLICO DELLE GUIDE STORICHE DI PISA Luigi Lanzi nella Prefazione all’edizione del 1792 della sua Storia Pittorica, coll’intento di giustificare l’impostazione della propria opera, descrive la temperie culturale della Toscana di fine Settecento: Ogni cosa par che il consigli il trasporto de’ principi per le belle arti, la intelligenza di esse estesa a ogni genere di persone, il costume di viaggiare reso su l’esempio de’ grandi sovrani, più comune a’ privati, il traffico delle pitture divenuto un ramo di commercio importante alla Italia, il genio filosofico della età nostra, che in ogni studio abborrisce superfluità e richiede sistema1.
Si elencano così le motivazioni materiali che favorirono il fiorire di differenti generi letterari legati alla storia artistica delle città, tra le quali spicca certamente «il costume di viaggiare»; la Toscana e i suoi tre principali poli (Firenze, Siena e Pisa) rappresentarono tappe fondamentali del Grand Tour, sin dalle ‘esplorative’ esperienze cinquecentesche (Michel de Montaigne) e seicentesche. Il Settecento costituisce il secolo d’oro di questo fenomeno, che catalizzò una serie difficilmente calcolabile di implicazioni sul profilo sociale, culturale e letterario. Il viaggio intrapreso da eruditi o giovani rampolli di prestigiose famiglie europee nel XVIII secolo, assunse i connotati di una «consuetudine didattica»2 e favorì la nascita di alcune tipologie letterarie. In primo luogo l’identificazione del viaggio col suo valore educativo ebbe per conseguenza l’incremento della manualistica intesa a definire regole e riti dell’esperienza itinerante3, ma i due principali filoni che emersero in quel contesto furono quello dei resoconti, diari e memorie relativi al viaggio redatti durante o al termine del medesimo, e quello delle guide, intese come strumenti di supporto al viaggiatore scritti da autori nativi della città o della zona di pertinenza della guida o da personaggi ad essa legati per motivi professionali o di altro genere. La città di Pisa è identificabile quale meta prediletta di viaggio – indipendentemente dalle finalità del medesimo4 – a partire dalla seconda metà del XVI secolo, come riscontrabile dalle visite di personaggi come Michel de Montaigne (1580-1581) o Fynes Moryson (1594). Si tratta di esperienze riportate all’interno di mémoires, travel books e altre tipologie di resoconti che cristallizzarono l’immagine di Pisa in alcuni stereotipi stabili e immutabili, come uno di quei luoghi che all’interno di un itinerario si vede assegnato il compito di rassicurare piuttosto che di sorprendere5. Alla letteratura di viaggio, prodotta dai viaggiatori stessi, fece riscontro, a partire dalla metà del Settecento, una notevole produzione di guide aventi per oggetto la sola città di Pisa. L’analisi di questa tipologia letteraria, che vide pubblicazioni anche oltre il 1800, costituisce un interessante occasione di indagine del contesto all’interno del quale nasceva il testo, ovvero in merito alle biografie degli autori, alle possibili motivazioni che portavano alla stesura di una guida e al potenziale pubblico cui questa era destinata. A tale fine, fondamentale un’attenta indagine testuale da condursi in particolare sulle introduzioni, proemi o prefazioni, che normalmente costituiscono l’incipit di questo tipo di volumi.
1 LANZI
1792, p. 6. 1995, p. 18. 3 BAILO-BLASUCCI 2003, p. XXIV. 4 Pisa durante la seconda metà del Settecento fu eletta a residenza estiva del Granduca, quindi molti la frequentavano come città sede temporanea della corte. 5 BAILO-BLASUCCI 2003, p. XVII. 2 BRILLI
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Gli autori. Degli autori delle guide pisane si hanno in effetti notizie biografiche alquanto scarne e frammentarie; anche per quel che concerne la figura eminente di Alessandro da Morrona, ci troviamo di fronte a poche informazioni, per lo più relative all’intensa dialettica che questi intrattenne con studiosi ed eruditi, a cavallo tra XVIII e XIX secolo. Pochissimo sappiamo dell’autore di quella che potremmo considerare la prima guida di Pisa pubblicata nel 1751 - Guida per il passeggiere dilettante di pittura, scultura ed architettura nella città di Pisa 6 -, Pandolfo Titi. A partire dal frontespizio (Fig. 1), Titi si presenta come «cavaliere» e «Nobile della città di San Sepolcro»; da un’accurata analisi dei registri dei cavalieri dell’Ordine di Santo Stefano ordinati a Pisa nella prima metà del XVIII secolo emerge la figura di Pandolfo Tidi, nato nel 1696 e morto nel 1765 a Livorno, che ricevette l’abito il 30 maggio del 17267. Si tratta dunque di un pisano d’adozione che scrive la propria guida in omaggio e a descrizione della città che lo ha ospitato nel corso della sua vita.
Fig. 1 Frontespizio di P. Titi, Guida per il passeggiere dilettante di pittura, scultura ed architettura nella città di Pisa, Lucca 1751.
Caso similare si verifica per Gioacchino Cambiagi, autore di una guida pubblicata nel 17738 coll’intento dichiarato di emendare e aggiornare le notizie date dal Titi, ma che si risolve in una sintesi del Passeggiere dilettante finalizzata ad introdurre la descrizione dei Bagni di San Giuliano e delle proprietà curative delle loro acque. Da alcuni passaggi nell’Introduzione e all’interno del testo, si evince che Cambiagi non era nato a Pisa, dove comunque effettuò i propri studi; quando affronta la descrizione della zona universitaria e del palazzo della Sapienza, si dilunga non poco infatti nell’elencare i nomi dei professori dell’ateneo9. Si è portati a ipotizzare una parentela con l’omonimo e contemporaneo editore fiorentino Gaetano, anch’egli autore di una guida di Firenze10, di cui forse era fratello. Il 1792 vede una nuova pubblicazione dal titolo Descrizione della città di Pisa per servire di guida al viaggiatore11 della quale non si conosce l’autore. Si tratta di un testo che si propone dichiaratamente di TITI 1751. 1996, pp. 423-424. 8 CAMBIAGI GIOACCHINO 1773. 9 CAMBIAGI GIOACCHINO 1773, pp. 103-109. 10 CAMBIAGI GAETANO 1790. 11 DESCRIZIONE DELLA CITTÀ DI PISA 1792. 6
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ridurre in forma di itinerario, utilizzando lo schema impostato dal Titi, le innovative speculazioni comparse nei volumi della Pisa illustrata nelle arti del disegno pubblicata da Alessandro da Morrona tra 1787 e 1793. Alcuni hanno proposto lo stesso da Morrona quale autore della guida, ma, al di là dei continui riferimenti al «Sig. Morrona» fatti in terza persona, che potrebbero corrispondere a un espediente letterario, il modo di scrivere appare decisamente incompatibile con quello dell’autore della Pisa illustrata e delle altre opere di cui parleremo più avanti. Al di là di tutto la Descrizione della città di Pisa è un’interessante operazione editoriale che ebbe il plauso del da Morrona stesso, anche se non come diretto promotore, e che testimonia del notevole interesse che investì le scoperte morroniane, compendiate in forma di guida ancor prima della loro completa pubblicazione12. Proprio Alessandro da Morrona pubblicò due guide nel 1798 e nel 1821, a compendio delle due edizioni della Pisa illustrata, più, nel 1816, un volume intitolato Pregi di Pisa, compendiati da Alessandro da Morrona patrizio pisano. Per quel che concerne la biografia morroniana non è possibile ricavare niente di nuovo dall’analisi delle introduzioni alle sue opere dalla quale si rafforza l’immagine di un personaggio eminente che ostenta la sicurezza di chi si considera – ed è considerato – un’autorità. Gli autori delle guide che vengono scritte entro il primo quarto del 1800 si configurano come appartenenti a categorie ben differenti. Nei casi di Titi e Cambiagi ci troviamo di fronte a personalità che non possiamo certamente definire come professionisti. Si tratta non più di soli studiosi, collezionisti o mecenati, ma di persone «in possesso di una loro specifica dimensione di studio che andava a corroborare in maniera significativa, integrandola con un’esperienza di scrittura e di fondamento metodologico, il contributo dei ‘professori’ il quale però restava, è bene chiarirlo, quello legittimo e ultimativo»13. Quello di Alessandro da Morrona è ovviamente un caso differente, che vede un affermato studioso cimentarsi con un genere letterario anche all’epoca ritenuto minore, ma del quale lo storico correttamente non sottovalutò le potenzialità divulgative. Le motivazioni. Le motivazioni che potevano portare alla redazione di una guida erano molteplici e riconducibili ad alcune categorie principali. L’intento campanilistico è sotteso a buona parte delle pubblicazioni di questo tipo; una guida era scritta per celebrare le bellezze della città nativa, spesso in concorrenza con la comparsa di testi analoghi dedicati a centri limitrofi. Frequentemente poi le guide volevano porsi in rapporto con i diari e resoconti scritti dai viaggiatori che, nella pur generale celebrazione delle bellezze italiche, spesso non lesinavano critiche, non di rado stereotipate, al malcostume della popolazione o alle condizioni di degrado di alcune realtà. In particolare i topoi negativi relativi alla città di Pisa erano legati allo spopolamento14 e alla presunta insalubrità dell’aria15. Proprio a queste insinuazioni intende rispondere Pandolfo Titi rivolgendosi nell’introduzione Al cortese lettore preoccupato che: il passeggiere fosse stato male informato colla lettura di qualche cattivo libro di geografia e di autore straniero, che dicesse che in questa città non si gode di un’aria perfettissima, come molti ve ne sono, che son caduti in questo errore, e particolarmente i francesi16. 12 Il
terzo e ultimo volume della Pisa illustrata venne pubblicato solo nel 1793. 2006, pp. 95-96. 14 BAILO-BLASUCCI 2003, p. XIX. Un calo demografico interessò la città a seguito della grave crisi economica e sociale che investì tutta la Toscana nella seconda metà del XVII secolo. Si verificò un vera e propria ‘disuguaglianza demografico-culturale’ rilevata con sconforto da molti viaggiatori. 15 DONATI 1993, p. 87. Il letterato e saggista inglese Tobias Smollet nel 1765 parla ad esempio di Pisa come di una città in cui «il numero degli abitanti è davvero insignificante» e «l’aria in estate è reputata malsana per le esalazioni provenienti dalle acque stagnanti nei dintorni della città». 16 TITI 1751, p. XV. 13 PELLEGRINI
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Nel medesimo contesto precisa anche che la città «adesso arriva alla somma di quindici, in sedici mila, senza contare li forestieri»17, con l’intento di smentire le maldicenze francesi. Evidente quindi è il rapporto tra la stesura delle guide e la conoscenza della littérature de voyage prodotta dai viaggiatori stessi; tale reciproco scambio non rappresenta da solo lo stimolo decisivo all’ideazione di testi in forma di guida, ma è facilmente rintracciabile nelle introduzioni ad altri volumi simili. Singolare infatti che nelle altre guide pisane non compaia nessun riferimento a critiche e osservazioni di viaggiatori in merito agli stereotipi negativi della città. Piuttosto i capitoli introduttivi sostituiscono il motivo della risposta alle critiche con quello dell’inserimento dell’opera in un filone letterario specifico per la realtà pisana. Sin dal testo del Cambiagi si fa un diretto riferimento all’opera del Titi, considerata unanimemente come ‘capostipite’ del genere in Pisa, tanto che l’autore si ripropone di «compendiare, correggere ed aggiungere ciò che a dette belle arti appartiene»18 rispetto al Passeggiere dilettante, che è fra l’altro considerata come una pubblicazione che «non ebbe altro scopo, che di soverchiamente trattenere il lettore»19 (Fig. 2).
Fig. 2 Frontespizio di G. Cambiagi, Il forestiero erudito o sieno compendiose notizie spettanti alla
città di Pisa scritte per suo divertimento dal dottore Giovacchino Cambiagi, Pisa 1773.
Subentra così un nuovo stimolo alla stesura di una guida, quello di confrontarsi con un genere letterario affermato. In particolare il successo editoriale della pubblicazione del Titi è attestato dalla presenza di copie del testo in alcuni dei fondi bibliotecari privati più importanti a cavallo tra XVIII e XIX secolo20 e, al di là del caso di Pisa, tra la metà del Settecento e la fine del secolo si registra un incremento esponenziale per questo tipo di pubblicazioni, spesso dedicate anche a centri minori, alcuni dei quali dotati di un passato storico e artistico di gran lunga meno affascinante e articolato rispetto a quello pisano.
TITI 1751, p. XV. CAMBIAGI GIOACCHINO 1773, p. 10. 19 CAMBIAGI GIOACCHINO 1773, pp. 9-10. 20 In particolare la guida del Titi la troviamo nel catalogo dei libri dell’erudito pistoiese Tommaso Puccini (PUCCINI 1788, c. 30) ma anche nella bibliografia allegata all’ultima edizione della Storia Pittorica del Lanzi (LANZI [1809] 19681974, p. XXX). 17 18
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Così anche l’anonima Descrizione del 1792 cita esplicitamente nell’Avviso al lettore due precedenti: lo stesso Passeggiere dilettante, ritenuto ormai «un’opera imperfetta»21, e la Pisa illustrata del da Morrona «eccellente nel suo genere» ma «troppo voluminosa»22. Completamente ignorato l’itinerario del Cambiagi, si intende inserire la Descrizione in un filone che comprende una guida vera e propria e un testo di approfondimento storico artistico che, per ammissione stessa dell’anonimo autore che lo giudica eccessivamente voluminoso, non ha niente dell’impostazione ‘per itinerari’ della guida. Si tratta certo di un primo esempio di collegamento diretto tra la volontà di creare un testo maneggevole e la necessità di reperire notizie e informazioni da una fonte autorevole, appartenente ad uno status letterario di livello superiore. Tale collegamento si concretizza in maniera completa nella produzione di Alessandro da Morrona, che alle due edizioni della sua opera magna fece seguire altre pubblicazioni a carattere di guida. Dal titolo della prima, Compendio di Pisa Illustrata, si evince la natura integrativa rispetto alle opere maggiori con cui sono stati ideati questi testi minori. Il successo letterario del genere breve della guida e la volontà di riversare in un volume di ampia divulgazione i risultati delle proprie ricerche, magari corredati da qualche compendiosa novità, costituiscono gli stimoli più genuini della produzione minore del da Morrona. In effetti analizzando le introduzioni non troviamo alcun riferimento né alla litterature de voyage prodotta da viaggiatori passati da Pisa, né a rapporti di filiazione letteraria con autori precedenti. Le opere stesse del da Morrona sono i precedenti letterari delle nuove pubblicazioni, all’interno di un filone autonomo da intendersi come esclusivamente ‘morroniano’, sebbene presenti allacci con la pubblicazione contemporanea e antecedente. Gli intenti dello studioso sono ben individuati da un passaggio dell’introduzione Ai lettori nel compendio del 1798, che viene definito «un libro portatile nella più semplice foggia su quelli di Pisa illustrata, di qualche nuovità rivestito, ed utile ai culti viaggiatori»23. La finalità perseguita da Alessandro da Morrona è così palesemente dichiarata; lo studioso di alto livello che, come vedremo più avanti, è da considerarsi appartenente alla categoria dei ‘professori’, percepisce il potere divulgativo dello strumento-guida e lo utilizza con la piena consapevolezza di allargare i proprio pubblico e di renderlo più variegato. I destinatari La questione dei destinatari dei testi presi in esame, presenta problematiche più complesse poiché obbliga ad un’attenta riflessione sui potenziali fruitori di pubblicazioni di carattere storico, artistico e di erudizione a cavallo tra XVIII e XIX secolo. Il contesto toscano in particolare visse nella seconda metà del Settecento un periodo di intensa e continua sperimentazione di nuove metodologie di ricerca e studio nella storia dell’arte; decisiva in tal senso la feconda dialettica che si instaurò tra Firenze, Siena e Pisa, rappresentate da Luigi Lanzi, Guglielmo della Valle e Alessandro da Morrona. Un confronto tra opinioni e interpretazioni che favorì la nascita di una nuova prassi nello studio della storia artistica delle città, contribuendo allo sviluppo e al perfezionamento dei filoni editoriali inerenti al mondo dell’arte, dell’antiquaria e dell’erudizione. Un percorso intellettuale in evoluzione dunque, che coinvolse direttamente i generi letterari che ne erano espressione; logica conseguenza fu una relativa mutazione dei potenziali destinatari di prodotti editoriali già collaudati, ma anche l’avvento di nuovi fruitori per pubblicazioni di nuova – o quantomeno rinnovata – invenzione. Le guide non rappresentavano una tipologia editoriale nuova per il XVIII secolo, ma di certo questa ridefinizione degli interessi e dei metodi nel campo degli studi d’arte e d’erudizione comportò una vera e propria rivoluzione nelle priorità e nei modi espositivi caratteristici; rivoluzione che in DESCRIZIONE DELLA CITTÀ DI PISA 1792, p. III. DESCRIZIONE DELLA CITTÀ DI PISA 1792, p. III. 23 DA MORRONA 1798, p. III. 21 22
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ambito toscano prese le prime mosse dalla rivisitazione, operata da Giovanni Cinelli nel 167724, della celebre descrizione della città di Firenze scritta da Francesco Bocchi nel 159125. In tale processo il pubblico non si configura come un passivo spettatore bensì, con esigenze dichiarate e specifiche preferenze, dà il suo contributo ad indirizzare la ricerca e promuovere gli studi. Molti infatti sono i riferimenti che gli autori, all’interno di proemi e introduzioni, fanno a specifiche richieste di informazioni pervenute da altri eruditi o appassionati26; per soddisfare questo pubblico che vanta un filo diretto con gli autori e per compiacere una vasta gamma di lettori, pisani e non, vennero prodotte anche le guide di cui abbiamo sin qui trattato. In primo luogo gli autori identificano i destinatari delle proprie guide a partire dalla titolatura nel frontespizio. Così Pandolfo Titi si rivolge dalla prima pagina al Passeggiere dilettante di pittura, scultura ed architettura e anche nella parte introduttiva dedicata Al cortese lettore ribadisce di aver intrapreso l’opera «per dar pascolo al passeggiere dilettante di quelle tre nobilissime arti» 27. Se il termine ‘passeggiere’ è di per sé ambiguo in quanto non si riferisce esclusivamente ad appassionati ed eruditi ‘di passaggio’ per la città di Pisa, ma può comprendere agevolmente anche cittadini della medesima, sul termine ‘dilettante’ è opportuno riflettere accuratamente. Nell’ambito del Settecento toscano è egualmente riferibile tanto all’appassionato di belle arti che traeva diletto dall’osservazione delle opere d’arte, quanto ai volenterosi aspiranti artisti che in quegli anni frequentavano specifiche scuole di pittura e disegno come quella presente a Lucca28, o si appoggiavano a istituti che finanziassero i loro studi artistici, come a Pisa provvedeva la Pia Casa di Misericordia29. Lo stesso Titi ha lasciato testimonianza tangibile della sua attività di pittore con un’Annunciazione oggi ancora visibile in Santa Apollonia. Ai dilettanti si rivolge lo stesso Luigi Lanzi nelle varie edizioni della sua Storia pittorica, che ha tra le sue finalità più evidenti quella di avvicinare anche questa categoria ad una conoscenza almeno sommaria dell’arte italiana: non vi sarà allora maniera pittorica, né artefice di qualche nome in veruna quadreria di cui il dilettante qualche idea ne acquisti per mia opera30.
