LA RIVOLUZIONE DEL CERVELLO a cura di Giancarlo Comi Viviana Kasam
Contributi di: Giovanni Broggi, Pietro Calissano e Rita Levi Montalcini, Stefano Cappa, Giancarlo Comi, Giancarlo Cruccu, Letizia Leocani, Gianvito Martino, Martin Monti, Andrea Moro, Matteo Motterlini, Maria Rocca, Idan Segev
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Tutti i diritti riservati Š Editrice San Raffaele Via Olgettina, 60 20132 Milano Progetto grafico Viviana Saraceni MDC Stampa Arti Grafiche Colombo 20060 Gessate, Milano Edizione fuori commercio Edizione Editrice San Raffaele febbraio 2011
Intelligenza, emozioni, memoria, creatività, linguaggio non sono più misteri insondabili del nostro cervello. Lo sviluppo straordinario delle neuroscienze ci pone oggi alle soglie di una rivoluzione medica e scientifica, che avrà importanti ripercussioni sulla vita delle persone e potenzierà notevolmente le nostre capacità intellettuali e le possibilità di cura delle malattie neurodegenerative e dei disturbi psichici. L’allungamento della vita media nei Paesi occidentali ha determinato una sempre maggiore diffusione di queste patologie, che sono le malattie della modernità, con costi sociali molto alti. Si stima che nel mondo i malati di Parkinson siano 10 milioni e le persone che soffrono di Alzheimer almeno 35 milioni. La ricerca sta per la prima volta superando con risultati incoraggianti molti limiti diagnostici, a cui si aggiungono risposte genetiche di portata epocale. Dall’importanza di sostenere e divulgare questi presupposti è nata la partecipazione dell’Assessorato alla Salute del Comune di Milano a BrainForum, la conferenza internazionale nata per fare della città “la capitale italiana del cervello”, riunendovi per l’occasione alcuni tra i più importanti neuroscienziati del mondo, secondo un format molto innovativo, che prevede il collegamento via internet in tempo reale con università, centri di ricerca e pubblico in tutto il mondo. Questa pubblicazione nasce dunque dall’intento di far arrivare ai cittadini una comunicazione scientifica di pregio sul cervello e di allargare il più possibile la consapevolezza della stretta vicinanza tra benessere e conquiste mediche, destinate a incidere sulla salute della collettività come mai prima d’ora nella storia. Perché la comprensione dei meccanismi che presiedono al funzionamento del cervello e delle capacità cognitive dell’uomo sono un patrimonio di tutti.
Giampaolo Landi di Chiavenna Assessore alla Salute del Comune di Milano
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Sommario
Viviana Kasam La rivoluzione del cervello
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Giancarlo Comi Plasticità: il segreto dell’intelligenza
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Gianvito Martino La scatola delle meraviglie
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Idan Segev Cervello-computer: alle soglie dell’integrazione
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Martin Monti Fotografare il cervello mentre pensa
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Maria Assunta Rocca I vegetariani sono i più empatici
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Giorgio Cruccu Perché i fachiri non sentono il dolore
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Andrea Moro Il mistero del linguaggio
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Giancarlo Comi Non una, ma tante intelligenze
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Matteo Motterlini Ragione e passione unite per decidere bene
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Pietro Calissano, Rita Levi Montalcini Alzheimer: un suicidio – cellulare – di massa?
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Stefano Cappa Il cervello che invecchia
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Letizia Leocani L’ABC del cervello
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Giovanni Broggi Il navigatore guida la mano del chirurgo
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La rivoluzione del cervello
Conoscere il cervello vuol dire conoscere noi stessi, i meccanismi che generano il pensiero, il nostro modo di percepire il mondo, emozioni e sentimenti. Negli ultimi anni, è avvenuta una vera e propria rivoluzione del cervello: grazie alle nuove tecnologie si riesce infatti a registrarne l’attività in tempo reale, a vederlo pensare e agire. Avviata dalla scoperta di uno scienziato italiano, Camillo Golgi, che per primo riuscì a colorare i neuroni e quindi a distinguerli l’uno dall’altro, questa conoscenza ha sfatato molte leggende e ha aperto la strada alla speranza di potere, in un futuro non troppo lontano, espandere le capacità del cervello, curarne le disfunzioni e le malattie, comprendere come tenerlo in buona salute. Se gli ultimi decenni si sono focalizzati sulla cura e sul ringiovanimento del corpo – ginnastica, beauty farms, integratori alimentari, cure e chirurgia estetica – è probabile che quelli a venire saranno dedicati al cervello. A che cosa serve infatti un corpo in forma, se il cervello invecchia male? Per tenere in forma anche il cervello occorre conoscerlo, sapere come funziona e quindi come si può migliorarne la performance. Questo piccolo libro vuol aiutare un pubblico di non addetti ai lavori a familiarizzarsi con la nostra meravigliosa macchina pensante, una vero e proprio laboratorio chimico/elettrico, un processore che elabora miliardi di input con una velocità e un’efficienza impareggiabili, un organo che continuamente si trasforma senza perdere la propria identità, una scatola magica che grazie a un codice binario di input/output crea il mondo che crediamo di vedere, udire, toccare. Viviana Kasam Presidente BrainCircleItalia
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Plasticità: il segreto dell'intelligenza
