15 Meridiano Zero
Niccolò Zancan è nato a Torino nel 1971, dove vive con la sua famiglia. Giornalista dall’età di 24 anni, prima a Repubblica poi alla Stampa. Scrive storie di strada, violenza e emarginazione. A diciassette anni era chitarrista in un gruppo punk di nessun successo. Per più di un decennio la sua password è stata NickDrake. Sono tutti bravi a morire è il suo primo romanzo.
Niccolò Zancan
Sono tutti bravi a morire Milton Manera: professione “venditore di alibi”. Charo: indiavolata fotoreporter lesbica. Un omicidio da prima pagina. Un suicidio da ultima. E un filo rosso di violenza e sopraffazione con cui la coppia più scalcinata della nera tenta di imbrigliare gli ex colleghi della cronaca.
Sono tutti bravi a morire
Insieme all’affiatatissima Charo – fotoreporter bella, energica, lesbica, punk e sola almeno quanto lui – Milton si lancerà in corse mozzafiato per una città algida e reticente. Fra incendi e avvertimenti, birre rosse e bizzarri informatori, alla ricerca di scomodissime risposte e del brivido adrenalinico regalato dalle vite altrui. Una vera e propria controindagine nelle viscere della città. Dagli alberghi a ore di periferia alle megaville con piscina collinari. Fino a una sperduta cittadina della Romania. E a un molo marittimo dove il cinico Milton troverà il coraggio di fare i conti con la “bestia” che è in lui.
14,00 euro ISBN 978-88-8237-305-4
Mz
Eppure Milton ha avuto un’idea geniale per arrangiarsi. Si è inventato un nuovo lavoro, tanto immorale quanto redditizio: il “venditore di alibi”, impeccabile garante della tenuta organizzativa dei tradimenti di un tragicomico circo umano di fobici e facoltosi clienti. È alla consorte dell’avvocato più in grido della città che sta tentando di propinare l’ennesima menzogna professionale, quando l’agghiacciante urlo della donna ribalta ogni prospettiva. Chi ha ucciso Lisa Rigamonti? E chi altro è morto nello stesso giorno? Troppe coincidenze sembrano inficiare le verità preconfezionate spiattellate in cronaca dai più untuosi ex colleghi della nera.
Sono tutti bravi a morire
Lussi sfrenati e miserie impensabili. Da una città innominata, piena di contraddizioni, al cuore della Romania. Per liberare le proprie “bestie” rabbiose e riconcedersi il gusto di una birra gelata.
Niccolò Zancan
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Niccolò Zancan
Milton Manera è un ex giornalista di cronaca nera licenziato per “giusta causa” in un mondo in cui tutti tradiscono tutti, ma qualcuno di più… Vive tormentato dall’ansia in una piccola casaufficio zeppa di vinili reggae, contemplando una scatola intonsa di antidepressivi. Pensa di aver tagliato i ponti con il proprio passato... Ma in realtà è come se fosse la sua vita ad aver divorziato da lui.
Meridiano Zero
Un noir ironico, pulp e poetico sull’etica giornalistica e il valore dell’amicizia.
Niccolò Zancan
Sono tutti bravi a morire
© 2014 Meridiano Zero di Odoya srl Tutti i diritti riservati isbn 978-88-8237-305-4 Copertina e impaginazione: Mauro Cremonini Coordinamento editoriale e redazione: Caterina Ciccotti Meridiano Zero via Benedetto Marcello 7 40141 – Bologna www.meridianozero.it
No phones, no guns, no man Bodyguard for my self I’m my bodyguard Paolo Conte
Capitolo 1
Non è vero che a quarant’anni tutto è già visto. Io, per esempio, ho qui davanti agli occhi la prima confezione di psicofarmaci della mia vita. È piccola, color giallino epatite, terrificante. Me la rigiro fra le mani come un dado. Le dita tremano. Mi faccio schifo da solo. Però costa 14 euro e 90 centesimi, un prezzo tutto sommato onesto, considerati i miracoli che promette. Leggo una riga in grassetto, sul lato stretto, anche se mi ero ripromesso di non farlo. Ultimamente sto imparando ad avere rispetto delle mie debolezze. Evitare l’assunzione con bevande alcoliche e superalcoliche per possibili interazioni con il medicinale. Penso che se domani morissi di crepacuore, ictus, soffocamento da biscotto o per qualsiasi altro stupido motivo senza storia, la polizia passerebbe comunque la notizia ai miei ex colleghi. E qualche adorabile vecchio stronzo, a cui in certi casi sono persino affezionato, magari solo per guadagnare una riga in più, a un certo punto del suo articolo compassionevole lascerebbe cadere la frase: «Nell’alloggio di Milton Manera gli investigatori hanno trovato una confezione di antidepressivi». Perché questa è la formula che si usa per dire che sei già triste di tuo. Fuori dalla porta della normalità. Una specie di predestinato, insomma. E quindi, cari lettori e care lettrici, non dovete sorprendervi né sentirvi in pericolo: a noialtri non succederà.
