ua|3p - Dicembre 2019

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università aperta terza pagina

ISSN 1720-3643 dicembre 2019 anno XXIX n. 3 periodico E 3,5

formazione e innovazione, la chiave per pensare al futuro: Paolo Mongardi p. 04 | il Mercante di Venezia: quattro secoli dopo: Walter Valeri p. 08 | Tiberio Arcangeli: alla riscoperta di un imolese di una volta: Roberta Mullini p. 10 | dalle penne alle pinne: Maura Andreoni p. 15 | mille ricordi in un frutto Sacro e Profano: la melagrana: Maria Grazia Bellardi p. 18 | con Leonardo da Vinci a Bologna: Lisa Bellocchi p. 21 | la Grande Guerra nella corrispondenza di Giuseppe Cita Mazzini: Rossana Barbieri p. 24 | Robert Louis Stevenson antesignano del “viaggio lento”: Gigliola Mongardi e Paolo Palladini p. 28 | vite r-Accolte: Doriana Rambelli p. 31 | via Felice Orsini a Imola: una vicenda poco nota: Marco Pelliconi p. 34 | Matera capitale della cultura 2019. Oggi...: Patrizia Merletti p. 38 | sul palcoscenico dello Stignani: Alessandra Giovannini p. 41 | le convenzioni 20192020 p. 44 | tre classi, due storie, una città: LicealiDoc p. 45

Poste Italiane S.p.A. Spedizione in A.P. D.L. 353/2003 (convertito in L. 27/02/04 n. 46) art. 1 comma 1-CN-RA In caso di mancato recapito restituire all’ufficio accettazione CDM di Ravenna per la restituzione al mittente che si impegna a pagare la relativa tariffa



ua|3p Università Aperta Terza Pagina anno XXIX | dicembre 2019 | n. 3 | spediz. abb. post. Pub. inf. 40% direzione Mario Faggella | direttore responsabile Massimo Pelliconi | segreteria di redazione Cinzia Pallotta | redazione Maurizio Bacchilega; Gabriella Barbieri; Antonio Castronuovo; Mario Faggella; Sante Medri; Giuliana Zanelli | hanno collaborato a questo numero Maura Andreoni, traduttrice e studiosa di storia locale; Rossana Barbieri, corsista di Università Aperta; Maria Grazia Bellardi, collaboratrice della rivista; Lisa Bellocchi, collaboratrice della rivista; Alessandra Giovannini, giornalista; LicealiDoc, allievi del Liceo Scientifico Valeriani; Patrizia Merletti, corsista di Università Aperta; Gigliola Mongardi, collaboratrice della rivista; Paolo Mongardi, presidente di SACMI Imola; Roberta Mullini, docente di letteratura inglese Università di Urbino; Paolo Palladini, presidente della Consulta delle Libere Professioni della Fondazione Cassa di Risparmio di Imola; Marco Pelliconi, studioso di storia locale; Doriana Rambelli, collaboratrice della rivista; Walter Valeri, collaboratore della rivista | proprietà Editrice La Mandragora s.r.l. via Selice, 92 40026 Imola (Bo) e-mail: info@editricelamandragora. it tel. 0542 642747 | abbonamenti annuo euro 10,00 un numero euro 3,50 arretrati il doppio. Chi volesse sottoscrivere l’abbonamento o richiedere con l’invio al proprio domicilio, numeri arretrati, dovrà inoltrare all’Editrice La Mandragora ricevuta del versamento sul c/c postale n. 18195404 intestato a Editrice La Mandragora | stampa Edizioni Moderna, Ravenna | pubblicità Editrice La Mandragora s.r.l. via Selice, 92 40026 Imola (Bo) e-mail: info@editricelamandragora. it tel. 0542 642747. Università Aperta società cooperativa sociale piazza Gramsci, 21 40026 Imola (Bo) tel. 0542 27373 fax 0542 31448 www.univaperta.it e-mail: univaperta@

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in copertina Foto aerea dello stabilimento Sacmi di Imola, Archivio Scami.

Marco Chioffi Giuliana Rigamonti

Antico Regno “jm(y).t-pr” II Kaiemneferet, Nikaiankh I e II Pag. 298 • e 32,00


Paolo Mongardi

formazione e innovazione, la chiave per pensare al futuro L’esperienza di SACMI, dal 1919 sul territorio al fianco di Università e ricerca Pubblichiamo con molto piacere l’articolo con cui il Presidente Paolo Mongardi ha voluto significativamente accompagnare l’immagine in copertina di ua|3p che Università Aperta ha inteso riservare alla SACMI nel centenario della sua fondazione come essenziale “fabbrica della città” ma anche come rilevante ruolo economico in tutto il territorio. L’eccellenza che la SACMI sa esprimere con le sue innovazioni tecnologiche nell’odierna competizione industriale, non le ha fatto mai trascurare l’attenzione alle tante esigenze sociali ed iniziative culturali che animano la nostra comunità, tra le quali anche quelle di Università Aperta che fin dalla sua costituzione nel luglio 1987 ha avuto l’onore di annoverarla tra i propri soci. Mario Faggella SACMI nasce cento anni fa, grazie al coraggio ed alla determinazione di 9 tra meccanici e fabbri imolesi disoccupati, accomunati da un ideale, il lavoro. Oggi SACMI è un’azienda internazionale con oltre 4.500 dipendenti nel mondo, altrettanti brevetti depositati nel corso della propria storia, e attività ai vertici dei settori della ceramica, plastics, food&beverage, metals, packaging e materiali avanzati. Il tema della formazione e delle competenze è, da sempre, un valore cardine per SACMI, che destina ogni anno risorse importanti a progetti di ricerca che vedono come principali partner Università, laboratori e centri specializzati in

Italia e nel mondo, con un’attenzione speciale al nostro territorio, dove ha sede il cuore tecnologico e produttivo del Gruppo. Onorare la propria mission di azienda cooperativa – l’attenzione al territorio ed ai giovani – è solo una delle ragioni alla base dell’agire quotidiano di SACMI in tema di formazione e ricerca. L’altra ha a che fare con il pressante tema dell’evoluzione del mercato e dei modelli di business che, in modo sempre più pervasivo, stanno coinvolgendo l’intera manifattura europea. Prodotti e processi produttivi sempre nuovi, più sostenibili e rispettosi dell’ambiente. Una crescente integrazione tra il mondo virtuale (reti, sensori) e il mondo della produzione reale in fabbrica (operation technology) hanno in larga misura imposto un salto ulteriore di qualità alle nostre aziende, con una straordinaria accelerazione che SACMI – per valori e storia, approccio e prassi quotidiana – si è dimostrata attrezzata per cogliere prontamente, rinnovando le storiche collaborazioni e sviluppando nuovi investimenti e progetti. Solo per dare un’idea del vasto mondo di attività del Gruppo in questo ambito, SACMI vanta oggi oltre 40 collaborazioni attive con le principali Università ed istituti di ricerca italiani ed internazionali. L’azienda sostiene inoltre la creazione di corsi di laurea e master in ambiti di interesse specifico per il proprio business. Scommette infine, con determinazione, ua|3p:04


sui vantaggi della digitalizzazione dei processi e dei servizi, realizzando ad esempio un laboratorio dedicato – SACMI Innovation Lab – all’individuazione ed alla diffusione di nuove tecnologie abilitanti 4.0, una struttura operativa dal 2017, inaugurata nella primavera scorsa e che opera in stretta sinergia con il Centro Ricerche del Gruppo. SACMI, inoltre, crede nel valore delle reti – di aziende, persone, competenze – funzionali alla creazione di benessere condiviso per il territorio e di nuove opportunità di lavoro qualificato per i giovani di talento. Nata come azienda cooperativa in un momento estremamente difficile per l’economia e la società italiana, SACMI ha mosso i primi passi proprio in quel mondo (la cooperazione imolese) dove fare rete, creare nuove sinergie funzionali a dare risposte innovative ai clienti ed al mercato, ha rappresentato la chiave di volta della sopravvivenza, in una prima fase, quindi della crescita sui mercati internazionali, per tutto il secondo dopoguerra. ua|3p:05

Ecco perché SACMI ha scelto di candidare il nuovo SACMI Innovation Lab a diventare nodo della Rete regionale dell’Alta tecnologia dell’Emilia-Romagna. Ecco perché, nella stessa logica, SACMI aderisce – esprimendone la presidenza – al consorzio Bi-Rex, primo compe-


tence center nazionale 4.0 che vede come capofila l’Università di Bologna, accanto a decine di soggetti pubblici e privati. Farsi capofila dell’innovazione – e della formazione delle figure necessarie a sostenere con efficacia questo tipo di processi – diventa dunque una necessità per un’azienda come SACMI, lea-

der sui mercati in cui opera, oltre ad un modo per attualizzare e proiettare nel futuro la mission assegnata dai propri padri fondatori. Una scommessa, quella sulla capacità di connessione tra aziende e talenti, che non può non considerare una dimensione globale. Solo ponendoci ai vertici della ricerca industriale inter-

CI ANDIAMO DIETRO Agenda Imolese 2020 È disponibile la nuova edizione dell’Agenda Imolese, l’omaggio di fine anno che la Fondazione dedica alla nostra città e al nostro territorio. Un’agenda speciale, arricchita dalle foto di Marco Isola e dai testi redatti sulla cronaca cittadina da Walter Fuochi. Dietro i nostri valori, dietro il nostro impegno, c’è sempre la passione per la nostra terra. L’agenda può essere ritirata gratuitamente, fino ad esaurimento copie, presso gli uffici della Fondazione.

Buon 2020

www.fondazionecrimola.it

Fondazione Cassa di Risparmio di Imola Piazza Matteotti, 8 - 40026 Imola Tel. 0542/26606 Fax 0542/26999 segreteria@fondazionecrimola.it

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UNIVERSITÀ APERTA Viaggiando si impara

Padova

Palazzo Zabarella

VAN GOGH, MONET, DEGAS sabato 8 febbraio 2020 nazionale, infatti, il nostro sistema di imprese saprà misurarsi con le nuove sfide che ci attendono, dalla sostenibilità ad una sempre più spinta personalizzazione dei prodotti e dei servizi. Un obiettivo nel quale l’azienda – che ad oggi esporta oltre l’80% dei propri prodotti – ha fortemente creduto, tanto da portare a casa, all’inizio del 2019, la prestigiosa partnership con il MIT (Massachusetts Institute of Technology) di Boston ed entrando in contatto con una rete mondiale formata da oltre 1.900 start up. Un 2019 che, per SACMI, si chiude con la riaffermazione di un principio molto più generale, che va oltre le singole, pur importanti, collaborazioni con le diverse strutture, enti, istituzioni. Si tratta del principio di partnership, applicato ad ogni livello, partnership di lungo periodo che SACMI costruisce con i propri clienti, fornitori, con il proprio stesso personale interno, coinvolto ogni anno in decine di migliaia di ore di formazione alla sicurezza, all’ambiente, alla corretta gestione dei nuovi processi e servizi. Essere partner, per SACMI, significa riconoscere la centralità della persona nei processi aziendali, anche e soprattutto oggi, dove la digitalizzazione ha posto ad ogni livello (tecnologico, ma anche culturale e organizzativo) il problema delle competenze. Solo in questo modo potremo guardare con fiducia al futuro e – come è scritto nella nostra carta fondativa – consegnare un’azienda (ed una società) migliori alle prossime generazioni. ua|3p:07

Dopo il successo di pubblico e di critica della mostra “Gauguin e gli Impressionisti. Capolavori dalla Collezione Ordrupgaard”, la Fondazione Bano presenta un’altra delle collezioni private più prestigiose del mondo, divenute poi pubbliche. Lo storico Palazzo Zabarella, situato al centro di Padova, si prepara dunque a vivere nei prossimi mesi un altro grande successo ospitando nelle sue sale una selezione di opere della Mellon Collection of French Art dal Virginia Museum of Arts. Nel percorso espositivo diviso in sezioni tematiche saranno presentate oltre 70 opere dei protagonisti della scena artistica dalla metà

dell’Ottocento fino ai primi decenni del Novecento: Edgar Degas, Eugène Delacroix, Claude Monet, Pablo Picasso, Vincent van Gogh, Courbet, Sisley, Pierre-Auguste Renoir, Paul Cézanne e altri. Come per ogni grande collezione, accanto ad alcuni capolavori, sono presenti delle “chicche”, delle opere meno famose ma di grande livello qualitativo che rispecchiano il gusto dei collezionisti. E nella collezione dei Mellon, c’è innanzitutto tanta Paris, tanta arte francese, passione che Rachel ‘Bunny’ Lambert aveva trasmesso a suo marito, inizialmente interessato soprattutto a quella inglese. Accompagneranno i visitatori le docenti di Università Aperta Giovanna Degli Esposti ed Emanuela Fiori. Informazioni, iscrizioni e saldo presso Agenzia Viaggi Santerno: Imola via Saragat 19, tel. 0542 32372 e via Paolo Galeati 5, tel. 0542 33200; Castel San Pietro Terme piazza Garibaldi 5, tel. 051 940358.


Walter Valeri

il Mercante di Venezia: quattro secoli dopo Nel cinquecentesimo anniversario della creazione del Ghetto di Venezia, per secoli luogo di segregazione, esclusione e sorveglianza, la Compagnia de’ Colombari di New York, in collaborazione con l’Università di Venezia Ca’ Foscari, ha prodotto un adattamento originale del Mercante di Venezia di William Shakespeare, diretto da Karin Coonrod. Per l’occcasione mi è stato chiesto ed offerta l’opportunità di svolgere il compito di drammaturgo ufficiale di produzione. “Da sempre il Ghetto s’è distinto come luogo d’identità culturale cosmopolita. Ed è nel solco di questa tradizione che abbiamo voluto mettere in scena l’opera più controversa di Shakespeare” ha ripetuto Shaul Bassi, docente di Ca’ Foscari, ideatore dell’intero progetto, durato due anni, con seminari, laboratori propedeutici, convegni e un documentario prodotto dalla RAI. Il ghetto di Venezia nei secoli è coinciso con quel particolare fenomeno, spesso contraddittorio, definito come espressione della ‘cultura della repressione’ o ‘espressione della diversità’. Una traccia luminosa, rilevante e concreta del pensiero critico che si oppone al pensiero dominante, alle sue leggi e soprusi; una sorta di convenienza culturale degna di ascolto permanente “svincolata dalla legge del luogo e operante, immobile, nella distanza” come l’ha definita Michel Foucault. Portare quest’opera di Shakespeare, così controversa, per secoli tacciata di aperta ostilità nei confronti degli ebrei proprio a Venezia, nel cuore del ghetto, è stata una sfida

Cors riferimo di ento 1 marzo3 2020

non da poco, sotto tutti i punti di vista. Anche logistico se si pensa che abbiamo costruito un teatro all’aperto che prima non c’era e messo assieme una compagnia internazionale di artisti, musici e teatranti con lingue e culture diverse, provenienti da varie parti del mondo: dagli Stati Uniti, l’India, l’Inghilterra, la Francia, la Romania, l’Italia, ecc. Ognuno col suo bagaglio di conoscenze e personalità. Lo abbiamo fatto per portare qui quest’opera di Shakespeare, a detta di tutti una fra le più complesse e sofisticate congiuntamente alla volontà di aggiornarla. Ma, soprattutto, per verificare e ribadire le qualità di un capolavoro teatrale assoluto, in grado di attraversare secoli e pregiudizi spesso infondati per arrivare sino ai giorni nostri Il Mercante di Venezia è un’opera ancora viva e piena di interrogativi a cui è bene dare delle risposte. Shakespeare non sapeva dell’esistenza del ghetto quando scrisse Il Mercante.