La comprensione del funzionamento del cervello è indispensabile per comprendere le malattie che lo colpiscono, ma allo stesso tempo le malattie nervose ci hanno molto aiutato a comprendere la normale organizzazione del cervello. Di tutti gli organi del nostro corpo, è sicuramente quello più plastico: la plasticità è un elemento fondamentale per garantire le funzioni nervose e si esplica a tutti i livelli, nel realizzarsi e nello svanire dei bottoni sinaptici, nel prolungarsi di un assone verso un neurone per stabilire un nuovo collegamento, nell’atrofizzarsi o ipertrofizzarsi di una circonvoluzione cerebrale per il poco o il troppo uso. L’apprendimento, la memoria, il linguaggio, le abilità motorie, le emozioni sono tutte funzioni che si basano sulla plasticità cerebrale. Il tennista che ripete migliaia di volte lo stesso gesto nell’allenamento, fino a realizzare in partita quel colpo miracoloso, il pianista che fa volare le mani sulla tastiera fino a lasciarci incantati dalle melodie che sa generare, sono esempi di una plasticità cerebrale perfettamente riuscita. Alcune nuove tecnologie, come la risonanza magnetica funzionale, l’analisi avanzata dei segnali bioelettrici cerebrali e la stimolazione magnetica hanno contribuito in modo fondamentale al recente progresso delle conoscenze sul sistema nervoso. In questo agile volumetto alcuni dei più grandi neuroscienziati ci spiegano in modo semplice alcuni dei segreti del cervello, delle sue funzioni elementari, ma anche di funzioni estremamente complesse, come il linguaggio, il pensiero, l’intelligenza, le emozioni e delle modalità per studiarle. La parte finale è dedicata al cervello che invecchia, al dissolversi delle sue molte magie nelle malattie neurodegenerative, a come nel prossimo futuro una sempre più forte integrazione tra uomo e macchine consentirà di supplire ai danni provocati dalle malattie. Giancarlo Comi Istituto di Neurologia Sperimentale e Dipartimento Neurologico Università Vita-Salute San Raffaele di Milano
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La scatola delle meraviglie*
Da quando la parola cervello comparve per ben sei volte su di un papiro egizio – redatto con molta probabilità attorno al 1700 a.C., ma reso noto al mondo solo nel 1862 dall’archeologo inglese Edwin Smith, che lo aveva comprato a Luxor da un venditore di nome Mustafà – le nostre conoscenze sul cervello si sono continuamente approfondite e affinate. A oggi molto si sa, ma molto deve essere ancora scoperto. E proprio perché ancora molto deve essere scoperto, il cervello diventa spesso territorio di conquista e spesso argomento di menzogne che hanno molto dell’ideologico e poco dello scientifico. Ben venga un altro libro che si pone come obiettivo di passare in rassegna alcune delle tematiche più affascinanti che le neuroscienze – la branca delle scienze che studia la struttura, le funzioni e le malattie del cervello – stanno affrontando. Il libro ci racconterà delle cellule del cervello che ci dicono chi siamo e dei microchip che ci fanno di nuovo essere quello che eravamo. Ci farà per un momento tornare bambini spiegandoci come e perché impariamo a parlare. Ci farà varcare le soglie più intime della coscienza per poi interrogarci sul come poter ricreare artificialmente le emozioni. Ci introdurrà a quelle conquiste scientifiche che si apprestano a fornirci strumenti sempre più efficaci per affrontare malattie del cervello che fino a poco tempo fa erano considerate incurabili. Ma torniamo per un momento a che cosa abbiamo imparato a proposito del cervello negli ultimi 4000 anni. Sappiamo che il cervello di un uomo adulto pesa circa 1,5 kg (2% del peso corporeo) e che è fatto di circa 100 miliardi di cellule nervose (denominate neuroni) – alcune lunghe anche più di un metro – interconnesse tra di loro. Se si contassero i neuroni (un neurone al secondo) ci si impiegherebbe 3171 anni. Se i neuroni si mettessero in fila
* Tratto da Il cervello: la scatola delle meraviglie, Editrice San Raffaele, Milano 2008, pp. 11-18.
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comporrebbero un tracciato di circa 1000 km (si va da Milano a Reggio Calabria). Pur tuttavia, è sorprendente pensare che l’80% del nostro cervello è composto di acqua. Oltre alla struttura anatomica del cervello abbiamo anche capito, soprattutto nel secolo appena trascorso e grazie alle scoperte di eminenti studiosi insigniti del premio Nobel tra cui Santiago Ramón y Cajal (1906), gli italiani Camillo Golgi (1906) e Rita Levi Montalcini (1986) e ancora Eric Kandel, Paul Greengard, Arvid Carlson (2000), che i neuroni sono in grado di trasdurre (cioè convertire un segnale in un altro come, per esempio, fa il telefono) segnali di diversa natura provenienti dal mondo esterno in impulsi elettrici. Impulsi che si trasmettono da una cellula all’altra attraverso interruttori molecolari che si chiamano sinapsi (synaptein, annodare). Ci sono 1.000.000 di miliardi di sinapsi nel cervello umano, cioè mezzo miliardo di sinapsi per millimetro cubo, che formano decine, se non centinaia, di migliaia di circuiti elettrici che trasmettono gli impulsi a varie velocità. La trasmissione può essere lenta come un passeggiata (0.5 metri/secondo) o veloce come un aereo (120 metri/secondo). Ciò nonostante si ritiene che il cervello possa funzionare con la stessa quantità di potenza di una lampadina di 10 watt. Abbiamo scoperto che il cervello, anche se rappresenta soltanto il 2% della nostra massa corporea, è responsabile del 20% del nostro consumo d’ossigeno. Diversamente dagli altri tessuti (per esempio i muscoli), il cervello non possiede riserve d’energia interne e, quindi, deve continuamente ricevere energia (ossigeno) direttamente dal sangue. Grazie alle nuove tecniche di risonanza magnetica nucleare (funzionale) abbiamo scoperto che aumenta il flusso sanguigno verso quelle parti del cervello che si attivano per poter avere a disposizione l’energia necessaria per sostenere l’attività aumentata. A questo proposito è interessante ricordare che il cervello è molto più attivo durante la notte che durante il giorno. Abbiamo compreso che il cervello umano può contenere fino a 5 volte la quantità di informazioni contenute dall’Encyclopedia Britannica; anche se non si è ancora certi sembra che la capacità di stoccaggio del cervello, tradotta in termini elettronici, possa essere tra i 3 o, addirittura, i 1000 terabyte. Sappiamo che il nostro cervello per mantenersi efficiente è in continua ristrutturazione. È in grado di cambiare
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continuamente circuiti e funzioni che vengono meno perché danneggiati o invecchiati. Si ristruttura perché è in grado di produrre 500 nuove cellule ogni ora e sostituire fino all’80% dei propri interruttori in un mese. Stranamente, però, il cervello non è in grado di sentire il dolore. Abbiamo capito che, dopo 135 milioni di anni di evoluzione, sono stati decisivi solo gli ultimi 10 milioni anni per plasmare il nostro cervello proprio perché la pressione evolutiva che ha agito su di esso è dovuta soprattutto al fatto che siamo essere sociali, flessibili, intelligenti e capaci di apprendere. Sappiamo quindi tante cose che, almeno in parte, ci fanno capire come quella scatola delle meraviglie che è il cervello ci fa percepire il mondo che ci circonda attraverso i cinque sensi, e come ci permette di rielaborarlo e di tradurlo in azioni concrete e pensieri astratti. Anche se abbiamo imparato a capire cos’è il cervello da un punto di vista anatomico e strutturale e a capirne, anche se a grandi linee, il