Lo so bene perché questa frase l’ho usata anche io cento volte. È il rifugio di un’intelligenza deficitaria o molto pigra, nella migliore delle ipotesi. Certe volte la scrivi soltanto perché sei indietro con il pezzo, il capo sbraita sconquassato dalla colite e giù in strada, davanti al portone del giornale, c’è la tua fidanzata che ti maledice, contando i minuti che mancano all’inizio del secondo spettacolo. È una frase che fa il paio con quella che si riserva agli accusati di reati sessuali, quando si tratta di assestargli il colpo di grazia: «In casa sono stati trovati anche diversi video pornografici». Fanculo: ora che ci penso ho anche quelli. Porno e psicofarmaci. Osservo la scatolina leggera. Deglutisco. Incido il palmo della mano sinistra con gli spigoli: piccole righe bianche fra le righe della vita. Non la apro, non le prendo. Penso che altrimenti non sarei più nemmeno in grado di riconoscere il mio sorriso: sono io che sto ridendo o è la molecola? Però sto male, cazzo. Mi viene da piangere, solo che non sono capace. Strizzo gli occhi fino a vedere un grande nero indistinto, pieno di stelle sfocate. Ho già tentato sette diete alcoliche per riconquistare una forma fisica decente. Ho incominciato nove volte il mio primo romanzo. Letto un libro su Bombay e uno su Bangkok, considerato l’Africa e la Siberia. Apro la confezione e mi verso un bicchiere d’acqua. Anzi vado a prendere una birra ghiacciata nel frigo, tanto non può andarmi peggio di così. Leggo nelle controindicazioni che queste pastigliette tonde orosolubili potrebbero causare, fra l’altro: vertigini, vomito, diarrea, inappetenza, incubi, allucinazioni, tremori e problemi di impotenza. Ma questo è davvero l’ultimo dei problemi, penso in un lampo di perversa soddisfazione, considerato che sono 317 giorni che non scopo. 8
L’avvocato Rigamonti ha il dono della sintesi, qualità fra le più apprezzabili. Mi scrive: Buongiorno signor Manera, ho bisogno di un incontro urgentissimo con lei. Il problema sta diventando rovinoso. Gli rispondo subito perché nel mio mestiere, come per gli ambulanzieri, gli idraulici e i giudici di sorveglianza, perdere tempo spesso peggiora le cose. Domani pomeriggio alle tre, nel mio ufficio. Porti il necessario e non si preoccupi: sono specialista in rimozione macerie. Adoro essere rassicurante. Spengo il portatile, metto un vinile di Peter Tosh a volume sette, che una volta mi piaceva molto e adesso mi dà sui nervi. Però mi sforzo di non farci caso per il rispetto che si deve ai vecchi amici diventati imperscrutabili. Equal rights and justice… Vado in bagno e mi osservo a torso nudo davanti allo specchio. Non che sia un bello spettacolo, anzi. Un sottile strato di adipe ormai deforma il mio ombelico. Posso pinzarlo con due dita, fino a farlo scomparire. Sembra l’occhio guercio di Polifemo. Eppure mi sale una dolcezza infinita ripensando a tutte le birre, a tutta la rabbia e all’insoddisfazione. È come se il mio ombelico fosse la prova in carne di quello che sono riuscito a sopportare. Sciolgo le braccia, incomincio a fare pesi cercando di pensare a nulla. Che poi sarebbe il mio esercizio preferito in assoluto. Se solo fossi all’altezza delle mie ambizioni.