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La prima edizione a stampa del testo risale al 1600 e, a detta degli storici, la prima rappresentazione “è possibile risalga al periodo immediatamente posteriore il 7 giugno 1594, giorno in cui fu pubblicamente giustiziato Roderigo Lopez”, ebreo portoghese convertito al protestantesimo, medico personale di Elisabetta I d’Inghilterra, accusato di aver cercato di avvelenarla. Se la cronaca è stata la probabile committenza di questo testo di Shakespeare, all’autore non mancavano certo esempi di antisemitismo depositati nelle radici del teatro inglese: dalle sacre rappresentazioni che sin dal 1200 si prodigavano a far circolare un’immagine di convenienza persecutoria degli ebrei come esseri sadici e demoniaci, sino all’Ebreo di Malta di Christopher Marlowe, di poco precedente al Mercante e di cui Shakespeare aveva sicura conoscenza. Oggi sappiamo che una lettura innocente e inconsapevole del Mercante di Venezia di Shakespeare è praticamente impossibile. Troppo se n’è scritto, parlato e speculato nel corso dei secoli. In ciò la sua necessaria e straordinaria possibilità di aggiornamento. Stephen Greenblatt, docente di Harvard e autorevole studioso dell’opera di Shakespeare scrive giustamente: “Il Mercante di Venezia è complicato perché Shakespeare è un autore di teatro complicato. Non è un documento sui diritti umani. Non è il riassunto caldo e/o sentimentale delle relazioni fra gli individui di diversa appartenenza sociale, ma è una incredibile interessante esplorazione delle radici della xenofobia”. Questo nuovo adattamento, realizzato passo passo assieme alla regista, più che negli abbondanti tagli e modifiche al testo, chiaramente riconoscibili, si è giocato, sempre e ancora una volta, tra le battute di ogni singolo personaggio e l’immaginazione di chi li ascolta: l’insieme e susseguirsi di parole e musica, luci e movimenti che la Compagnia De’ Colombari ha appositamente creato per il pubblico del Ghetto di Venezia. Vale a dire: Il Mercante di Venezia è tornato ad essere attuale nell’era del digitale, nell’epoca della trasversalità dei generi dove la mortificazione della parola espressiva è connaturata alla nostra quotidianità, come una catastrofe che si abbatte sul nostro conversare e parlare, grazie alla poesia che lo sostiene. L’accurata sonorità ed effervescenza descrittiva della ua|3p:09

scrittura di Shakespeare si è dimostrata, ancora una volta, in grado di sopravvivere all’ostilità del chiacchiericcio che circonda e ammutolisce gli esseri umani immersi nella loro quotidianità. Tutto questo per dire che mettere in scena Il Mercante di Venezia, oggi più che mai, significa partire da un testo eccezionalmente ben scritto, per un pubblico di spettatori-ascoltatori a digiuno di ogni esperienza telematica in quel tempo; ma sempre attuale, anche se per spettatori ormai abituati a comunicare tramite schermi e codici internazionali elettronici. Ecco perché ci siamo sentiti il dovere, quasi naturale, di compiere un’eresia drammaturgica, di trasferirlo nel corpo di cinque attori, farlo uscire dall’unicità della sua pelle per sottolineare come Shylock siamo noi, ognuno di noi: un personaggio emblematicamente infelice, espropriato della sua dignità, perseguitato ed escluso. Una vittima trasversale ad ogni genere o credo religioso, terribilmente complessa e affascinante, croce e delizia di ogni spettatore e ogni drammaturgo. Shylock è insopportabile nelle battute iniziali, quando rivolgendosi al pubblico parlando di Antonio, dice apertamente: “Lo odio perché è un cristiano; ma ancora di più perché nella sua sciocca semplicità, presta il denaro gratis e fa abbassare, qui da noi in Venezia, il tasso dell’interesse”; ma poi si fa straziante, quando ricorda ai suoi incalliti persecutori: “Non ha forse occhi un ebreo? Non ha mani, organi, membra, sensi, affetti e passioni?”. Ancora oggi Shylock ci chiede e chiede a sé stesso, di essere ridefinito come vittima; al di là della dolorosa e personale vicenda. Non è più l’assemblaggio e trasposizione teatrale della iconografia antisemita che ha avuto origine nel mondo cristiano con la medievale Narratio Legendaria del 1320, ma il precipitato doloroso del nostro presente; dell’esistere in una società dominata dal profitto e dal consumo, unicamente valutata dal denaro e dal potere d’acquisto. Più che un episodio di crudeltà da palcoscenico, il fuoco centrale del Mercante di Venezia, è ancora una straordinaria denuncia contro i carnefici di turno, fatta da uno dei più grandi poeti di tutti i tempi: un atto d’accusa contro l’intolleranza religiosa, la discriminazione razziale, la fraudolenza contro di sé e contro gli altri.


Roberta Mullini

Tiberio Arcangeli: alla riscoperta di un imolese di una volta Succede spesso che, cercando una cosa, se ne scopre un’altra. Ed è così che la scorsa primavera, nel mezzo di una mia ricerca nella Sala Archivi e Rari della Biblioteca comunale di Imola (BIM), mi sono imbattuta nel nome di Tiberio Arcangeli quando, tra le “Carte Montevecchi” ho trovato un quaderno di parecchie pagine, colmo di scrittura chiara e ben leggibile, identificato come “Liriche di guerra, maggio 1916-aprile 1919”1. Stavo terminando il mio corso per Università Aperta sulla Poesia inglese della Prima Guerra Mondiale (2018-19) e l’interesse destato da questi scritti fu subito forte, tanto che, trovati due sonetti tra le tante composizioni alcune occasionali altre fantasiose e – perché no – per me strane, li copiai e li proposi alla mio gruppo di frequentanti, per un confronto, almeno a livello di temi, con quanto andavamo leggendo. Le circa 120 pagine del quaderno sono tutte numerate così come le composizioni (144)2. È proprio dal quaderno che si viene a sapere che Arcangeli, soldato del 57° Reggimento Fanteria, era nato a Imola il 5 giugno 1886. In mezzo alle pagine c’è anche un cartoncino con il ritratto di Tiberio fatto da un suo commilitone, che si firma “L’amico Ziliotto” (che Arcangeli chiosa con “Iacopo Ziliotto dell’Accademia delle Belle Arti - Venezia”) dedicando il disegno “Al caro Tiberio, guerriero terribile e fiero” (Figura 1). Tra le poesie si trova anche un sonetto dedicato ad Andrea Costa (n. 89, p. 77) e questo mi fece supporre che Arcangeli fosse socialista. E non mi sbagliavo, tanto che ho trovato numerose tracce di lui su vari numeri de La Lotta, sia in annate precedenti il conflitto sia durante la guerra, quando Arcangeli, come altri, scriveva al giornale per fare giungere messaggi a casa (ad esempio, a p. 3 del numero 36, anno XIX, del 3 settembre 1916, è il primo firmatario dei “Saluti dal fronte: Molti cari e memori pensieri ai congiunti, amici e compagni”).

Figura 1. Iacopo Ziliotto, Ritratto di Tiberio Arcangeli (BIM, Carte Montevecchi, Busta 4, Fascicolo 2).

La scoperta cominciava ad essere stuzzicante e la mia curiosità aumentò ulteriormente quando, sempre nella scia della mia ricerca e seguendo il mio interesse per il messaggio pubblicitario, mi imbattei nella pubblicità che Il Diario dedicava proprio al negozio di Tiberio: l’1 gennaio 1910 (anno XI, n. 1, p. 4; Figura 2) e per alcuni numeri successivi per la durata del carnevale, venivano reclamizzati i prodotti venduti nel negozio di Arcangeli che, secondo l’indirizzo indicato, si trovava all’angolo tra l’attuale via Emilia (allora via Umberto I) e via Felice Orsini. È interessante notare che, al termine del carnevale, la reclame proponeva generi più ‘sobri’ e di uso quotidiano (Il Diario, anno XI, n. 7 del 12 febbraio 1910, p. 4; Figura 3). In quell’angolo ora c’è solo un bar-tabaccheria, ma sino a pochi anni fa il negozio vendeva vari generi tipici di una droua|3p:10


Figura 2. Inserto pubblicitario. Il Diario, 1 gennaio 1910, anno XI, n. 1, p. 4.

Figura 3. Inserto pubblicitario. Il Diario, 12 febbraio 1910, anno XI, n. 7, p. 4.

gheria e le persone non proprio giovanissime ricorderanno la gestione ‘Barelli’ nello stesso posto. Del resto, Arcangeli rimase nel negozio per non molto tempo, visto che l’annuncio pubblicitario presente – su La Lotta questa volta (anno XVI, n. 21, p. 4 del 25 maggio 1913) – già segnala la “Drogheria e Tabaccheria Carlo Barelli e Figli. Imola, via Emilia 60. Dirimpetto alla Farmacia dell’Ospedale”. L’attività commerciale di Tiberio, quindi, evidentemente non durò a lungo. Tra le curiosità conservate in biblioteca ho anche trovato due diverse partecipazioni di nozze che annunciavano il matrimonio tra Arcangeli e la signorina Malvina Tarabusi il 2 giugno 1909 (dal matrimonio nacquero tre figlie, come penso di aver individuato da poesie contenute nel quaderno)3. Devo poi alla competenza e disponibilità del personale tutto della Sala Archivi e Rari il fatto di essere riuscita ad arricchire le informazioni attorno a questo personaggio, a me davvero sconosciuto prima, quando un’archivista ha indagato per me se l’Archivio Storico comunale di Imola (online) possedesse qualcosa su Arcangeli. E così è risultato che vi sono due car-

toline da lui scritte ad Andrea Costa nel 19094. Questo mi ha permesso non solo di verificare il rapporto tra Arcangeli e Costa, ma soprattutto di confrontare la calligrafia delle cartoline stesse con quella del quaderno (non è specificato, infatti, se i testi là contenuti siano a diretta mano di Tiberio o di qualcun altro). Non sono certo una grafologa, ma ho potuto osservare che alcuni caratteri sono del tutto simili, pur tenendo conto che il quaderno, sicuramente autografo a questo punto della mia ricerca, è comunque una ‘bella copia’ curato nella grafia così che si possa leggere con facilità, mentre le cartoline paiono scritte con maggiore fretta. Nel Fondo Costa (“Cartoline postali illustrate inviate da Andrea Costa”)5, si trovano poi quattro cartoline spedite ad Arcangeli presso il negozio di Antonio Canettoli, dove lavorava come commesso (due nel 1906 e due nel 1908), a testimonianza della reciproca conoscenza. Del resto, Il Diario del 17 agosto 1907, p. 3, riporta la notizia che Arcangeli il 18 dello stesso mese avrebbe parlato in pubblico al “1° Convegno Giovanile Socialista Romagnolo”, da tenersi a Faenza, a conferma dell’impegno politico del giovane Tiberio dalla stessa parte di Costa. Se sconosciuto a me, tuttavia, il nome “Tiberio Arcangeli” non lo era del tutto al personale della BIM che mi ha suggerito di leggere Imola d’una volta di Cita Mazzini. E lì, infatti, ho trovato il capitoletto “Tiberi” interamente dedicato a lui tra i medaglioni che Mazzini scrive sulle “Figure di una volta” nel suo testo (secondo volume)6. Anche Venerio Montevecchi, traendo

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proprio da Mazzini, gli riserva una pagina nel suo volume sulle osterie imolesi7. Il ritratto che ne esce, però, appare piuttosto contrastante con quanto ho scoperto indagando nei settimanali imolesi e nelle “Liriche di guerra”, ma evidentemente Mazzini, contemporaneo di Arcangeli e della vita imolese della prima metà del XX sec., lo conosceva meglio, immagino, di quello che traspare dalle cronache da me indagate. Tra le carte del Fondo Cita Mazzini, la BIM conserva anche una cartolina che Arcangeli – ormai residente a Bologna (in via Lame 190 come si legge nella cartolina stessa) – scrisse a Cita a marzo del 1942, per complimentarsi della pubblicazione di Imola d’una volta, cioè di quello che costituisce ora il primo tomo del testo omonimo (Figura 4)8. In quel volume non figura alcun cenno al ‘personaggio’ di ‘Tiberi’ e chissà che l’idea per uno scritto futuro non venisse a Mazzini proprio dalla cartolina ricevuta. Dalle notizie reperite nel manoscritto della seconda serie di Imola d’una volta si scopre che tra i due intervenne poi una corrispondenza di cui, a parte la cartolina citata, non c’è traccia in BIM. Fatto sta che manoscritto e dattiloscritto

di quanto è provvisoriamente intitolato “Imola d’una volta. Seconda serie” e datato 1942-46 contengono il capitolo a lui dedicato9. Se Arcangeli avesse letto quello che Cita scrisse poi su di lui e pubblicato postumo nel secondo tomo nel 2003, forse non avrebbe manifestato lo stesso calore della cartolina del 1942. Di ‘Tiberi’, infatti, pur confermando che “Più tardi [all’inizio del ’900], più che commesso, passò conduttore o direttore dell’ex-negozio Baruzzi, diventato oggi la bottega dei Barelli, in Via Emilia, giusto di fronte alla Farmacia dell’Ospedale”10, ci viene detto che era un ingenuo burlone, che amava scrivere soprattutto per il teatro e che, spesso, era lo zimbello di falsi ammiratori. Del suo scrivere poesia, invece, Mazzini osserva che Il difficile viene quando si voglia leggere o commentare i troppo numerosi parti poetici, frutti dell’estro squinternato del nostro Tiberio, e darne un giudizio, un qualsiasi parere. Sono tanti; e tutti o quasi tutti – starei per dire: per fortuna – dispersi o andati perduti (p. 425).

Figura 4. Cartolina di Tiberio Arcangeli a Cita Mazzini (BIM, Fondo Cita Mazzini. Corrispondenza, Busta 3, 1942-44, n. 37).

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E ancora: In tanti anni il nostro Tiberi è rimasto sempre lo stesso: un ostinato pseudopoeta ermetico al cento per cento e uno pseudofacitor di versi tanto liberi quanto incomprensibili. E anche ora so che sta scrivendo un poema di centinaia e centinaia di versi, un poema omerico a dirittura. Ma… si salvi chi può11. Nel complesso non è un ritratto molto positivo, anzi. La conoscenza di Mazzini circa la scrittura poetica di Arcangeli sicuramente non comprendeva la poesia di guerra (penso vi avrebbe accennato), ma testi spessissimo occasionali, perché “Non c’era avvenimento d’interesse pubblico o privato, non c’era personaggio vicino o lontano a cui non destinasse qualche suo canto” (ibid.)12. Se avesse letto le “Liriche di guerra” forse non sarebbe stato così severo, pur nella bonomia, quando definisce ironicamente ‘ermetica’ la produzione letteraria di Tiberio, perché dai testi che qui si riproducono emergono sensazioni ed emozioni comprensibili, e certamente condivise da altri autori che scrissero dal fronte della Grande Guerra e che da questa furono profondamente mutati. Ovvio, Arcangeli non è l’Ungaretti di “Soldati”, ma il suo “Solda-

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to” ben tratteggia, e non senza una certa ironia, le sgraziate forme della divisa, la fatica del milite che deve reggere non solo gli attacchi nemici, ma anche i pesi quotidiani dell’equipaggiamento: Una giubba tagliata da un calzolaio sopra un’orribile [sic] sbiadito gilè; calzoni che arrivano oltre i piè e de la semplice larghezza d’un saio. Un sacchetto da confetti a la bebè; ma v’è la maschera e d’occhiali un paio per riparare un po’ al Tedesco guaio quando, aumentato, il gas caccia verso te. Le giberne che ti serrano il fianco, il fucile che il braccio addormenta, lo zaino che fa il gentil viso bianco. Ma pure fiera l’anima diventa, perché se ti specchi col ferrato elmo sei uguale al terribil, prode Anselmo13. Anche il sonetto “La trincea” rivela quanto le condizioni terribili della vita di ogni giorno fossero percepite con sofferenza dai soldati che mal le sopportavano, addirittura augurandosi la morte. Oggi, dopo aver letto tanta produzione di soldati della Prima Guerra Mondiale, certe espressioni ci sono pure familiari, ma sicura-


mente Arcangeli non le derivò dal romanzo Il fuoco di Henri Barbusse (1916), né dalla raccolta delle poesie di Siegfried Sassoon Counter-Attack and Other Poems (1918); quindi il desiderio di morire pur di evitare la vita in “quella tana” e il paragone tra la trincea e l’anticamera dell’inferno sono immagini originali che rivelano esperienze e sentimenti condivisi tra i soldati di tutti gli eserciti in guerra: Necessità più orribile di guerra, come può in tuo seno un uomo stare; come sta vivervi e vigilare ove energia va e più la si afferra? Con quei tanti tuoi sacchetti di terra che lo spesso piovere fa calare, sì che ognun puoi onestamente invidiare, che già, in telo avvolto, sia sott’terra. Quando poi non arriva la bombarda Che, esecranda, tutto sconvolge e spiana E annunzia altra che, inver, poco tarda. Così, di stronchi urla e quei all’eterno, tu più ti convinci che quella tana non può esser che antisala dell’inferno14. “Tiberi” avrà fatto anche il pagliaccio durante la sua vita (o parte di essa, come racconta Mazzini), ma ritengo che quanto scoperto su di lui contribuisca a farcene un quadro e un ritratto più complesso, più sfaccettato e meno clownesco. A tanti anni di distanza è difficile individuare una causa per il suo comportamento; si potrebbe anche ipotizzare che l’esperienza al fronte lo avesse fatto mutare di fronte alla vita, se non proprio reso ‘folle di guerra’. In ogni caso, se molti suoi componimenti sono stati giudicati astrusi, strampalati e/o strani come io stessa li ho definiti all’inizio, le poesie di guerra, anche se con metrica un po’ traballante e linguaggio fiorito, non sono certamente ‘ermetici’, anzi sono efficaci e realistici bozzetti15. Note 1 BIM, “Carte Montevecchi”, Busta 4, Fascicolo 2. Ringrazio tutto il Personale della Sala Archivi e Rari della BIM per la pazienza e il supporto durante la mia ricerca. Sono anche grata alla BIM per il permesso accordatomi per la riproduzione delle immagini qui presenti. 2 Il quaderno è il “Devoto omaggio” dell’autore “alla Sezione di Imola della Associazione Nazionale Combattenti” e reca