funzionamento, non tutto è ancora chiaro. Non solo non siamo ancora riusciti a capire come le varie cellule del cervello interagiscono intimamente tra di loro per dare origine a un pensiero o a un’azione concreta, ma non abbiamo ancora riempito di significato, termini come intelligenza, coscienza, empatia, sentimento ecc. Questi termini, che ci risultano così familiari, non siamo ancora in grado di spiegarli a pieno dal punto di vista scientifico. Non sappiamo se riusciremo ad avere una visione unitaria e condivisa di quali sono i rapporti che intercorrono tra mente e cervello. Ci stiamo ancora chiedendo se il cervello ha un’età (un limite) biologica insuperabile anche a fronte delle più moderne tecnologie sviluppate in ambito biomedico. Non sappiamo se riusciremo mai a guarire tutte le malattie del cervello, soprattutto se consideriamo che circa il 25% della popolazione, sia nei Paesi ricchi che nei Paesi poveri, soffre di una malattia del cervello (neurologica o psichiatrica) e che, in alcuni casi, malattie devastanti come il morbo di Alzheimer (una forma di demenza) stanno aumentando anziché diminuire. Infine, non riusciamo neanche a immaginarci se in un futuro prossimo si potrà ricostruire (rigenerare) il cervello o almeno parti di esso. I neuroscienziati stanno però seriamente provando a rispondere alle domande di cui sopra senza la presunzione di voler raggiungere
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a tutti i costi la “verità” ma con la consapevolezza che una ricerca seria, e soprattutto rispettosa delle varie posizioni in campo, possa essere di utilità per migliorare le condizioni di vita e garantire uno sviluppo solidale. Ci è sembrato quindi opportuno fare il punto della situazione. Spiegare, a chi avrà la pazienza di leggerci, dove siamo e dove andiamo, cosa ancora resta da fare e che cosa possiamo prevedere di riuscire a capire nel futuro prossimo. Gianvito Martino Medico neurologo, Direttore della Divisione di Neuroscienze Istituto Scientifico Universitario San Raffaele di Milano
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Cervello-computer: alle soglie dell’integrazione A Losanna, in Svizzera, a 69 chilometri dall’acceleratore del CERN dove i ricercatori di particelle provano a simulare il momento della creazione, è in corso il progetto The Blue Brain – un tentativo, da parte di alcuni tra i migliori neuroscienziati al mondo, di costruire un modello computerizzato dell’intero cervello. Ultimamente, vi hanno portato a termine la simulazione di una colonna corticale funzionante. Il professor Idan Segev, coautore del progetto, delinea gli scenari che si aprono grazie a queste nuove ricerche. I mattoni che costruiscono il cervello Nel 1906 il Premio Nobel fu vinto da due giganti della neuroanatomia, l’italiano Camillo Golgi e lo spagnolo Ramon Cajal, per il loro lavoro sui tipi di cellule che compongono il sistema nervoso del nostro cervello. In seguito al loro lavoro fu chiaro, a dispetto dei romantici tra noi, che il cervello, come tutte le altre nostre componenti biologiche (muscoli, pelle, ossa) è composto di cellule – piccoli mattoncini simili l’uno all’altro: i neuroni, ovvero le cellule nervose. Poco più in là si scoprì che i neuroni sono separati fisicamente l’uno dall’altro e comunicano (“parlano”) tra loro per mezzo di una costruzione particolarmente interessante chiamata sinapsi, che in greco vuol dire legame. Per mezzo di un mediatore chimico (neurotrasmettitore), la sinapsi permette di trasmettere l’attività elettrica, che si risveglia in una cellula (cellula A – la cellula trasmettitrice), per generare attività elettrica in un’altra cellula (cellula B – la cellula ricevente). La forza e l’efficacia della trasmissione e comunicazione possono cambiare nel corso dei processi di apprendimento, memoria e comportamento. Nel cervello esistono circa dieci miliardi (1010) di neuroni. Ogni neurone comunica per mezzo di circa 10.000 sinapsi con le sinapsi dei neuroni vicini nella rete nervosa e così si sviluppano nel nostro cervello grandi reti ramificate, composte di centinaia di migliaia di neuroni, che sono collegati l’uno all’altro dalle sinapsi
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Durante la seconda metà del XX secolo, in seguito allo sviluppo dei sistemi di registrazione dell’attività elettrica nel nostro cervello, è emerso che tutto ciò che è registrato dai nostri sensi (oggetti, visi, suoni e odori) e tutto ciò che si genera dentro di noi (dolori, sensazioni, volontà, idee), anche i movimenti dei nostri organi e arti – tutto ciò è realizzato (codificato) da delle serie di spikes (segnali elettrici) che si verificano nei neuroni che compongono una certa rete nervosa in un’area delimitata del nostro cervello. Il cervello, quindi, è una macchina elettrochimica e l’attività elettrochimica è ciò che sta alla base di tutto ciò che noi viviamo (sentiamo, facciamo). Le cellule nervose – i neuroni, che comunicano tra loro per mezzo delle sinapsi e generano spikes – sono i mattoni del nostro cervello. Una certa attività elettrica “coordinata”, composta da una serie di milioni di bit (spikes) al secondo, che si verifica in un certo gruppo di cellule nervose nel nostro cervello, è responsabile di una certa funzione specifica (l’identificazione di un viso, il movimento di una mano ecc.). Per ogni azione di ogni tipo, per ogni nostra sensazione e pensiero, c’è una creazione di elettricità in un’area specifica del nostro cervello e nella rete nervosa specifica di quell’area. Un’avaria nella rete nervosa in seguito a un danno meccanico – ictus, atrofia cellulare o a un danno alla facoltà di produrre attività elettrica o interazione chimica (come nell’Alzheimer) – crea un guasto all’attività tipica della zona lesa e di conseguenza si perdono certe facoltà. È compito del ricercatore del cervello identificare esattamente quale sia la rete anatomica particolare responsabile di una certa attività – l’identificazione di un viso o di un suono, per esempio – e quale rete nervosa sia responsabile del movimento della mano in una certa direzione o di una certa sensazione. Inoltre, sta a lui capire come siano codificati tali aspetti per mezzo di spikes elettrici che viaggiano sulla rete anatomica identificata. Allora, solo allora, in seguito a una comprensione di tale profondità, sarà dato intervenire in modo intelligente e metodico sulla rete danneggiata, sul codice elettrico danneggiato, e quindi restituire la rete alle proprie funzioni, riparandola. Nel futuro, se il codice etico della società lo permetterà, forse sarà anche possibile ritoccare le possibilità del cervello, migliorarne le prestazioni e farci diventare più creativi, tolleranti e sensibili.