Lo stretto legame che intercorreva spesso tra la pratica amatoriale della pittura e il concetto di dilettantismo è confermata sempre da Lanzi in un passaggio dell’ultima edizione della Storia pittorica in merito all’elencazione degli artisti locali: Quasi poi tutti i pittori e i dilettanti di ogni città mi animerebbono a nominare quanti più potessi de’ mediocri loro municipali31.
Anche nella Real Galleria di Firenze, Lanzi chiama in causa queste categorie, dichiarando esplicitamente la composizione del proprio uditorio: Questo è in poco il dettaglio del terzo museo. Il comune de’ forestieri non vi fa molta attenzione. Ma i dilettanti del disegno, che v’imparano gli accrescimenti, le decadenze e i vari stili dell’antica scultura, e parimente i viaggiatori, che incontrando infinite teste di
BOCCHI-CINELLI 1677. BOCCHI 1591. 26 BOCCHI-CINELLI 1677, p. 1. Cinelli fa riferimento a richieste di letterati stranieri fatte a Magliabechi: «stato da diversi letterati forestieri chieste alcune notizie intorno alle cose cospicue della nostra città». 27 TITI 1751, p. XI. 28 CIARDI 1990a, p. 43. 29 CIARDI 1990a, p. 46. 30 LANZI 1792, pp. 17-18. 31 LANZI [1809] 1968-1974, I, p. XIV. 24 25
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«Per dar pascolo a passeggiere dilettante». Autori e pubblico delle guide storiche di Pisa _____________________________________________________________________________________ Cesari non ne trovano che due o tre serie, l’avran sempre in grado di un tesoro che non ha prezzo32.
Lanzi addirittura, oltre a chiamare nuovamente in causa i pittori «dilettanti nel disegno», crea una distinzione tra «il comune de’ forestieri» e «i viaggiatori», che non incontriamo in nessuna delle guide pisane. Come già accennato, nell’opera del Titi il riferimento agli stranieri compare solamente in merito ai commenti sfavorevoli a Pisa espressi da viaggiatori francesi. Non compare mai il termine ‘forestiero’ né ‘viaggiatore’, dunque l’idea dello straniero come fruitore occasionale della guida è suggerito solo dall’interpretazione di ‘passeggiere’ come allusivo al passaggio-viaggio. Già con la guida di Gioacchino Cambiagi incontriamo, anche qui esplicitamente menzionata nel titolo, la figura del «forestiero erudito», che identifica nel lettore non pisano il principale destinatario del volume. Nello specifico il testo del Cambiagi si rivolge a frequentatori – potenziali e abituali – dei Bagni di San Giuliano, cui in appendice è dedicata un’ampia e accurata trattazione, ma che con ogni probabilità costituisce lo stimolo decisivo alla compilazione di un maneggevole – si tratta della guida più breve in assoluto – itinerario tra le rarità pisane. È con la Descrizione anonima del 1792 che troviamo, sempre nel titolo, il «viaggiatore» che viene menzionato anche nell’Avviso al lettore dove la guida è presentata come un testo «che contenesse in compendio quanto v’ha di più interessante per un viaggiatore nel libro del Sig. da Morrona e supplire a ciò che mancava a quello del Cav. Titi»33 (Fig. 3).
Fig. 3 Descrizione della città di Pisa per servir di guida al viaggiatore in cui si accennano gli edifizi, le pitture e sculture più rimarchevoli che ornano questa città, Pisa 1792.
È opportuno precisare come gli anni che intercorrono tra la pubblicazione delle due prime guide pisane e il 1792 siano decisivi per la nascita ed evoluzione di quel clima dialettico di capitale importanza nella definizione dei generi letterari inerenti alla storia dell’arte. Non deve meravigliare che le guide a ridosso del XIX secolo si rivolgano in maniera così puntuale e precisa alla figura del viaggiatore, ovvero al protagonista-autore dell’altro filone della litterature de voyage, in questo caso non per controbattere a critiche o commenti negativi, ma semplicemente poiché si è identificato nello straniero erudito, nel forestiero appassionato l’ideale fruitore del testo-guida.
32 LANZI 33
1782, pp. 37-38. DESCRIZIONE DELLA CITTÀ DI PISA 1792, p. III.
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La Descrizione di Pisa rappresenta in tal senso la sintesi più compiuta delle istanze del passato con le innovazioni maturate sul finire del secolo. Si riferisce alla Pisa illustrata morroniana come ad un oracolo e ne saccheggia i preziosi contenuti, ma per rendere fruibile l’opera si appoggia pedissequamente agli schemi ‘narrativi’ presenti nel Titi. Di tutti i testi esaminati è certamente quello che con maggior sicurezza si rivolge ad un pubblico di visitatori, presentandosi come guida nel senso più moderno del termine. Altre finalità si propongono le pubblicazioni minori di Alessandro da Morrona, che fa regolarmente seguire alle due edizioni della sua monumentale Pisa illustrata nelle arti del disegno dei volumi in forma di compendio, volti a completare i contenuti delle opere maggiori e contemporaneamente a riproporle in una soluzione editoriale più snella e di più ampia fruizione. Nel 1798 intitola la sua prima guida Compendio di Pisa illustrata compilato dal medesimo autore con varie aggiunte per servir di guida al forestiero, ponendo in primo piano la natura compendiosa e integrativa della pubblicazione, ancora una volta – ormai è una prassi – rivolta nelle dichiarazioni ad un pubblico non pisano (Fig. 4).
Fig. 4 Frontespizio di A. da Morrona, Compendio di Pisa illustrata compilato dal medesimo
autore con varie aggiunte per servir di guida al forestiero, Pisa 1798. Ma proprio quell’affermazione già citata, che da Morrona fa nell’introduzione al Compendio, illumina sulle reali intenzioni dell’autore: un libro portatile nella più semplice foggia su quelli di Pisa illustrata, di qualche nuovità rivestito, ed utile ai culti viaggiatori34.
Certo da Morrona si preoccupa dell’utile per i «culti viaggiatori» ma non dimentica di ricordare la presenza delle «nuovità» all’interno della guida, in modo da suscitare l’interesse anche di chi aveva letto la Pisa illustrata; si annoverano nel pubblico dunque anche gli eruditi, pisani e non, che avevano apprezzato le opere più ampie e approfondite che da Morrona aveva scritto su Pisa. Come si è evidenziato appare difficoltoso verificare con esattezza se un testo di questo genere escludesse deliberatamente dal proprio pubblico gli eruditi abitanti della città cui la guida viene dedicata; questa era da considerarsi anche un interessante strumento per prendere coscienza del patrimonio artistico del proprio luogo di nascita o d’adozione, e già il Cinelli si era proposto tale finalità quando nell’introduzione alla sua guida dichiara: 34
DA MORRONA 1798, p. III.
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Molte volte egli adiviene, che l’uomo anche nella propria patria è forestiero, e particolarmente quegli che nelle città grandi nasce, e sì come è obbligo di saper ben parlar la propria lingua, così è necessario saper di sua terra le prerogative migliori35.
Gaetano Cambiagi, nell’Introduzione alla Guida al Forestiero, pone il medesimo problema quando scrive: Ond’è che io ho luogo di assicurare tanto il Forestiero che il cittadino, cui prenda vaghezza di vedere le rarità ed i pregi della bella Firenze, che portandosi col presente libro ad osservare quanto in esso si descrive, troveranno esattamente e chiaramente sotto brevità esteso tutto il maraviglioso della città e delle sue adiacenze36.
Anche l’ottocentesca pubblicazione di Ranieri Grassi si porrà il problema di soddisfare «l’erudito viaggiatore e del zelante concittadino»37, a testimonianza della longevità di questa duplice funzione della guida38. In da Morrona tale duplicità si incrocia col motivo della stesura delle opere letterarie per dare lustro alla patria. Questo appare quantomai evidente nei Pregi di Pisa; ambiguo testo, pubblicato nel 1816, che in un per noi fondamentale passaggio, vede il da Morrona fare il bilancio della fortuna letteraria sin lì ottenuta: Animato pertanto dalle prefate voci de’ miei cari e pregevoli amici, pochi fra’ concittadini, molti fra gli esteri, novellamente imprendo a render servigio alla patria39.
Si fa riferimento ad un apprezzamento maggiore da parte del pubblico non pisano ed alla volontà di omaggiare nuovamente la propria città, secondo una formula di amor patrio più volte ribadita: Scrivo i Pregi di Pisa in compendiaria forma; ed ai medesimi amici di bel genio forniti in più scienze, in amor patrio gli offro40.
I destinatari di questi compendi sono quindi da considerarsi abbastanza variegati, anche se non deve ingannare quel riferimento ai «pregevoli amici [...] molti fra gli esteri», poiché con ogni probabilità da Morrona si riferisce ad altri eruditi non pisani, probabilmente sempre di ambito toscano, e non a viaggiatori o forestieri che hanno adoperato i testi morroniani per compiere il loro tour in Pisa. È possibile quindi identificare un pubblico variegato composto da destinatari aventi differenti livelli di competenza – dal dilettante all’erudito studioso – e che non era necessariamente da identificare nei soli viaggiatori, ma pure in eruditi locali o, come li chiama il da Morrona, «esteri». C’è da rilevare che nella maggior parte dei casi gli autori si rivolgono ad un pubblico di loro pari; Titi, pittore dilettante e appassionato, vuol compiacere chi come lui si cimenta con l’arte sia da ‘praticante’ che da appassionato osservatore. Da Morrona si indirizza dichiaratamente ai viaggiatori, ma non trascura di soddisfare con precisazioni e integrazione rispetto alle opere maggiori, anche gli studiosi di alto livello, che come lui possono definirsi ‘professori’. BOCCHI-CINELLI 1677, p. 1. CAMBIAGI GAETANO 1790, p. VIII. 37 GRASSI 1836-1838, p. XI. 38 GRASSI 1851, p. VII. Il Grassi ribadisce tale duplicità anche nella guida del 1851: «Onde serva di guida al forestiere per tutto quello che possa interessare il suo spirito ed allettare la sua curiosità nel di lui breve soggiorno in questo luogo; come anche a secondare le brame di non pochi zelanti cittadini». 39 DA MORRONA 1816, p. VI. 40 DA MORRONA1816, pp. VI-VII. 35 36
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In breve, la panoramica emersa dall’analisi delle introduzioni permette di effettuare un censimento delle categorie di persone che a Pisa si interessavano di storia cittadina e storia dell’arte nella seconda metà del XVIII secolo; i profili sociali emersi dall’indagine condotta sui testi forniscono una visione d’insieme che coincide con l’immagine attraverso la quale Roberto Paolo Ciardi ha fotografato la Pisa ‘erudita’ settecentesca, composta in sintesi da «abitanti e forestieri»41, «collezionisti e mercanti»42, «dilettanti e professori»43.
41 CIARDI
1990b, p. 15. CIARDI 1990c, p. 27. 43 CIARDI 1990a, p. 15. 42
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Tommaso Puccini e i suoi diari di viaggio _______________________________________________________________________________
TOMMASO PUCCINI E I SUOI DIARI DI VIAGGIO Tra le numerose carte del pistoiese Tommaso Puccini (1749-1811) presenti nella Biblioteca Forteguerriana di Pistoia è conservato un fascicolo contenente tutta la documentazione di viaggio raccolta dall’erudito durante il suo lungo soggiorno romano (17741792). Si tratta di una filza1 con trentasei cataloghi ragionati, quasi delle piccole guide portatili, di tutte le produzioni artistiche più rappresentative riscontrate da Puccini nelle varie città italiane da lui visitate; descrizioni sia di importanti città d’arte, quali Bologna, Milano, Parma o Venezia (Fig. 1), sia di piccoli centri come Bergamo, Camerino, Recanati o Senigallia2. Per poter apprezzare nel loro giusto valore le osservazioni e i giudizi che compongono tale documentazione di viaggio è necessario prima di tutto delineare un rapido ritratto di un personaggio che ebbe un peso notevole nella cultura artistica fiorentina fine settecentesca3 e, soprattutto, conoscere con maggior precisione, attraverso lo spoglio delle sue carte personali, il ruolo che egli ebbe nel vivacissimo ambiente intellettuale romano tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta del XVIII secolo.