l’introduzione del Colonnello Cesare Cav. Arcangeli”, in data 1920. 3 BIM, Collezione Antiqua OP 224. 4 Ai siti http://media.regesta.com/dm_0/IBC/IBCAS00209/ pdf/AC%2028%20pdf/3934.pdf#zoom=100 &pagemode=thumbs e http://media.regesta.com/dm_0/IBC/ IBCAS00209/pdf/AC%2028%20pdf/4044. pdf#zoom=100&pagemode=thumbs. 5 BIM, Fondo Costa, B. 34, Fasc. 3 (Appendice 1 A). 6 Cfr. “Tiberi”, in Cita Mazzini, Imola d’una volta, a cura di Carla Cacciari e Giuliana Zanelli, 2 tomi. Tomo II, Imola, Editrice La Mandragora, 2003, pp. 421-27. 7 Venerio Montevecchi, Osterie d’Imola: fatti e misfatti, osti, ostesse e bevitori tra Ottocento e Novecento, Imola, Bacchilega, 2003, p. 130. 8 Cita Mazzini, Imola d’una volta, Milano-Roma, Gastaldi, 1942. 9 Dr. Cita Mazzini, “Imola d’una volta”, 2a serie, Imola 1942-46 (BIM, 14. I. 5. 44). Nel manoscritto che precede il dattiloscritto, nel secondo di due quaderni con pagine numerate solo nel recto (BIM MS 939; 15. A C2. 6. 7 (1)), Mazzini dedica a “Tiberi” l’ultimo capitoletto (pp. 280-92; quest’ordine verrà poi rivisto nel dattiloscritto), con molti più dettagli su Arcangeli, omessi dalla versione dattiloscritta su cui si basa l’edizione del 2003. Subito nel primo paragrafo, ad es., aggiunge che Tiberio è “tuttora felicemente vivo a Bologna” (p. 280r) e, più avanti, accenna a una lettera di Arcangeli in risposta “all’omaggio che amicamente gli feci del primo volume di questa mia Imola d’una volta” (p. 290r). Purtroppo tale lettera, “infarcita di frasi strane e di parola oscure”, non ci è rimasta. 10 Mazzini, 2003, p. 421. Al testo di Mazzini e alla pagina di Montevecchi rinvio chi voglia conoscere ulteriori dettagli su questo personaggio. 11 Mazzini 2003, p. 426. Si notino i riferimenti di Mazzini al tempo della sua scrittura: questo conferma che probabilmente era in contatto con Arcangeli, tanto da sapere cosa stesse facendo “ora”. 12 A riprova dell’occasionalità di molti testi di Arcangeli, si veda il manoscritto autografo della poesia “In morte di S.A.R. il Principe Amedeo Umberto di Savoia-Aosta”, datato “Bologna, 3 maggio 1942”, vale a dire due mesi dalla morte del principe a Nairobi, prigioniero degli Inglesi, dopo la battaglia dell’Amba Alagi. Il manoscritto, che non risulta catalogato alla BIM, si trova conservato assieme ai “Versi per la sacra memoria di Francesco Arcangeli” [un suo nipote], Viareggio 1918, BIM, 19. Cart. 32 (126). Ho verificato che Mazzini conosceva questa poesia, dato che nel manoscritto della seconda serie di “Imola d’una volta” ne cita alcuni versi, che invece omette completamente nella versione dattiloscritta (Mazzini, MS, pp. 290r-v). 13 Il testo è il n. 73, a p. 68. Il “prode Anselmo” è il protagonista de “La partenza del Crociato”, una filastrocca scritta da Giovanni Visconti Venosta nel 1856, molto popolare anche nel primo Novecento per il tono abbastanza irriverente che fa di Anselmo (col suo elmo da cui mai si stacca) un ingenuo anti-eroe. 14 “La trincea”, testo n. 59, p. 65. 15 A proposito del prosieguo della vita di Tiberio Arcangeli, di cui non ho reperito la data di morte, la nota 1 delle Curatrici del testo di Mazzini (p. 427), apposta alla frase “Poi gli affari andarono a rotoli e lui dovette impiegarsi non so bene in qual zuccherificio del Veneto” (p. 422), spiega che il testo contiene una precisazione: “Di mano diversa, una integrazione tra parentesi: Lama di Rovigo”.

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Maura Andreoni

dalle penne alle pinne

C’è un famosissimo mosaico medievale, nel pavimento della Chiesa di San Giovanni Evangelista a Ravenna, che rappresenta una sirena così come noi oggi comunemente immaginiamo queste creature: un essere metà donna e metà pesce, qui addirittura con due code. Ma va fatta un po’ di chiarezza. Le sirene “originali” sono figure della mitologia greca che si discostano totalmente da questa immagine. Nel mito classico infatti, erano rappresentate con l’aspetto di donna nella parte superiore del corpo e di uccello in quella inferiore e in loro mancava la forte carica erotica che invece contraddistingue le sirene rappresentate come splendide donne-pesce. Le sirene mitologiche greche ammaliavano invece con il loro canto, incantavano i marinai che, se incautamente sbarcavano sulla loro isola (che secondo Omero si trovava presso Scilla e Cariddi o, secondo altre versioni del mito, sotto l’Etna o a Terina), andavano incontro a morte certa. Con il loro fascino, le sirene invitavano gli uomini “a sapere più cose”, facevano desiderare una conoscenza onnisciente che faceva perdere perfino i legami familiari e che Omero stesso condanna, tanto da descrivere l’isola delle sirene come mortifera e disseminata di cadaveri in putrefazione. Le sirene tentano perfino Odisseo/ Ulisse che però, consigliato dalla maga Circe, riuscirà ad avere su di loro la meglio. La seduzione del canto delle sirene è basato quindi sulla promessa di rilevare la conoscenza, e non su un richiamo sessuale e, conoscendo la curiosità di Ulisse, si capisce molto bene il fascino straordinario esercitato da queste creature su di lui, che pur di ascoltare si espone al pericolo non facendosi tappare le orecchie con la cera, al pari dei suoi compagni. Omero riporta il canto delle sirene, intonato per causare la morte di Ulisse e del suo equipaggio: ua|3p:15

Sirena dipinta su un oinochoe (vaso simile ad una brocca) attico a figure rosse del IV sec. a.C. Le sirene della mitologia greca erano rappresentate con l’aspetto umano nella parte superiore del corpo (sia con tratti maschili sia femminili) e di uccello in quella inferiore (immagine di pubblico dominio tratta da https://artgallery.yale.edu/collections/objects/1734).

Vieni, celebre Odisseo, grande gloria degli Achei, e ferma la nave, perché di noi due possa udire la voce. Nessuno è mai passato di qui con la nera nave senza ascoltare con la nostra bocca il suono di miele, ma egli va dopo averne goduto e sapendo più cose (Hom. Od. XII, 184-8).

L’origine letteraria della figura delle sirene è infatti nell’Odissea di Omero, ma nel corso dei secoli il loro numero è molto variabile: in Omero sono due e non sono nominate, poi diventano tre, quattro e i nomi sono Aglaophone o Aglape, Leucosia, Lìgeia o Molpé, poi Pisinoe, Raidne, Teles, Telesepeia e Telsiope... In greco antico Seirênes (Σειρῆνες) è un sostantivo plurale femminile che, nella sua forma maschile significa invece “vespe” o “api”, esseri comunque alati. Omero non descrive nemmeno il


loro aspetto fisico, forse perché sia il cantore sia chi lo ascoltava conoscevano bene le forme di queste creature grazie ad altri racconti mitici già diffusi, come le avventure di Giasone e degli Argonauti che, arrivati nei pressi di Antemoessa (l’Isola delle Sirene), avvistarono questi esseri “simili a fanciulle nel corpo ed in parte uccelli” (Ap. Rod., Argon. IV, 890-912). I pittori vascolari rappresentavano le sirene principalmente come esseri maschili con la barba ma ci sono altre raffigurazioni che le descrivono come esseri femminili. Sia che fossero di forme maschili o femminili, il corpo richiama però sempre quello di un uccello con testa umana (con le parti inferiori a volte a forma di uovo), a volte con braccia e mammelle, quasi sempre con artigli ai piedi. Gli artigli delle sirene però non hanno la funzione del rapimento, che è propria delle Arpie (creature mostruose della mitologia classica, rapacissime e rabbiosa-

mente avverse all’uomo), perché loro sono strettamente collegate al mondo della musica e del canto. Secondo una versione del mito, il loro corpo ibrido sarebbe frutto di un incantesimo vendicativo da parte di Afrodite, dea greca della bellezza e dell’amore, disprezzata dalle vergini sirene per i suoi amori (Scholia ad Od. XII,168); un’altra tradizione invece le vuole punite da Demetra per non aver impedito il ratto della figlia Persefone da parte di Ade mentre insieme coglievano dei fiori. Secondo Ovidio, le vergini sirene chiesero poi agli dèi di essere trasformate in uccelli per poter meglio cercare la perduta amica Persefone (Ov., Met. V, 555-563). C’è chi sostiene che l’aspetto di uccello sia stato ispirato dalla raffigurazione egizia di Ba, la parte divina e totalmente spirituale dell’anima umana, rappresentata dagli Egizi con corpo di uccello e testa umana.

Statuetta dell’uccello Ba (epoca tarda (722-332 a.C.), rappresentante la personalità o l’anima del defunto che usciva dal corpo del morto e ci ritornava a mummificazione avvenuta. Il Ba egizio era spesso raffigurato anche dall’ideogramma del trampoliere, la grande cicogna africana, conosciuta come jabiru (foto di Nicola Dell’Aquila e Federico Taverni - Museo Egizio).

Le sirene sono onniscienti e in grado di placare i venti cantando le melodie dell’Ade e lo stretto collegamento tra le “piumate vergini” e il mondo dei morti (presente in molti autori come Esiodo, Frg 69, Sofocle, Frg 861 ed Euripide, Elena, 167-179), è confermto anche dalla ricorrente presenza di loro immagini nei corredi funerari: figure in parte ancora umane in parte già alate come uccelli (è noto il ruolo che gli uccelli avevano nell’antichità, come tramite fra il mondo dei morti e quello dei vivi), in cui forse trovavano dimora le anime dei defunti. Su queste figure mitiche vi sono quindi due tradizioni apparentemente contraddittorie: una le vuole mortifere e dannose per gli uomini, mentre l’altra le indica come consolatrici rispetto al destino e, soprattutto, alla morte. È da sottolineare, tuttavia, che nel primo caso la loro natura non è volutamente crudele, ma è il loro destino e la loro funzione di cantatrici/incantatrici ad essere fatalmente disastroso per gli uomini. Nelle Argonautiche di Apollonio Rodio (III secolo a.C.), le sirene morirono a causa dell’insensibilità di Odisseo alla malìa del loro canto e i loro corpi furono poi trasportati dal mare. Ligei­a (la melodiosa dalla voce incantevole) finì a Terina, Leucosia (quella che ha candide membra) a Posidonia e Partenope (quella che sembra una ua|3p:16


vergine) alle foci del fiume Sebeto, dove poi i Cumani, con l’espulsione degli oligarchi sotto il tiranno Aristodemo di Cuma avrebbero fondato Neapolis. Secondo la tradizione raccolta nelle Argonautiche orfiche invece (che si rifanno a quelle di Apollonio ma sono di circa 8 secoli dopo), le tre sirene vengono battute nel canto da Orfeo e per la disperazione si buttano in mare, dove vengono trasformate in scogli. Peraltro c’è uno Scoglio delle Sirene nell’arcipelago delle isole Eolie, vicino a Vulcano… Come si è visto, il rapporto tra le sirene e il mare è sempre presente. Ma come si è giunti alla trasformazione della sirena-uccello in sirena-pesce? L’unico mito greco che si avvicini all’idea dell’essere umano-pesce è quello di Tritone, figlio di Poseidone e Anfitrite, che aveva la parte inferiore del corpo a forma di pesce, spesso rappresentato con due code, e descritto con un forte appetito sessuale. Le prime raffigurazioni di donne-pesce risalgono invece al Medioevo e molti studiosi hanno ipotizzato una fusione dei miti greci con leggende di origine nordica portate dai popoli che invasero l’impero romano. Le ipotesi sul perché di questa trasformazione sono due: la prima è probabilmente da attribuirsi alla diffusione del Cristianesimo che associò alla figura di questi esseri ammalianti il male, l’incarnazione diabolica, da cui la perdita delle ali che solo gli angeli

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Il primo riferimento alle sirene, così come sono ormai nel nostro immaginario, si trova in un manoscritto dell’VIII secolo, il Liber Monstrorum, una sorta di bestiario in cui per la prima volta compare un disegno che le descrive come bellissime donne con la coda di pesce. In quell’epoca apparivano con una sola coda, mentre la tipologia più comune nel XII-XIII sec. è quella bicaudata, come testimoniato dal mosaico della basilica di San Giovanni Evangelista a Ravenna (immagine concessa dall’Arcidiocesi di Ravenna-Cervia).

erano degni di avere; la seconda ipotizza che questo passaggio possa essere frutto di un errore di trascrizione. In latino, infatti, piume e pinne si dicono entrambi pinnae (piuma si dice anche penna-ae) e questo avrebbe potuto indurre in errore qualche disegnatore di bestiari medioevali latini e portarli a raffigurare le sirene con l’aspetto delle donne-pesce che ancora oggi immaginiamo. Molte lingue neolatine peraltro chiamano “sirena” sia la figura mitologica greca sia la sirena intesa come donna-pesce, mentre altre lingue, come il greco, le lingue slave e quelle germaniche, le distinguono con definizioni diverse. Il primo riferimento certo alle sirene così come sono ormai nel nostro immaginario è un manoscritto dell’VIII secolo, il famoso Liber Monstrorum, una sorta di bestiario in cui compare un disegno che le descrive come avvenenti donne anfibie. In quest’epoca appaiono con una coda, mentre la tipologia più comune nel XII-XIII sec. sarà quella bicaudata. Sirene bicaudate si trovano nei mosaici pavimentali di Pieve Terzagni, della cattedrale di Termoli, di San Savino a Piacenza, (XI-XII sec.), di Otranto (XI sec.), di Trani (XII sec.) e, appunto, di San Giovanni Evangelista a Ravenna (XIII sec.).


Maria Grazia Bellardi

mille ricordi in un frutto Sacro e Profano: la melagrana Dalla presentazione al Baccanale di Imola 2019: “Il Gusto del Ricordo” Esistono dei frutti che anche solo alla vista, per la forma, il colore, il profumo, prima ancora di assaporarli, hanno la capacità di stimolare la nostra mente e riportarci indietro nel tempo, alla nostra infanzia o al Passato dell’Umanità, raccontandoci Storie, Miti, Leggende, Vicende di Popoli gloriosi: come la Melagrana. Faremo assieme un viaggio nei Ricordi per scoprire e “gustare” i simbolismi sacri e profani di questo frutto. Arte popolare sacra dal XIV al XVI secolo A Capaccio Vecchio (Salerno), nel Santuario di Santa Maria del Granato si venera la “Vergine col Bambin Gesù” che tiene nella mano destra una melagrana quasi fosse uno scettro: è la Madonna del Granato (XVI sec.). La “Madonna della Melagrana” è un bellissimo blocco lapideo del XIV sec. conservato nella Galleria Nazionale di Puglia, ed anche un affresco della cripta di San Mauro Abate di Oria (Brindisi); tiene fra le mani una melagrana la “Madonna della Salute” nella Cattedrale di Nardò (Lecce). Queste raffigurazioni della Vergine Maria con il frutto della melagrana in mano, spesso nell’atto di allattare il Bambino, ricordano quelle ben più antiche di Popoli che vissero nel Mediterraneo in epoca pre-cristiana (Assiri, Ittiti, Greci, ecc.): Re e Regine e Divinità (Persefone, Era, Afrodite, il re assiro Salmanassar II, la dea ittita Kubaba, ecc.) stringono scettri di melagrana o reggono il frutto nelle mani. Ad es., nel Museo di Paestum è conservata una statua del VII sec. a.C. raffigurante Giunone nell’atteggiamento Koturotrófos, ossia di “colei che nutre” ed anch’essa regge questo frutto nella mano sinistra. Il Simbolismo Le tante raffigurazioni sacre e regali della melagrana trovano spiegazione nei suoi molteplici significati simbolici, alcuni dei quali, quali la Regalità, derivano dalla forma del frutto, più

Fig. 1. “Vergine col Bambin Gesù” (Santuario di Santa Maria del Granato, Capaccio Vecchio, Salerno).