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Input dal cervello alla macchina È possibile per una macchina leggere un ordine che arriva dal cervello e attivare in tempo reale, un arto meccanico? Poiché il codice nervoso si manifesta per mezzo di una serie di spikes nei gruppi di neuroni addetti al movimento della mano, è possibile sviluppare modi di registrare tale attività elettrica da cellule nervose multiple contemporaneamente, capire in tempo reale il significato (il codice) dell’attività elettrica e utilizzare il codice così scoperto per dare istruzioni per attivare una mano meccanica direttamente dal cervello. Oggi è possibile documentare inserendo centinaia di elettrodi fini nel cervello (registrazione elettrica multicanale) l’attività dei neuroni, fino a un numero di mille, in qualsiasi area del cervello, a discrezione del ricercatore. Per far muovere una mano robotica direttamente dal cervello, bisogna innanzitutto identificare l’area del cervello responsabile del movimento della mano. Tale area è stata identificata nel cervello della scimmia (molto somigliante al nostro da svariati punti di vista) e vi sono stati inseriti centinaia di elettrodi per registrare gli impulsi. Ogni elettrodo documenta la serie di spikes elettrici generati dal singolo neurone in quest’area del cervello. L’“intelligenza” del ricercatore consiste nell’individuare l’esatta sequenza registrata da centinaia di elettrodi quando la scimmia muove la mano verso destra e quella di quando la muove verso sinistra. Ogni direzione nel movimento della mano è codificata da una “musica elettrica” diversa. Il successo di tale impresa dipende dallo sviluppo di tecniche matematiche per l’analisi dei segnali elettrici registrati in molti canali diversi. Negli ultimi anni sono state sviluppate tali tecniche e il computer moderno consente di farlo in tempo reale. In un esperimento effettuato, è stata legata la mano a una scimmia e posta una banana di fronte alla stessa. Il cervello del primate ha prodotto impulsi elettrici che avrebbero dovuto far muovere la mano verso il frutto. Tali impulsi sono stati registrati dagli elettrodi impiantati nel cervello e sono stati elaborati da un computer, che quindi ha inviato l’input ai motori della mano robotica di muoversi nella direzione voluta. In seguito, la mano robotica si è mossa e ha afferrato la banana. Il che vuol dire che abbiamo
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avuto successo nel decifrare gli â&#x20AC;&#x153;ordini di movimentoâ&#x20AC;? dati dalla scimmia, direttamente dal suo cervello (Figura 2). Tale balzo in avanti nella ricerca ha implicazioni enormi nel campo della sanitĂ . In un futuro prossimo, saremo in grado di attivare una mano robotica direttamente dal cervello dellâ&#x20AC;&#x2122;amputato o paralizzato (in seguito a un danno alla colonna vertebrale) e quindi permettergli di funzionare. FinchĂŠ il cervello funziona ed è in grado di creare il codice elettrico corretto (cioè le istruzioni appropriate), e assumendo che saremo capaci di decifrare tale codice nervoso, saremo capaci di utilizzarlo per attivare arti artificiali e aiutare il disabile a farli funzionare. Una sfida ancor piĂš grande è cercare di â&#x20AC;&#x153;impiantareâ&#x20AC;? un codice nervoso nel cervello. Per esempio, stimolare direttamente il :;5 J91FB4 JIH1 =9@;I4 =90J4> J5AD@9A =B ); J5BF>01 A cervello, con un certo modello elettrico, e insegnargli che tale 9D<0)J50>> J51;H5>4 J5<5325 J5D@B =91FB J5JIH 5@75>1 J5HF5@ :;5 J91FB4 JIH1 =9@;I4 =90J4> J5AD@9A =B ); J5BF>01 A 198G<5G; J53GDJ> HI05 4AD@9A4 J5BF>01 46< 46 =9H5IG4 =90J modello rappresenta un certo viso. CosĂŹ si potrĂ insegnare la vista 9D<0)J50>> J51;H5>4 J91FB4 4G965>4 J0 JHF99>4 4<532 JH5>6J; J5<5325 J5D@B =91FB J5JIH 5@75>1 J5HF5@ 198G<5G; J53GDJ> HI05 4AD@9A4 J5BF>01 46< 46 =9H5IG4 =90J ai ciechi. Lâ&#x20AC;&#x2122;immagine di un viso sarĂ inserita in un computer che J9<>I7 J5<9BD 094 5@<I =5I9H4 9H9I;> J5BF>01 =905H 5@0I 4> ĂŞ
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stimulation
la tradurrĂ in un modello di stimolo elettrico. Tale modello di stimolo sarĂ iniettato nel cervello di un cieco, che imparerĂ a identificarlo â&#x20AC;&#x201C; processo questo che richiede molte ripetizioni â&#x20AC;&#x201C; come un certo viso e cosĂŹ la sua vista sarĂ recuperata. La ricerca nel campo dellâ&#x20AC;&#x2122;interfaccia da una macchina che produce uno stimolo elettrico al cervello è ancora ai primi passi, ma sono giĂ stati raggiunti i primi successi. Si può controllare il Parkinson? La registrazione elettrica multicanale da zone profonde del cervello (gangli basali) nelle scimmie malate di Parkinson ci ha mostrato che il codice registratovi è molto diverso da quello registrato nella stessa area di cervello delle scimmie sane. Pare che tali aree del cervello nelle scimmie malate tendano a â&#x20AC;&#x153;sparare rafficheâ&#x20AC;? di spikes, anzichĂŠ â&#x20AC;&#x153;sparare a colpo singoloâ&#x20AC;? ma costantemente come succede nelle scimmie sane, e che tali raffiche siano sincronizzate (i neuroni hanno la tendenza a sparare insieme) nel caso delle scimmie malate (Figura 3). La manifestazione di questo codice sbagliato (raffiche ripetute e sincronizzate) è, tra lâ&#x20AC;&#x2122;altro, il tremore tipico del Parkinson. In altre parole, il codice elettrico sbagliato si traduce (i muscoli lo ĂŞ
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Figura 3 â&#x20AC;&#x201C; Controlliamo il Parkinson Registrazione elettrica di una zona profonda del cervello: contrariamente allâ&#x20AC;&#x2122;attivitĂ elettrica normale in questa zona, nei malati di Parkinson lâ&#x20AC;&#x2122;attivitĂ elettrica è disturbata J@>)<B 51 I>JI4< <;5@ 60)50 464 91FB4 35G4 J0 05HG< =9<25A> 5@0 )?>61 7J@< J9@>6)51 =91H 1FB 90J> J064 J9<>I74 J5<9BD4 =5I9H< !! e diventa ritmica (sparo di raffiche di impulsi elettrici una dopo lâ&#x20AC;&#x2122;altra) e sincronizzata 3GDJ< 4;@< H56B<5 =99J5;0<> =9H190 <9BD4< 35G1 I>JI4<5 J9<>I74 J5<9BD4 <I 35G4 J0 J5B>I>4 J0 J>0 tra J5H2< 4>253< 75>1 91FB 35G <9JI4< J5A@< 054 CA5@ <532 H2J0 i neuroni. Nellâ&#x20AC;&#x2122;esempio si registra lâ&#x20AC;&#x2122;attivitĂ 75>4> J5H9I9 8515H4 <I 394 J<BD4< J50H54 JJ< 93; 7@B5DI di tre neuroni contemporaneamente. 56 J9<>I7 J9@1JI 53><<5 J>95A> J9<>I7 J9@1J1 75>4 J0 J5H9I9 J5G3 J535H8G<0 <I J51H J50> JH374 J5BF>01 3BJ< ?J9@ =59; Lâ&#x20AC;&#x2122;impianto di elettrodi, collegati a una batteria, in questâ&#x20AC;&#x2122;area permette di stimolare =9@D4 J@5>J J50H< H559B =30< =5H2< <;5@ :; J5>95A> =9@D J2F99> 1FB 90J C<0; 3B <I J9<>I74 =J5<9BD J0 9F5HB)1H =5I9H 75>< elettricamente lâ&#x20AC;&#x2122;area danneggiata e quindi disturbare il codice elettrico sbagliato del 56 95H92 J9@1J J>95A> J9<>I7 95H92 J9@1J< =2H5JJ5 1I7>< H1B5J J5H9I9 8515H <I 39 B9@4< 93; HG574 JH971 9D)<B 54I<; 75> H5601 J51H J5H67 IH534 :9<4J 4J546< 3><9 HI0 H559B4 <I 575> <0 GH65J H560 394 J<BD4< 90H704 H5604 J0 J546< 4<97J :9HF 75>4> malato di Parkinson e restituirlo a una vita 46normale.