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Il citofono trilla alle tre in punto, mentre fuori scoppia un temporale epico. Il cielo si è oscurato all’improvviso. Tremori si spandono dalle viscere del mondo. Una sfuriata di vento fa sbattere le imposte. Nel giro di un attimo, viene giù un muro d’acqua, tipo crollo di una diga. I miei ex colleghi specializzati in previsioni del tempo e sciagure spiegano che dobbiamo abituarci a questa rivoluzione tropicale. Ogni volta sgranano un rosario di sventure futuribili. Abbiamo i secoli contati, colpa del riscaldamento globale. Argomenti più che rispettabili, per carità. Ma non ci posso fare niente: io ne vado matto. Uragani. Tempeste. Alluvioni. Mareggiate. Se non aspettassi visite, giuro che uscirei fuori a prendermi in faccia una sberla o anche peggio dalla natura. Ma ecco l’avvocato Rigamonti. Compare sulla porta mezzo fradicio, con l’impermeabile beige sotto braccio e un ciuffo rossiccio schiacciato sulla fronte. Cammina zoppicando, per via di una gamba più corta dell’altra, che probabilmente il tacco aggiuntivo non riesce a bilanciare. Mi porge la mano, ma subito la ritrae. Infatti gli agguanto a malapena le ultime falangi, mentre lui si guarda intorno con aria schifiltosa, come se diffidasse della pulizia dell’ambiente. Annusa l’aria, si gratta l’orecchio e continua ad avanzare. Toccherebbe a me fare strada, ma non sono il tipo che si formalizza. Rigamonti va verso la stanza centrale, dove ha capito che ci piazzeremo, si gira e mi guarda. È in quel momento che incrocio i suoi occhi e li riconosco. Tre anni fa mi sono tagliato la testa contro uno spigolo, in uno di quegli stupidissimi incidenti senza gloria a cui sono abbonato. Il sangue mi colava tra le dita e tutti urlavano intorno a me (aiutatelo, oddio, chiamate un’ambulanza!) mentre io mi sentivo fortissimo. Ho capito in quel momento che certe 10
ferite hanno proprio questo di buono: mettono in circolo energie sommerse. Ed ecco cosa vedo nei lampi che attraversano lo sguardo indemoniato di Rigamonti: i miei stessi occhi prima che mi cucissero il cranio con dodici punti di sutura. – Dunque, dunque… – dice scatarrando. Ha così fretta che la sua ansia lo precede. Ancora prima di sedersi, mentre gli indico inutilmente la poltrona di fronte alla scrivania, esordisce: – Vivo con l’angoscia di essere scoperto anche quando non ho fatto niente di male. Capita di rado, signor Manera. Lei non ci crederà, ma capita… Come si sbaglia. Io credo a tutto. Credo a tutto per contratto. Io sono pagato per credere. Mi alzo per riaprire le persiane sbatacchiate dal vento, accendo un piccolo faretto giallo pinzato su un piano della libreria. Torno alla scrivania e vedo Rigamonti, sull’orlo della poltrona, fare una smorfia come di cattiva digestione. Mi sembra il tipo che a pranzo potrebbe aver mangiato un piatto di bresaola, grana e rucola per cercare di stare leggero, per poi rimpinzarsi di grissini preconfezionati, pessima birra lager tedesca e bicarbonato al limone. Mi siedo anche io, e mi accingo ad ascoltarlo in rigoroso silenzio, con la faccia assorta migliore che ho. Una bella faccia rassicurante, ecco. Mai stupita, innanzitutto. Senza un velo di ironia o un’ombra di riprovazione. Perché ho capito che proprio questa è la chiave: cancellare qualsiasi traccia di giudizio morale dalla mia fisiognomica, e possibilmente anche dal cuore. La cosa, a quanto pare, mi riesce piuttosto bene. Ascoltare, comprendere e assolvere. Chi mi cerca ha bisogno di qualcosa di più definitivo di una pacca sulla spalla. Vuole un viatico per la salvezza. E dunque, adesso benedico l’avvocato Rigamonti con cenni del capo e piccoli sussulti di assenso molto professionali. E per farlo sentire più a suo agio, mangio semi di zucca a mucchietti, sputando la 11