precisamente dalla corona a 6 punte che lo caratterizza, e la Fecondità (o Fertilità) con riferimento all’elevato numero di semi in esso contenuto. Altri significati simbolici affondano invece le radici nella mitologia. È infatti il frutto che racchiude in sé il mistero profondo dal cui sacrificio e morte si origina la vita, per cui è il simbolo dell’Immortalità. Secondo un mito greco il primo melograno nacque dal sangue di Dioniso: questi, uscito dal suo rifugio, fu catturato dai Titani che, ispirati dalla gelosissima Era, lo fecero a pezzi e lo misero a bollire in un paiolo! Dal sangue sparso ovunque spuntò l’albero del melograno, racchiudendo in sé le “stille” (= semi) del sangue di Dioniso. E poi vi è Side, l’eroina della Panfilia che, insidiata dal padre, si ua|3p:18


uccise sulla tomba della madre. Gli Dei, impietositisi per la vicenda, fecero nascere sul sepolcro un melograno mentre il padre veniva trasformato in un nibbio, il rapace che mai si posa sui rami dell’albero. Nei miti di Dioniso e Side, il melograno rappresenta quindi quel mistero profondo della Morte da cui si genera la Vita: un simbolismo funebre, ma al tempo stesso di Rinascita, fatto proprio dalla Religione cristiana. Nel Vecchio Testamento la melagrana evoca la Femminilità: come spicchio di melagrana la tua gota attraverso il velo, dice il Diletto all’Amata nel “Cantico dei Cantici”, opera sfolgorante del re Salomone. Diviene simbolo di Benedizione divina con Aronne, quando il Signore, nel Libro dell’Esodo, gli ordina di ricamare sull’orlo dell’abito delle cerimonie (efod): melagrane di porpora viola, di porpora rossa e di scarlatto, ed in mezzo dei sonagli d’oro simili a melagrane. Ma vi fu un Santo che amò molto il melograno: San Giovanni della Croce, dell’ordine dei Carmelitani (1542-1591) che nel “Canto spirituale” fa dire alla Sposa simbolo dell’Anima che si rivolge all’Amore, ovvero a Cristo: Godiamoci l’un l’altro, Amato e andiamo a rimirarci nella tua bellezza alla selva e al colle, di dove scaturisce l’acqua pura inoltriamoci nella macchia. E poi ce ne andremo alle profonde caverne della pietra che stanno ben nascoste e lì ci introdurremo e gusteremo il succo di melagrane. Per San Giovanni della Croce il succo della melagrana è quel che l’Anima riceve dalla Conoscenza di Dio. L’Arte dal ’400 ad oggi Il profondo simbolismo, profano e cristiano, si ripete in innumerevoli rappresentazioni pittoriche e scultoree del ’400, ’500 e ’600 italiano, con Jacopo della Quercia, Bernini, e tanti altri ancora. Nella “Madonna della melagrana” (1426) del Beato Angelico, in quella di Lorenzo di Credi (seguace di Leonardo) (1469) ed in quelle di Botticelli (1487) e del Pinturicchio (1509) è lo stesso Bambin Gesù che prende fra le dita i chicchi rossi da un frutto leggermente aperto, simbolo della Passione, del Sacrificio, ma anche della Regalità. ua|3p:19

Fig. 2. “Madonna della Melagrana” (A. Botticelli, 1487).

È una melagrana il grande frutto sferico, rotto dal becco di un uccello, che compare in “S. Giovanni Battista in meditazione” (1504-05) di H. Bosch, il pittore più visionario, ossessionato e allucinato del ’400. Bosch illustra il momento esatto in cui Giovanni, ritiratosi sulle rive del Giordano, si “nutre” della Conoscenza di Dio per divenire il Profeta del Nuovo Testamento,

Fig. 3. “San Giovanni Battista in meditazione” (H. Bosch, 1504-05).


Fig. 4. “La Donna e la Maschera, verità e finzione” (L. Lippi, 1642).

preannunciando il Cristo, raffigurato dall’agnello ai suoi piedi. Un dipinto (1642) di L. Lippi raffigura una donna, una maschera ed una melagrana. Pochi elementi che eppure raccontano una storia. La maschera, in confronto al pallore del viso della donna, ha i colori della vita: carnagione rosea, labbra rosse e guance colorate. Gli occhi, però, non sono che buchi neri, vuoti. La maschera è il simbolo della menzogna e della falsità; essa può fingere la vita, cambiare l’apparenza di un viso, nascondere o coprire la verità. È quindi l’Allegoria della simulazione e in effetti il dipinto è conosciuto come “La Donna e la Maschera, verità e finzione”. Lei tiene in mano una melagrana, il frutto “nascosto” che cela un tesoro inaspettato al proprio interno. A parte le Nature morte del ’600 e del ’700, le più belle raffigurazioni pittoriche della melagrana si devono nell’800 a G. Rossetti con “Proserpina” (la dea degli Inferi che ne mangiò 6 chicchi e fu perciò condannata da Giove a trascorrere 6 mesi nell’aldilà e 6 nel mondo dei vivi). Poi ad A. Bouguereau (1825-1905) (rappresentante dell’Accademismo) con la “Venditrice di Melagrane” (1875), a P.A. Renoir con “Natura morta

con melagrane e fichi” (1862), a F. De Pisis (1896-1956), autore di dipinti ispirati all’esperienza metafisica. Con lui gli oggetti non sono mai sé stessi, ma “parlano”, ossia raccontano la parte più intima e segreta dell’animo umano. La bellezza, di cui tutta la Natura è pervasa ha un infallibile nemico: il tempo, che tutto cambia e tutto fa decadere ed anche le melagrane, se da un lato contengono ancora la Vita nella sua intensità più entusiasmante, dall’altra intuiscono la scomparsa della bellezza, in altri termini, la morte. Tanti altri modi di raffigurare la melagrana ce li raccontano i mosaici bizantini del VI sec. d.C., i tappeti orientali (iconografia cinese ed araba), le armature del XVII sec., le ceramiche (umbra, di Bassano ed anche di Faenza). Come dimenticare la città di Granada e il Regno dei Mori in Spagna? Era stata fondata nel 1235 da Mohammed-bel-Alamar ed il “Regno di Granada” durò fino al 1492, quando vi posero fine il Re Ferdinando il Cattolico e la moglie Isabella di Castiglia. Lei, nel 1493, donò a Granada un magnifico “Scudo reale della Città” ricco di ricami, fra cui il frutto del melograno. Non a caso, esso compare nella bandiera di Spagna, accanto ai 4 quadranti delle Regioni spagnole. Arte Romana Il viaggio dei Ricordi non può che concludersi nell’antica Roma. Per i Romani l’immagine dipinta è un elemento essenziale della vita quotidiana, uno strumento di comunicazione quasi altrettanto diffuso e versatile quanto la parola scritta. Splendidi rami ricurvi dal peso di pesanti frutti si ammirano a Roma nella Villa di Livia (I sec. a.C.), nel Mosaico di Pompei (del I sec. a.C.) della “Casa del Fauno”, mentre nella “Casa dei casti amanti” un gallo si nutre dei chicchi di un frutto spaccatosi perché caduto da una mensola. Ma la più bella e suggestiva immagine è quella della fruttiera trasparente con melagrane (80 a.C.) nella Villa di Oplonti: la prima vera Natura Morta della Storia dell’Arte, dipinta ben 1600 anni prima della “Canestra di Frutta” del Caravaggio.

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Lisa Bellocchi

con Leonardo da Vinci a Bologna Nella collana Biblioteca de L’Archiginnasio sono apparsi tempestivamente, a cura di Rosaria Campioni, gli atti del convegno “Con Leonardo da Vinci a Bologna”, tenuto il 15 maggio 2018 nella sala dello Stabat Mater. Fine dell’assise scientifica era anche quello di ricordare il grande leonardista bolognese Carlo Pedretti a pochi mesi dalla sua scomparsa. Nell’occasione, la vicesindaco del Comune di Bologna Marilena Pillati ha consegnato alla vedova Rossana, visibilmente commossa, la Turrita d’Argento alla memoria di Carlo Pedretti per “il grande contributo fornito al progresso scientifico e culturale della nostra Città”. La prima sessione del convegno è stata aperta da Roberta Barsanti, direttrice della Biblioteca e del Museo Leonardiani di Vinci, che ha sottolineato il rapporto speciale intrattenuto col luogo natale dagli studiosi di Leonardo dal secolo XIX (Gustavo Uzielli, Charles Ravaisson-Mollien, Teodoro Sabachnikoff e Giovanni Piumati) fino a Carlo Pedretti, insignito nel 2008 della cittadinanza onoraria. Del resto, proprio la passione per il vinciano aveva spinto Pedretti, professore emerito di Storia dell’arte italiana all’Università della California, a trasferire infine la sua resi-

1984, Los Angeles, Carlo Pedretti nella sua librreria.

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denza da Los Angeles a Lamporecchio (nei pressi di Vinci). La cittadinanza onoraria gli risultò particolarmente gradita, come emerge rileggendo il vivo ricordo che Pedretti conservava (si veda la Prolusione riportata nell’appendice del volume) del proprio primo viaggio a Vinci nell’aprile 1952, per le celebrazioni del V centenario della nascita. Il suo precoce interesse per Leonardo fu ben espresso nella mostra allestita l’anno seguente all’Archiginnasio. Il catalogo della mostra Documenti e memorie riguardanti Leonardo da Vinci a Bologna e in Emilia, curato con rigore dall’allora giovane studioso, è stato più volte citato. La prima sezione della mostra che Pedretti curò nel 1953, dedicata a Giovanni Antonio Boltraffio e Girolamo Casio è stata richiamata dalla storica dell’arte Carla Bernardini, che si è soffermata sulla rinnovata attenzione per l’influenza che il più celebre allievo di Leonardo ebbe a Bologna e nelle corti padane. La seconda sezione della mostra era incentrata sull’incontro avvenuto a Bologna, nel dicembre 1515, tra papa Leone X e il re di Francia Francesco I. L’evento “pieno di affanni, di sospetti e


di ansie” è stato opportunamente inquadrato nell’ambito delle guerre d’Italia dallo storico Marco Pellegrini. Learco Andalò, ideatore della giornata di studi, ha affermato, con le parole dello studioso Edmondo Solmi, l’importanza che quell’incontro ebbe anche per Leonardo (allora al seguito dei Medici), come premessa per il suo trasferimento ad Amboise. L’imolese Massimo Montanari ha trattato da par suo della cultura del cibo fra Italia e Francia all’epoca di Leonardo, asserendo infine che: “nonostante le competizioni per il primato, Italia e Francia sono il luogo a cui storicamente è toccato guidare l’avanguardia e l’innovazione in campo culinario”. Un altro professore dell’Università di Bologna, Franco Bacchelli, ha approfondito specifiche questioni del pensiero rinascimentale relative ad alcuni libri manoscritti (ad esempio il Romuleon di Benvenuto da Imola) e a stampa posseduti da Leonardo, con un’attenzione particolare per le opere dello spagnolo Pietro Monte. La ricezione di Leonardo dal tardo Settecento al 1953 è stata illustrata da Roberto Marcuccio, responsabile del settore manoscritti e libri a stampa della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, il quale ha sottolineato “il ruolo importante giocato dagli emiliani nell’interpretazione e nella fortuna dell’artista-scienziato”, con puntuali riferimenti al fisico reggiano Giovanni Battista Venturi, al modenese Edmondo Solmi e al bolognese Carlo Pedretti.

1952, Dozza e Pedretti all’Archiginnasio di Bologna.

L’italianista Marco Antonio Bazzocchi, delegato alle iniziative culturali dell’Ateneo bolognese, ha affrontato il complesso tema del mito di Leonardo negli scrittori, soffermandosi soprattutto sul successo del romanzo dello scrittore russo Dmitrij Merežkovskij e sui saggi di Sigmund Freud e di Italo Calvino. Bazzocchi sostiene che occorre muoversi tra i concetti di approssimazione, emergenza ed esattezza, per cogliere lo sguardo molteplice di Leonardo. L’ultimo contributo degli Atti contiene la proposta dell’architetto Dario Apollonio per portare a compimento un’applicazione informatica relativa alla mappa dei luoghi di Leonardo, con cui soddisfare le esigenze culturali e turistiche di un pubblico anche giovanile. Nel percorso non manca la tappa “Da Urbino fino a Imola” con l’immagine della celebre mappa conservata a Windsor. Lo spessore dei diversi saggi conferma che il convegno ed i relativi atti hanno oltrepassato i confini bolognesi evidenziati nel titolo. Non poteva essere altrimenti trattando del “genio universale” per antonomasia ed essendo dedicati ad uno studioso che, grazie alla sua straordinaria passione per Leonardo, trovò il coraggio di trasferirsi negli Stati Uniti d’America, dove raggiunse fama internazionale con la sua vasta produzione scientifica. Nel volume lo confermano alcune foto d’epoca, che ritraggono Carlo Pedretti insieme a personaggi eminenti del suo tempo. ua|3p:22


Università Aperta sabato 21 dicembre 2019 ore 16.00 Sala Auditorium Aldo Villa nel Museo di San Domenico, Via Sacchi 4, Imola Presentazione del libro

L’ultimo impressionista di Luisa

manzoni

Ne parlerà in presenza dell’autore:

Luciano Poli

La trama del romanzo L’ultimo impressionista è frutto di estro e bizzarria, lo stesso si dica dei rocamboleschi ritrovamenti delle opere d’arte. Personaggi e situazioni sono invenzioni dell’autore, creati per conferire veridicità alla storia. I nomignoli arguti fanno parte del patrimonio anagrafico di Romagna, dove a ogni persona era d’obbligo un soprannome che ne evidenziasse i pregi e i difetti. Ogni riferimento alla realtà è da ritenersi del tutto casuale e si articola mediante il grande gioco della fantasia che costruisce la finzione letteraria. Sono reali gli accadimenti del periodo bellico: con particolare riferimento ai bombardamenti (testimonianze di quanti le vissero). Reale, sia pure modificato, è il casale ove si svolge l’azione (Palazzo di campagna dei Conti Zampieri = La Sughéra). Reale è il piccolo cimitero di campagna. Reali sono i colori e i profumi, i sapori e gli afrori, i silenzi e i frastuoni vissuti dai protagonisti. Reale è l’isola di Ponza nel 1970.

La cittadinanza è invitata univaperta@univaperta.it www.univaperta.it ua|3p:23


Rossana Barbieri

la Grande Guerra nella corrispondenza di Giuseppe Cita Mazzini Nella copiosa e interessante corrispondenza di Giuseppe Cita Mazzini sono presenti alcune lettere relative alla Prima Guerra Mondiale, molto coinvolgenti per le situazioni che descrivono. Il 18 settembre 1915, l’amico Balducci, da Bologna, scrive a Cita Mazzini, che si trova in Sud America, facendo una vivida descrizione di come in quel momento era percepita la guerra, iniziata da poco: “… La nostra guerra va benissimo, e speriamo che continui così. I nostri soldati, senza esagerazione, sono tutti eroi. Tu conosci il nostro vecchio confine: monti altissimi, noi in basso e gli austriaci in alto e ben preparati, e pure il nostro soldato va sempre avanti di conquista in conquista. Questo nostro esercito fa stupire il mondo. Data la conformazione del campo d’azione, il soldato diventa cementista, muratore, minatore. Ma quanti sacrifici, quante vittime. Noi abbiamo già più di 30.000 prigionieri austriaci; dei nostri forse poco più di 1.000. Anche fra gli imolesi vi sono già dei morti. Accanto all’esercito vive tutta la nazione, che dà il suo obolo per le famiglie bisognose dei soldati, per la Croce Rossa, per i feriti. Le donne italiane fanno calze, maglie, berretti e guanti di lana per difendere i soldati dal freddo delle Alpi. Abbiamo al campo volontari repubblicani, socialisti, sindacalisti e anarchici, non si contano i senatori e deputati che si sono arruolati. Ci sono semplici soldati, uomini di 70 anni e giovinetti di non ancora 18, tutti volontari. Anche i 5 figli di Ricciotti Garibaldi. Tutti i partiti tacciono, vi è un partito solo, il partito italiano. Con tali e tanti coefficienti, la vittoria non può mancare. La nostra guerra era inevitabile. Si prepara tutto per la campagna d’inverno, che nelle Alpi sarà terribile, ma il nostro soldato affronterà serenamente anche questo

ed a primavera o nell’estate speriamo che finisca questa immane guerra, che Germania ed Austria combattono da barbari, il Belgio informi (è un riferimento alla violazione tedesca della neutralità del Belgio ed alle atrocità contro i civili di cui gli alleati accusarono l’invasore). Per intanto la guerra europea ci ha portato il caro viveri e poi si è avuto un raccolto di frumento deficiente e peggio l’uva…”. I nipoti di Cita, Aldo ed Amilcare, figli del fratello Pietro, si sono arruolati volontari. Aldo scrive al padre, corrispondente del “Caffaro” a Parigi, il 18 agosto 1915, da zona di guerra: “… ora che sono al fronte, che giorno e notte odo il rombo del cannone, che vedo gli effetti della guerra, sarei pronto ad arruolarmi di nuovo, più convinto di prima di fare il mio dovere d’uomo civile e d’italiano. Ancora non ci è stato dato né di baciare la terra redenta, né di avere il santo battesimo del fuoco, ma tanto io che i pochi volontari, passati nei ciclisti, desideriamo che ciò avvenga presto e ti assicuro che quando finalmente avverrà, sapremo tutti dimostrare ai signori tedeschi chi sono “i suonatori di mandolino ed i briganti usciti dalle caverne dell’Abruzzo e della Calabria”. Nella bella e lusinghiera speranza di riabbracciarti presto dopo una completa e gloriosa vittoria della nostra civiltà latina sulla barbarie, ti mando milioni e milioni di baci”. Colpiscono, in queste due lettere, la retorica interventista, ma anche l’entusiasmo con cui tanti giovani si arruolarono volontari. Poi, nel 1916, subentrano dolore e disperazione, quando Amilcare muore al fronte. Il 14 giugno, Pietro Mazzini comunica al fratello Giuseppe la morte del figlio Amilcare. ua|3p:24


in questi ultimi mesi, era divenuto più affettuoso, più tenero, quasi sentisse che una forza occulta lo allontanasse dalla vita. Così io stavo in angoscia, ed ogni ritardo delle sue lettere mi lasciava triste, quasi presagissi la sventura. Figurati lo stato del mio povero cuore! I miei occhi non hanno più lacrime, sulle mie labbra si leva una bestemmia contro la vita che per me ebbe troppi dolori e troppo strazio!”. Da una lettera del Comandante Anfossi, del 24 giugno 1916, sembra che il corpo del povero Amilcare non sia stato recuperato.