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interpretano) con un tremore negli arti della scimmia malata. È possibile disturbare il codice sbagliato iniettando corrente elettrica direttamente in quest’area del cervello (un “pacemaker cerebrale”) e in tal modo eliminare il tremore del Parkinson? È incredibile vedere quale successo abbia avuto tale idea! Oggi in molti ospedali del mondo si compiono interventi d’impianto di elettrodi nel cervello, per stimolarlo in profondità (deep brain stimulation). Tali elettrodi sono inseriti nell’area appropriata del cervello del malato di Parkinson e pulsazioni corte di scariche elettriche ad alta frequenza sono iniettate tramite gli elettrodi (per mezzo di una batteria impiantata sotto la pelle del malato, come per un pacemaker) (Figura 3). Il tremore da Parkinson e gli altri effetti della malattia spariscono immediatamente dopo l’inizio della stimolazione e il malato è in grado di alzarsi, camminare e vivere molto normalmente. Quando si sospende la stimolazione, ritornano i segni del Parkinson. Sembra che un intervento elettrico appropriato – molto semplice, in questo caso – nella macchina elettrica che è il nostro cervello sia in grado di restituire al cervello il suo funzionamento corretto. Sebbene lo stimolo elettrico non ricrei il codice nervoso che funziona in un cervello sano, tuttavia si crea un disturbo al codice sbagliato che non riesce più a svolgere la propria azione negativa. Plasticità cerebrale: le sinapsi cambiano e “imparano” In grande misura siamo chi siamo per merito della raccolta dei ricordi personali che si sono accumulati nel nostro cervello nel corso della nostra vita. Anche in questo esatto istante, se l’informazione avanzata in quest’articolo è registrata dal nostro cervello, esso cambia e assorbe la nuova informazione. Non è esagerato dire che la forza unica del cervello consiste nella sua capacità molto impressionante di cambiare e imparare continuamente, e quindi di adattarsi (e di conseguenza anche il nostro comportamento) all’ambiente complesso e in continuo cambiamento in cui viviamo. Il peso del nostro cervello non è cresciuto (o si è ridotto) quando pensiamo, ci ricordiamo o impariamo. Il numero di neuroni del nostro cervello non cambia durante l’apprendimento. Tuttavia, qualcosa deve pur cambiare nella rete nervosa perché il nuovo ricordo s’imprima. Già nel 1949 lo psicologo canadese Donald Hebb congetturò che
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il cambiamento fisico nel sistema nervoso collegato all’apprendimento e alla memoria consiste in un cambiamento nell’intensità del legame sinaptico tra i neuroni nella rete. Secondo l’idea di Hebb, quando il neurone A stimola il neurone B (per mezzo del legame sinaptico tra loro) e la cosa è ripetuta diverse volte quando si studia, allora si rafforza il legame sinaptico tra la cellula A e la cellula B. La quantità di legami sinaptici è enorme; quindi, anche se perdiamo una parte dei legami nel corso dello studio di qualcosa di nuovo, non perdiamo completamente il ricordo precedente, l’eccesso di sinapsi ci fornisce un back-up. Nell’ultimo decennio, in seguito allo sviluppo di tecniche di stimolo e di registrazione elettrica in via contemporanea di neuroni legati uno all’altro da legame sinaptico, è stato possibile verificare la congettura di Hebb. Si è verificato che in molti casi si rafforza il legame sinaptico se l’attività elettrica del neurone A causa ripetutamente l’attività elettrica (spikes) del neurone B e che il rafforzamento del legame sinaptico tra i neuroni può durare per molti minuti e persino ore e giorni; poi il legame sinaptico tra i neuroni s’indebolisce (Figura 4). Il rafforzamento della sinapsi si manifesta così: uno spike elettrico del neurone A (la cellula trasmittente) causa una risposta elettrica più forte da parte del neurone B (cellula ricevente). Apparentemente, la sinapsi è un elemento di contatto veramente dinamico (o, nel linguaggio della ricerca cerebrale, “elemento malleabile”) e l’intensità del legame cambia velocemente durante l’attività delle cellule che compongono la rete nervosa. Un cambiamento nella forza di molte sinapsi nella rete durante l’apprendimento e un comportamento di rivitalizzazione permettono il realizzarsi effettivo di nuove reti nervose continuamente. Neuroni in rete che rinforzano il legame tra loro e diventano parte della “compagnia” dell’“orchestra”, con tendenza a operare elettricamente insieme, mentre altri neuroni, i cui legami sinaptici s’indeboliscono, si tagliano fuori effettivamente gli uni dagli altri ed “escono dal gioco” elettrico della rete di cui si parla. La rete efficace che si crea nel processo d’apprendimento di qualcosa di nuovo, diventa responsabile (giacché opera in collettivo) della codificazione di ciò che abbiamo imparato – una faccia nuova, una nuova lettera (nel bambino che impara a leggere) e via dicendo.
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Figura 4 â&#x20AC;&#x201C; La base nervosa (neurologica) dellâ&#x20AC;&#x2122;apprendimento La teoria sullâ&#x20AC;&#x2122;apprendimento di Hebb sostiene che quando il neurone A è collegato al neurone B, per mezzo della sinapsi (che è un collegamento unidirezionale), lâ&#x20AC;&#x2122;intensitĂ della trasmissione tra i neuroni aumenta quando il neurone A spara un certo numero di scariche elettriche (spikes) prima che il neurone B spari uno spike (rafforzamento della zona verde, C), lâ&#x20AC;&#x2122;intensitĂ della trasmissione sinaptica diminuisce quando il neurone B spara uno spike prima del neurone A (zona rossa). Negli ultimi anni si è compreso che, nel momento in cui si apprende qualcosa, si creano anche nuove sinapsi (e non solo che si rafforzano o indeboliscono quelle esistenti) e ciò grazie al microscopio a fotoni (B) che permette di vedere nel cervello vivente in attivitĂ una singola sinapsi in azione giorno dopo giorno. Si è scoperto che un neurone che non ha generato una sinapsi con un neurone vicino (freccia rossa, D) può creare una nuova sinapsi quando lâ&#x20AC;&#x2122;animale impara (freccia verde, D).