Fig. 1 Aggiunte alla Raccolta Puccini, Guida artistica d’Italia I, Venezia, Biblioteca Forteguerriana di Pistoia
Una considerazione, quella dovuta a tutte le annotazioni riguardanti i viaggi pucciniani, oggi di carattere prettamente documentario che però doveva già essere emersa ai tempi in cui esse vennero redatte, se Giuseppe Maria Pagnini esortava il pistoiese a rendere pubbliche le osservazioni da lui raccolte, denominate «effemeridi napolitane», nel diario di viaggio redatto durante un suo lungo soggiorno napoletano, svolto nell’autunno del 1783, al fine di
Biblioteca Forteguerriana di Pistoia (BFP), Aggiunte alla Raccolta Puccini, Guida artistica d’Italia I, C. 177. Vedi nota 52. 3 Cfr. SPALLETTI 2005. 1 2
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procurargli «[...] la gloria d’eccellente conoscitore delle Belle Arti, e quella insieme di valente scrittore: pregi non così facili a riunirsi in una stessa persona»4. «Valente scrittore» ed «eccellente conoscitore»: questi due sintetici giudizi dati dal Pagnini sono forse i più indicati per descrivere la figura di Tommaso Puccini; ma se delle sue capacità di letterato e traduttore di classici latini siamo adeguatamente informati grazie alla biografia scritta da Alfredo Chiti5, per quanto concerne l’aspetto d’intendente e conoscitore di belle arti ci troviamo ancora oggi in presenza di una vastissima lacuna che comprende nel complesso tutta la sua esperienza romana durata quasi un ventennio, tra il 1774, anno in cui giunse a Roma «munito della laurea dottorale pisana»6, e il 1793, quando venne chiamato a Firenze a dirigere e rinnovare le Gallerie Granducali in sostituzione di Giuseppe Pelli Bencivenni; una lacuna che, colmata in gran parte solo per il periodo fiorentino7, ha spesso portato gli studiosi a bollare come sorprendente, se non incomprensibile, la sua nomina alla più alta carica fiorentina nel settore artistico. Come già accennato, giunto venticinquenne a Roma e intento nel suo lavoro di avvocatura8, Tommaso Puccini veniva presentato dal suo biografo Alfredo Chiti come un discreto dilettante di poesia, ben inserito nei circoli colti della capitale e assorbito in un’intensa vita letteraria, anche in qualità di membro delle Accademie dell’Arcadia e degli Aborigeni9 ma, soprattutto, come appassionato cultore di letteratura latina e ottimo traduttore di Catullo10: forse proprio questa sua educazione classica, impostata a Pisa attraverso l’insegnamento di Giuseppe Paribeni e Giuseppe Maria Pagnini e approfondita a Roma sotto le cure di Raimondo Cunich e Benedetto Stay lo portarono, in un primo tempo, ad accostarsi alle arti visive nel settore dell’antiquaria, sicuramente a lui più conforme. Numerose conferme di questo suo primo interesse antiquario sono riscontrabili nel carteggio, soprattutto nelle lettere dei corrispondenti «pisani» i quali, approfittando della sua dimora nello Stato pontificio e quindi di un osservatorio privilegiato, richiedevano aggiornamenti sulle ultime scoperte archeologiche o sugli studi più aggiornati del settore, come fecero Girolamo Astorri, che di queste informazioni aveva «gran sete»11, e Giuseppe Paribeni, il vecchio maestro, che ringraziandolo delle preziose indicazioni circa i nuovi ritrovamenti si BFP, Aggiunte alla Raccolta Puccini, Filza C. 237, Relazioni epistolari di un viaggio da Roma a Napoli e di altri viaggi in Italia scritte dal signor cavaliere Tommaso Puccini, direttore dell’Imperiale Galleria. Citato da ora in poi: Viaggio a Napoli. BFP, Raccolta Puccini, Cassetta V, Pagnini Luca Antonio, 12, Parma 7 febbraio 1784. 5 CHITI 1907. 6 CHITI 1907, p. 157. 7 Bibliografia Pucciniana: cfr. FABBRI RAGGHIANTI 1978; MELONI TRKULJA-SPALLETTI 1981; PINTO 1982; BAROCCHI 1983; INCERPI 1982; SPALLETTI 1983; SPALLETTI 2001. 8 Puccini ottenne nel 1778 la nomina a giureconsulto sulla base dell’apprendistato di quattro anni svolto presso l’avvocato romano Settimio Cedri, come può leggersi in una dichiarazione dello stesso Cedri (BFP, Raccolta Puccini, Cassetta VII, 2). 9 Puccini venne accolto, verso la fine degli anni Settanta del secolo, come membro delle due Accademie, nella prima col nome di Egone Menalide, e nella seconda con quello di Entello Siracusano. Vedi CHITI 1907, p. 161. Tra i numerosi scritti del periodo ricordiamo: Sonetto del sig. Tommaso Puccini di Pistoia, in Componimenti poetici per le faustissime nozze de’ nobilissimi signori il signore Niccolò Forteguerri e la signora Maria Caterina Ippoliti, Pistoia 1774; Tommaso Puccini, Sonetto del sig. Tommaso Puccini patrizio pistoiese, in Componimenti poetici in occasione di prendersi il sacro velo dalle [...] monache di Santa Maria delle Grazie detta del letto, Pistoia 1778; Sonetto di Egone Menalide, in Atti della solenne coronazione fatta in Campidoglio della insigne poetessa d.na Maria Maddalena Morelli Fernandez pistoiese tra gli arcadi Corilla Olimpica, Parma 1779. 10 Tra le sue traduzioni ricordiamo: Epitalamio di Caio Valerio Catullo per le nozze di Teti e di Peleo. Tradotte in versi italiani dal sig. Tommaso Puccini, in Poesie per le nozze. Camillo Cellesi [...] Diamante Buonfanti, Pistoia 1785; Canto nuziale di Catullo. Traduzione del sig. Tommaso Puccini, in Rime per le faustissime nozze del [...] Jacopo Bracciolini colla [...] Teresa Conversini, Pistoia 1791. Il suo lavoro più importante, benché redatto molti anni prima, venne pubblicato postumo con il titolo: Poesie di Caio Valerio Catullo veronese scelte e purgate, volgarizzate dal cavalier Tommaso Puccini di Pistoia, Pisa 1815. 11 BFP, Raccolta Puccini, Cassetta IV, Astorri Girolamo, 1, Pisa 22 febbraio 1774. 4
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compiaceva di come l’allievo stesse affinando sempre più la propria capacità critica e il «buon gusto»12. Le qualità del giovane Tommaso Puccini, esaltate dal Paribeni, molto presto vennero conosciute e apprezzate anche lontano da Roma, e non solo presso i suoi sodali toscani, come bene illustrano le lettere modenesi inviategli da Girolamo Tiraboschi: la prima di queste infatti è un attestato di stima e riconoscenza per una missiva speditagli alcuni giorni prima «con tal gentilezza e accompagnata con tale erudizione»13 da essere inserita nella seconda edizione della sua monumentale Storia della letteratura italiana14. La padronanza della lettura antiquaria, testimoniata dalla lettera inviata all’erudito modenese, veniva confermata due anni più tardi da un’estesa e documentata dissertazione che lo stesso Puccini scrisse a commento di un’epigrafe recentemente ritrovata in uno scavo antistante alla chiesa di San Marco a Roma: nell’articolo, pubblicato nel novembre 1780 sull’Antologia Romana15, compare già quel metodo di analisi che denoterà tutti i suoi scritti futuri, focalizzato sulla visione diretta del manufatto, soprattutto in relazione al luogo del ritrovamento, e sul confronto con opere diverse. Il tutto cedendo sempre pochissimo ai sofismi e alle facili attribuzioni; proponendo un sistema di osservazione probabilmente non così comune tra gli antiquari presenti nella città papale16, che lo condusse presto ad una maturità di giudizio immune, fin da allora, alle critiche che infiammavano qualunque dibattito riguardante le antichità17. La conferma della visibilità che Puccini si era prontamente guadagnata tra gli eruditi romani si trova nella lettera scrittagli il 21 luglio 1777 dallo stesso fondatore del periodico romano Giovan Lodovico Bianconi e pubblicata sotto il titolo di Lettera d’un amatore delle Belle Arti al signor Abate Tommaso Puccini patrizio pistoiese18: in essa l’autore, commentando un passo pliniano nel quale vedeva la dimostrazione dell’uso della tecnica incisoria presso gli antichi, riservava al suo interlocutore significativi elogi, dai quali traspare una tale profonda stima, ad una data così precoce, da far supporre che fu lo stesso Bianconi, personaggio di grande rilievo
«Ho letto con molto piacere le vostre erudite osservazioni sopra le antichità che mi dite ultimamente scoperte e mi rallegro con voi che sempre più raffiniate il vostro buon gusto in questa eccellente parte di letteratura servendovi a proposito delli aiuti che [...] potete trovare abbondantissimi in Roma dall’antichità scolpita e figurata». BFP, Raccolta Puccini, Cassetta V, Paribeni Giuseppe, 1, Pisa 14 luglio 1777. 13 BFP, Raccolta Puccini, Cassetta VI, Tiraboschi Girolamo, 1, Modena 4 agosto 1778. 14 TIRABOSCHI 1787-1794, vol. II, p. 389. 15 ANTOLOGIA ROMANA 1780. 16 Spesso nei suoi scritti Puccini lamentava la cattiva usanza di spostare le iscrizioni dal luogo di ritrovamento per essere trasferite nei musei, nei quali esse perdevano gran parte del loro valore documentale. Così si esprimeva sulla strada per Napoli: «Videmo a Mesa alcune iscrizioni trovate in quelle campagne, e tra le altre due di Teodorico che le aveva rese suscettibili di cultura. Ottima determinazione è stata quella di non trasferirle a Roma, perché sul luogo sono più curiose e più interessanti che altrove. Così fosse stato praticato in tutte le altre ritrovate dopo il risorgimento delle lettere e lo studio introdotto dall’antiquaria; che allora forse la scienza lapidaria avrebbe dati più certi ad illustrare l’istoria!» Vedi Viaggio a Napoli, II giornata, 6 settembre. 17 «So che molti antiquari di orecchie alquanto delicate offesi della parola pupillatus, la quale non si legge in alcuna delle iscrizioni o in alcuno degli scrittori del buon tempo, sono contrari alla mia opinione. Venero la loro dottrina e la loro delicatezza; non fa peraltro alcuna impressione sull’animo mio la loro autorità. [...]. Dunque se la loro ragione di dubitare ha il suo fondamento, dovrà inferirsi da questo che fu composta e scolpita ai giorni nostri, giacché in essa è una voce non solita pratticarsi neppure nei bassi tempi: illazione che forse non oserà fare alcuno che si voglia dar la pena di esaminarla in fonte e d’informarsi del suo ritrovamento», in ANTOLOGIA ROMANA 1780, p. 149. 18 «Singolar passo cercando tutt’altro trovai gli scorsi giorni in Plinio, ma senza la vostra permissione io non ardisco interpretarlo a modo mio. Voi vedrete che non ho torto a domandarvela, quando v’accorgerete della strana conseguenza, che indi se ne va a cavare. [...] Ma nulla più amabilissimo mio Sig. Tommaso. Non ad altri che a voi grand’amatore e conoscitore di stampe doveansi scrivere queste mie congietture, perché appunto parlano di stampe. Voi per il vostro candore e cortesia siete amato da chiunque vi conosce, ma tenete per fermo che nessuno vi ama più di me. [...] Roma li 21 luglio 1777» in ANTOLOGIA ROMANA 1777, pp. 25-28. 12
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internazionale e dalle considerevoli frequentazioni19, l’anello di congiunzione tra il pistoiese e gli ambienti colti più prestigiosi della capitale. L’articolo, chiuso con un omaggio al «grand’amatore e conoscitore di stampe», permette inoltre di riconoscere un primo affiancamento della prospettiva artistica moderna a quella antiquaria e retrodatare di qualche anno la sua ben nota attività di collezionista e, soprattutto, di grande conoscitore nel campo dell’incisione che tanta influenza avrà nella sua futura educazione visiva. Allo stato attuale delle ricerche non è possibile documentare in quale direzione si mosse il suo interesse per l’arte «moderna» nel corso degli anni Settanta del XVIII secolo; elementi indicatori più significativi sono rintracciabili solo dal 1779, anno in cui iniziò la lunga relazione epistolare con Carlo Bianconi, fratello minore di Giovan Lodovico, durata oltre vent’anni e conclusasi solo nel 1800 con il trasferimento volontario di Puccini a Palermo per sottrarre alle truppe napoleoniche i capolavori degli Uffizi. Le sessanta lettere che compongono questo illuminante e prezioso carteggio coprono dunque gran parte del suo periodo romano, illustrando sia i suoi primi interessi per i disegni cinque-seicenteschi che faticosamente andava raccogliendo20, sia la ricerca, sempre più incalzante, di pubblicazioni concernenti la storiografia artistica che gli permise di possedere una raccolta numericamente e qualitativamente consistente fin dal 178221, arricchita poi costantemente fino alla morte, come documentato dal catalogo della sua libreria22. Le lettere bianconiane permettono di ricostruire soprattutto una parte consistente della superba collezione di stampe posseduta da Puccini fino al 1793, anno in cui venne venduta, tra innumerevoli difficoltà, al Marchese Giovanni Turinetti di Priero di Torino per 4500 scudi23: una raccolta iniziata sicuramente nei primi anni del suo lungo soggiorno romano se già nell’autunno del 1779 al Bianconi essa doveva sembrare sorprendente, tanto da indurlo a scrivere con un pizzico di invidia: «Mi rallegro della bella stampa che avete aggiunto alla scelta collezione vostra, che ormai è più bella della mia»24. Questa doveva comprendere centinaia di opere tra le quali spiccavano capolavori del Pollaiolo, di Dürer, di Guido Reni, di Annibale e Agostino Carracci, di Rubens, di Rembrandt, di Marcantonio Raimondi oltre, naturalmente, alle opere dei suoi contemporanei Volpato e, soprattutto, Raffaello Morghen, artista sommamente apprezzato. Del resto il carteggio tra i due, a parte brevi divagazioni, è quasi esclusivamente dedicato alle stampe: i nuovi acquisti, il confronto tra le copie, il desiderio di primeggiare e di apparire il più scaltro nel non incappare in falsificazioni dimostrano una passione di Carlo Bianconi e, di riflesso, dello stesso Puccini in costante progresso, che presto trovò riscontro anche nei periodici dell’epoca che tanto spazio offrivano al mondo della grafica.
Vedi PERINI 1998. BFP, Raccolta Puccini, Cassetta IV, Bianconi Carlo, 11, Milano 24 marzo 1781; 23, Milano 31 agosto 1782 ; 40, Milano 19 novembre 1785; 45, Milano 7 marzo 1789. 21 «Ecco la prima volta che mi avete parlato di libri d’arte. Me ne consolo sommamente, e della copia e della scelta [...]» BFP, Raccolta Puccini, Cassetta IV, Bianconi Carlo, 19, Milano, 30 marzo 1782. 22 BFP, Aggiunte alla Raccolta Puccini, (A. 43), Indice de’ libri spettanti alle belle arti che possiede il cav. Tommaso Puccini direttore della R. Galleria e segretario della R. Accademia delle belle arti. Il testo integrale è oggi consultabile sul sito www.memofonte.it. 23 L’intricata vicenda della vendita delle collezione è descritta nelle lettere di Bartolomeo Cavalley da Torino inviate a Puccini tra il 1799 e il 1800 (BFP, Raccolta Puccini, Cassetta IV, Cavalley Bartolomeo, 1, Torino 23 ottobre 1799; 2, Torino 13 novembre 1799; 3, Torino 4 agosto 1800; 4, Torino 5 agosto 1800; 5, Torino 3 settembre 1800), e in quelle scrittegli da Polissena de Priè, moglie del marchese Turinetti di Priero (BFP, Raccolta Puccini, Cassetta V, Priè Polissena di, 1, Roma 30 giugno 1801; 2, Tivoli 14 agosto 1801; 3, Tivoli 14 settembre 1801; Tivoli 29 ottobre 1801; 5, Roma 19 gennaio 1802; 6, Roma, 9 marzo 1802). 24 BFP, Raccolta Puccini, Cassetta IV, Bianconi Carlo, 4, Milano 20 ottobre 1779. Aggiungendo nella lettera successiva: «Non ho detto che la vostra raccolta superi la mia, ma dico bene se va di questo passo, che presto vi si avvicinerà, e la passerà. Io ne avrò quel piacere che ha un padre vedendosi superato nel sapere da un figlio [...]» BFP, Raccolta Puccini, Cassetta IV, Bianconi Carlo, 5, Milano 13 novembre 1779. 19 20
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Tra i molti articoli dedicati all’incisione che potrebbero facilmente derivare dalla penna del pistoiese, sia per lo stile di scrittura che per la conformità dell’argomento trattato nel carteggio, almeno due di essi possono essergli attribuiti con certezza: il primo, pubblicato nel settembre del 1782 e intitolato Lettera scritta da ... al Sig. Carlo Bianconi Segretario dell’Accademia delle belle arti di Milano25, è un’estesa trattazione elogiativa dell’ultima stampa di invenzione creata dal giovane Giuseppe Cades; la lunga gestazione dell’opera del pittore e incisore romano fu, del resto, uno degli argomenti più dibattuti tra i due per il corso di tutto l’anno26. La generosità, forse eccessiva, di Tommaso Puccini nel giudicare La morte di Leonardo del Cades è comunque sintomatica di un suo primo, precoce interessamento per i giovani artisti dei quali avrà modo di occuparsi molto spesso negli anni successivi e, soprattutto, per quelli impegnati a creare opere «di questa natura, cioè come parti di una dotta fantasia piuttosto che di uno studio scrupoloso dell’antico e del vero»27. Di più ampio respiro appare un secondo articolo relativo alla produzione incisoria pubblicato due mesi più tardi sullo stesso periodico e con il medesimo titolo28, nel quale Puccini, prendendo spunto dalla imminente pubblicazione di disegni leonardeschi, con le tavole incise da Carlo Giuseppe Gerli29 fattegli visionare per un parere prima della diffusione, ripercorre in poche righe la fortuna dell’incisione di riproduzione in Italia30. In quest’arte Puccini vedeva in primo luogo uno dei mezzi più appropriati per poter conservare la memoria di opere pittoriche che, troppo spesso per una cattiva gestione, erano private della loro leggibilità, perdendo «come pur troppo perdono ogni giorno alcun poco, della loro originaria bellezza»: non a caso il primo degli artisti «romani» a raggiungerlo a Firenze sarà Raffaello Morghen insieme al quale Puccini portò a termine con successo l’ambizioso progetto, ideato nel 1795 e concluso cinque anni più tardi, di far riprodurre il Cenacolo di Leonardo da Vinci31. Ma principalmente il pistoiese, anticipando di quindici anni le parole espresse da Luigi Lanzi 32, vedeva nelle incisioni tratte dalle grandi opere l’opportunità data ai cultori delle belle arti di conoscere le creazioni dei migliori artisti del passato e riconoscerne a fondo le maniere: Veramente sarebbe desiderabile che prendesse piede in Italia il gusto da qualche tempo introdottovi di far servire la bella incisione a rendere con fedeltà i preziosi originali dei gran maestri. Moltiplicati così scorrendo per le mani e sotto gli occhi di tutti, non si apprezzerebbero tanto le produzioni degl’ingegni mediocri, che aiutate dal meccanismo di un taglio brillante c’illudono facilmente33.