“Ho ricevuto un dispaccio che mi annunciava la fine eroica del mio povero Amilcare, partito alla fronte, aspirante ufficiale. Egli era nel Trentino, dove più infuriava la battaglia; non so precisamente il luogo, ma credo fosse in quel d’Arsiero. Di Aldo, che si trova anche lui nel Trentino, non ho notizie da vari giorni; nella sua ultima cartolina mi dice che non è molto lontano dal fratello e che non corre molto pericolo. Mio caro Cita, io non so più che dire, che pensare, che scrivere! Ad uno ad uno se ne van tutti, la nostra famiglia si assottiglia terribilmente, e noi facciamo una ben dolorosa fatica di Sisifo a riportare sui superstiti l’affetto che nutrivamo per quelli che si spengono. Io avevo, fin dal mio viaggio in Italia, come un presentimento di sventura; poi Amilcare, ua|3p:25

“Sig. Pietro Mazzini, il suo desiderio è legittimo e naturale; ho assunto le più ampie informazioni, desideroso di alleviare il suo dolore di padre, che pur nella fierezza del suo dovere, nel sacrificio completo dei propri figli per la Patria, cerca notizia, nell’ultimo particolare, di attutire il naturale dolore. Si sa che l’allievo ufficiale Amilcare Mazzini, dopo avere, secondo l’ordine ricevuto, resistito da eroe fino all’ultimo, morì il 30 maggio u.s. a Treschè-Conca, per ferita alla testa di pallottola di fucile. Visto però che nessun granatiere del di lui plotone riuscì a ritirarsi (una strage...) non potei raccogliere ragguagli più dettagliati, né apprendere dove e come il di Lei figlio fosse stato sepolto. Le sia di conforto il pensiero che suo figlio morì col nome della Patria sulle labbra, rinunciando alla propria giovine esistenza per gli ideali altissimi che animano l’intera e compatta nazione, ideali che dovranno condurre alla realizzazione di un’Italia grande, rispettata, libera possente”. Sono poche lettere, ma sicuramente un perfetto riassunto delle situazioni e dei sentimenti che hanno caratterizzato questa guerra atroce. È un tragico crescendo, che tocca l’apice nella cupa disperazione di un padre. Qualche cenno biografico sui due soldati: – Amilcare Mazzini, nato nel 1894, era un giornalista, collaboratore da Parigi de “La Stam-


pa” di Torino, e corrispondente dalla capitale francese per la “Gazzetta dello Sport”. Partì volontario per la Grande Guerra, pur non essendo costretto da alcun obbligo di servizio militare, ma animato dal più ardente amor di patria, dove combatté come aspirante ufficiale del 1° Reggimento Granatieri. Il suo nome compare nel 1° elenco dei Caduti della Federazione della Stampa del 25 settembre 1916 e sulla copertina de “La Guerra Italiana” n. 23 del 15 ottobre 1916. Nel 1920 gli fu conferita alla memoria la Medaglia d’argento al valor militare, con la seguente motivazione: “Incaricato di trattenere col proprio plotone il nemico, disimpegnava il suo mandato opponendo, con mirabile tenacia, energica ed efficace resistenza a forze molto superiori, e permettendo così al grosso della compagnia di accorrere sulla linea in tempo utile per respingerle. Poco dopo continuando a combattere, cadeva colpito a morte da un proiettile avversario. Treschè Conca (Asiago), 30 maggio 1918”. – Aldo Mazzini, fu ferito, ma sopravvisse e venne decorato con Croce di guerra francese

ed italiana, e con la Medaglia al valore militare, consegnatagli personalmente dal Re il 24 luglio 1918, durante una cerimonia nel campo di battaglia del Piave, con la motivazione: “Al comando di una sezione mitragliatrice e di alcuni Bersaglieri, si gettava di sorpresa su una munita posizione avversaria fugandone il nemico ed organizzandola a difesa. Più volte contrattaccato, con indomito valore respingeva l’accanito avversario. Ca’ Bosco 17-18 giugno 1918”. In seguito Aldo si trasferì a Torino, sposò Giovanna Burdese, che morì nel 1940 a 38 anni, ebbe due figli, Amilcare e Giuseppe. In un libro sui partigiani della Val di Susa, si trova uno scarno riferimento al capitano Cita (Aldo Mazzini), capo di stato maggiore della 20a brigata Garibaldi... la coincidenza del nome di battaglia e del nome anagrafico è veramente intrigante... Informazioni: Bim Biblioteca comunale di Imola - Archivio storico comunale di Imola, via Emilia 80 Imola - 0542 602696 bim.archivi@comune.imola.bo.it www.archiviostorico.comune.imola.bo.it www.facebook.com/bimbibliotecaimola

Università Aperta

IL CIELO DI NATALE:

LA STELLA DI BETLEMME E LE SUE TEORIE ASTRONOMICHE Relatore Federico

Di Giacomo

Sabato 4 gennaio 2020 ore 16.30 Sala delle Stagioni via Emilia, 25 Imola

Ingresso libero

(fino esaurimento posti disponibili) ua|3p:26


Università Aperta Si ricorda ai nostri lettori che è ancora possibile iscriversi ai seguenti corsi che avranno inizio nei prossimi mesi. I programmi dei singoli corsi sono consultabili sul sito: www.univaperta.it L’iscrizione può avvenire anche per mail (univaperta@univaperta.it) utilizzando il modulo disponibile sul sito. I Dipartimento - Medicina, salute e qualità della vita Corso n. 5 Il cosmetico: non solo bellessere (Febbraio Corso n. 6 Percorsi di salute: prendersi cura di sé in modo naturale (Marzo II Dipartimento - Storia delle civiltà, letteratura e poesia Corso n. 11 I segreti della suspance, dai classici alla serie TV (Gennaio Corso n. 12 Come ti parlo “fingendomi” romanzo (Marzo Corso n. 13 William Shakespeare e il Veneto. Il mercante di Venezia, Otello, Romeo e Giulietta, La bisbetica domata (Marzo III Dipartimento - Arte, Architettura, Scuola d’arte e Fotografia Corso n. 17 Corso di post-produzione con Adobe Photoshop Lightroom (Febbraio Corso n. 18 Arte e... (Gennaio Corso n. 19 I tesori di casa nostra (Gennaio Corso n. 20 Percorsi bolognesi: i palazzi del potere e i grandi cicli di affreschi (Gennaio-Maggio Corso n. 21 Pomeriggi in Pinacoteca B. Immagini e parole. Arte e letteratura nel XX secolo (Marzo IV Dipartimento - Filosofia, psicologia, comunicazione e relazioni umane Corso n. 26 La scuola di Atene di Raffaello: la via maestra della filosofia (Febbraio Corso n. 27 Il magico potere della gentilezza (Gennaio Corso n. 28 Il viaggio dell’eroe (Febbraio Corso n. 29 Le meraviglie della terra tra scienza e filosofia (Febbraio V Dipartimento - Storia, archeologia ed antropologia Corso n. 33 Leonardo uno di noi (Gennaio Corso n. 35 La Bulgaria antica e il mondo dei Traci (Gennaio Corso n. 36 I popoli dell’Italia antica. Il Brutium: L’antica Calabria (Marzo Corso n. 38 Gente di Imola (Gennaio Corso n. 39 Storia del fumetto... (Gennaio VII Dipartimento - Musica e arti dello spettacolo Corso n. 45 Aperitivo con l’opera! Comprendere e apprezzare l’opera lirica (Marzo VIII Dipartimento - Informatica e comunicazione digitale Corso n. 48 Smartphone e tablet. Secondo livello (Gennaio Corso n. 49 Uso outdoor degli smartphone (Febbraio IX Dipartimento - Scienza e natura Corso n. 53 Spazio: ultima frontiera (Aprile X Dipartimento - Scuola di lingue e di civiltà Corso n. 54 Laboratorio creativo di Inglese (Febbraio

2020) 2020) 2020) 2020) 2020) 2020) 2020) 2020) 2020) 2020) 2020) 2020) 2020) 2020) 2020) 2020) 2020) 2020) 2020) 2020) 2020) 2020) 2020) 2020)

Per maggiori informazioni sul calendario e le modalità di iscrizione si può telefonare (0542 27373) presso la sede di Università Aperta in Imola, piazza Gramsci 21, dal lunedì al venerdì dalle ore 10.30 alle ore 12.30 e dalle 16.00 alle 18.00, il sabato dalle 10.30 alle 12.30.

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Gigliola Mongardi - Paolo Palladini

Robert Louis Stevenson antesignano del “viaggio lento” Molti conoscono Robert Louis Stevenson, uno degli autori più famosi della seconda metà dell’800 in campo letterario. L’Isola del Tesoro, La Freccia Nera, Lo Strano Caso del Dr. Jeckill e di Mr. Hide sono titoli noti ai lettori, che da quei racconti sono stati affascinati fino dalle loro prime esperienze nel mondo della narrativa. Non tutti sanno, però, che il grande scrittore scozzese è stato un escursionista e che ha raccontato anche di questa sua passione e dei suoi viaggi avventurosi. Le idee di Stevenson sui viaggi a piedi Nel 1876 su una rivista scozzese, il Cornhill Magazine, viene pubblicato un saggio nel quale il giovane Stevenson, che all’epoca ha 26 anni, espone le sue idee sui viaggi a piedi, con la competenza dell’escursionista e con la maestria del narratore. Ci sono tanti modi per vedere il mondo, dice Stevenson, ma il viaggio a piedi è speciale, per-

Al castello di Luc, sulle orme di Stevenson.

ché l’escursionista prova delle sensazioni piacevoli dal momento in cui, al mattino, è pervaso dallo spirito della marcia che sta per iniziare, fino alla sera, quando si abbandona al riposo. Per tutta la giornata di viaggio l’escursionista è preso da questo vortice emotivo, tanto che non sa dire se prova più piacere nel mettere lo zaino sulle spalle o nel toglierlo al termine della tappa, perché durante la marcia il piacere porta verso il piacere in una catena senza fine. Per cogliere queste sensazioni bisogna capire bene come ci si deve muovere. Molti, infatti, oscillano tra l’andare a zonzo o muoversi a 5 miglia all’ora. Il cammino va centellinato, come un buon liquore, che va bevuto nei bicchierini e non nei boccali. La marcia a ritmo frenetico o su distanze sconsiderate è solo un modo per stupire se stessi, ma finisce per non dare alcuna soddisfazione. Per il super-camminatore, alla sera, c’è soltanto il gelo nei suoi cinque sensi e una notte di buio senza stelle nel suo spirito. È meglio camminare da soli o in compagnia? Stevenson non ha dubbi. Un viaggio a piedi dovrebbe essere fatto da soli, perché la libertà è la sua essenza, non solo nella scelta degli itinerari, ma anche nel ritmo da tenere in marcia. Solo così i pensieri di chi cammina possono prendere i colori delle cose che vede. Le osservazioni sul rapporto che si instaura tra l’escursionista e la sua attrezzatura, in particolare con lo zaino che porta sulle spalle, mettono in luce un’analisi psicologica dalla quale emerge l’esperienza diretta maturata sul campo. All’inizio di ogni viaggio i rapporti tra chi cammina e il suo zaino sono talmente freddi che spesso viene voglia di lanciarlo con forza sopra la siepe che corre lungo la strada. Ma nelle tappe successive lo zaino sembra avere acquisito delle proprietà benefiche e alla partenza, appena si infilano le braccia negli spallacci, le scorie del sonno si allontanano e l’escursionista è pervaso da nuovo vigore. ua|3p:28


Robert Louis Stevenson.

Stevenson insiste sull’importanza di una marcia regolare. Un cammino irregolare non è gradevole per il corpo e distrae e irrita la mente, che deve potere essere libera di farsi trascinare nella gloriosa confusione dell’aria aperta. Ci sono vari stati d’animo caratteristici di ogni tappa di un viaggio a piedi, dall’eccitazione della partenza alla flemma felice dell’arrivo. Mentre il giorno scorre, le sensazioni di chi cammina si muovono tra questi due estremi e il viaggiatore vive i vari momenti provando i piaceri elementari dell’animale. Verso la fine di ogni tappa la stanchezza si fa sentire, ma subentra la gioia che viene dalla consapevolezza che la meta da raggiungere è vicina e la felicità del camminatore resta immutata. Stevenson analizza anche le sensazioni che chi viaggia a piedi prova nelle soste intermedie durante la marcia, nei momenti in cui si toglie di dosso lo zaino e si ferma, in cima a una collina o all’ombra di un albero. Il tempo, in quel momento, assume un significato diverso da quello al quale la vita frenetica ci ha abituato. Nei viaggi a piedi l’orologio non ha più il dominio sulla giornata, perché il tempo viene scandito soltanto dalle sensazioni fisiche di chi cammina. I ritmi dell’azione sono condizionati prevalentemente dal bisogno di nutrirsi e di riposare. Se la gente capisse fino in fondo il vero significato del tempo, forse ci sarebbe la fuga da molte città, ua|3p:29

dove gli orologi perdono la testa e battono le ore uno più veloce dell’altro. Il viaggio a piedi è una vera e propria medicina contro il logorio indotto dalla vita moderna, perché non c’è nessun momento in cui l’attitudine agli affari è più mitigata come in un viaggio a piedi. Dopo un giorno di cammino arriva quello che Stevenson considera il momento più bello, quello della sera, dopo una buona cena. La marcia ha tonificato il corpo e gratificato l’animo e i piccoli piaceri, come il fumo della pipa, un bicchierino di liquore o la lettura di un libro trasmettono una tranquillità gioconda che si diffonde nelle membra. La quiete serale dopo un giorno di cammino porta la mente a riconsiderare i valori da attribuire alle attività quotidiane usuali. Presi dalla smania di fare tante cose, spesso dimentichiamo una cosa di cui tutte queste sono solo una parte: vivere. È saggezza o stupidità? L’esperienza umana, dice Stevenson, non consente di dare una risposta, ma sicuramente quelle riflessioni non vanno rigettate, perché regalano momenti piacevoli nei quali si guardano dall’alto in basso tutti i regni della terra. Così ogni giorno che passa, conclude Stevenson, lascia all’escursionista la certezza che il viaggio di domani porterà corpo e mente all’interno di qualche altro distretto dell’infinito. Le esperienze di viaggio Due anni dopo, nel 1878, Stevenson compie un lungo viaggio solitario nel centro-sud della Francia, nella regione delle Cévennes. Percorre 220 chilometri a piedi, con un asino, utilizzato per il trasporto dei bagagli. Gli appunti annotati durante il viaggio sui monti dell’Alta Loira, dell’Ardeche e della Lozère costituiscono la fonte per la successiva redazione del racconto di quell’avventura. Stevenson non fa mistero delle sue ansie e del timore di non riuscire a superare le difficoltà, a cominciare dalla sua completa inesperienza nella guida di un animale da soma. Sottolinea i fastidi che certi incontri gli provocano e cita le discussioni, a volte accese, con chi ha opinioni o atteggiamenti diversi dai suoi. Ma di fronte alla grandiosità del paesaggio e al fascino della natura con la quale convive lungo la strada


UNIVERSITÀ APERTA Viaggiando si impara

LONDRA Dal 14 al 16 marzo 2020 Sabato 14. Volo di linea British Airways e arrivo a Londra Heathrow. Giro panoramica in pullman: Kensington Gardens (Kensington Palace), Albert Memorial, Musei di South Kensington, Grandi Magazzini Harrods, quartiere di Belgravia, Hyde Park, Speaker’s Corner, Oxford Street, Mayfair, Piccadilly Circus, Buckingham Palace, Westminster Abbey, London Eye, White Hall, Downing Street, Trafalgar Square, National Gallery (breve visita). Domenica 15. La nostra guida sarà a disposizione per chi voglia continuare la scoperta di Londra a piedi o con mezzi pubblici. Cattedrale di Saint Paul, la CITY, cuore medioevale antico ed oggi anima della finanza mondiale, Tate Modern (esterno), Globe Theatre, quartiere di Borough con la cattedrale (esterno), The Shard (la scheggia di vetro, esterno) nuovissima attrazione londinese del nostro connazionale Renzo Piano, Tower Bridge, Torre di Londra (esterno) patrimonio dell’Umanità UNESCO.