bucce rumorosamente, senza ritegno: piccole mezze lune salatissime nel portacenere. Perché ognuno ha le sue debolezze. Sono un venditore di alibi. Per chi vuole tradire ma ha paura di farlo, per chi è stato scoperto e ha bisogno di aiuto, io ci sono. Tengo il fiume dentro l’argine, finché si può. Piccoli accorgimenti, impersonificazioni opportune, menzogne professionali: mi sto specializzando. È il mercato che lo richiede. Il comparto fedifraghi pare immune alla crisi mondiale. Digitando su Google la frase “si può comprare?”, ho verificato la seguente classifica italiana di interesse: 1. Il Viagra senza ricetta 2. Il diploma 3. Una stella Digitando la combinazione “effetti collaterali”, si può ricavare invece una specie di top ten delle preoccupazioni. 1. Viagra 2. Radioterapia 3. Cialis 4. Latte di soia Mentre la vecchia morfina cantata dai Rolling Stones langue in decima posizione. A quanto pare il problema cruciale è farsi drizzare l’uccello, possibilmente con discrezione e senza farsi saltare le coronarie. Io sto nell’indotto. In sette mesi di lavoro, se così si può chiamare, ho incrociato guai di ogni tipo. C’è gente pronta ad acrobazie impressionanti 12
pur di salvare l’equilibrio familiare. Ho verificato da vicino gradi diversi di schizofrenia e tormento. Ma alla fine, credo di aver capito, è sempre la stessa storia: l’impossibilità di convivere pacificamente con se stessi. Vite che diventano una distonia incarnata. Cervelli in frantumi, sorrisi sghembi. Uomini insospettabili che arrancano dentro a triple vite perennemente insoddisfacenti, a cui non riescono a rinunciare. Però i guai che mi racconta adesso l’avvocato Rigamonti hanno qualcosa di peculiare, devo ammetterlo. Oserei dire, dall’alto della mia competenza in materia, che sconfinano nel patologico. – Passo il tempo a controllare le mie tasche, sono arrivato fino a un massimo di 615 volte al giorno – dice accendendosi un toscano, senza neppure abbozzare un cenno interrogativo per verificare se la cosa possa arrecarmi qualche fastidio. – Sono ossessionato dai tre telefonini che porto addosso, – continua – dal tracciato dei miei spostamenti, dai messaggi da cancellare, dai numeri che non devo confondere ma che posso sempre sbagliare: perché lo sa che quando si schiaccia il tasto invio, addio al mondo? Annuisco. Annuso il fumo che lui sputa fuori dalla bocca in nuvole storte, e che io vorrei nei miei polmoni. Zaffate dolcissime. Di colpo, scarrucolo lo schienale della sedia e piazzo i piedi sulla scrivania, perché ho capito che anche mettersi comodi aiuta a confidarsi. E infatti, Rigamonti si gratta la nuca e mi guarda incuriosito: – Lei non sembra il tipo che mi hanno raccomandato. Voglio dire: quali garanzie può offrirmi, oltre a quella faccetta da bravo ragazzo? Faccetta. Questa parola non mi piace. – Per fortuna non sono più un ragazzo da parecchio tempo – rispondo guardandolo per la prima volta negli occhi. – Quanto al bravo…
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Ma Rigamonti ha già distolto lo sguardo per occuparsi del sigaro, che si rigira fra le dita come un bastone da majorette. Se ne fotte di quello che ho da dirgli. – In certi momenti mi vergogno profondamente di essermi ridotto così – dice. – Vivo un senso di tale prostrazione… – Potrei pronunciare la stessa identica frase. Pure io con la mia faccetta. – Ha combinato guai grossi? Intendo dire, oltre a quelli noti? – Diciamo di sì, se in qualche modo può esserle di conforto… – L’unica cosa che mi potrebbe essere di conforto, eventualmente, e non è detto che non sarà la mia prossima mossa strategica, è la castrazione chimica. Non sembra una battuta. L’avvocato Rigamonti ha la fronte imperlata di sudore, gocce enormi incastonate nelle rughe trasversali. E quando decide di ripartire, dopo un sospiro rauco proveniente da un organo interno in pessimo stato di salute, si incarta: – C… co… con… co… con… c… co… con… Sputa e arranca in preda a una balbuzie sbalorditiva. Ingolfato. Con gli occhi bassi sul piano della scrivania, umiliato e in pena, identico a un cagnolino che ha appena cagato in salotto. Rialzo lo schienale tanto per fare qualcosa e cercare di allentare la tensione. Rigamonti sembra sul punto di mettersi a vomitare sulle mie cartelline, quando si sblocca, tossendo forte: – Controllo continuamente di non aver lasciato tracce compromettenti – continua come se niente fosse. – Scontrini, capelli, peli, segni sulla pelle, odori strani. Mi guardo la schiena allo specchio, mi controllo il collo e anche il culo, mi perdoni la franchezza. Faccio lavare la macchina tre volte alla settimana, ma non basta mai… Ed è così che arriva alla sua perversione, praticamente franando. – La prima volta mi è successo con Barbara. Ci vediamo in un albergo della collina, modesto, con le lenzuola ruvide e un’aria da sbaraccamento. Ma ha il pregio di essere isolato. In 14
camera, dice lei, si sente il cinguettio tanto carino degli uccelli. Che (detto inter nos) a me fanno schifo. Di più: mi irritano al punto che sterminerei all’istante l’intera stirpe dei volatili. Ma il posto è davvero silenzioso. E poi, il personale conosce la regola d’oro della riservatezza… L’avvocato Rigamonti pare sentirsi meglio. Si tasta ai lati del collo per controllare la pressione arteriosa. È ispirato: – All’inizio era molto bello, potente come una droga. Mi può capire, vero? Assento. Anche se non ho mai provato droghe in vita mia. E principalmente, credo, per un presuntuoso afflato d’orgoglio: l’illusione di poter controllare il mio destino nel mondo. E infatti invecchiando incomincio a comprendere meglio una frase di Frank Sinatra, letta nel libro di un grande giornalista americano, che mi aveva colpito profondamente. Diceva, il vecchio Frank: «Sono favorevole a tutto ciò che ti aiuta a passare la nottata. Che sia la preghiera, i tranquillanti o una bottiglia di Jack Daniel’s». Anche io sto diventando favorevole. Rigamonti però non fa caso alla mia faccia. Nemmeno sospetta le mie elucubrazioni. – Ci vedevamo all’ora di pranzo, fra le udienze e l’ufficio – dice accumulando una schiuma biancastra ai bordi della bocca. – Arrivavo caricatissimo, spesso senza nemmeno bisogno di doping aggiuntivo. Il patto tacito era che doveva essere un’ora rigenerante per entrambi. Niente paranoie esistenziali sulle famiglie d’appartenenza, il senso, il rimorso e il futuro: il resto del mondo doveva restare fuori. Ma il sapone di quell’albergo aveva un profumo nauseabondo di mughetto. Appena tornavo in ufficio mi perseguitava. Mi sembrava che se ne accorgessero tutti. Per la verità, nessuno osava rivolgermi la parola, ma era chiaro che dietro alle spalle venivo additato come un bastardo disgustoso. Così ho incominciato a portare con me saponette 15
uguali a quelle di casa. Mi creda: non è stato facile trovarle, visto che di queste faccende, grazie a dio, se n’è sempre occupata mia moglie o qualcun’altro per lei. Ma alla terza farmacia le ho riconosciute, non può immaginare con quanta intima soddisfazione: uguali identiche. L’avvocato Rigamonti mi racconta di come è diventato schiavo dei doppi scontrini. Il sapone è stato solo l’inizio: – Presto sono passato alle camicie, perché non posso tornare a casa tutto stropicciato. Poi le mutande e i pantaloni, che trattengono sempre indizi compromettenti. Da un anno a questa parte compro tutto doppio. Anche il profumo, il dopobarba, il dentifricio. Uno è in bagno, l’altro nel cruscotto, nascosto dentro il cofanetto di Pavarotti che mia moglie odia… – Mi spiega che in questo modo cerca di riconquistarsi una verginità ogni volta che tradisce. Si lava da capo a piedi, si profuma e si riveste, come appena uscito di casa. Ma neanche le sue premure maniacali