Educati così a distinguere il bello, i giovani nobili, ai quali spesso Puccini rivolgeva i suoi pensieri, sarebbero stati in grado non solo di riconoscere le migliori produzioni dell’arte, distinguendo le opere di merito da quelle mediocri ma, soprattutto, avrebbero accresciuto il loro buon gusto e commissionato così i nuovi lavori esclusivamente agli artisti migliori34. ANTOLOGIA ROMANA 1782a. BFP, Raccolta Puccini, Cassetta IV, Bianconi Carlo, 16. Milano 2 gennaio 1782, 19, Milano 20 marzo 1782; 24, Milano 2 ottobre 1782; 25, Milano 20 novembre 1782. 27 ANTOLOGIA ROMANA 1782a, p. 103. 28 ANTOLOGIA ROMANA 1782b. 29 GERLI 1784. 30 ANTOLOGIA ROMANA 1782b, p. 179. 31 BFP, Raccolta Puccini, Cassetta IV, Bianconi Carlo, 52, Milano 25 aprile 1795 ; 53, Milano 6 giugno 1795; 54, Milano 27 gennaio 1796; 55, Milano 23 marzo 1796; 56, Milano 26 marzo 1796; 57, Milano 20 aprile 1796; 58, Milano 8 febbraio 1800; 59, Milano 5 marzo 1800. 32 «Un gran conoscitore di stampe ha fatto più della metà del cammino per esser conoscitor di pitture: chi mira a questo scopo, negli studi notturni rivolga le stampe, rivolgale ne’ diurni», LANZI 1795-96, p. XVIII. 33 ANTOLOGIA ROMANA 1782b, p. 179. 34 «Non ho già la smania di far tutto il mondo pittore, scultore, o architetto, ma goderei molto e lo avrei per un segno foriero del risorgimento delle arti, se vedessi che quelli principalmente al servizio, o al lusso dei quali sono 25 26
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Sarebbero aumentati dunque i veri conoscitori, gli unici secondo Puccini a poter diventare buoni giudici delle arti, a differenza degli stessi mecenati, spesso digiuni di un’educazione artistica adeguata35 e, soprattutto, dei teorici dell’arte, portatori di una verità assoluta forse più inutile che dannosa, dei quali Puccini spesso dubitava. Un’insofferenza verso i dogmi di Winckelmann che «sapeva l’istoria delle arti, ma le arti non conosceva»36, e soprattutto verso le idee di Mengs che godettero di tanto successo negli anni immediatamente successivi alla sua morte, commentate dal pistoiese con ironia in diversi scritti del periodo: «carattere eroico nel Perseo? Parea un cavaliere della tavola rotonda. Mi compatisca l’autore. Sono uno del volgo ignorante delle bellezze ideali»37. Un antidogmatismo che lo condusse a preferire sempre la visione diretta delle opere, aiutandosi con la lettura critica delle fonti storiografiche (le Vite vasariane soprattutto) dalle quali traeva numerosissimi spogli da utilizzare come schematiche guide nei suoi frequenti viaggi, distinguendosi agli occhi dei suoi tanti estimatori non solo per la competenza nel settore artistico ma, ancor più, per il pragmatismo, evidente nelle numerose lettere a lui indirizzate e contenenti richieste di aggiornamento su lavori commissionati e mai portati a termine38 o di un intervento per risolvere questioni, spesso molto delicate, come quella che contrappose Onofrio Boni a Carlo Fea, presto degenerata in attacchi personali39. Le sue capacità nel giudicare correttamente l’arte dei suoi tempi, nonché le sue numerose conoscenze altolocate, lo rendevano poi per molti artisti un sostegno essenziale: fu così per Dominique Vivant Denon40, conosciuto nel suo viaggio a Napoli41, o per Antonio Canova, accolto a Roma al suo arrivo nel 1780 da quel gruppo di artisti ed esperti di cui Puccini faceva parte42, che tenne sempre nella massima considerazione i suoi consigli anche quando raggiunse l’apice della fama43. Il rapporto di stima reciproca creato con gli artisti è particolarmente evidente nel caso di Tommaso Conca che avvalendosi della sua esperienza ormai quasi decennale, il 15 novembre 178244 sottoponeva al pistoiese «il di cui purgato gusto in questo genere di cose mi è notissimo», un piano iconografico da lui ideato per essere dipinto «sulla volta di qualche stanza». Il fatto che la descrizione dell’opera abbozzata dal Conca prefiguri la decorazione della cupola della Sala delle Muse nel museo Pio Clementino, intrapresa dallo stesso artista poco tempo dopo, lascia presagire un interessante e ancora non dimostrato contributo del pistoiese nel grande cantiere destinate s’indrizzassero di buon ora a formar l’occhio al bello da esser capaci di distinguerlo dalla mediocrità. Vorrei che questo fosse uno dei punti principali dell’educazione dei nobili opulenti [...] Di più sarebbero in stato di giudicarle, eleggerne il buono, lasciarne il mediocre: ecco che i cattivi artisti senza occupazioni diminuiscono, i buoni, che si vedono proposta una ricca mercede si aumentano [...]» BFP, Aggiunte alla Raccolta Puccini, C. 234, n. 26. 35 Maria Pizzelli, scrivendo a Puccini fuori Roma per un viaggio, lo ragguaglia sulla situazione della collezione Colonna: «[...] e finalmente la stragge che si sta attualmente facendo in Casa Colonna dei più insigni Quadri di Tiziano, Quercino, Albani, e si pretende perfino di un Correggio, dei quali tutte le parti nude sono state (dalle delicate premure per le coscienze altrui dei due Cardinali di Casa) condannate ad essere coperte ad Olio. Io stessa […] non potei non restarne amareggiata, onde ben comprendo il dispetto che ne concepirete voi, che più d’ogni altro siete in grado di poter valutare il danno di un tal massacro». BFP, Raccolta Puccini, Cassetta IV, Pizzelli Maria, 2, Roma 21 ottobre 1780. 36 Vedi Viaggio a Napoli, XI giornata, 15 settembre, nota n. 28. 37 BFP, Aggiunte alla Raccolta Puccini, C. 234, n. 23, Note in margine ad alcune opere del Mengs. 38 Cfr. BFP, Raccolta Puccini, Cassetta IV, d’Albany Louise Maximiliane Caroline, 5 [Parigi, s.d.]. 39 La controversia tra Onofrio Boni e Carlo Fea nacque dopo la pubblicazione, da parte di quest’ultimo, del terzo tomo della Storia delle arti del disegno. Dal marzo al giugno del 1786 il Boni iniziò, dalle pagine delle Memorie per le belle arti, una serrata e ironica requisitoria sia sull’opera del Winckelmann, sia sul lavoro dello stesso Fea. Cfr. BFP, Raccolta Puccini, Cassetta IV, Boni Onofrio, 2, Roma 1 settembre 1786. 40 BFP, Raccolta Puccini, Cassetta V, Denon Dominique Vivant, 6, Napoli 28 maggio 1785. 41 Vedi Viaggio a Napoli, XXXIII giornata, 7 ottobre. 42 Cfr. HONOUR 1994, p. 140. 43 Per i rapporti tra Canova e Puccini, vedi SPALLETTI 2006. 44 BFP, Raccolta Puccini, Cassetta IV, Conca Tommaso, 1, Di casa 15 novembre 1782.
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museale. Certamente Puccini non usò mai parole tenere per descrivere il nuovo museo, creato più per celebrare il pontificato che i capolavori in esso contenuti, ma la sua stretta collaborazione con l’architetto Simonetti, che della Sala delle Muse fu l’ideatore, da una parte e con Ennio Quirino Visconti dall’altra45, sembra dare consistenza a questa ipotesi sicuramente suggestiva. Tra i suoi estimatori Puccini non trovò solo artisti o eruditi, ma anche alcuni tra i più importanti mecenati del periodo, i quali vedevano in lui un uomo di vasta cultura disposto ad appoggiare i loro progetti, primi fra tutti quelli di rinnovamento e adeguamento ai nuovi canoni del linguaggio neoclassico. Tra questi interventi sicuramente uno dei più rilevanti fu quello svolto nei mezzanini al secondo piano di Palazzo Chigi, dove cinque piccole stanze perdevano la loro tradizionale funzione subordinata per diventare lo specchio dei molteplici interessi di letterato e appassionato cultore dell’antico di Sigismondo Chigi (1736-1793), controverso mecenate illuminista, impegnato dal 1777 nel rinnovamento di molte delle sue proprietà situate in Roma e nei dintorni. Due lettere46, fino ad oggi inedite, permettono di stabilire con certezza questa collaborazione tra il mecenate e un Tommaso Puccini nelle nuove vesti di consigliere artistico e coordinatore responsabile delle principali iniziative del principe senese47. Solo un’indagine più approfondita di quell’ambiente culturale di primissimo piano quale fu il salotto di Sigismondo Chigi dove si poteva incontrare «il celebre sig. Ennio Quirino Visconti, allora di lui bibliotecario, monsig. Erskine adesso cardinale degnissimo, il sig. abate Strocchi, il sig. cav. Tommaso Puccini, il sig. abate Luigi Lanzi, l’abate Raimondo Cunich, l’abate conte Zamagna, Francesco Milizia, il pittore Giuseppe Cades»48, permetterà forse di determinare più precisamente i rapporti tra Puccini e il principe mecenate. Più volte nel corso di questo breve studio si è fatto riferimento all’importanza attribuita alla visione diretta delle opere d’arte sulla formazione artistica dell’erudito: un valore di cui era ben conscio lo stesso Puccini, come rivelava nella primavera del 1779 al fratello di passaggio a Venezia, manifestandogli il più vivo desiderio di poter un giorno affrontare il medesimo viaggio e vedere così, per la prima volta, i grandi maestri di quelle scuole che aveva conosciuto fino ad allora solo attraverso le letture, le stampe o i resoconti dei viaggiatori: [...] Quando passerete di Roma voglio trattenermi un giorno intiero a parlare con voi dell’effetto che vi hanno fatto le fabbriche di S. Micheli e Palladio, le pitture di Tiziano, fra le quali il S. Pietro martire, di Giorgione, Gio. Bellino, Paolo, Bassano e Tintoretto. Che bella scena devono rappresentare questi autori insieme uniti, se in così scarso numero fan tanto bella figura anche con Raffaelle! Io vi assicuro, che moro di voglia di veder Bologna, Parma, e Venezia principalmente per vedere queste tre scuole, per le quali non si può, credo io, non sentir del trasporto49.