Lunedì 16. Vi invitiamo caldamente a partecipare ad una proposta di visita con il Bus a Cambridge. C’è una calma apparente in questo luogo pieno di prati verdi e bellissimi edifici gotici. Cambridge, ex città romana, in tutto il mondo è sinonimo di università, di studio e di conoscenza da oltre 700 anni, ed è senza dubbio uno dei luoghi più belli della Gran Bretagna. Visita al King’s College ed alla sua Cappella. Passeggiata in centro città alla scoperta dei suoi magnifici monumenti. Trasferimento in pullman in aeroporto in tempo utile per la partenza con il volo di linea British Airway.

esprime le sue emozioni con note di pura poesia. Il racconto evidenzia le motivazioni che spingono a mettersi in cammino ed esalta il piacere di marciare. Stevenson descrive i luoghi e gli incontri, ma il cuore del racconto è costituito sempre dai riflessi del mondo esterno sull’animo del viaggiatore. Il messaggio di Stevenson Le due opere letterarie, il saggio Walking Tours e il racconto Travel with a Donkey in the Cévennes, sono sostanzialmente due parti complementari di un’unica trattazione. Il racconto dà ulteriore valore al saggio, perché ne conferma le argomentazioni teoriche, offrendo a queste il supporto delle esperienze vissute direttamente dall’autore. Stevenson scrive in un periodo caratterizzato da grandi innovazioni tecnologiche che promuovono cambiamenti notevoli anche nel modo di viaggiare. I nuovi mezzi di locomozione consentono di muoversi a velocità crescenti e di ridurre sempre di più i tempi di percorrenza. Il mondo, in preda all’euforia del progresso, sembra volere voltare le spalle all’attività fisica e molti considerano la fatica il retaggio di un passato da cancellare. L’idea del moto viene sempre più spesso associata a quella della meccanizzazione. Stevenson si rende conto che il suo modo di pensare va controcorrente. Una popolazione sedentaria, abituata alla strana meccanica sopportazione del camminare, non può spiegarsi la gioia di chi viaggia a piedi, scrive nel saggio. Nel racconto del suo viaggio ribadisce il significato e il valore della marcia a piedi, che consente di sperimentare più da vicino le necessità e i rischi della vita, di abbandonare il letto morbido della civilizzazione, di sentire sotto i piedi il suolo granitico e, qua e là, i ciottoli appuntiti. Il grande scrittore scozzese può essere annoverato tra gli antesignani del viaggio lento.

Accompagnerà i visitatori la docente di Università Aperta Dorota Kulawiak. Iscrizioni non oltre il 20 dicembre 2019; saldo entro il 14 febbraio 2020. Informazioni, iscrizioni e saldo presso Agenzia Viaggi Santerno: Imola via Saragat 19, tel. 0542 32372 e via Paolo Galeati 5, tel. 0542 33200; Castel San Pietro Terme piazza Garibaldi 5, tel. 051 940358.

CAPRICARD LA CARTA DI CREDITO PER IL PRELIEVO CARBURANTE tel. (0542) 22589-24272

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Doriana Rambelli

vite r-Accolte Siamo tutti un po’ stranieri

Conselice è un piccolo paese della Bassa Romagna, occupa uno spazio di confine, abbastanza lontano da centri più importanti. È immerso in una campagna che si perde nella bruma invernale, dalle nebbie che si tagliano con il coltello o nell’afa estiva che sa di grano. È un luogo di lavoro prettamente agricolo, ma anche con piccole imprese artigianali e non solo. È un paese come tanti. Molte persone sono nate proprio qui, altri ci sono capitati quasi per caso, altri invece hanno proprio scelto Conselice come “luogo di vita”; lo si può considerare, da un lato, punto di partenza per l’altrove, e dall’altro, un punto di approdo per chi è arrivato con l’intenzione di trovare ciò che non aveva nel proprio paese di origine, mettendo qui le radici e iniziando una nuova vita. Molti sono arrivati attorno agli anni ’60, altri più in là negli anni, intere famiglie straniere alla ricerca di opportunità di lavoro e di stabilità. E allora, perché scegliere Conselice? Chi sono le persone che sono venute fino qui? Da dove vengono? Hanno mantenuto relazioni col paese d’origine? Quali sono le esperienze, i vissuti, gli incontri, le condivisioni, le difficoltà integrative, insomma quand’è che si diventa “conselicesi”? C’è qualcosa che ci accomuna a queste persone giunte fino a qui o ci sono differenze invalicabili o ancora, c’è stato soltanto un insieme di ineluttabile incontro-scambio? Da un’idea di Claudia Merighi e dall’esigenza di dare risposte a questi interrogativi, è nato un progetto-documentario, di tipo fotografico e narrativo, ma soprattutto una opportunità per conoscere (e far conoscere) più da vicino coloro che ci passano accanto, troppo spesso con indifferenza o insofferenza. Il lavoro ha richiesto circa due anni e si è poi articolato in una mostra fotografica, nei racconti scritti, in parti recitate in diverse lingue d’origine e altro ancora. ua|3p:31

Il titolo Vite r-Accolte esprime perfettamente la parte progettuale, con la necessità di incontrare le famiglie insediatesi nel territorio, conoscerle, raccontare la loro storia. Non sempre è stato facile entrare nelle case, nelle vite degli altri e poi queste stesse vite messe in mostra. Conselice come punto di integrazione, di accoglienza e di amicizia, mettendo in risalto tutti questi aspetti, senza veli e veti. Al termine del percorso effettuato, si può affermare che in definitiva non ci sono differenze insormontabili di abitudini, di religione, di pelle, non più distanze nei rapporti sociali, ma un arricchimento per tutta la comunità, perché in fondo come recita il sottotitolo “siamo tutti un po’ stranieri”. Alcune citazioni tratte dai racconti dei protagonisti: Angelo Terrasi: “... non tornai più in Sicilia e al mio lavoro, a Conselice pagavano 250 lire all’ora! Mi bastò entrare in un bar per trovare lavoro, gli impresari cercavano manodopera continuamente. L’integrazione è adeguarsi e a volte tacere, non vivere in gruppi isolati; i migranti di oggi dovrebbero cercare di conoscere il posto dove stanno...”. Jolanda: “… mio padre è arrivato dall’Albania negli anni ’90 in gommone, ha vissuto come clandestino, senza cibo, né casa; è tornato in Albania per vederci poi è ripartito alla ricerca di una soluzione per la mia salute, avevo bisogno di cure che a Tirana non c’erano...”.


Tharindu Clunaj: “Vengo dallo Sri Lanka, qui sono stato accolto bene, attraverso il mio lavoro da cameriere sono a contatto con tante persone e i miei biglietti da visita sono il mio sorriso e la mia gentilezza...”. Gina Bresciani: “Venivamo dalle colline... eravamo felicissimi di questo viaggio sul cassone del camion, eravamo giovani e con l’ambizione di trovare di meglio lavorando da contadini un podere in pianura...”. Shamira Rhaiti (Marocco): “Mio marito mi diceva tutti i giorni: esci, impara l’italiano, parla con la gente, ti devi integrare...”. Marmadou: “Vengo dalla Costa d’Avorio. Ho attraversato il Burkina Faso e il Niger. In Libia sono stato imprigionato e picchiato. In Italia avevo la speranza di sfuggire alla prigionia e trovare lavoro...”. Aliou: “Vengo dal Senegal. Cercavo lavoro perché mio padre anziano. Alla sua morte i suoi fratelli hanno cacciato me, mia madre e i miei fratelli dalla casa. Non vorrei mai che un mio fratello facesse un viaggio come ho fatto io per arrivare in Italia...”. Giorgio Bonello: “... Le figlie grandi avevano iniziato le scuole a Lugo e il paese (Conselice)

era perfetto per i miei 4 figli. Non li avrei mai spostati come mio padre aveva fatto con me...”. Molti hanno trovato pace, serenità, lavoro, casa; la casa non solo intesa come luogo dove mangiare e dormire, ma in senso più ampio dove alberga quel senso di appartenenza che fa dire: “Da qui non ce ne andremo più!”. Conselice rimarrà sempre un paese della “Bassa”, il paese dei ranocchi, solitario e silenzioso, ma anche un luogo dalle braccia larghe che sa accogliere con ardore e un cuore solido, pieno di tante storie. È stato un percorso alla ricerca di verità su realtà insolite, svaligiando altre vite, apparentemente diverse in superficie, che a volte possono creare un leggero turbamento e insofferenza, ma ecco che vengono in aiuto le parole di Camilleri: “Non bisogna mai avere paura dell’altro perché tu rispetto all’altro sei l’altro”. Un riconoscimento al Caffè delle Ragazze di Conselice per aver creduto nel messaggio progettuale, a Claudia Merighi ideatrice del progetto, a Franco Ferretti e Claudia Merighi per la parte fotografica, a Milena Morelli e Filippo Giberto per la parte descrittiva e recitativa, all’Amministrazione Comunale, ma anche a tante persone che col loro aiuto ne hanno permesso la realizzazione. (Doriana, Alfonso, i lettori delle storie in lingue diverse, i musicisti, i tecnici e soprattutto un GRAZIE speciale ai protagonisti delle storie).

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Università Aperta sabato 25 gennaio 2020 ore 16.00 Sala Auditorium Aldo Villa nel Museo di San Domenico, Via Sacchi 4, Imola Presentazione del libro

Il nero, il lento, il veloce

di Marco Marangoni Ne parlerà in presenza dell’autore:

Maurizio Bacchilega

L’ordinaria vita scolastica di un Liceo di provincia viene sconvolta da un video hard diffuso in Rete, in cui compaiono due studenti della scuola. Chi ha postato il video viene subito scoperto, tuttavia i motivi del gesto restano avvolti in una nebbia di silenzio e sembrano non interessare agli insegnanti. Soltanto l’ormai anziano professor Cortesi vorrebbe capire, andare oltre la cortina invisibile che separa la cattedra dai banchi, gli adulti dai ragazzi. Nel corso delle sue indagini non solo porterà alla luce una verità inquietante, ma anche una parte di sé, oscura e incontrollabile, che risale alla sua adolescenza, tutta racchiusa in un vecchio libro d’orrore: La camera di sangue di Angela Carter.

La cittadinanza è invitata univaperta@univaperta.it www.univaperta.it


Marco Pelliconi

via Felice Orsini a Imola: una vicenda poco nota Il 10 dicembre 1819 nacque Felice Orsini, da taluni considerato un eroe, da altri un terrorista. A Imola esiste una via Orsini proprio a lui dedicata e non, come molti credono, al poeta Lui­gi Orsini. Come mai? Quale fu l’avventurosa vita di Felice? Costui era nato a Meldola il 10 dicembre 1819 e fu giustiziato a Parigi il 13 marzo 1858. Il padre, ex ufficiale napoleonico e poi carbonaro, lo collocò da bambino a Imola presso uno zio perché attendesse agli studi; ancora giovinetto, avuto notizia della rivoluzione del 1831 tentò di fuggire ad Ancona per arruolarsi con i Francesi. Il 5 luglio 1836 – non si sa per disgrazia o di proposito – uccise un domestico con un colpo di pistola per cui fuggì in Toscana; fu processato e condannato ed in seguito assolto purché si fosse fatto gesuita. Dopo un breve noviziato a Chieri ottenne di tornare a casa, per cui a Bologna si iscrisse all’università e contemporaneamente alla “Giovane Italia” di Giuseppe Mazzini. Laureatosi nel 1843, ideò una società segreta dal nome “Congiura italiana dei figli della morte”, fatto che gli procurò una condanna alla galera a vita il 10 maggio 1844; fu condotto a San Leo, poi a Roma nel forte di Civita Castellana donde uscì nel luglio1846 per l’amnistia di Pio IX. A Firenze si diede alla propaganda rivoluzionaria pubblicando tra l’altro il volumetto storico-politico “Alla gioventù italiana” nel 1847; partecipò alla guerra d’indipendenza del 1848 combattendo a Vicenza e Venezia; nel gennaio1849 fu eletto deputato alla Costituente romana della quale fu Commissario a Terracina, Ancona ed Ascoli. Caduta la Repubblica riparò a Firenze, a Genova, a Nizza ove si legò a Herzen e dove pubblicò studi politici e geografici (“Memorie e documenti intorno al governo della repubblica romana”; “Geografia militare della penisola italiana”). Fu coinvolto nel tentativo mazziniano del 1853, poi si recò a Londra ove Mazzini lo designò a capo dei tentativi della

Felice Orsini.

Valtellina e di Sarzana del 1853-54. Rifugiatosi in Svizzera, iniziò a dubitare della validità dei tentativi mazziniani, indi si recò a Trieste e Vienna, poi fu arrestato e recluso a Mantova da dove evase miracolosamente il 28 marzo 1856 dopo un anno esatto di detenzione. Nuovamente esule in Inghilterra, iniziò a scrivere memorie autobiografiche: “The Austrian Dungeons in ltaly”; “Memoirs and Adventures”. Scoppiò un aperto dissenso con Mazzini per cui Orsini iniziò a frequentare gli esponenti più radicali ed eterogenei del rivoluzionarismo europeo ed accarezzò l’idea del grande colpo, l’uccisione di Napoleone III ritenuto colpevole delle condizioni italiane. Provvisto di passaporto falso si recò in Francia: l’attentato ebbe luogo la sera del 13 gennaio 1858 mentre l’Imperatore si recava all’Opera: Napoleone III ne uscì miracolosamente illeso, ma numerosi furono i morti e feriti. Durante il processo Felice Orsini tenne comportamento calmo e dignitoso: durante la prigionia inviò due lettere a Napoleone III raccomandando le sorti dell’Italia. Felice Orsini, ua|3p:34


condannato a morte, salì il palco gridando coraggiosamente “Viva l’Italia! Viva la Francia!”. Come si vede con una vita intensa ed avventurosa Orsini fu esponente scomodo del Risorgimento italiano: discepolo e diretto collaboratore di Mazzini e nel contempo anticipatore del futuro movimento anarchico, la sua vicenda umana è esempio dei travagli che nel corso degli anni ’60 e in particolare ’70 scossero il movimento repubblicano. Il giudizio sulla bomba lanciata da Orsini fece discutere e divise per decenni il movimento operaio e progressista: quel fatto era infatti emblema delle diverse opzioni di lotta possibili, della possibilità di usare estremi metodi d’azione in particolari circostanze, del votarsi al sacrificio personale per la causa contro l’ordine costituito, e così via. Anche abbastanza di recente ci si è interrogati con convegni a Forlì e discussioni in dialetto pubblicate sul periodico “La Ludla”: “E la quiscion la putreb l’es questa: el stè un eroe o fòrsi un teruresta?”. Naturalmente per lo più dalle autorità in quegli anni il fatto veniva condannato come semplicemente “eversivo” e “terroristico”: tale fu sovente il giudizio dei repubblicani ortodossi, mentre gli internazionalisti lo consideravano un anticipatore dei tempi. A testimonianza del fatto oltre ad Imola esistono vie dedicate a Felice a Milano, Cesena, Rimini, Forlì, Marghera (Venezia), Avola. Imola aveva un legame particolare con Orsini: in primo luogo perché ne era la città d’adozione in quanto scelta dalla famiglia per viverci; poi perché dopo l’esecuzione, nel segreto della notte, rivoluzionari imolesi avevano murato una lapide in centro a Imola, subito tolta dalla polizia il giorno dopo con il seguente testo: FELICE ORSINI Intrepido campione dell’Italica indipendenza condannato a morte dalla tirannide aspetta dagli italiani onore compianto e vendetta e spera che le sue ossa riposeranno nel tempio dei martiri quando gli austriaci saranno cacciati dall’Italia ua|3p:35

L’attentato del 14 gennaio 1858 in una stampa dell’epoca.