bastano a placare l’ansia. – Ho avuto il suo nominativo da un persona che gode della mia più totale fiducia. – Bene – dico convinto, senza indagare oltre. Mi chiede rassicurazioni sul mio modo di agire. Prende dalle pieghe dell’impermeabile una busta spiegazzata formato A4, e me la passa: – Dentro c’è tutto quello che deve sapere. – Appoggia una mazzetta di contanti sulla scrivania, che a occhio, dato lo spessore, quantificherei in non meno di tremila euro. – Un piccolo anticipo per una tregua da tutto questo – dice. Lo guardo mentre si alza, sudato marcio. – Questo weekend sarò a Roma. Pretendo di stare in santa pace. Scatarra e si infila l’impermeabile. – Non voglio la minima preoccupazione. Sono ammirato da quel passaggio elastico dalla balbuzie alla tracotanza. Lo sto osservando, e così vengo meno a una del16
le regole essenziali della mia professione: la discrezione. Ma l’avvocato Rigamonti ricambia lo sguardo fra il divertito e il terrificante, con due occhi da Keith Richards innestati su una faccia da quinta elementare: – Ci siamo intesi? Presto due birre da 66 al mio vicino Hernandez, che giura di restituirmele domani. Mangio una frittata con del pane nero leggendo Rumore, le recensioni della sezione indie-rock. Poi mi lavo i denti con troppa foga, come al solito. Così mi sanguinano le gengive. E mentre mi maledico davanti allo specchio, ho un’illuminazione. Cazzo, mi stavo dimenticando dello psicanalista Adelmo Rolfo e del suo dopopranzo di domani. Una piccola pratica da 600 euro. Cinque del pomeriggio. Sono ancora in tempo. Mi alzo per prendere la cartellina con tutte le informazioni utili: è sulla mia scrivania. Sopra ci sono le iniziali del cliente. Devo rinfrescarmi la memoria. Intanto butto giù un dito di grappa meditativa. Dentro la cartellina, oltre alle foto, trovo tre pagine fitte, scritte al computer con carattere Cordia New in corpo 6, roba da cavarsi gli occhi. Dopo un illeggibile cappello con aspirazioni filosofiche, il dottor Rolfo si descrive in un elenco di punti che, a mio modesto avviso, sarebbe meritevole di entrare nei manuali di sociologia contemporanea. Ci arriva così: E ora, dopo averla annoiata con i miei sproloqui intellettualistici, per facilitarle il lavoro enuncerò i miei cinque tratti distintivi. Perdoni la deformazione professionale, ma metterli nero su bianco è di aiuto anche a me. 1. Io sono un uomo brutto. Piede piatto, dentatura infelice, acne del dorso, tendenza alla pinguedine per inveterata abitudine alcolica. 17
2. Soffro di incapacità conclamata di sognare, costante bisogno di conferme, strisciante conflitto con la morte. 3. Sono affetto da un’infelicità non emendabile e da una prostatite cronica da germe multiresistente. Eppure… 4. Infedeltà cronica. Molti alti, pochi bassi diabolici. 5. Totalmente refrattario al buon senso. Ed è in questo senso, signor Manera, eccoci al punto, che lei rappresenta il mio tentativo di maturità. Mi viene da vomitare. Il dottor Rolfo ha l’incubo di essere seguito dalla moglie. È convinto che stia accumulando prove per poi ricattarlo. Ritiene che quest’atteggiamento della signora derivi principalmente dalla passione compulsiva di lei per certi telefilm americani, con le investigazioni scientifiche al centro della trama. E che le “portentose scopatine” di lui, come le chiama, quelle che la chimica gli ha regalato sulla soglia dei sessanta, siano solo un piccolo dettaglio accidentale. Non la causa. Rolfo racconta che la moglie Ida gli cronometra i minuti di ogni trasferimento della giornata, per poi metterlo in difficoltà con domande a raffica. Giura di averla vista più di una volta con il naso affondato nelle sue mutande sporche, sempre scientificamente: «Nel bel mentre di una comparazione olfattiva…». È sicuro che l’estratto conto intestato a suo nome venga periodicamente controllato in rete attraverso un account parallelo, e anche per questo (si dilunga in scuse) è costretto a pagarmi in nero. Dice che quando lui esce di casa, subito dopo esce anche lei. La scorsa settimana l’avrebbe vista addirittura spuntare alle sue spalle, mentre stava per entrare in uno di quei negozi con una prima sala abbastanza chic (stivali in pelle, vestitini leggeri, profumi orientali) e la seconda con una selva di giganteschi falli di gomma e creme lubrificanti al guaranà. Non mi ha spe18