I due, legati da una profonda stima reciproca, tra l’altro collaborarono, nel 1794, alla decorazione della Sala della Musica nel «Quartiere da Inverno» di Palazzo Pitti. Vedi BFP, Raccolta Puccini, Cassetta VI, Visconti Ennio Quirino, 1, Roma 30 novembre 1794. Per la decorazione di questa sala vedi ancora VIALE 2005. 46 BFP, Raccolta Puccini, Cassetta III, A destinatari non identificati, 5, s.l., s.d. e BFP, Raccolta Puccini, Cassetta VI, Mittenti non identificati, 1, Siena 22 agosto 1783. 47 Per la decorazione della Sala delle Muse in Palazzo Chigi vedi: CARACCIOLO 1992; DI CASTRO 1996; PETRUCCI 1998; STRINATI-VODRET 2001. Dei lavori svolti all’interno dell’appartamento neoclassico oggi non rimane nulla a causa del riammodernamento in Palazzo Chigi dopo la vendita dell’immobile allo Stato nel 1917. 48 BONI 1804, p. 152. 49 BFP, Raccolta Puccini, Cassetta III, a Puccini Giuseppe, 3, Roma 15 maggio 1779. 45
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Tre mesi più tardi era a Milano50, nel suo primo viaggio documentato tra i tanti che, in meno di un decennio, lo portarono a visitare alcune delle principali città d’arte dell’Italia centro-settentrionale, delle quali tracciò le già citate guide, conservate oggi nella filza C. 177 della Biblioteca Forteguerriana di Pistoia51. Essendo impossibile illustrare in questa occasione, anche solo brevemente, questi scritti nella loro completezza, può rivelarsi utile prendere come esemplificativo quello che riguarda il suo viaggio a Venezia redatto probabilmente nei primi mesi del 1783, come sembra suggerire lo stesso Puccini52. La scorta scelta per essere accompagnato nei palazzi e nelle chiese della Serenissima fu il Della pittura veneziana e delle opere pubbliche de’ veneziani maestri di Anton Maria Zanetti, pubblicato nel 1771: una fonte, come era costume del pistoiese53, mai celata, sulla quale spesso basava le proprie osservazioni, a volte apprezzandone i giudizi54, spesso criticandoli55. Ciò che stupisce ad una prima lettura di questa, come di tutte le guide, è la scarsa attenzione prestata alle antichità che raramente attraggono il viaggiatore, intento a rivolgere le sue riflessioni quasi esclusivamente alle opere di artisti quattro-cinquecenteschi, cedendo pochissimo ai preconcetti e con una libertà di pensiero che non gli impediva di criticare le opere di Tiziano, l’artista «Credo [...] che siete in ottima salute e codesta graziosa metropoli vi piaccia [...] Gradirò di sapere almeno quando partite per Gevova, dove certamente passerete giorni lietissimi [...]» BFP, Raccolta Puccini, Cassetta IV, Casati Carlo, 1, Milano 21 agosto 1779. 51 BFP, Aggiunte alla Raccolta Puccini, Guida artistica d’Italia I, C. 177. La prima parte del manoscritto è in forma di rubrica, composta da 182 carte, nella quale vengono riportate le osservazioni fatte nelle città di: Ancona (cc. 17v), Camerino (cc. 20-20v), Cortona (cc. 20v-22v), Castelfranco (c. 23), Foligno (cc. 48-56r), Fano (cc. 56-57v), S. Giovanni Valdarno (c. 58), Imola (cc. 67-67v), Loreto (cc. 76-79, 80v), Macerata (cc. 86-90v), Pesaro (cc. 114117v), Piacenza (cc. 117v-118), Recanati (cc. 134-134v), Rimini (cc. 134v-137v), Ravenna (cc. 137v-138), Spoleto (cc. 144-147v, 149-150), Senigallia (cc. 147v-149), Terni (cc. 154-154v), Tolentino (cc. 154v-155). Seguono alcuni fascicoli slegati relativi alle città di: Bergamo (cc. 10), Bologna (cc. 54), Brescia (cc. 5), Cento, S. Giorgio, Ranazzo, Ferrara (cc. 10), Modena (cc. 14), Mantova (cc. 12), Milano (cc. 20), Padova (cc. 16), Parma (cc. 12), Perugia (cc. 14), Venezia (cc. 40), Verona (cc. 10), Vicenza (cc. 12), Urbino (cc. 8). 52 Puccini davanti al Ratto di Europa di Paolo Veronese, conservato nel Palazzo Ducale, riflettendo sui restauri programmati si domandava: «nel 1771 Zannetti stampò che era ottimamente conservata. Come in 12 anni è divenuta poi in tale stato da metterla sotto il rasoio?». BFP, Aggiunte alla Raccolta Puccini, Guida artistica d’Italia I, C. 177, Venezia (manoscritto citato d’ora in poi Guida di Venezia), p. 2. 53 Nel resoconto del viaggio a Piacenza Puccini, dopo aver brevemente descritto la struttura urbanistica della città, aggiungeva: «Il sig. conte Carlo Carasi ha scritto un libro per scorta al forastiero. Non si può dire un libro mal fatto, ma ha il difetto di trattenersi troppo delle cose piccole. Forse altrimenti il libro saria riuscito troppo piccolo. Avendolo postillato di mia mano sul luogo, è inutile che qui trascriva le postille» BFP, Aggiunte alla Raccolta Puccini, Guida artistica d’Italia I, C. 177, Piacenza, p. 118. 54 «Palazzo di S. Marco [...] Sala dello Scrutinio [...] Con molto giudizio Zannetti si è astenuto dal dire michelangelesco lo schiavo nel quadro di Liberi. Un sacco di carnaccia senza intelligenza non può esser mai sullo stile di Michelangelo. Che cattivo quadro!», Guida di Venezia, p. 6. «S. Cassiano [...] Grandi del vero o poco sotto 5 Santi, al primo altare a destra del Palma vecchio [...] lucido e prezioso, più che vero. È anche disegnato con molta proprietà. Il campo è paese, ma senza gran partito. Dice bene Zannetti che è seccamente composto», Guida di Venezia, p. 20. «Alla Madonna del Pianto. Il Cristo deposto di croce di Giordano all’altar maggiore è ben composto, ma di lui non ne ho veduto un altro così piatto, così crudo e, come dice bene Zannetti, così barbaro. Piazzetta lo ha guardato assai», Guida di Venezia, p. 35v. 55 «Palazzo di S. Marco [...] Nella Sala del Gran Consiglio. Il Paradiso di Tintoretto è un quadro senza partito affatto, una confusione di cattive teste, braccia e gambe affollate senza gusto. Dicono alcuni che vi sono bellezze di dettaglio: a me non riuscì di trovarne pure una. Il Zannetti la trova un’opera di un genio grande e sommamente fecondo. Io credo che ci sia grande equivoco a determinare questa fecondità. A me non pare che debbasi parlare di fecondità, che risulta da molte e molte figure messe giù senza scelta affatto», Guida di Venezia, p. 5. «Palazzo di S. Marco [...] Nella Sala del Gran Consiglio [...] Quivi l’ottavo quadro laterale a dritta del Palma giovine è sempre freddo, ma men fatto di pratica, e più savio e più ben dipinto di quanti ne ho visti di lui in Venezia. Possibile che Zannetti non ne faccia elogio? Mi sarei risparmiato di dire opera bella il quadro di Zuccheri che gli sta accanto, in cui alcuni figuroni sul davanti non ponno essere né più stravaganti, né più inopportuni», Guida di Venezia, p. 5v. 50
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prediletto56, o di celebrare le doti pittoriche di Tintoretto, quello più sgradito57; un’indipendenza di giudizio che gli permetteva inoltre di sorprendersi di fronte alle opere di artisti meno apprezzati in passato, come nel caso di Giovanni Bellini58. Un rapido sguardo agli appunti del viaggio veneziano può riservare sicuramente notevoli spunti di interesse: del resto l’ampiezza e l’accuratezza delle descrizioni, una critica basata sul confronto delle opere, soprattutto romane59, sullo studio attento delle stampe60 e della storiografia artistica61, rivelano nell’autore l’occhio e la competenza del vero conoscitore; così come le considerazioni sullo stato di conservazione dei prodotti artistici62, sulla loro gestione63, «Palazzo di S. Marco [...] Nell’anti-chiesetta del Collegio. Sonovi alcuni quadri. Il singolare è la Cena in Emaus di Tiziano poco dissimile da quella intagliata da Masson. Io non so se il tempo, se i pulitori l’abbiano guasta; so bene che tra i quadri di Tiziano mi piace forse il meno, perché non trovo né il solito brio di colore, né la solita grandiosità di forme. È livido, freddo e un poco secchetto», Guida di Venezia, p. 2v. 57 «Scuola di S. Marco [...] Nel quarto [quadro], grande più che gli altri tralle finestre, del S. Marco che libera un servo martirizzato. Giace ei sul davanti nudo supino. Sotto di lui molti istrumenti del martirio rotti. Intorno a lui molti saracini con turbanti, uno dei quali di schiena in piedi mostra alzando le mani gli istrumenti rotti al tiranno che siede in alto sulla destra. Indietro un campo di lucida architettura. Il S. Marco in alto è pesante, degradazione a basso vi si desidera, ma è il quadro più robusto, più ben dipinto che ho veduto di Tintoretto. Ha qui molto colore, e condotto con molta forza e gusto, che innamora. Un ritratto barbuto in profilo sulla sinistra, il nudo si avvicinano a Tiziano, senza però esserlo», Guida di Venezia, p. 13. 58 «S. Salvatore. Sono montato sopra una scala a vedere il gran quadro della Cena in Emaus di Gio. Bellino [...] O senza vederne un attestato non mi pare mai che possa essere di lui. Pare per il più di Giorgione e nel Cristo, nel ritratto, nelle estremità di Tiziano. Che salto è questo mai! Farebbe onore a Giorgione e a Tiziano per le forme e per il colore e la robustezza dello stile [...] Per Dio non par possibile che costui volasse tant’alto», Guida di Venezia, p. 8. 59 «Palazzo di S. Marco [...] Il Cristo all’orto sostenuto da un angelo di Paolo è simile ad uno che più piccolo vedesi in palazzo Borghese a Roma. Parmi che se quello è pure originale, questo sia più brillante e più sugoso», Guida di Venezia, p. 1. «Palazzo di S. Marco [...] l’Annunzio dei pastori creduto di Jacopo non è superiore a quello che vedesi in palazzo Borghese», Guida di Venezia, p. 1v. 60 «Palazzo di S. Marco [...] Nell’anticollegio. Il soffitto di Paolo è tutto rimpasticciato. Dei quattro quadri di Tintoretto i due intagliati da Agostino sono i migliori, ma non superiori alle stampe» Guida di Venezia, p. 2. «Palazzo di S. Marco [...] Nella Sala del Consiglio dei dieci [...] Il resto di Zelotti non mi corrisponde all’idea che me ne aveano fatta concepire le descrizioni e le stampe. Nello stile è paolesco, ma è lontano da Paolo nel grandioso carattere […]», Guida di Venezia, p. 3v. «Ai Frari. [...] Più di questo mi piace, anzi al paro di tutti i più bei quadri di Tiziano, quello all’altar Pesaro intagliato da Le Febre, ma reso nei contorni passabilmente; niente nel colore, e ci ha tanto artifizio, tanta verità, che incanta», Guida di Venezia, p. 40. «Casa Pisani da S. Stefano. Gran palazzo, in cui una galleria, dove sono buoni quadri. Il primo dirimpetto alle finestre in figure un quarto il vero in traverso di Tiziano [...] Questo quadro è intagliato da Le Febre, ma si crederebbe in figura di gigante e gli ha tolta molta grazia, e non ci fa sentire che è della prima maniera di Tiziano, come si scorge dal paese, dai panni e più dalla soverchia cura, onde è dipinto, e dal tuono giorgionesco [...]», Guida di Venezia, p. 15v. «S. Caterina. All’altar maggiore lo Sposalizio di S. Caterina figura del vero intagliato in grande da Agostino Caracci, che ha reso il contorno, ma la grazia, il prezioso e tenero colorito niente affatto. Fortuna che è intatto», Guida di Venezia, p. 30v. 61 «Ai Gesuati o Domenicani alle Zattere. Su nel loro convento nel capitolo ho veduto il quadro che era avanti ai portelli dell’organo detto dal Boschini di Tiziano, dal Vasari di Follaro [...] Io non so chi sia questo Follaro, ma so bene che il quadro è molto bello, e molto tizianesco, benché non molto caldo di colore», Guida di Venezia, p. 8. «S. Maria Maggiore. Non è meraviglia se Vasari prese per opera di Schiavone la Circoncisione di Tintoretto. È tanto simile nelle teste, nelle azioni parmigianinesche, nel colore e nella condotta, anche del pennello, che si è affatto trasformato in quell’autore e non gli deve dolere se ad Andrea e non a lui fu attribuita», Guida di Venezia, p. 20. 62 «Palazzo di S. Marco [...] Sala delle 4 porte [...] Il quadro di Tiziano in figure di più che il vero non è molto interessante, ma io giurerei che in superficie non ha più una sola pennellata di quel maestro», Guida di Venezia, p. 1v. «S. Caterina [...] Sopra a sinistra un gran quadro di Palma non cattivo. L’angelo custode inciso da Le Febre non si vede che con torcia, perché è annegrito, ma non patito nel fondo del colore», Guida di Venezia, p. 30v. 56
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sull’uso e spesso abuso delle tecniche di restauro64 e sulla collocazione delle opere all’interno dei musei o dei luoghi sacri, spesso poco attenta alla loro perfetta godibilità 65, dimostrano la modernità della sua concezione museografica, prefigurando in alcuni casi già il Puccini direttore delle Gallerie fiorentine. Se, dunque, l’interesse di questi scritti non può mettersi in dubbio, meno evidente è il fine per il quale egli li compose; sicuramente questi non erano appunti destinati ad un uso prettamente privato, come può essere dimostrato dagli scritti di diversi giovani viaggiatori che si servirono di queste annotazioni per compiere il loro viaggio di educazione attraverso l’Italia: tra gli altri vanno ricordati Carlo Emanuele Alfieri di Sostegno66 e, soprattutto, Daniele «Burano isola. A S. Mauro. La tavola dell’altar maggiore non credo che si debba avere per copia, benché abbia molte debolezze, singolarmente nella parte inferiore [...] L’umido, il tempo, la trascuranza l’hanno assai deteriorata», Guida di Venezia, p. 31v. «Ai Frari. Il gran quadro di Tiziano rappresentante la Vergine Assunta nel tutto insieme presenta un grandioso sorprendente, ed osservandolo minutamente a traverso la patina ed il fumo, che lo ricuopre, si vede che è dipinto con molta accuratezza e bravura», Guida di Venezia, p. 39v. 63 «S. Giacomo [...] Le portelle dell’organo non vi sono più, e le monache dicono di averle brugiate a tocchi, ma le avran vendute», Guida di Venezia, p. 22v. «Ca’ Trivisana. Piccola casa di una elegante architettura. [...] Dal vestibulo si passa in un portichetto con due colonne architravate, e pure d’ordine dorico, che ha alle due estremità due stanze di bella proporzione tutte dipinte da Paolo e dai suoi discepoli. [...] Che questa stanza sia inventata da Paolo non vi è dubbio, che sia eseguita da lui non lo credo, tanto più quando vedo la stanza sulla parte opposta, che oggi serve da gallinaro, la quale è dipinta con assai più di forza e di bravura; e a dispetto dell’umido e della trascuranza si conserva ancora quasi intatta», Guida di Venezia, p. 23. 64 «Palazzo di S. Marco [...] Nella Libreria. Nel primo vestibolo, in cui sono poche statue antiche né molto singolari, vi è un soffitto che ho veduto alla casa di correzione a S. Giovanni e Paolo; eppure non ha pecco. Visto da vicino è conservatissimo. Ma la sentenza è pronunziata. Deve farsegli la barba [...] Entro la libreria sono i tre soffitti per cui Paolo ebbe la corona. Sono certo del suo stile più robusto, ma danneggiati e in mano dei pulitori lo saranno di più. Mettono costoro troppo studio a fargli comparir nuovi, ed essi dicono a far voltare il colore. Ecco il primo danno. Poi mettono gli stucchi, e questi troppo larghi, e cuoprono il vergine. Ecco il secondo. Dipingono i stucchi, e quando il loro dipinto non si accorda bene tentano di metterlo in armonia, dipingono sul dipinto e ne tolgono un’altra porzione. Ecco il terzo. Che ci rimane di originalità? Poco e quel poco scorticato. Scorticatissimo per tre martiri già sofferti, ed ora per il quarto, è il gran quadro di S. Lorenzo, che in questo medesimo luogo ho visto stuccare e dipingere. O qui sì non rimangono che le reliquie! Ma che grandi reliquie», Guida di Venezia, p. 6v. «Casa Grimani da S. Polo. Non vi sono molti bei quadri, ma avvene uno in traverso in figure poco sotto il vero di Bonifazio rappresentante il ricco Epulone a mensa [...] il quadro è dipinto con un sugo di colore, con una tal soavità e degradazione che non conosco nella scuola veneziana chi in questa parte si avvicini più a Tiziano e alla natura di lui [...] Ma è stato pulito e ridotto nuovo», Guida di Venezia, p. 10v. 65 «Palazzo di S. Marco [...] Nella Sala armata. Evvi in traverso in figure di mezzo vero ben conservato il quadro di Palma vecchio [...] peccato che un tal quadro così prezioso e di un autore così raro stia chiuso in un luogo di difficile accesso», Guida di Venezia, p. 6. «S. Vitale [...] L’opera di Vittore, considerata come di un vecchio maestro, merita assai di esser veduta [...] E’ mal collocata con l’altare a ridosso che impedisce di poterla bene esaminare», Guida di Venezia, p. 30. «S. Severo. Laterale all’altare a cornu evangelii del maggiore la Crocifissione del Tintoretto. Gran quadro in traverso [...] Una Flagellazione sulla porta di fianco, che messa in mezzo a due lumi non si vede [...]», Guida di Venezia, p. 33. «Alla Madonna dei Miracoli sono due basso rilievi antichi, in ciascuno dei quali due puttini di piccolo vero in azioni pupesche di gioco. È tradizione che Tiziano gli studiasse assai [...] osservandoli attentamente vedesi che la tradizione è ben fondata [...] questi mi paiono della più fine scultura greca, e siano o no di Prassitele poco importa. In ciascuno dei due quello a sinistra dello spettatore è il più bello. Peccato che siano in un luogo così oscuro, così sporchi e ingombri da una cornice per attaccare l’apparato che gli taglia a metà. Un colpo di martello dei paratori gli rovinerà», Guida di Venezia, p. 40v. 66 Alfieri di Sostegno, promotore tra l’altro della fondazione della Galleria Sabauda a Torino, tra il marzo del 1790 e il giugno del 1791 fece un lungo viaggio che lo portò, oltre che a Firenze, Roma e Napoli, anche in Germania, Olanda e Austria, esperienza che gli permise di ampliare e affinare la propria cultura politica e artistica. Giunto a Firenze il 14 maggio 1791, Alfieri indirizzò a Puccini una lunga lettera nella quale gli illustrava le opere viste nel tragitto che lo portò da Roma a Firenze, dimostrando in più punti di avere sotto mano le indicazioni lasciategli
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Ponzoni67 il quale, in viaggio per le città della Romagna e dello Stato Veneto «memore sempre delle indicazioni che ella mi favorì, le quali mi hanno molto servito», notava l’importanza delle informazioni lasciategli da Puccini incoraggiando quest’ultimo a «rendere pubbliche le sue osservazioni dell’Arte in Italia. Serviranno di scorta e di lume a quegli, che faranno il viaggio di questa bella e privilegiata parte della Europa». La richiesta di Ponzoni di pubblicare gli scritti di viaggio ci riporta, infine, all’esortazione di Giuseppe Maria Pagnini quattro anni prima per la pubblicazione del diario napoletano68, dimostrando una circolazione piuttosto ampia degli scritti pucciniani che, unita alle brevi note sulla sua educazione artistica tracciate in queste pagine, permette di affrontare la lettura di tali annotazioni con maggiore attenzione, nella consapevolezza di non trovarci di fronte ad una semplice raccolta di pensieri compilata dal solito erudito dilettante ma agli scritti di un conoscitore raffinato ed estremamente apprezzato tra gli intellettuali e i mecenati romani del periodo, composta con ogni probabilità per servire da scorta ai giovani che avessero voluto ripercorrere con le sue memorie i medesimi itinerari.