Passati i decenni la città non dimenticò l’evento e Andrea Costa in particolare volle rendere omaggio all’antico rivoluzionario, del resto l’illustre politico imolese era nato nella casa di Orso Orsini zio e tutore di Felice. “Un’altra lapide inaugureremo in un giorno non lontano, speriamo: oscura, dimenticata, dedicata ad un Uomo concittadino nostro che, comunque la Storia lo giudichi, cooperò per tanto all’Unità ed all’indipendenza della Patria”. Così Costa nel maggio 1903. Gli eventi che seguirono videro un rapporto tra Imola e il Sud sulla “questione” Orsini. In Romagna (come del resto era avvenuto a Napoli) i repubblicani sul finir del secolo si erano divisi e un movimento repubblicano-collettivista era confluito nel Partito socialista poco dopo che questo fu fondato nel 1892. A Imola la grande maggioranza dei repubblicani guidati da Luigi Sassi aveva aderito al socialismo che qui – pur vicino alle posizioni riformiste – non rinnegava le radici rivoluzionarie che risalivano alla vecchia Internazionale e – come si evince proprio dalla “questione Orsini” – ancor prima ai moti risorgimentali. La scelta di compiere la commemorazione di quello che per loro era un “eroe” ai primi del ’900 aveva come ben si vede un preciso significato politico che travalicava il pur doveroso omaggio al martire risorgimentale Orsini. Così nel novembre 1903 iniziò un carteggio tra Andrea Costa e Raffaele Serrantoni (segretario della sezione socialista imolese) con Carlo Del Balzo, invitato dalla Società dei Reduci di Imola a commemorare ufficialmente Orsini (Appendice, lettere n. 3 e n. 4). Costui, di San Martino Valle Caudina, fu scrittore “verista”, letterato e politico deputato repubblicano legato alla tradizione risorgimentale e garibaldina con posizioni nettamente contra-


rie al trasformismo, al malcostume e alla criminalità della camorra. Del Balzo era forte anche dell’appoggio del capo dei repubblicani romagnoli Gaudenzi. Vi furono incertezze e indecisioni tra le società popolari imolesi, tuttavia il tutto venne subito alla luce del sole poiché “La Lotta” (organo dei socialisti del collegio di Imola) il 23 novembre illustrò minuziosamente i fatti in prima pagina. L’idea di un Comitato per celebrare Felice Orsini fu già ventilata dai socialisti imolesi quando si scoprì la “lapide al secolo nuovo” ai primi del ’900; in un primo momento vi fu un “Comitato” composto da individui a titolo personale poi, su pressione del Partito Socialista, dopo un raduno di trentuno associazioni della zona imolese (sezioni socialiste, gruppi democratici, cooperative, leghe sindacali, ecc.) si formò un comitato promotore unitario delle onoranze a Orsini. La commemorazione fu fissata per domenica 29 novembre. Larghissime furono le adesioni: non solo di tutte le società democratiche, repubblicane, radicali, socialiste, anarchiche, delle cooperative, sindacati e così via della zona imolese, ma dall’intera Ro-

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magna e da tutt’Italia giunsero decine e decine di adesioni le più diverse, comprendenti anche logge massoniche, municipi, circoli culturali. La presenza di Del Balzo favoriva l’adesione di diverse componenti politiche. Nella mattinata del 29 il Comitato promotore fece visita ad Ernestina Spadoni, figlia dell’Orsini, per consegnarle una pergamena; nel pomeriggio si svolse un corteo comprendente tra l’altro 61 bandiere, gonfaloni di comuni (tra cui Meldola paese natale di Orsini), bande e fanfare. Fu di nuovo murata la vecchia lapide del 1858 insieme ad un’altra che così recitava: “Murata qui dai patrioti imolesi e atterrata dalla polizia papale nel 1858 – questa lapide – rimurarono al suo posto storico – le società popolari imolesi – aderenti quelle d’ltalia tutta – oggi 29 novembre 1903”. Al Teatro comunale si svolse poi la commemorazione ufficiale. Dapprima parlò Andrea Costa, che accomunò all’Orsini “tutti i martiri oscuri del Risorgimento e del movimento operaio”, citando tra gli altri Oberdan e Cipriani. “La lapide che nel buio della notte nel 1858 i Patrioti imolesi murarono, oggi abbiamo scoperta in pieno giorno: simbolo parlante del trionfo della verità, della libertà, della luce [...]. L’atto di Felice Orsini va giudicato nel tempo suo... Talora nel corso della storia occorrono esempi e sacrifici isolati per smuovere le coscienze; oggi occorrono gli sforzi coscienti di tutti, ogni giorno, ogni momento... Dunque non devono mai venir meno l’impegno per la difesa della libertà e il lavoro e la riconoscenza a chi ha combattuto e pagato di persona per tali obiettivi”. Prese poi la parola Carlo Del Balzo per inquadrare la “questione Orsini” nel suo esatto significato storico nell’ambito delle vicende Risorgimentali. L’oratore esordì descrivendo il clima politico culturale francese del tempo evidenziando il contrasto tra l’obliquità di Napoleone III ed il rigore morale che Orsini aveva dimostrato con l’intera sua vita: a tale scopo ne tracciò una biografia. “Certo – affermò Del Balzo – il regicidio ed il sistema dell’attentato sono sempre da condannare, non dimentichiamo però, che i re ed anche Napoleone III si reggono sempre sul sangue popolare; il fatto di Orsini è speciale e va spiegato: per questo rifiutiamo gli attacchi dei clericali (proprio coloro che ua|3p:36


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ULISSE l’arte e il mito sabato 4 aprile 2020 Il tema affrontato dalla mostra è quello di Ulisse e del suo mito, che da tremila anni domina la cultura dell’area mediterranea ed è oggi universale. Mito che si è fatto storia e si è trasmutato in archetipo, idea, immagine. E che oggi, come nei millenni trascorsi, trova declinazioni, visuali, tagli di volta in volta diversi. Specchio delle ansie degli uomini e delle donne di ogni tempo. Un grande viaggio dell’arte, non solo nell’arte. Una grande storia che gli artisti hanno raccontato in meravigliose opere.

appoggiano i re) a queste onoranze. Anzi, Orsini va ricordato come un grande per la disponibilità al totale sacrificio personale come in passato Muzio, Curzio, Regolo; ancor più perché costoro vissero in tempi eroici, altri in tempi corrotti”. A dimostrazione del nobile scopo di liberare il mondo civile e rendere libera l’Italia che era all’origine dell’attentato, l’oratore ricordò il perdono di Orsini a Napoleone III nelle lettere dal carcere purché la Francia si fosse mossa per la libertà della penisola. “Questa è vera grandezza; mentre Pio IX aveva benedetto l’Italia quando in realtà si apprestava a tradirla, Orsini muoveva tranquillo verso il patibolo speranzoso in una futura indipendenza; per questo al martire va l’apoteosi del popolo”. Infine parlò Ugo Lambertini a nome degli anarchici, auspice di un rinnovato impulso di lotta da parte delle masse popolari. L’assemblea espresse inoltre il desiderio che via Valverde, che conduceva al luogo ove erano murate le lapidi, fosse chiamata via Felice Orsini, cosa che in seguito il Consiglio comunale deliberò: ed ancor oggi permane tale intitolazione e sono ben visibili le due lapidi murate su una colonna della Farmacia dell’Ospedale, così in centro ad Imola si percorre “via Felice Orsini”. ua|3p:37

La mostra racconta un itinerario senza precedenti, attraverso capolavori di ogni tempo: dall’antichità al Novecento, dal Medioevo al Rinascimento, dal naturalismo al neo-classicismo, dal Romanticismo al Simbolismo, fino alla Film art contemporanea. Un percorso emozionante, a scandire una vicenda che ci appartiene, che nello specchio di Ulisse mostra il nostro destino. Poiché Ulisse siamo noi, le nostre inquietudini, le nostre sfide, la nostra voglia di rischiare, di conoscere, di andare oltre. Il tema di questa mostra, che già si preannuncia eccezionale per livello dei prestiti e per qualità dell’allestimento, è assolutamente affascinante. Accompagneranno i visitatori le docenti di Università Aperta Giovanna Degli Esposti ed Emanuela Fiori. Iscrizioni e saldo entro il 14 marzo 2020. Informazioni, iscrizioni e saldo presso Agenzia Viaggi Santerno: Imola via Saragat 19, tel. 0542 32372 e via Paolo Galeati 5, tel. 0542 33200; Castel San Pietro Terme piazza Garibaldi 5, tel. 051 940358.


Patrizia Merletti

Matera capitale della cultura 2019. Oggi...

… ma, nel passato, tutto il materano fu centro ideale dell’antica Lucania pre-romana e soprattutto cerniera di genti continentali e mediterranee, come abbiamo potuto constatare nel viaggio di istruzione sul campo che è stato organizzato nel settembre 2019 da Università Aperta con la guida della stessa docente del corso di archeologia, dott.ssa Daniela Ferrari che ci ha fatto conoscere altri paesaggi urbani, musei e siti archeologici di sorprendente ricchezza. Fino alla metà del secolo scorso, la si è pure additata come “città di genti trogloditiche che abitavano ancora in grotte nel XX sec.!”... Ma negli ultimi decenni, grazie anche alle sollecitazioni culturali, agli interventi statali e alla sensibilità di studiosi ed artisti/scrittori raffinati quali Carlo Levi, Ernesto De Martino e Pier Paolo Pasolini, è stata rivalutata la sua intima ricchezza di civiltà e tradizioni antropologiche. Le scoperte e gli studi di siti troppo spesso trascurati hanno poi contribuito a rivederne i valori in una più corretta prospettiva storico-culturale. Nell’antichità le popolazioni sapevano saggiamente mettere a profitto le opportunità del proprio territorio e le genti della Lucania, connotata orograficamente da numerosi corsi d’acqua spesso navigabili per lunghi tratti, li hanno usati come vie che congiungevano il loro entroterra al Mediterraneo. Gli stessi suoi confini infatti erano determinati da fiumi: a Nord-Ovest dal Sele nel cui bacino si trovava la colonia di Paestum molto importante per gli Etruschi prima e poi dei Greci e dei Romani, ad Est dall’Ofanto che attraversava le terre Apule che risentivano gli influssi delle culture dalmate oltre l’Adriatico; a Sud le acque dell’Agri e del Sinni sfociavano nel Mar Ionio, praticato dai popoli egei ed orientali. Dai passi tra i monti del Pollino e delle Dolomiti Lucane si generavano i contatti con la cultura Calabra dei Bruttii così come i tratturi e le strade della stagionale transumanza delle greggi che attraversavano le terre delle popolazioni sanniti-

che e molisane, favorivano in Lucania una vera e propria accoglienza di genti, di scambio di prodotti, tra cui l’ambra del lontano Mar Baltico o le paste vitree mediorientali, con cui erano realizzati sontuosi ornamenti e segni del potere. Arrivati a Matera, il centro storico ci ha accolto con una velatura di pioggia al tramonto: atmosfera vagamente surreale, accentuata dalla visita alle grandi cisterne di captazione delle acque del “Palombaro lungo”. Il giorno dopo sotto un abbacinante sole i “Sassi” si sono prima spalancati e poi fatti vivere e condividere tra una folla variegata, esondante vie, scalinate, piazze... con una sola eccezione: all’ingresso di Palazzo Lanfranchi, un uomo solitario, sull’attenti, portava appeso al collo il cartello che recitava: “Carmine Caputo cerca moglie!”... studiata nota di colore o effettiva non conoscenza dei tanti odierni social!? I “Sassi” sono un esempio di assetto urbanistico ed abitativo incredibile, un’architettura senza architetti, dove la roccia e le vene d’acqua hanno detto all’uomo come e dove stare, nel privato e nel sociale, e che si vorrebbe non venisse snaturato da un turismo invasivo. Soprattutto le chiese rupestri si sono rivelate preziosi scrigni di devozioni ancestrali, tra le quali spiccano gli affreschi di mani popolari o ispirati dalla meditazione che hanno mantenuua|3p:38


to smaglianti colori, e che ci appaiono come un’arte pop ante litteram. Lasciata Matera, il nostro viaggio è continuato tra i pendii collinari dai colori cangianti per la diversa natura alluvionale o vulcanica di terreni in cui affondano radici di ulivi e di viti, tra coltivazioni stagionali, serre e pascoli, tra gli storici corsi d’acque del Bradano e dell’Agri fino a raggiungere la piana di Metaponto così estesa e fertile da farla chiamare Magna Grecia dai coloni provenienti dall’Egeo. Fin dal Neolitico piccole comunità vi avevano insediato gruppi di capanne, poi i commerci ed i contatti culturali hanno portato ai templi di Metaponto e, agli aggregati urbani di Eraclea dove le case in pietra con tetti ornati di ceramiche policrome all’orientale e le necropoli ci hanno restituito reperti artistici esposti nei musei al nostro stupore. Cittadelle circondate da mura a protezione di possibili pericoli non sorgevano solo sui promontori marini ma anche a controllo delle vie di comunicazione nell’entroterra come a Serra di Vaglio o tra le foreste di cerri di Monte Croccia. Qui solitario nel verde, tutto il nostro gruppo ha attraversato il bosco di querce, lungo sentieri dove cinghiali e caprioli avevano smosso il terreno, per giungere al... panorama mozzafiato di una valle tra le Dolomiti Lucane avvolta dalla bruma e ai tratti di mura di una cittadella dell’età del ferro del VI-IV sec. a.C., che oggi resistono ancora alla lussureggiante vegetazione! In un piccolo pianoro vi emerge la Pietra della Mola in cui le forze geologiche hanno prodotto una fenditura che, ai solstizi, un raggio di sole penetra per poi colpire un altro punto della formazione creando così una meridiana solare naturale assimilabile alla più famosa Stonehenge. Il gruppo roccioso era però anche un luogo di frequentazione rituale da parte delle comunità locali che ancora oggi attribuiscono al contatto fisico con le sporgenze della fenditura valenze benigne per la fertilità. Sull’eco di tutto ciò, ancor oggi, in alcuni paesi della zona, quali Accettura e Oliveto Lucano, si celebra infatti a primavera il rito di un tronco di un cerro che, prelevato dal bosco, si innesta con l’agrifoglio di una valle vicina, in ua|3p:39

Rhyton a forma di cavallo, Museo archeologico di Melfi

un simbolico connubio, ad augurio di rinnovamento per future generazioni. Il viaggio ci ha portato poi a conoscere nei pressi di Venosa, la terra natale di Orazio, gli eventi di passate ere geologiche: fossilizzata negli strati alluvionali di Notarchirico, ci è stato lasciato la scena di una fortunata caccia all’elefante di un gruppo di cacciatori del Paleolitico inferiore (300/400.000 anni fa) che ne hanno abbandonato le ossa smembrate, scarnificate e segnate dai loro utensili di pietra. Ma è tutta l’imponenza dello scavo che ci racconta di terremoti, di eruzioni del Monte Vulture, le cui lave hanno reso fertili i terreni e rinomati il suo olio e il suo vino Aglianico. Gli stessi strati ci hanno restitui­ to anche un femore di una femmina di ominide di ca. 300.000 anni fa, ora conservato nel Museo archeologico di Venosa, insieme ad una collezione di reperti molto più tardi, che ci raccontano di comunità autoctone e poi romane, paleo­ cristiane, ebraiche, bizantine, longobarde... una macchina del tempo, come tutti i Musei archeologici di Matera, di Val d’Agri, di Metaponto, di Grumentum, di Siri Heraclea, e di Melfi. Le foto pubblicate nel sito di U.A. potranno meglio delle parole mostrare la semplicità del quotidiano vivere insieme all’opulenza del potere... testimonianze di accuratezza artistica e raffinata abilità artigianale: le classi sociali di lavoratori specializzati di tali settori potevano così usufrui­re fin dal lV sec. a.C. di una qualità di vita che prevedeva persino case dotate di vasche da bagno in terracotta!