cificato cosa intendesse acquistare in quell’occasione, ma non è questo il punto. Io credo che il dottor Rolfo esageri. Esagerato come le sciarpe fluo che indossa quando va in televisione a commentare l’ultimo delitto alla moda. Mi è sembrato nevrotico, saccente, ossessivo. Ma è del tutto evidente che la mia opinione non rileva. Così compongo il numero di casa con la bocca al gusto sangue, menta e grappa. E intanto, silenziosamente, prego. Prego perché voglio chiudere in fretta la faccenda. Oggi non mi sento per niente in forma. – Signora Rolfo? – Chi è lei? – Buonasera, gentile cliente, è Sky Italia, congratulazioni! Silenzio. Sospiro. – Primo: non voglio comprare niente. Secondo: detesto essere congratulata. – Ecco. Infatti. Lei ha perfettamente ragione. Non ho proprio nulla da venderle e mi perdoni l’eccesso di enfasi, oggi a tratti mi sento ingiustificatamente di buon umore. Ma la questione è un’altra, cara signora Rolfo… – Cara? – Oddio. Intendevo dire, essendo lei una delle più assidue spettatrici di Scopri tu l’assassino, vorrei comunicarle che intendiamo premiare la sua fedeltà. Abbiamo un nuovo decoder con registratore digitale, in modo che possa rivedere le puntate quando meglio crede. Tutto senza costi aggiuntivi. Inoltre, se fosse d’accordo, vorremmo scattare una serie di foto a casa sua, proprio davanti al televisore, per una prossima campagna pubblicitaria con le facce dei nostri clienti più bravi a risolvere gli enigmi del succitato programma. Titolo: “Fidatevi! Loro hanno fiuto”. Cosa ne pensa? – Penso che il mio bollitore stia fischiando. – Per carità, faccia con comodo, signora Rolfo. Io non ho fretta… 19
Appoggia la cornetta. La sento sgambettare mentre impreca: – Succitato… Ma come diavolo parla… Ha ragione. Che cazzo di parola mi è saltata in mente? Questa è un osso duro, penso. Ida Rolfo torna dopo tre minuti. – Insomma, cosa diavolo volete da me? – Solo un’ora, al massimo due del suo tempo. Domani alle 14. Le portiamo il nostro omaggio e discutiamo del servizio fotografico. – Guardi, sarei tentata di acconsentire. Ma solo perché sono curiosa di verificare se anche di persona siete altrettanto maleducati. – Mai, signora! Glielo assicuro. Le chiedo ancora scusa. – E come faccio a fidarmi di un cretino come lei? – Buona domanda! Ottima, direi! Allora: avremo il tesserino aziendale appuntato sulla giacca e un decoder inequivocabile sottobraccio. E poi, scusi, come crede che avremmo potuto conoscere la sua grande passione per Scopri tu l’assassino se non fossimo in effetti di Sky Italia? – Il ragionamento ha un suo perché – abbozza sorseggiando lentamente la sua bevanda calda. La sento girare il cucchiaino dentro la tazza e poi bere ancora, un sorsino parsimonioso. – Acconsento – dice. – Grazie signora Rolfo. Grazie per la fiducia. Domani alle 14 siamo da lei. Le spiegheremo ogni cosa per bene. Metto giù esausto. Sono investito da un refolo di sollievo. Ma subito mi ritrovo a pensare al fatto che a quell’ora il dottor Rolfo uscirà imbottito di confettini azzurri, lanciato a grandi falcate verso la sua “troia di fiducia” (è lui che la chiama così). Considerare la scena non mi mette allegria. Soprattutto immaginare la signora Ida imbellettata, che si guarda allo specchio con insoddisfazione in attesa di qualcuno che non arriverà mai. Che razza di stronzo sono diventato. 20