Un gran balzo in avanti nella nostra capacitĂ di comprendere che cosa avvenga in un cervello vivente si verificò alcuni anni addietro con lo sviluppo di un nuovo microscopio laser che funziona in combinazione con metodi genetici per la colorazione di neuroni con colori fluorescenti. Con sorpresa dei ricercatori, si scoprĂŹ che il legame sinaptico (originato nel neurone A) ha tendenza a volte a spostarsi e a stabilire un legame nuovo con un neurone con cui non era legato in precedenza e che il cambiamento di circuito elettrico sinaptico, cioè lo stabilirsi di connessioni sinaptiche nuove â&#x20AC;&#x201C; e non solo il cambiamento dâ&#x20AC;&#x2122;intensitĂ dei collegamenti sinaptici preesistenti â&#x20AC;&#x201C; è anchâ&#x20AC;&#x2122;esso legato ai processi dâ&#x20AC;&#x2122;apprendimento e memoria del nostro cervello. Apparentemente, si realizzano connessioni sinaptiche nuove di continuo, mentre altre spariscono,
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in modo che il numero totale delle connessioni sinaptiche rimane quasi costante. Dunque, nel nostro cervello si creano costantemente delle reti nervose nuove, sia per i cambiamenti d’intensità nei legami, sia per lo stabilirsene di nuovi (Figura 4). Questo fatto ci permette di imparare, ricordare, dimenticare, sentirsi diversamente e cambiare. Il tutto per merito dell’enorme malleabilità della rete sinaptica che collega i neuroni del nostro cervello. La sinapsi è un’unità di collegamento a senso unico: dal neurone A al neurone B e non viceversa. La mancanza di simmetria è responsabile del fatto che l’attività del neurone A aumenta le possibilità del neurone B di attivarsi, ma non il contrario. Il neurone B è collegato al neurone C, e così via. Il progetto Blue Brain Immaginiamo che un marziano arrivi sulla terra e cerchi di capire come funziona un personal computer. Controllerà l’hardware, il materiale, verificherà l’attività elettrica (la situazione dello scambio d’informazione e i processori) in una situazione d’input prestabilito e si concentrerà sul lavoro del computer attraverso l’output sullo schermo. Tuttavia, per capire ciò che fa veramente il computer, deve conoscere la teoria matematica che ne sta alla base. Il marziano dovrà capire che cosa rappresentino i numeri “0” e “1” e quali calcoli si possano eseguire con le serie complesse di tali numeri. Anche se ci mettessero davanti alla descrizione esatta della macchina-cervello e conoscessimo interamente le sue componenti strutturali e i collegamenti tra di esse, comprese le leggi che regolano i cambiamenti nelle reti nervose, e riuscissimo perfino a registrare l’attività elettrochimica di tutte le cellule in qualsiasi situazione di attività, dovremmo tuttavia ancora comprendere il principio matematico che unisce il livello strutturale (anatomico) ed elettrico (le serie di spikes dei neuroni) nel comportamento. Come si realizza il comportamento, la coscienza o il pensiero, da una serie di bits elettrochimici in una certa rete nervosa? Il ricercatore del cervello ha bisogno urgente di tale teoria matematica; i migliori cervelli al mondo stanno quindi lavorando allo sviluppo urgente di tale teoria, in un terreno di ricerca nuovo chiamato “calcolo neurologico”. Il progetto Blue Brain è un approccio possibile ed eccitante in tale direzione.
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L’obiettivo del progetto Blue Brain è semplice da capire, ma sembra fantascientifico: uno sforzo internazionale, globale, nella ricerca sull’attività cerebrale per mezzo di un supercomputer, la cui potenza, continuamente crescente, permetterà in un futuro non lontano d’imitare l’attività di un intero cervello per mezzo di computer. I migliori ricercatori cercano di raggiungere due obiettivi in questo progetto: il primo è la creazione di un database chiaro e accessibile a tutti gli scienziati per avanzare verso la comprensione del cervello; il secondo è la costruzione di un modello matematico del cervello, che sia utilizzabile dai computer e imiti il funzionamento del cervello. Il primo stadio è la costruzione di un modello di computer dettagliato e preciso, basato sulle conoscenze anatomiche e fisiologiche della rete neuronica della corteccia cerebrale nei mammiferi, raggiunte negli ultimi cent’anni. La corteccia cerebrale dei mammiferi (topo, gatto, cane, uomo) è fatta di reti nervose organizzate in un complesso di colonne vicine l’una all’altra, ogni colonna comprende tra 10.000 e 100.000 neuroni circa (con circa venti miliardi di collegamenti sinaptici tra loro). Nella corteccia cerebrale umana ci sono circa un milione di tali colonne. Una colonna, il cui volume è 1 millimetro cubo, è l’unità nervosa funzionale: per esempio, nella parte posteriore, dentro il nostro cranio, è situato il nostro sistema visivo primario (V1). Ogni colonna corticale rappresenta una certa prospettiva (a 90 gradi, a 45 gradi ecc.). Quando guardiamo un tronco d’albero in una foresta, “si accende” la colonna responsabile della prospettiva a 90 gradi e noi sappiamo che l’albero è piantato nel terreno (contrariamente all’albero caduto, situazione in cui si “accenderebbe” la colonna che reagisce a un oggetto a 180 gradi). Nel progetto Blue Brain ogni neurone è rappresentato attraverso un modello matematico, che è già stato sviluppato e la cui soluzione rappresenta l’attività elettrica – lo “sparo di raffiche” di spikes – del neurone stesso. I legami tra le cellule del modello rappresentano le sinapsi (malleabili) che collegano le cellule della colonna e anche queste sinapsi hanno una rappresentazione matematica appropriata. Grazie al supercomputer Blue Gene dell’IBM che si trova a Losanna ed è composto da circa 10.000 processori collegati l’uno
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all’altro – potenza eccezionale – possiamo già oggi rappresentare una colonna di 10.000 neuroni in modo completo. È il frutto della cooperazione di un gruppo di ricercatori – anatomisti, fisiologi, esperti di calcolo neurologico e di grafica computerizzata che lavorano in vari Paesi – Svizzera, Germania, Israele e Stati Uniti – e che sono riusciti a costruire, durante l’anno appena trascorso, il modello di una piccola sezione cerebrale che imita l’attività di una colonna. Tale viaggio computerizzato verso il cervello dei mammiferi, ci dimostra che è possibile descrivere e capire come si organizza l’attività elettrica di una colonna corticale di circa 10.000 neuroni e circa 10.000.000.000 di connessioni sinaptiche. Nel modello computerizzato è possibile controllare come si generano le diverse componenti della rete (le loro qualità elettriche, la velocità del segnale nervoso nelle fibre nervose, le caratteristiche del legame sinaptico ecc.) e l’attività collettiva delle rete nervosa. Il modello neuronico ci permetterà anche di verificare, con l’accumulazione di conoscenze che oggi ci mancano, quale sia la causa della differente reazione elettrica di una colonna corticale del cervello di un topo, per esempio, rispetto a quella del cervello di un gatto. Potremo anche cominciare a verificare come i piccoli cambiamenti in un cervello malato (schizofrenico, autistico) influenzino l’attività complessiva della rete nervosa rispetto a un cervello sano. Potremo anche porci la domanda per noi più importante di tutte: che cosa causa le differenze tra un individuo e l’altro? In che modo, in seguito a certe esperienze, si generano nel cervello umano non artificiale aree diverse che permettono comportamenti diversi e caratteristici a ogni individuo? Implicazioni etiche Il progresso nella comprensione della base fisico-biologica del cervello e la costruzione di un modello computerizzato di attività permetteranno di arrivare a una nuova intuizione e comprensione sulla relazione tra “materia” e “spirito”, sulla questione del “libero arbitrio”, sulla coscienza e consapevolezza (consciousness) e su una serie di questioni che hanno a che fare con il significato dell’uomo e la sua unicità in natura. Nel XXI secolo il ricercatore del cervello osa avvalersi di strumenti scientifici per porre domande che in passato erano appannaggio esclusivo dei filosofi.