dal pistoiese: «Il venire da Roma non m’ha fatto vedere con minor piacere molti quadri che ho visitato strada facendo e nel vederli provai doppio piacere, rammentandomi sempre che a voi devo intieramente il gusto preso per le belle arti e le poche conoscenze acquistate in questo genere. Il quadro divino di Foligno, quantunque preparatovi già, non mi sorprese meno e con voi ho replicato Gran Raffaelle. [...] Alla Cattedrale ho veduto il bel quadro di Salimbeni, me l’avevate dato per una Visitazione, ma l’ho trovato uno Sposalizio della Madonna e non crediate già che le idee e disposizioni mie matrimoniali mi abbiano fatto travedere [...] A Cortona ancora ho bene impiegate le poche ore passatevi: bella è la Santa del Barocci alla chiesa di Santa Margarita. Parevami che ivi m’aveste indicato uno Albani, ma non trovai che un Vanni piuttosto bello, è una Madonna con molti Santi. [...] Non ho dimenticato a S. Gioanni il quadro segnatomi e l’ho trovato bellissimo [...] Non vi parlerò di Firenze, non ne ho ancora visto che qualche contrada [...] Non ho ancora trovato il M. re Capponi, ho lasciato a casa sua vostra lettera non avendolo trovato e m’immagino che lo vedrò stasera. Intanto vado dalla signora Corilla! Da mia lettera d’ieri intesi con grata sorpresa che mia sposa s’applica anche al disegno; a tempo e luogo vi consulterò poi perché ne dirigiate gli studi. [...] Aff.mo vostro amico Alfieri». BFP, Raccolta Puccini, Cassetta IV, Alfieri, 1, Firenze 14 maggio 1791. 67 «Cremona, 15 novembre 1788. Da che lasciai Roma, ho scorso le città della Romagna e dello Stato Veneto, memore sempre delle indicazioni, che ella mi favorì, le quali mi hanno molto servito. L’occhio avezzo alla precisione, alla nobiltà e alla eleganza dei gran maestri che hanno nobilitato Roma, non scorreva senza fatica le imense tele colorite dai capi Scuola Veneziani [...]: e le confesso che hanno in me destato più meraviglia che piacere e il Giudizio del Tintoretto, e le Cene di Paolo, e le Battaglie di Pordenone e le altre grandi opere del Palazzo di S. Marco. Il gran Tiziano fa classe da sé e non so qual parte dell’arte non possedesse da gran maestro. Egli fa dimenticare l’arte sua allo spettatore nel quadro di S. Pietro Martire, nel quale la fierezza delle mosse fa palpitare il cuore, mentre un crede di potere penetrare liberamente per entro a quel bosco stupendo, che a mio credere è il più perfetto paesaggio che mai fosse rappresentato con pennelli e colori. Sono rimasto incantato da un’altra parte della precisione e della savia proporzione delle opere del Palladio; io lo chiamerei il Raffaello della architettura. Ma a chi parlo io di belle arti? Ella ha veduto con occhio più perspicace, ciò che io non ho potuto considerare che rapidamente, né posso che supplicarla di volere rendere pubbliche le sue osservazioni dell’Arte in Italia. Serviranno di scorta e di lume a quegli, che faranno il viaggio di questa bella e privilegiata parte della Europa». BFP, Raccolta Puccini, Cassetta V, Ponzoni Daniele, 1, Cremona 15 novembre 1788. 68 Vedi nota 4.
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Note sulla cronologia del Catalogo di stampe e disegni _______________________________________________________________________________
NOTE SULLA CRONOLOGIA DEL CATALOGO DI STAMPE E DISEGNI DI FRANCESCO MARIA NICCOLO GABBURRI Attraverso una ‘lettura informatizzata’ delle Vite di pittori si è cercato di evidenziare la profonda conoscenza che Gabburri possedeva dell’arte grafica, rintracciando tangibili testimonianze di un sapere frutto di studi e di un’attenta e indefessa attività collezionistica1. In molti passi delle Vite emerge la figura dello scrivente, che si propone ora come conoscitore diretto di artisti e opere, ora come custode di preziose informazioni manoscritte, ora come proprietario di opere d’arte, in particolare di disegni e stampe, conservate «in Firenze dal cavalier Francesco Maria Niccolò Gabburri nella sua numerosa collezione»2. Se nel precedente contributo tutte le fonti gabburriane, dal catalogo del 17223 alle carte dello Zibaldone4, sono divenute strumenti per l’analisi testuale e contenutistica dell’opus magna dell’intellettuale fiorentino, in questa sede il rapporto funzionale si inverte, facendo delle Vite un utile strumento per lo studio e la datazione del Catalogo di stampe e disegni conservato presso la Fondation Custodia di Parigi5. Come è stato già segnalato6, i volumi conservati presso la Fondazione parigina sono tre, tutti redatti da Gabburri: il primo è il catalogo oggetto del presente contributo; il secondo è un catalogo di disegni, seguito da una serie di appunti per un ipotetico discorso sull’arte e dalla «traduzione di una lettera sopra Leonardo da Vinci pittor fiorentino, scritta al signor conte di Caillay da monsieur Pietro Giovanni Mariette di Parigi»7; il terzo è la traduzione delle «Osservazioni sulla pittura di Carlo Alfonso du Fresnoy, con tavola delle materie e termini della pittura per ordine alfabetico»8, secondo l’uso che evidentemente il Gabburri aveva di trascrivere o tradurre di suo pugno alcuni testi che non possedeva in originale9. Il primo dei tre volumi è l’unico catalogo completo, comprendente sezioni separate dedicate ai disegni, alle stampe, ai libri e ad una selezione di «diversi disegni migliori coi loro prezzi»10. Per questa ragione si presenta come lo strumento più adatto per la ricostruzione della collezione delle stampe dell’erudito fiorentino, oggetto specifico delle ‘ricerche gabburriane’ della scrivente, considerando che offre un dettagliato elenco di tutta la raccolta dalla carta 65 alla 126v: il lavoro in corso, primo e fondamentale passo per le ricerche future, è quello di trascrivere la
Cfr. NASTASI 2008. VITE DI PITTORI, Vita di Antonio Filomaco, [p. 250 – I – C_146V]. 3 Cfr. DESCRIZIONE DEI DISEGNI 1722. 4 ZIBALDONE 1195; ZIBALDONE 1198. Cfr. TOMASELLO 2008. 5 CATALOGO DI STAMPE E DISEGNI: per la ricostruzione bibliografica riguardante il documento cfr. NASTASI 2008, p. 1, nota 4. 6 Cfr. BARBOLANI DI MONTAUTO-TURNER 2007. 7 CATALOGO DI STAMPE E DISEGNI, c. 81. Il testo prosegue: «Questo cavaliere dilettantissimo e intendentissimo della pittura ha intagliato di sua propria mano e per suo onesto e virtuoso diporto, alcuni disegni originali di Leonardo da Vinci, non curandosi per modestia di fare intagliare il proprio nome in fondo al rame. Il signor Mariette ha poi pubblicati al mondo i medesimi rami nel 1730, con avere aggiunto la suddetta lettera dedicatoria al medesimo signor conte di Caillay, e si è servito per frontespizio di questo piccolo libro di un frontespizio di Agostino Caracci». 8 Come si evince dal catalogo dei «libri trattanti di pittura, scultura e architettura, e di cose in qualunque maniera appartenenti al disegno», nella biblioteca di Gabburri era presente la versione a stampa in lingua originale: «L’art de peinture de Carl Alfons du Fresnoy ecc., a Paris 1684, in 8°» (Cfr. CATALOGO DI STAMPE E DISEGNI, c. 131v). 9 Presso la Biblioteca Nazionale di Firenze (CODICI PALATINI 1889-1950) sono conservate le trascrizioni di: il Dialogo della pittura di Paolo Pino, uscito a Venezia nel 1548; Della nobilissima pittura et della sua arte di Michelangelo Biondo, pubblicato a Venezia nel 1549; le Osservazioni della scoltura antica di Orfeo Boselli del 1657. I primi due manoscritti sono segnalati nel catalogo della biblioteca Gabburri a carta 133, mentre il secondo è a carta 133v (Cfr. CATALOGO DI STAMPE E DISEGNI). 10 CATALOGO DI STAMPE E DISEGNI, c. 146. 1 2
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suddetta sezione, in modo da poter interrogare agevolmente il manoscritto e selezionare tutte le informazioni necessarie. Il Catalogo di stampe e disegni è un inventario completo strutturato su un modulo ricorrente di tre colonne, con la specifica della quantità dei pezzi, la descrizione di ciascuna opera e il relativo valore in ruspi fiorentini: la stesura si presuppone continua e organica, in considerazione del fatto che all’interno si ritrovano continui rimandi fra le diverse sezioni. In particolare, in quella della biblioteca dei «libri trattanti di pittura, scultura e architettura, e di cose in qualunque maniera appartenenti al disegno», sono compresi tutti i volumi corredati di illustrazioni a stampa, e per questa ragione lo stesso Gabburri segnala che il loro valore monetario «è stato notato colle stampe»11, rimandando perciò alla sezione precedente dedicata proprio alle incisioni. Nonostante l’accuratezza nel dettaglio e l’integrità del documento, manca una qualsiasi indicazione sulla datazione, lasciando agli elementi interni al testo la facoltà di dare fragili indizi per la definizione della cronologia di stesura. Come è stato osservato12, si tratta sicuramente di un’inventariazione più tarda rispetto al noto catalogo del 1722, dal momento che la collezione descritta si presenta molto più ampia ed evidentemente arricchita dall’intenso periodo degli acquisti del collezionista fiorentino. Non essendo ancora disponibile una trascrizione completa del documento, sono stati prelevati dei dati significativi attraverso la trascrizione del catalogo della biblioteca e una lettura generale delle altre sezioni. La scelta di operare in questa direzione è stata determinata essenzialmente da due fattori legati alla natura e al contenuto dell’inventario dei libri d’arte, vale a dire la presenza determinante delle date di pubblicazione e la possibilità di intrecciare l’elenco dei volumi posseduti da Gabburri con quello da lui usato per la stesura della Vite di pittori13. Per quanto riguarda le date riportate nella sezione indicata, quella più alta è sicuramente il 1736, anno di pubblicazione di 3 opere: RIFERIMENTO
TRASCRIZIONE DELLA DESCRIZIONE
ANNO
c. 130v
Roma nobilitata nelle sue fabbriche dalla santità di nostro signore Clemente XII, descritta da monsignore Giambatista Gaddi patrio di Forlì, Roma 1736, in 4°.
1736
c. 131
Orazione recitata nella sala maggiore dell’instituto delle scienza ecc. del padre Salano [?], in Bologna 1736, in 4°.
1736
c. 131
Della origine e progressi in Bologna della pittura, scultura e architettura ecc. Orazione dell’avvocato Alessandro Machiavelli ecc., in Bologna 1736, in 4°.
1736
Considerando che sono presenti anche molti testi privi della data di pubblicazione, ne consegue che il rilevamento di tale data non può automaticamente essere considerato come termine ante quem per la stesura del catalogo. L’incrocio dei dati fra l’inventario e la ‘bibliografia gabburriana’ si è reso dunque necessario, ed ha lasciato parlare in maniera significativa più le assenze che le presenze. Dalla ricostruzione dell’apparato bibliografico usato da Gabburri è emersa chiaramente la sua straordinaria capacità di tenersi aggiornato, seguendo il ritmo delle pubblicazioni fino 1741: prendendo il 1736 come termine di riferimento, occorre dunque CATALOGO DI STAMPE E DISEGNI, c. 127. Cfr. BARBOLANI DI MONTAUTO-TURNER 2007. 13 Cfr. BIBLIOGRAFIA GABBURRIANA 2008. 11 12
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considerare che nelle Vite sono citati 13 libri pubblicati fra il 1737 e il 174114, fra cui volumi particolarmente significativi perché legati alla persona di Gabburri, come La teoria della pittura di Antonio Franchi uscita a Lucca nel 1739 con dedica all’intellettuale fiorentino, o perché particolarmente citati, come la Storia dell’Accademia Clementina di Giampietro Zanotti del 1739 e il Forestiero illuminato del 1740. Tutti questi libri nel catalogo in esame non sono presenti e se per alcuni si può pensare ad una consultazione sporadica fatta in altrui biblioteche, per altri, come quelli appena citati, in considerazione dei legami e dell’uso fattone è inverosimile ritenere che Gabburri non ne possedesse una copia personale. I dati indicati suggeriscono una datazione fra il 1736 e il 1737, lasciando ragionevole margine di due anni fra la data più alta rintracciata e l’inizio delle assenze dal catalogo della biblioteca. Anche l’interrogazione delle altre sezioni, effettuata per lo più per campioni significativi in attesa della trascrizione completa, ha confermato questa collocazione cronologica. La quarta biografia degli «Aggiunti alla lettera A» è quella dell’«abate Antonio Filomaco pittor siciliano, nato in Messina, scolare di Carlo Maratti»: il testo, breve ma significativo, ci mostra un Gabburri intento nella strutturazione di una voce priva di fonti bibliografiche, perciò impostata interamente con il dichiarato intento di sopperire al silenzio creatosi intorno a «questo degno professore» di cui «non viene fatta veruna menzione tra gli scolari del Maratti nella di lui Vita scritta dal Bellori, né in quella parimente scritta dal Pascoli e da altri scrittori». Il biografo prosegue: Con tutto ciò è verissimo che egli studiò sotto quel gran maestro, ed il medesimo lo ha attestato a chi queste cose scrive, riputandolo a suo vantaggio ed onore. In fatti lo va immitando nella maniera ed opera di continuo in Messina […] Vive questo dignissimo professore nella sua patria in questo presente anno 1738, in età di anni 53 in circa. […] Il suo proprio ritratto fatto di sua mano a chiaroscuro vien conservato in Firenze dal cavalier Francesco Maria Niccolò Gabburri nella sua numerosa collezione di ritratti di professori diversi, tanto antichi che moderni, fatti tutti di loro propria mano, mandato dal medesimo professore l’anno 1738.15
Il «cavalier Francesco Maria Niccolò Gabburri» scrive, dunque, nel «presente anno 1738», suggerendoci come in altri passi una cronologia relativa alla stesura delle sue Vite16, ma allo stesso ci viene in aiuto per la datazione del catalogo in esame, confermando una cronologia anteriore al 1738. Infatti, il ritratto dell’abate Antonio Filomaco «fatto di sua propria mano a chiaroscuro» non compare fra i «Ritratti dei pittori, scultori e architetti, tutti originali fatti di loro propria mano» elencati a partire dalla carta 51v nella sezione dei disegni 17. Viceversa, è
Domenico Cini, Osservazioni storiche sopra l’antico stato della montagna pistoiese: con un discorso sopra l’origine di Pistoia [...], Firenze 1737; Amédée Frézier, La théorie et la pratique de la coupe des pierres et des bois pour la construction des voûtes, 3 voll., Parigi 1737-1739; Domenico M. Manni, Osservazioni istoriche [...] sopra i sigilli antichi de’ secoli bassi, Firenze 1739-1784; Henri Sauval, Galanteries des Rois de France, depuis de le commencement de la monarchie […], Parigi 1738; Girolamo Ticciati, Memorie dell’Accademia del Disegno […], 1738 (consegnate manoscritte all’Accademia del disegno in questa data); Antonio Franchi, La teorica della pittura, ovvero Trattato delle materie più necessarie, per apprendere con fondamento quest’arte, Lucca 1739; Sostegno Viani, Istoria delle cose operate nella China da Monsignor Gio. Ambrogio Mezzabarba patriarca d’Alessandria […], Parigi 1739; Giampietro Zanotti, Storia dell’Accademia Clementina in Bologna, Bologna 1739; Giovanni Battista Albrizzi, Il Forestiere illuminato intorno le cose più rare e curiose antiche e moderne della città di Venezia e dell’Isole circonvicine, Venezia 1740; Anton Francesco Grazzini detto il Lasca, Libro delle Rime, Firenze 1741; Giovanni Lami, Delicae erudito rum suu veterum opuscolo rum collectanea, Firenze 1741; Giammaria Mazzucchelli, La vita di Pietro Aretino scritta dal conte Giammaria Mazzucchelli bresciano, Padova 1741; Tommaso Temanza, Delle antichità di Rimino, Venezia 1741. 15 VITE DI PITTORI, Vita di Antonio Filomaco, [p. 250 – I – C_146V]. 16 Cfr. CECCONI 2008. 17 CATALOGO DI STAMPE E DISEGNI, c. 51v. 14
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presente quello di «Francesco Pavona di Udine»18 fra i «Ritratti a pastelli di loro propria mano»19, donatogli nel 1735, come ricorda nella biografia dell’artista: Francesco Pavona pittore, nacque in Udine del Friuli l’anno 1698. […]Nell’anno 1735 partì di cola, spinto da un vivo desiderio di portarsi a Lisbona, come in fatti, giunto in Livorno, s’imbarco subito per quella volta. Passando per Firenze, lasciò il proprio ritratto fatto a pastelli da se medesimo, a quello che queste cose scrive, il quale lo collocò nella di lui numerosa collezione di ritratti di professori diversi, fatti tutti di loro propria mano o in disegno o a chiaroscuro a olio o in pastelli.20
Se i disegni citati forniscono indicazioni temporali solo incrociandoli con le parole delle Vite, le stampe elencate nella sezione dedicata presentano talvolta la data di esecuzione. Anche in questo caso, come per la biblioteca, la data più alta rintracciata è il 1736, lasciando un margine di dubbio cancellabile con la trascrizione integrale: troviamo infatti il ritratto di «Giovanni Federigo Filippo, dipinto da Van Loo il figlio, intagliato da Petit nel 1736»21 e quello di «Luigi de Boullogne primo pittore del re di Francia. Dipinto da Rigò, intagliato da Lepicie nel 1736»22. Accettando, dunque, una datazione al 1736-1737 ci ritroviamo in un periodo molto intenso dell’attività di Gabburri, cinque o sei anni prima della sua morte, in piena stesura delle Vite e in continuo incremento delle sue collezioni. Ma evidentemente, proprio in questo momento, l’erudito ha avvertito l’esigenza di fare il punto sullo stato della raccolta, preventivandone anche la possibile vendita di alcuni pezzi, come lascia supporre l’attenta valutazione economica effettuata, senza però escludere la possibilità di nuovi acquisti. A confermare questa ipotesi è un manoscritto dell’Accademia Colombaria redatto dal Tarpato – soprannome di Giovanni da Verrazzano – nel 174523, in cui si legge: L’Abbeverato [Palmiero Pandolfini] mostrò un copioso catalogo di disegni originali, stampe, libri, pastelli, bassirilievi, modelli in terra cotta, miniature […] colorite e medaglie in cera e in bronzo, già possedute dal fu cavaliere Francesco M.a Gabburri, e descritto in no 315 pagine in foglio, con i prezzi in margine e colle autentiche de principali pittori, scultori e architetti riguardo all’originale da disegni, ascendendo il valore di […] 15754 _ 5.8.