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Alessandra Giovannini

sul palcoscenico dello Stignani Stagio teatrale 2019-2020

È iniziata a novembre e proseguirà fino ad aprile 2020, la stagione di prosa al Teatro comunale di Imola. Una programmazione che vanta, ancora una volta, la presenza di autori eccelsi, grandi prove d’attore e la massima cura nelle scelte artistiche. Tutti elementi che hanno permesso al teatro imolese di ritagliarsi un posto privilegiato nel panorama della prosa nazionale. Un cartellone che guarda al teatro contemporaneo e ad un pubblico sempre più giovane, senza dimenticare i classici della modernità che tutti amano. Dopo la presenza sul palcoscenico di Leo Gullotta con Pensaci, Giacomino di Luigi Pirandello, dal 10 al 15 dicembre la regia di Pao­la Rota dirige Giuseppe Battiston per Winston vs Churchill. Un testo accattivante che dipinge il ritratto del politico per eccellenza, un uomo sicuramente non qualunque: Winston Churchill. In un presente onirico in cui la sua intera esistenza è compresente, si confrontano e si scontrano l’uomo privato e lo statista, le due anime di colui che forse, grazie alle sue scelte politiche, ha salvato l’umanità dall’autodistruzione durante il bellicoso trentennio che va dal 1915 al 1945. Giuseppe Battiston incontra la

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figura di Churchill, la porta in scena, la reinventa, indaga il mistero dell’uomo attraverso la magia del teatro, senza mai perdere il potente senso dell’ironia. Il nuovo anno inizierà con Lillo, celebre attore comico del duo Lillo & Greg, e con School of Rock – il Musical tratto dall’omonimo film. La regia è di Massimo Romeo Piparo. School of Rock, che verrà presentato dal 3 al 7 gennaio è la storia di Dewey Finn, un bravissimo chitarrista rock, talmente scalmanato che la sua band decide di cacciarlo. Perennemente senza soldi, si spaccia per il supplente di una prestigiosa scuola, ma invece di insegnare materie di cui non sa nulla, il chitarrista inizia a tenere lezioni particolari ai suoi studenti, interamente incentrate sulla musica. Con grande sorpresa, scoprirà in loro un innato talento rock. Accanto a Lillo il cast di 30 performer, con 14 giovani promesse, tra gli 11 e i 14 anni, cresciuti tra i 90 allievi dell’Accademia Sistina. Per questo spettacolo è prevista una recita pomeridiana fuori abbonamento il 6 gennaio alle 15.30. Dal 29 gennaio al 2 febbraio Romeo &


Giulietta - Nati sotto contraria stella da William Shakespeare con Ale e Franz, la regia è di Leo Muscato. A dispetto del titolo, lo spettacolo non è incentrato sulla vicenda dei due giovani, ma su quella di sette vecchi comici girovaghi che si presentano al pubblico per interpretare la dolorosa storia degli amanti shakespeariani. Sanno bene che è una storia che già tutti conoscono, ma loro vogliono raccontarla osservando il più autentico spirito elisabettiano. Sono tutti uomini e ognuno di loro interpreta più personaggi, anche quelli femminili. Il problema è che le buone intenzioni non si sposano con le loro effettive capacità di stare in scena. Dall’11 al 16 febbraio arriva Dracula da Bram Stoker con Luigi Lo Cascio e Sergio Rubini per la regia dello stesso Sergio Rubini. La vicenda si apre con un viaggio tra lupi che ululano, grandi banchi di foschia e croci ai bordi delle strade, prefigurazione di un viaggio interiore verso le più profonde oscurità dell’animo umano. Il giovane procuratore londinese Jonathan Harker è incaricato di recarsi in Transilvania per curare l’acquisto di un appartamento a Londra effettuato da un nobile del luogo. Non immagina la sciagura che lo attende. Eros e Thanatos si fondono in questa riscrittura teatrale del capolavoro di Bram Stoker. L’incontro col Male destabilizza irrimediabilmente ogni certezza. Di questo contagio è vittima in primo luogo Mina, moglie di Jonathan, alla quale egli non ha il coraggio di raccontare quanto ha visto. È dalla lettura del diario redatto durante il soggiorno-prigionia di Jonathan al Castello che Mina viene a conoscere l’origine di quel malessere, che sembra essersi impossessato del suo giovane sposo e averlo mutato profondamente. Un malessere che come una malattia incurabile finirà per consumare anche lei. Dracula è prima di tutto un viaggio

notturno verso l’ignoto, alla scoperta del mostro che si annida dentro tutti noi. Dal 26 febbraio al 1 marzo Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Simon Stephens dal romanzo di Mark Haddon per la regia di Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani. Lo spettacolo trae spunto da un successo della narrativa contemporanea. Il quindicenne Christopher decide di indagare sulla morte di Wellington, il cane della vicina. Capisce subito di trovarsi davanti a uno di quei misteri che il suo eroe, Sherlock Holmes, sapeva risolvere, perciò comincia a scrivere un libro mettendo insieme gli indizi del caso dal suo punto di vista. E il suo punto di vista è davvero speciale. Perché Christopher ha un disturbo dello spettro autistico che rende complicato il suo rapporto con il mondo. Odia essere toccato, odia il giallo e il marrone, si arrabbia se i mobili di casa vengono spostati, non riesce a interpretare l’espressione del viso degli altri. Lo spettacolo si avvale di una compagnia intergenerazionale di dieci attori: nel ruolo protagonista Daniele Fedeli, talentuoso attore di 24 anni protagonista di un grande exploit. Un vero successo per questo spettacolo che a New York ha vinto quattro Tony Awards. Una proposta scenica lieve e profonda, altamente empatica che, pur trattando un argomento complesso, si muove su toni di divertita leggerezza, rivelandoci sia le difficoltà di Cristopher sia le meschinerie, gli egoismi e l’indifferenza degli adulti. Dal 10 al 15 marzo Arsenico e vecchi merletti di Joseph Kesselring con Anna Maria Guarnieri e Giulia Lazzarini per la regia di Geppy Gleijeses. Un classico della commedia “brillante” in un allestimento ispirato e dedicato a Mario Monicelli. Lo scrittore Mortimer Brewster, dopo un passato da scapolo incallito, torna a casa dalle

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zie Abby e Martha per renderle partecipi del suo recente matrimonio con Elaine Harper. Al suo arrivo scopre, però, che le due amabili e anziane ziette aiutano quelli che affettuosamente chiamano i “loro signori” ossia gli inquilini ai quali affittano le camere, a lasciare la vita con un sorriso sulle labbra, offrendo loro del vino di sambuco corretto con un miscuglio di veleni, per poi seppellirli in cantina. Dal 15 al 19 aprile la stagione di prosa si chiude con Che disastro di Peter Pan di Henry Lewis, Jonathan Sayer, Henry Shields dalla commedia originale di J.M. Barrie per la regia di Adam Meggido. Una compagnia teatrale amatoriale, la Filodrammatica di Sant’Eufrasio Piedimonte, tenta di mettere in scena il classico di J.M. Barrie, la celeberrima storia di Peter Pan. Lo spettacolo è concepito per lavorare su due piani narrativi: in primo luogo la classica trama di Peter Pan che tenta di emergere dai disastri e dai contrattempi che si accumulano nella pièce; in secondo luogo la storia degli attori, i loro drammi e i loro intrighi. Recitano per la verità e non per le risate: quando tutto va storto, a loro dovrebbe fare male e, soprattutto, non dovrebbe far ridere. È una commedia con un grande cuore, senza mai un momento di noia. Lo spettacolo è una farsa e la farsa un vero spettacolo. Non importa quali bisticci sul backstage si siano verificati, non importa il caos che hanno scatenato e subito sul palcoscenico, dopo lo spettacolo i nostri attori sono nel bar, euforici, e si congratulano l’un l’altro pianificando la prossima produzione. Non perdono di vista l’amore. Per informazioni: direzione, uffici, biglietteria e teatro Stignani, via Verdi, 1/3 - 40026 Imola (BO). Tel. 0542 602600 teatro@comune.imola.bo.it - www.teatrostignani.it www.facebook.com/teatrostignani

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SOGNO E MAGIA sabato 29 febbraio 2020 Una mostra dedicata al grande artista russo, Chagall. Sogno e Magia: 160 opere che raccontano, attraverso il filo conduttore della sensibilità poetica e magica, l’originalissima lingua poetica di Marc Chagall (18871985). La cultura ebraica, la cultura russa e quella occidentale, il suo amore per la letteratura, il suo profondo credo religioso, il puro concetto di Amore e quello di tradizione, il sentimento per la sua sempre amatissima moglie Bella, in 160 opere tra dipinti, disegni, acquerelli e incisioni. Un nucleo di opere rare e straordinarie, provenienti da collezioni private e quindi di difficile accesso per il grande pubblico.

Accompagneranno i visitatori le docenti di Università Aperta Giovanna Degli Esposti ed Emanuela Fiori. Iscrizioni e saldo entro il 14/02/2020. Informazioni, iscrizioni e saldo presso Agenzia Viaggi Santerno: Imola via Saragat 19, tel. 0542 32372 e via Paolo Galeati 5, tel. 0542 33200; Castel San Pietro Terme piazza Garibaldi 5, tel. 051 940358.


le convenzioni 2019-2020

Dietro presentazione della tessera di Università Aperta di Imola si avrà diritto oltre che agli sconti previsti per la frequenza dei corsi e dei viaggi di istruzione organizzati da Università Aperta, anche alle agevolazioni presso i seguenti ambulatori privati, negozi, aziende con cui sono stati stipulati appositi accordi: CENTRO VALSALVA Via T. Baruzzi 7/C, Imola - Sconto 20% sulle prestazioni eseguite dai professionisti del Poliambulatorio A. N. Valsalva che aderiscono all’accordo. Si precisa che il suddetto sconto non è cumulabile con altre agevolazioni provenienti da polizze assicurative o altro tipo di convenzioni. CENTRO ODONTOIATRICO ZEA Via Marconi 16, Imola - Sconto del 10% sulle terapie odontoiatriche; sconto 10% sui trattamenti osteopatici mirati ad ottenere un equilibrio funzionale alla persona partendo dalla bocca; sconto del 10% sulle prestazioni odontoiatriche di estetica del sorriso e di medicina del viso.

LIBRERIA MONDADORI Via Emilia 71, Imola - Sconto del 15% su libri e cartoleria. Esclusi testi scolastici. ERBORISTERIA ZAMBRINI Via Aldrovandi 20, Imola - Sconto del 10% (esclusi articoli già scontati e BIO). EDITRICE LA MANDRAGORA Via Selice 92, Imola - Sconto del 15% sui libri a catalogo. MAGNIFICAT - Bottega di stampe antiche… e non solo Via Manin 16, Imola - Sconto del 10% sugli articoli in negozio. VERDARTE Via Emilia 92, Imola - Sconto del 10% su tutti i prodotti esclusi quelli in promozione. MERLOTTA - Vignaioli dal 1962 Via Merlotta 1, Imola - Sconto del 10% su tutti i prodotti.

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LicealiDoc

tre classi, due storie, una città Progetto LicealiDoc del Liceo Scientifico Valeriani di Imola

Partendo dai banchi di scuola, con il progetto LicealiDoc finanziato da MIUR e MIBAC, gli studenti del Liceo Scientifico Valeriani si sono approcciati al mondo dei documentari e alla loro promozione attraverso il ruolo di social media manager. L’uso sempre più frequente delle piattaforme digitali nella comunicazione favorisce la promozione di un prodotto, di un evento attraverso social media come Facebook, Twitter e Instagram. Di questo si sono occupati i ragazzi di 3A per pubblicizzare i documentari: hanno infatti realizzato le grafiche, i loghi, le vignette e documentato le interviste per poi postarle su pagine social di LicealiDoc da loro create e gestite. Questo percorso di intersezione tra scuola e mondo del lavoro è finalizzato a rendere concrete le conoscenze acquisite a scuola, a conoscere meglio e a valorizzare il territorio imolese in due contesti diversi: un documentario riguarda la struttura dell’Osservanza e le caratteristiche che l’hanno contraddistinta nella storia di Imola, l’altro si concentra sui confini culturali che definiscono il territorio imolese. Il manicomio dell’Osservanza, simbolo della famosa città dei matti, è il tema trattato dagli studenti della 4B per la realizzazione del loro lavoro interattivo poiché il pubblico è chiamato a partecipare attivamente avendo la possibilità di personalizzare il proprio percorso all’interno del cortometraggio. Perché proprio l’Osservanza? Perché è un luogo che può rappresentare la sofferenza degli ultimi, dei diversi, dei reietti della società. Talora abbruttiti dall’ambiente che li ospitava, talora accolti e ascoltati da chi lì lavorava, a sua volta ospite di quella struttura. Questa è una storia che tuttora si tende a nascondere e viene dimenticata, ma anche grazie alle voci di chi l’ha vissuta finalmente quella storia potrà essere conosciuta da tutti. L’esperienza degli incontri, delle relazioni esterne alla scuola da organizzare e gestire, ha dato agli alunni l’opportuniua|3p:45

tà di mettersi in relazione con una situazione lavorativa diversa da quella canonica del corso di studi: le situazioni nuove e le inevitabili difficoltà hanno messo alla prova le personali capacità e stimolato competenze che porteranno con sé ben oltre il tempo della scuola. Nonostante le incertezze hanno portato a termine l’impegno assunto rispettando gli obiettivi che si erano proposti. Grazie alla collaborazione e al confronto sono riusciti a dare forma a idee che con grande soddisfazione vedono ora realizzate. Fondamentali sono stati i rapporti cordiali con ex medici, infermieri e testimoni che hanno raccontato la loro storia all’interno della struttura. Il documentario interattivo è quindi solo il risultato più evidente di questa esperienza mentre quello più profondo è la maturazione di abilità relazionali, espressive, organizzative e tecniche stimolate dal processo e dalla tensione al risultato. Gli allievi di 4A sono partiti ponendosi una domanda: “Imola è in Emilia o in Romagna?”. Il


loro intento non era quello di darsi una risposta definitiva, bensì di esplorare fino in fondo il concetto del confine. Scelto il tema su cui concentrarsi, la classe si è suddivisa in diversi gruppi in base alle singole inclinazioni. Innanzitutto gli sceneggiatori hanno modellato una prima stesura del cortometraggio, poi sono entrati in gioco i produttori che si sono occupati di ottenere tutti i permessi necessari per poter girare ogni scena e hanno contattato gli intervistati. Il testimone è passato quindi al gruppo riprese le quali sono state girate in vari luoghi di Imola e in diverse giornate. Molto interessante è stata la registrazione nella sala del CIDRA della lezione che il professor Bertoni dell’Università di Bologna ha tenuto agli iscritti al corso sul dialetto romagnolo per chiarire i rapporti tra i dialetti e la lingua italiana, portando ad esempio il ruolo fondamentale svolto da Dante con la Divina Commedia e citando autori famosi come Tonino Guerra e Raffaello Baldini, dei quali ha letto anche vari testi in dialetto. Durante le registrazioni era necessario mantenere la concentrazione alta per tenere sotto controllo le inquadrature, le luci e i suoni per dare la forma migliore alle loro idee.

I montatori hanno concluso il proprio lavoro districandosi tra ore e ore di filmato, per tagliare e cucire le scene salienti, accompagnandole con le colonne sonore. Gli studenti di 3A non si sono limitati al ruolo di social media manager, ma hanno anche documentato il processo di realizzazione dei cortometraggi da dietro le quinte, avendo avuto la possibilità di utilizzare attrezzature professionali non disponibili nella quotidianità. Tutti gli allievi delle tre classi hanno poi anche partecipato a spettacoli, intervistato esperti di cucina e del dialetto, personale medico e testimoni, affrontando esperienze didattiche che non sarebbero state possibili senza il progetto LicealiDoc. Quest’avventura può essere quindi considerata una tappa fondamentale del percorso seguito da noi studenti: il team-work, la puntualità nelle consegne e la flessibilità sono infatti solo alcune delle competenze trasversali che, lavorando al documentario e al suo backstage, abbiamo cercato di acquisire con l’aiuto di tutor esterni e interni, ovvero con la collaborazione di figure professionali dell'associazione DER (Documentaristi Emilia-Romagna) e degli insegnanti delle classi coinvolte. Per ulteriori informazioni: Instagram:@licealidoc; Facebook:@LicealiDoc; Twitter:@LicealiDoc; Mail: licealidoc@imolalicei.istruzioneer.it

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Università Aperta per i SOCI Avviso di convocazione dell’assemblea ordinaria dei soci È convocata l’Assemblea dei Soci di UNIVERSITÀ APERTA SOCIETÀ COO­ PERATIVA SOCIALE, che si terrà in prima convocazione domenica 8 dicembre 2019 alle ore 12:00 nell’aula U.A., 5° piano, piazza Gramsci n. 21, Imola (BO) e, occorrendo, in seconda convocazione

Lunedì 9 dicembre 2019 alle ore 16.00 nella Sala delle Stagioni, via Emilia n. 25, Imola Ordine del giorno: 1) Lettura del Bilancio d’esercizio al 31 agosto 2019 completo di Stato Patrimoniale, Conto Economico, Nota Integrativa e Relazione del Revisore Contabile e delibere conseguenti. 2) Approvazione del Bilancio d’esercizio al 31 agosto 2019 completo di Stato Patrimoniale, Conto Economico, Nota Integrativa e Relazione del Revisore Contabile e delibere conseguenti. 3) Rinnovo dell’incarico di revisore contabile al rag. Saloni Mauro fino all’approvazione del bilancio al 31 agosto 2022 e relativa determinazione del compenso annuale. 4) Rinnovo del CdA fino all’approvazione del bilancio al 31 agosto 2022. 5) Varie ed eventuali. Confidando nella Vs. partecipazione all’assemblea, inviamo cordiali saluti. Il presidente del Consiglio di Amministrazione

Prof. Mario Faggella

Spett.le UNIVERSITÀ APERTA SOCIETÀ COOPERATIVA SOCIALE Piazza Gramsci n. 21 40026 Imola BO Vi prego di prendere nota che con la presente, io sottoscritto/a _______________________ delego il socio signore/ra ____________________ a rappresentarmi a tutti gli effetti all’assemblea ordinaria dei soci indetta per Lunedì 9 dicembre 2019 alle ore 16.00, conferendo allo stesso i necessari poteri e ritenendo pertanto valido il suo operato. Data ______________ ua|3p:47

Firma ___________________________


Le prossime iniziative in collaborazione con Università Aperta 8 febbraio: Van Gogh, Monet, Degas a Padova 29 febbraio: Chagall a Bologna 14-16 marzo: Londra 21-22 marzo: Aquileia e Grado 4 aprile: Ulisse l’arte e il mito a Forlì 23-27 aprile: Calabria - Il Bruttium: l’antica Calabria 5-12 settembre: Bulgaria - Antica e il mondo dei Traci


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