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Un forte legame tra ricercatore del cervello e filosofo può essere veramente fruttuoso. Già oggi vi sono neurofilosofi che combinano e integrano le due discipline e producono teorie molto interessanti. Una possibile questione è: le macchine che costruiamo (come nell’ambito del Blue Brain o dei computer in generale) hanno una coscienza e consapevolezza? E da quale momento possiamo definire una macchina come pensante o consapevole? Il moderno ricercatore del cervello già tocca, non intenzionalmente, la questione del “libero arbitrio”. Si chiede se una macchina fisica come il cervello possa scegliere in ogni momento e liberamente (non in modo casuale o probabilistico e non nel modo prevedibile) tra un certo numero di opzioni differenti (girare a destra o a sinistra, continuare o non continuare a leggere quanto scritto qui). A questo riguardo, immaginiamo che si riesca a produrre, nel progetto Blue Brain, un modello computerizzato di cervello completamente identico per capacità e modus operandi a un cervello vero. Tale computer comincerà ad agire con una volontà propria? Con una consapevolezza propria? È possibile che da un certo momento non sia più possibile predire come si comporterà? Le ricerche più avanzate sul cervello fanno sorgere molti punti interrogativi sulla questione dei limiti al nostro libero arbitrio. Apparentemente, le analisi ottiche o elettriche del cervello umano permettono al ricercatore che osserva l’attività cerebrale di predire con una grande precisione ciò che farà la persona (quale pulsante premerà: il destro o il sinistro), alcuni secondi prima che la persona stessa sia consapevole (cioè in grado di dirlo) di quale sarà la sua decisione. Per così dire, “il cervello” prende una certa decisione e “noi”, i padroni del cervello, non ne siamo ancora consapevoli. Il ricercatore sul cervello che osserva da fuori il processo decisionale può dire in anticipo quale sarà la decisione. Quindi, qual è il significato del nostro essere liberi di scegliere? E chi sceglie? Tali ricerche suggeriscono che la sensazione di libertà di scelta che abbiamo sviluppato, molto importante per la sensazione che abbiamo del nostro “io”, non è che una storia che il cervello si racconta post factum, a posteriori, dopo che la decisione è già stata presa (il tutto per mezzo di una rete nervosa specifica responsabile della sensazione soggettiva di “libero arbitrio”). I risultati di tali ricerche sono ancora sotto esame, in discussione
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e presentano dubbi; ma sin da adesso è chiaro che, se non siamo liberi di scegliere nel senso pieno della parola, ci saranno conseguenze profonde sulle questioni morali più pesanti – come la questione della responsabilità personale, dell’ordine sociale e generale, della legge e della giustizia. Come nella ricerca genetica, anche nella ricerca sul cervello vi sono questioni etiche e filosofiche nuove. Quali sono i limiti d’intervento in questa macchina che siamo “noi”? Pochi si oppongono all’intervento quando la macchina si guasta – come nel morbo di Parkinson, per esempio. Tuttavia, saremmo d’accordo a intervenire chirurgicamente o chimicamente per ritoccarne il funzionamento e le capacità? E se sì, secondo quali parametri e con quali livelli d’intervento? Ultimamente, durante una mia lezione, una donna mi ha interpellato e mi ha raccontato che entrambi i suoi genitori erano molto creativi, mentre lei non lo è, il che le crea una grande sofferenza. Mi ha chiesto d’intervenire sul suo cervello, di cambiarle i collegamenti nelle reti neuroniche e di modificarle in tal modo le capacità creative. Un tale intervento scientifico in futuro non sarà fantascienza. Non capiamo ancora quale sia la base cerebrobiologica della creatività. Ma quando lo capiremo, sarà giusto migliorare il nostro cervello e farlo diventare, chirurgicamente o chimicamente, più creativo? Lo studio di un computer che simuli un cervello ci permetterà anche di capire se sia possibile “leggere nel pensiero”. Già oggi siamo in grado di leggere il “pensiero del movimento” di una scimmia che muove la mano di un robot direttamente col proprio cervello. Forse nel futuro sarà possibile sviluppare “poligrafi cerebrali” di fronte ai quali saremo come un libro aperto. La società – il filosofo, l’artista, il politico, lo scienziato, il giurista – avrà la responsabilità di verificare le conseguenze di tali ricerche sulla strada – particolarmente eccitante – che percorreranno le nostre vite in un futuro che si avvicina con gran velocità. La conoscenza sul cervello si estende e si approfondisce a un ritmo impressionante. Rimangono tuttavia le questioni fondamentali. Il mistero più grande, la questione più aperta di tutte, è come si traduca in fin dei conti l’attività nervosa del nostro cervello nell’esperienza individuale, specifica – l’amore, l’odio, la sensazione di dolore, la gioia alla vista di un volto conosciuto, l’etica.