Siamo due anni dopo la morte del Gabburri e l’Adescato, cioè Anton Francesco Gori, precisa «che questa raccolta esiste appresso i figli ed eredi di detto cavalier Gabburri, ma alterata in qualche parte, per essere stati alcuni detti pezzi alienati dal detto cavaliere vivente, ed aggiunti altri, che non sono descritti in detto inventario». La descrizione non lascia dubbi sul fatto che si tratti del Catalogo di stampe e disegni preso in esame, così come offre ulteriore supporto all’ipotesi di una datazione agli anni fra il 1736 e il 1737, momento culminante della ‘vita artistica’ di Francesco Maria Niccolò Gabburri, alle prese con la valutazione della sua ingente collezione e allo stesso tempo ancora dedito a nuovi acquisti così come a sempre più intense ricerche di informazioni per le Vite di pittori.
CATALOGO DI STAMPE E DISEGNI, c. 55v. CATALOGO DI STAMPE E DISEGNI, c. 55. 20 VITE DI PITTORI, Vita di Francesco Pavona, [p. 1012 – II – C_260V]. 21 CATALOGO DI STAMPE E DISEGNI, c. 119v. 22 CATALOGO DI STAMPE E DISEGNI, c. 119. La stampa è citata nella biografia di «Giacinto Rigaud o Rigò»: il ritratto di «Luigi Bologna cha fu intagliato da Lepicié. Once 14 ardite per alto, once 11 scarse per traverso». VITE DI PITTORI, Vita di Giacinto Rigaud o Rigò [p. 1079 – III – C_008R], [p. 1080 – III – C_008V]. 23 SPOGLI DEL TARPATO 1745, c. 68. 18 19
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Note sulla cronologia del Catalogo di stampe e disegni _______________________________________________________________________________
BIBLIOGRAFIA BARBOLANI DI MONTAUTO-TURNER 2007 N. BARBOLANI DI MONTAUTO, N. TURNER, Dalla collezione Gabburri agli Uffizi: i disegni di Anton Domenico Gabbiani, «Paragone Arte», 75-76, 691-693, 2007, pp. 27-92. BIBLIOGRAFIA GABBURRIANA 2008 Bibliografia Gabburriana, a cura di A. Cecconi, V. Gelli, M. Nastasi e R. Viale, «Studi di Memofonte», 1, 2008, www.memofonte.it. CATALOGO DI STAMPE E DISEGNI F.M.N. GABBURRI, Catalogo di stampe e disegni, Fondation Custodia-Institut Néerlandais, Collection Frits Lugt, p. II, Inv. 2005-A.687B. CECCONI 2008 A. CECCONI, Nella presente aggiunta all’Abcedario pittorico del padre maestro Orlandi. Per una rilettura delle Vite gabburriane, «Studi di Memofonte», 1, 2008, www.memofonte.it. CODICI PALATINI 1889-1950 I codici Palatini della R. Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, a cura di L. Gentile, E. Rossi, P.L. Rambaldi, A. Saitta Revignas, voll. 4, Roma 1889-1950. DESCRIZIONE DEI DISEGNI 1722 F.M.N. GABBURRI, Descrizione dei disegni della Galleria Gabburri in Firenze, 1722, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, II.IV.240. NASTASI 2008 M. NASTASI, «Ben cognita ai dilettanti»: l’arte incisoria per Francesco Maria Niccolò Gabburri, «Studi di Memofonte», 1, 2008, www.memofonte.it. SPOGLI DEL TARPATO 1745 Spogli del Tarpato, 1745, Accademia Toscana di Scienze e Lettere «La Colombaria», ms 27. TOMASELLO 2008 B.M. TOMASELLO, Zibaldone gabburriano, «Studi di Memofonte», 1, 2008, www.memofonte.it. VITE DI PITTORI F.M.N. GABBURRI, Vite di pittori, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Fondo Palatino E.B.9.5, I-IV. Trascrizione della Fondazione Memofonte, http://grandtour.bncf.firenze.sbn.it/Gabburri/home.html. ZIBALDONE 1195 F.M.N. GABBURRI, Zibaldone, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Fondo Palatino 1195, striscia 1539, inserto I. ZIBALDONE 1198 F.M.N. GABBURRI, Zibaldone, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Fondo Palatino 1198, striscia 1361, inserto VII.
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B.M. Tomasello, C. Brunetti, I. Calloud, R. Viale ___________________________________________________________________________________
PER UN ARCHIVIO DIGITALE DEGLI INVENTARI STORICI DEL MUSEO NAZIONALE DEL BARGELLO Sin dalla metà degli anni Ottanta il Museo Nazionale del Bargello, con una precocità non ordinaria nel panorama di altri musei italiani, si attrezzò per importanti sperimentazioni di applicazione informatica ai beni culturali in collaborazione con la Scuola Normale Superiore di Pisa. Il primo progetto previde l’organizzazione di una banca dati per la catalogazione della cospicua collezione dei sigilli matrice, un lavoro che costituì il primo esempio di catalogazione informatizzata di un numero così consistente di opere1. Di poco successiva, in occasione della celebrazione del centenario della donazione di Louis Carrand, fu l’idea del diretto inserimento nel programma espositivo2 di due esperienze di trattamento informatico: una relativa all’indicizzazione del Catalogo storico del R. Museo Nazionale del Bargello, redatto da Umberto Rossi e pubblicato nel 1898 da Igino Benvenuto Supino, l’altra alla digitalizzazione di un repertorio iconografico3. Vent’anni dopo è stata l’Associazione degli Amici del Bargello4 a farsi carico del completamento del lavoro di trascrizione e informatizzazione degli inventari storici conservati in forma cartacea nell’Archivio del Museo. Tale attività si è presentata da subito come una straordinaria opportunità per la creazione di un serbatoio globale di informazioni archivistiche uniche e difficilmente consultabili, da destinarsi soprattutto a studiosi di museografia e storia del collezionismo pubblico e privato in Toscana nella seconda metà del XIX secolo, ma estremamente utile anche a coloro che quotidianamente gestiscono le opere conservate nel Museo fiorentino (Fig. 1). Il progetto, inaugurato nel 2005 e conclusosi nel 20085, si è articolato in più fasi, che hanno visto preventivamente la riproduzione fotostatica dei manoscritti contenenti gli inventari delle diverse tipologie di oggetti e, successivamente, la trascrizione integrale delle informazioni relative a circa dodicimila opere. Tale processo ha portato alla realizzazione di una banca dati, oggi consultabile sul sito www.amicidelbargello.it, contenente tutti gli inventari redatti a partire dal 1879: Armi, Avori, Bronzi, Cere, Collezione Carrand, Collezione Gualino, Collezione Ressman, Cristalli, Ferri battuti, Intagli lignei, Maioliche, Mobili antichi, Mosaici, Oggetti in corno e cocco, Oreficeria civile, Oreficeria sacra, Robbiane, Sculture, Sculture lignee, Smalti, Stemmi, Stoffe, Tessere mercantili, Tessuti Franchetti, Varie, Vetri.
Il progetto di questa banca dati impose una ricognizione su tutto il materiale conservato al Museo: il Catalogo del Pelli Bencivenni, dove sono descritti centoventi sigilli già nel Gabinetto delle Medaglie della Galleria degli Uffizi, il Catalogo dei sigilli del R. Museo Nazionale, compilato dal padre Tonini e consegnato al Museo del Bargello nel 1983 e altre schede di Filippo Rossi, con riferimenti bibliografici e lo scioglimento della legenda: MUZZI-TOMASELLO-TORI 1988-1990; MUZZI-TOMASELLO-TORI 1991, p. 46. 2 FILETI MAZZA 1989; OMAGGIO AI CARRAND 1989. 3 SUPINO 1898; FILETI MAZZA-TARCHI 1990. 4 L’Associazione Amici del Bargello venne fondata il 9 luglio del 1982 da un gruppo di persone consapevoli dell’importanza e del ruolo che il Museo Nazionale del Bargello esercitava presso la comunità artistica. L’iniziativa sorse per l’esigenza di attivare una nuova cooperazione scientifica con la direzione del Museo, tale da rendere più feconda la vita dell’Istituto. Tra i settori incentivati, ricordiamo le attività di restauro, il supporto nell’acquisto di nuove opere e l’accrescimento dell’apparato editoriale scientifico dedicato alle variegate tipologie artistiche conservate. Per un panorama sui lavori dell’Associazione si consulti www.amicidelbargello.it. 5 Il progetto è stato realizzato con il coordinamento di Bruna Maria Tomasello, con la collaborazione di Claudio Brunetti, Irene Calloud e Roberto Viale, sostenuti dall’appoggio della Direttrice Beatrice Paolozzi Strozzi, dalla Dott. ssa Maria Grazia Vaccari e dall’indispensabile e sempre disponibile aiuto dello staff del Museo fiorentino. 1
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Per un archivio digitale degli inventari storici del Museo Nazionale del Bargello _____________________________________________________________________________________
Fig. 1 Banca dati on line, dall’Inventario dei Bronzi 1879, inv. 289 B.
Tra le varie difficoltà incontrate in questo lungo lavoro di elaborazione informatica, la maggiore è stata senza dubbio la necessità di uniformare, in un’unica banca dati, le diverse strutture degli inventari medesimi compilati da redattori diversi in tempi differenti: inventari storici, come quelli dei bronzi e delle sculture in marmo stesi a partire dal 1879, inventari recenti, come quello dei tessuti datato 1988 e infine i legati Carrand, Franchetti e Ressman. Sintomatico delle difficoltà incontrate è l’ultimo caso qui citato, ossia l’inventario storico notarile in lingua francese della collezione donata dall’ambasciatore italiano a Parigi nel 1889. La decisione di non procedere alla sua trascrizione, sebbene conservato negli archivi del Museo, è stata presa nella necessità di creare indici omogenei in italiano, ai fini della realizzazione di un archivio unitario. In sostituzione, sono state utilizzate le schede compilate nel 1971 da Lionello Boccia, scrupoloso lavoro di schedatura che si inseriva in uno studio già avviato di catalogazione della collezione con la collaborazione di Bruno Thomas6. Oltre alle carte e agli inventari presenti nell’Archivio, il gruppo di lavoro ha digitalizzato, trascritto e analizzato la documentazione conservata presso quelle strutture fiorentine che, più di altre, hanno avuto un legame con la storia delle opere oggi al Bargello, quali la Biblioteca degli Uffizi e l’Archivio di Stato di Firenze. In particolare si ricordano: 1825 Inventario di Galleria, Firenze, Biblioteca degli Uffizi (ABU, ms. 176, 176, 177, 178) 1784 Inventario di Galleria, Firenze, Biblioteca degli Uffizi (ABU, ms. 113) 1769 Inventario di Galleria, Firenze, Archivio di Sato (ASF, ms. Corte dei Conti 71) 1753 Inventario di Galleria, Firenze, Biblioteca degli Uffizi (ABU, ms. 95) 1704 Inventario di Galleria, Firenze, Biblioteca degli Uffizi (ABU, ms. 82) La volontà di trascrivere gli inventari in modo fedele ed oggettivo, sia nei contenuti sia nella sostanza linguistica, ha portato alla ricerca di norme che fossero strettamente funzionali all’obiettivo di seguire rigorosamente il testo originario. Nella trascrizione vera e propria l’intervento si è concentrato 6
ARMI STORICHE 1971; BOCCIA-THOMAS 1970.
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B.M. Tomasello, C. Brunetti, I. Calloud, R. Viale ___________________________________________________________________________________
sullo studio di soluzioni che rendessero il testo più facilmente leggibile, limitando correzioni o integrazioni solo ai casi necessari, come per evidenti errori ortografici. Per non cadere poi in equivoci interpretativi, sono stati utilizzati sistemi di contrassegnazione grafica che permettono al lettore di risalire sempre allo stato originario del testo con note editoriali7. Avendo come scopo finale l’operazione di trascrizione e non una schedatura o valutazione delle opere, l’utente che accede alla banca dati troverà dunque unicamente le informazioni presenti sugli inventari, con le attribuzioni relative all’epoca della loro redazione e i riferimenti che nel corso del tempo sono stati aggiunti. Nella priorità di rispettare la struttura tra i testi storici e l’edizione elettronica è stato necessario trovare poi un giusto equilibrio tra la classificazione delle notizie e il loro specifico contributo, evitando formalizzazioni eccessive. Quindi all’unità informativa sono stati associati campi che formalizzano solo i dati essenziali dell’opera, così come ritrovati negli inventari, ovvero: «Numero inventario», «Numero di inventario generale», «Trascrizione», «Archivio fotografico». Per fornire all’utente un utile mezzo di orientamento è stata lasciata la possibilità di un’agile ricerca su qualsiasi termine del testo trascritto, sia per ciò che riguarda la descrizione del soggetto o dell’oggetto, sia di altre eventuali indicazioni riportate nell’inventario. Tale ricerca, infine, può essere eseguita sia su un singolo inventario, sia sulla totalità, anche scorrendo virtualmente le carte manoscritte emulando una consultazione cartacea (Fig. 2).
Fig. 2 Banca dati on line, dall’Inventario dei Bronzi 1879, inv. 95 B.
Ancor più complessa si è presentata l’operazione di formalizzazione dei dati ricavati dagli inventari, ovvero la ricerca di quelle norme che potessero offrire una veste uniforme alla varietà dei linguaggi adoperati nei singoli inventari, dovuta ai differenti periodi di stesura e ai diversi redattori. Nel caso di errori ortografici si è proceduto alla loro correzione senza avvertenza, riducendo comunque al minimo questo tipo di operazione; le lacune, così come i punti di sospensione, sono stati mantenuti tali, facendo però uso di un comune «sic» tra parentesi tonde; le abbreviazioni evidenti sono state sciolte senza avvertenza (es. Vet. in Vetrina); le parole cancellate e sostituite da altre, sono state inserite tra parentesi quadre, seguite dalla parola aggiunta successivamente; infine, le voci «idem», «come sopra» e «come il precedente» sono state affiancate da doppie parentesi quadre con il riferimento relativo. 7
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Per un archivio digitale degli inventari storici del Museo Nazionale del Bargello _____________________________________________________________________________________
Questo tipo di problema è emerso in particolare nel caso dell’inventario delle armi, uno dei primi ad essere stato affrontato, che ha necessitato, oltre ad un’attenzione meticolosa nella procedura di trascrizione dei numerosi pezzi (circa 3400), una lunga elaborazione a lavoro terminato, per la verifica continua dei nomi degli armaioli e delle fabbriche di produzione, riportati spesso in modo abbreviato o scritti con formule differenti. A corredo delle informazioni inventariali è parso necessario illustrare le varie voci con le immagini della ricca fototeca del Museo Nazionale, selezionando e digitalizzando, per ogni opera, lo scatto più rappresentativo. I riferimenti a tutte le altre immagini riguardanti l’opera sono stati comunque riportati nel campo della banca dati denominato «Archivio fotografico». La volontà di rendere accessibile la banca dati ad un ampio pubblico ha condotto alla creazione del già ricordato sito www.amicidelbargello.it dove, oltre all’archivio digitale, è possibile trovare informazioni sull’attività passata e presente dell’Associazione, suddivisa tra numerose iniziative editoriali, di ricerca, di promozione culturale e scientifica. La sezione del sito Documenti e Ricerche è stata invece dedicata a tre programmi di approfondimento sviluppati durante il lavoro di trascrizione inventariale: Guide storiche (Fig. 3), Doni e donatori e Mostre. Le guide storiche del Museo, edite tra il 1873 e il 1932 e compilate secondo uno svolgimento topografico8, si sono presentate come insostituibili strumenti per seguire sia l’accrescimento che l’ordinamento delle sale del Museo nel periodo della sua formazione. Tali testi consentono quindi un utile riscontro in parallelo agli inventari storici del Museo, quali vive testimonianze dell’evoluzione del gusto e della storia della museografia. Si è dunque creduto opportuno renderle disponibili alla consultazione attraverso la loro riproduzione in formato pdf, nell’intento ulteriore di preservale dall’inevitabile uso frequente e ordinario.
Fig. 3 Frontespizio della Guida di A. Campani, 1884.
Accanto alle guide, è stato realizzato un settore indirizzato in modo specifico alle donazioni di opere d’arte da parte di privati. I documenti archivistici, anch’essi conservati nel Palazzo del Podestà, attestano come, sin dai suoi primi anni di vita, l’istituzione fiorentina ricevette in dono intere collezioni di diversa entità e provenienza, che gettarono le basi per quell’aspetto eterogeneo 8
GALLETTI 1873; CAMPANI 1884; SUPINO 1898; ROSSI 1932.
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che ancora oggi caratterizza il Museo. Lo spoglio meticoloso dell’ingente numero di carte ha suggerito la creazione di un’anagrafe di facile consultazione, divisa per nome del donatore, anno di donazione, tipologia dell’opera e numero di inventario. Tra i doni, oltre ai ben noti e citati lasciti Carrand (1888), Franchetti (1899), Ressman (1906) e Planiscig (Fig. 4), ne emergono anche di meno conosciuti che ebbero il merito però di rafforzare, con la loro peculiare varietà tipologica, il già ricco patrimonio museale.
Fig. 4 Frontespizio dell’Inventario dei Tessuti antichi della Collezione G. Franchetti, 1906.
Tra queste piccole donazioni, esemplare è la Collezione del pittore Antonio Conti per il numero di opere donate (oltre 350), per la qualità e varietà delle stesse, fattori che hanno indotto il gruppo di lavoro ad un riscontro diretto e più approfondito del lascito del 1885, utilizzando la documentazione presente nell’archivio del Bargello. La ricerca ha dunque portato alla luce una mole non indifferente di carte: la copia del testamento olografo (1884), il verbale di consegna al Museo Nazionale (1885) e gli elenchi delle opere costituenti il lascito. Ad arricchire tale materiale documentario, si aggiungono le testimonianze delle insistenti proteste dei parenti del donatore per la mancata osservanza del testamento (tra il 1895 e il 1914) e per una non corretta esposizione della collezione nella sua interezza, nonché tutte quelle carte novecentesche concernenti i vari spostamenti subiti dalla raccolta Conti sia all’interno del Bargello, che in altri musei fiorentini, soprattutto Palazzo Pitti e Palazzo Davanzati. La selezione di tali interessanti documenti, la loro scansione e trascrizione hanno permesso la creazione di tabelle di concordanza tra i numeri di inventario attribuiti alle opere al momento del lascito e quelli assegnati alle stesse con la successiva suddivisione nelle varie classi dei diversi inventari tipologici del Museo9; un’indagine che, oltre ad aver portato a ricostruire l’interezza della collezione e ad approfondire una vicenda collezionistica poco nota, potrà servire da modello anche per l’analisi di altre donazioni minori costituenti il Museo Nazionale. Un’attenzione particolare, sempre nella sezione Documenti e Ricerche, è stata infine rivolta alla rubricazione della storia espositiva delle opere del Museo del Bargello in Italia e all’estero nel corso del XX secolo, attraverso un lavoro di ricognizione archivistica. Per ogni opera esposta sono stati indicati: l’anno, la sede e il titolo della mostra, oltre ai dati bibliografici del catalogo. Per uso interno del Museo, è stata anche segnalata l’eventuale presenza del catalogo all’interno della Biblioteca 9
Le opere furono inserite nei seguenti inventari: Bronzi, Maioliche, Mobili, Ferri battuti, Sculture lignee, Varie e Vetri.
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dell’istituzione fiorentina, specificandone la collocazione inventariale, con lo scopo di agevolare lo studio e la gestione delle informazioni. Una raccolta così articolata di dati e di informazioni documentarie caratterizza il sito degli Amici del Bargello e mira ad illustrare, con uno strumento agevole e di semplice consultazione, il percorso di centocinquant’anni di storia del Museo e le numerose e complesse vicende che hanno portato il Palazzo del Podestà a divenire quello che oggi è universalmente conosciuto come Museo Nazionale del Bargello. Nell’intenzione di ampliare la ricostruzione virtuale di tutta la documentazione storica relativa al Museo Nazionale, il prossimo obiettivo sarà quello di continuare la raccolta già avviata in questi anni per un archivio specifico ed unico nel suo genere, che comprenda, oltre alle preziose testimonianze fotografiche, tutti quei documenti sparsi in diversi archivi della città di Firenze, sia privati che pubblici (Archivio del Museo Nazionale del Bargello, Archivio Storico delle Gallerie Fiorentine e Archivio di Stato), e presso l’Archivio Centrale dello Stato a Roma che, nel periodo post-unitario, promosse la centralizzazione dei documenti dei musei d’Italia.
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BIBLIOGRAFIA ACQUISTI E DONAZIONI 1970-1987 Acquisti e donazioni del Museo Nazionale del Bargello 1970-1987, a cura di G. Gaeta Bertelà, B. Paolozzi Strozzi e M. Spallanzani, Firenze 1988. ACQUISTI E DONAZIONI 1988-1992 Acquisti e donazioni del Museo Nazionale del Bargello 1988-1992, a cura di G. Gaeta Bertelà, B. Paolozzi Strozzi e M. Spallanzani, Firenze 1993. ACQUISTI E DONAZIONI 1993-1997 Acquisti e donazioni del Museo Nazionale del Bargello 1993-1997, a cura di G. Gaeta Bertelà e B. Paolozzi Strozzi, Firenze 1998. ACQUISTI E DONAZIONI 1998-2002 Acquisti e donazioni del Museo Nazionale del Bargello 1998-2002, a cura di G. Gaeta Bertelà e B. Paolozzi Strozzi, Firenze 2003. ARMI STORICHE 1971 Armi storiche del Museo Nazionale di Firenze, Palazzo del Bargello, restaurate dall’aiuto austriaco per Firenze, Catalogo della mostra, a cura di L.G. Boccia e B. Thomas, Firenze 1971. BOCCIA-THOMAS 1970 L.G. BOCCIA, B. THOMAS, Historische Prunkwaffen aus dem Museo Nazionale (Palazzo del Bargello) zu Florenz, restauriert in den Werkstätten der Wiener Waffensammlung, Vienna 1970. CAMPANI 1884 A. CAMPANI, Guida per il visitatore del R. Museo Nazionale nell’antico palazzo del Potestà in Firenze, Firenze 1884. FILETI MAZZA 1981 M. FILETI MAZZA, Resoconto sulle attività relative al 1° Seminario sulla catalogazione elettronica di varie tipologie di oggetti, esercizi sui materiali del Museo del Bargello e del Museo Stibbert, «Bollettino d’Informazioni. Centro di elaborazione automatica di dati e documenti storico-artistici», 2, 1981, pp. 7-35. FILETI MAZZA 1989 M. FILETI MAZZA, Due progetti di elaborazione informatica, in OMAGGIO AI CARRAND 1989, pp. 473-478. FILETI MAZZA-TARCHI 1990 M. FILETI MAZZA, R. TARCHI, Una banca dati per il Catalogo del R. Museo Nazionale di Firenze del 1898, «Bollettino d’Informazioni. Centro di elaborazione automatica di dati e documenti storicoartistici », 1, 1990, pp. 13-228. GALLETTI 1873 A. GALLETTI, Descrizione del Museo Nazionale, Firenze 1873. MUZZI-TOMASELLO-TORI 1988-1990 A. MUZZI, B. TOMASELLO, A. TORI, Sigilli nel Museo Nazionale del Bargello, Firenze 1988-1990.
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MUZZI-TOMASELLO-TORI 1991 A. MUZZI, B. TOMASELLO, A. TORI, Il catalogo della collezione sfragistica del Bargello, «Bollettino d’Informazioni», 1, 1991, pp. 70-90. OMAGGIO AI CARRAND 1989 Arti del Medio Evo e del Rinascimento. Omaggio ai Carrand 1889-1989, a cura di G. Gaeta Bertelà e B. Paolozzi Strozzi, Firenze 1989. ROSSI 1932 F. ROSSI, Il Museo Nazionale di Firenze, Firenze 1932. SUPINO 1898 I.B. SUPINO, Catalogo del R. Museo Nazionale di Firenze, Firenze 1898.
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Recensioni _______________________________________________________________________________
VALENTINA CONTICELLI, «Guardaroba di cose rare e preziose». Lo Studiolo di Francesco I de’ Medici: arte, storia, significati, Agorà Publishing, Lugano 2007 di MIRIAM FILETI MAZZA
«Desidera di rassettare certe sue cose»: con queste parole Vincenzo Borghini esprimeva a Giorgio Vasari la volontà impaziente di Francesco I di trovare un luogo in cui custodire alcuni oggetti della personale collezione. Anticipato da alcuni saggi dell’autrice sempre sul tema dello Studiolo del principe Francesco, il volume di Valentina Conticelli rielabora ora l’intero percorso storico ed intellettuale sul quale si snodano i molti avvenimenti di un’appassionante vicenda artistica e umana, integrandolo con un vastissimo apparato di testimonianze in grado di contestualizzare ogni passaggio della ricostruita cronaca. Si conosceva l’importanza che il famoso ambiente mediceo aveva rappresentato sin dal suo nascere, ma questo studio si riappropria globalmente dell’intero tessuto storico e documentario che in diverse voci della ricca bibliografia di riferimento, aveva ceduto il posto a considerazioni più meramente emozionali dando ampio spazio ad un’analisi del simbolico e dell’emblematico, elementi certamente presenti nel ‘caso’ Studiolo, ma da leggersi in un compendio di referenze ben più ampie. La regia dell’intero libro è regolata dunque da un approfondito scavo archivistico per certificare la storia di quella che possiamo considerare uno tra i sistemi decorativi e concettuali più affascinanti del Cinquecento. Dalle fonti immediatamente precedenti alla realizzazione dello Studiolo, dove l’epistolario Vasari-Borghini svolge un ruolo preminente per definire la genesi della complessa cronaca, si inoltra nei secoli successivi fino a giungere il primo Novecento quando l’intervento di Giovanni Poggi durante i preparativi della mostra sul Ritratto italiano di Palazzo Vecchio (1911), segnò un’attenzione più storica al problema, recuperando relazioni tecniche che hanno rappresentato la base della recente rielaborazione di Valentina Conticelli. Il volume riconsidera l’intero percorso della dispersione che subito dopo la morte di Francesco subirono i manufatti dello Studiolo quando, fin dal 1586, alcune statue di bronzo raggiunsero la Tribuna, molti quadri Palazzo Pitti, dove rimasero fino agli interventi lorenesi di secondo Settecento che condussero in Galleria le opere allora considerate più adatte al nuovo progetto museografico di Pietro Leopoldo. Ma non si trascurano le situazioni ottocentesche quando ad esempio alcuni dipinti furono prestati dopo il 1865 alla Camera dei Deputati di Palazzo Vecchio, o quelli mandati all’ex convento di San Salvi e al Museo Nazionale del Bargello. La necessità di stabilire un itinerario storico in grado di ricontestualizzare un programma iconografico così vasto, ha imposto in ogni fase della ricerca, attestazioni e riprove continue delle fonti che pongono il lettore nella condizione di utilizzarle per una puntuale considerazione della vicenda. L’apparato illustrativo comprende tavole e disegni che spiegano la genesi dello Studiolo in schematizzazioni reali e virtuali, integrate da immagini tratte dalle pagine di scelti
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testi cinquecenteschi (Bonsignori, Dolce, Salomon, Magno, Biringuccio), nonché dalle più famose invenzioni cosmografiche. Come sappiamo, l’attenzione per ambienti principeschi votati alla custodia e all’ammirazione di un compiacimento ancora privato di oggetti d’arte e naturalia, caratterizza il passato di ogni grande dinastia. Gli inventari delle varie dimore, non solo italiane, testimoniano nella scrupolosa e ricca descrizione degli allestimenti, le dislocazioni che questi studioli assumevano all’interno dei quartieri di corte, spesso adiacenti ad altre stanze per la riflessione e la custodia delle rarità. Il volume dedica infatti ampie descrizioni ad altri ambienti del palazzo fornendo una gamma di esemplificazioni che illustrano il ruolo degli spazi così vissuti. Per lo Studiolo di Francesco I de’ Medici, il rapporto tra contenitore e contenuto appare ancora più significativo e la ricostruzione della struttura concettuale voluta da Vincenzo Borghini, imbriglia l’intera evoluzione storica ed estetica del momento in cui lo Studiolo fu ideato. Non solo quindi si è resa una più ampia identità al gruppo di artisti che parteciparono all’impresa, ma si è cercato di ricostituire l’ordine originale delle parti costituenti lo Studiolo che con efficace formula la Conticelli definisce come un ‘puzzle iconografico’. Questo è inserito in una struttura iconico-mnemonica ben precisa che unisce le opere d’arte, gli oggetti preziosi e i naturalia della raccolta del principe, alle favole antiche e alle attività umane. L’architettura decorativa è tale che per ritrovare o collocare un oggetto «si deve sempre ripercorrere mentalmente l’origine mitica o naturale, associandolo prima all’elemento a cui appartiene, in secondo luogo all’evento mitologico raffigurato sullo sportello dove doveva essere collocato e in alcuni casi anche al processo tecnico che lo aveva generato». I diversi livelli di lettura necessari per decifrare le immagini e i loro significati in relazione alla stessa struttura architettonica dello Studiolo, integrano dunque le testimonianze letterarie e visive, mantenendo un continuo legame tra configurazione ambientale e opere d’arte.
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