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Forse non c’è bisogno di sperare che la scienza moderna, pur così capace, spieghi in chiave scientifica tutte queste cose, anche se è possibile che il cervello artificiale che costruiremo nel futuro senta esattamente le stesse sensazioni. Anche allora la frase di Albert Einstein rimarrà valida: “Sarebbe possibile descrivere tutto in termini scientifici, ma non avrebbe senso e sarebbe insignificante come descrivere una sinfonia di Beethoven come variazioni d’onde di pressione”. Idan Segev Professore di Neuroscienze Computazionali ELSC Università di Gerusalemme (traduzione dal testo originale ebraico: Segio HaDaR Tezza)
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Fotografare il cervello mentre pensa
“Valendomi del metodo, da me trovato, della colorazione nera degli elementi del cervello, (…) mi fu dato scoprire, intorno alla struttura della sostanza grigia cerebrale, alcuni fatti che credo meritevoli di esser tosto comunicati.” Camillo Golgi, 1873, “Gazzetta Medica Italiana” (Lombardia, n. 33, p. 244) Nel 1873, Camillo Golgi diede colore al cervello umano per la prima volta. Un colore scuro, nerastro, che gli permise di vedere nel loro intero gli atomi del nostro cervello: i neuroni. Ed è grazie ai neuroni che possiamo vedere il mondo che ci circonda, correre, ricordare, sognare e pensare al futuro. Quella di Golgi fu una scoperta sensazionale, che rivoluzionò la nostra comprensione del cervello e segnò un momento cruciale di una delle più grandi avventure scientifiche dell’uomo: capire il proprio cervello e così capire se stesso. Ma come si studia il cervello? Come si fa a capire come miliardi di neuroni possano trasformare vibrazioni dell’aria nella nostra canzone preferita o come onde elettromagnetiche diventino la luce e i colori di un film? Cosa succede la sera quando ci addormentiamo, come fa il nostro cervello a produrre i sogni? E come fa il cervello a farci sentire felici, innamorati o tristi? Molte di queste domande, a oggi, sono senza risposta, ma è grazie all’intuizione di Golgi e alle tecnologie di neuroimmagine che stiamo cominciando a capire come funziona il nostro cervello. Quando Golgi era uno studente, esistevano due modi principali di studiare il cervello. Il primo era quello di studiare cervelli post mortem, asportandoli da defunti che donavano il proprio corpo alla ricerca. Questa tecnica permetteva di osservare il cervello molto attentamente, di studiarne l’aspetto, l’anatomia e, sezionandolo, di scoprine la composizione interiore (Figura 1). Allo stesso tempo, però, questa tecnica non consente di studiare il funzionamento del cervello. Il secondo metodo è quello di studiare
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il funzionamento del cervello osservando come traumi cerebrali causati da incidenti modifichino il comportamento delle persone. Nel 1848, ad esempio, un giovane operaio di nome Phineas Gage fu coinvolto in un terribile incidente in un cantiere ferroviario. A causa di un’esplosione improvvisa un tubo colpì il giovane in viso, penetrando la scatola cranica da sotto uno zigomo e uscendone poco sopra la fronte. Phineas sopravvisse all’incidente, ma dopo pochi giorni diventò evidente che “non era più se stesso”, come disse un collega di lavoro. Da persona pacata, intelligente e rispettata, divenne improvvisamente impulsivo, inaffidabile e dedito al gioco d’azzardo. È proprio da queste osservazioni che si capì che la parte anteriore e inferiore del cervello è importante nel determinare la nostra personalità. Queste osservazioni, però, anche se ci danno alcuni indizi su come funzioni il cervello, non sono veri esperimenti e consentono solo di trarre conclusioni molto generali su quale zona cerebrale sia importante per una data funzione.
Figura 1
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Figura 2 – L’elettroencefalogramma misura le oscillazioni di piccoli campi magnetici che si creano quando le cellule neurali mandano “messaggi” ad altre cellule.
Una finestra sulla mente: le tecniche di neuroimmagine funzionale Oggi, grazie alle moderne tecnologie di neuroimmagine, possiamo studiare il cervello umano in grande dettaglio senza doverlo rimuovere dalla scatola cranica. In più, potendolo osservare mentre è ancora “in uso”, possiamo fotografarlo quando pensa, ricorda, legge e sogna, studiandone quindi il funzionamento in vivo. Oggi esistono molte tecniche per studiare il cervello, ma ce ne sono due particolarmente diffuse: l’elettroencefalogramma, noto anche come EEG, e la risonanza magnetica funzionale, o RMF. La tecnica dell’EEG utilizza un piccolo casco all’interno del quale 64 o 128 elettrodi misurano la presenza di piccoli campi magnetici che si creano quando le cellule neurali si attivano. Quando un neurone comunica con altre cellule, lo fa creando piccoli impulsi elettrici, come piccole scosse, che a loro volta innescano dei segnali chimici che si propagano da una cellula all’altra. L’elettroencefalogramma può quindi rilevare la frequenza alla quale questi campi magnetici si creano (Figura 2). Così, se registrassimo l’elettroencefalogramma di una persona mentre sta guardando delle immagini, vedremmo che la parte posteriore del cervello mostre-
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Figura 3 – Esempi di elettroencefalogramma durante la veglia, la veglia rilassata, la sonnolenza, il sonno ed il sonno profondo.
rebbe un aumento della frequenza di questi campi magnetici. Infatti, la parte posteriore del cervello, il cosiddetto lobo occipitale, è uno dei centri più importanti per la vista. L’EEG ci dà quindi la possibilità di vedere il nostro cervello mentre lavora. L’elettroencefalogramma è uno strumento prezioso per capire come miliardi di neuroni lavorino tutti assieme per creare la nostra esperienza. Uno dei campi in cui l’EEG è molto usato è lo studio di uno degli aspetti più misteriosi della nostra mente: i sogni. Se il lettore avesse un caschetto EEG in testa in questo momento, mentre legge questa frase, potremmo osservare che i campi magnetici creati dalle cellule neurali nei centri del linguaggio, in genere nell’emisfero sinistro del cervello, oscillano molto velocemente, da 12 a più di 100 volte al secondo (cosiddetta frequenza gamma), segno che il cervello sta compiendo una funzione specifica. Allo stesso tempo, le zone del cervello che non sono deputate alla lettura, non mostrerebbero lo stesso tipo di oscillazioni. Così, se potessimo vedere il tracciato EEG del lettore in questo momento, assomiglierebbe a quello raffigurato nella prima riga della Figura 3: una linea con segmenti piccoli e molto irregolari. Se il lettore poi chiudesse gli occhi ed entrasse in uno stato di veglia rilassata, i neuroni comincerebbero a oscillare in sincronia, come raffigurato nella seconda riga della Figura 3, a una frequenza leggermente inferiore, cioè la frequenza alfa (da 8 a circa 12 volte al secondo). Quando poi subentra la fase di sonno vero e proprio, i ritmi neurali rallentano nuovamente e si sincronizzano ancora di più, creando le cosiddette onde theta
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e delta, tipiche delle fasi di sonno e sonno profondo (Figura 3, ultime 3 righe). È a questo punto che, quando entriamo nella fase di sonno R.E.M., la fase in cui spesso facciamo sogni molto vividi, il nostro cervello d’improvviso sembra svegliarsi – anche se in realtà stiamo dormendo. Eppure, durante il sonno R.E.M., il tracciato EEG è più simile al tracciato di una persona sveglia che una persona in sonno profondo; per questo il sonno R.E.M. è spesso chiamato sonno paradossale. La tecnica della risonanza magnetica funzionale si basa su un principio molto diverso: per poter funzionare, le cellule neurali hanno bisogno di energia. Infatti, mentre il cervello di un adulto rappresenta solo il 5% del peso del corpo, consuma più del 20% del fabbisogno energetico giornaliero. Così, ad esempio, mentre state leggendo questa frase, i neuroni nei centri del linguaggio nel vostro cervello hanno bisogno di più energia per poter funzionare, cioè hanno bisogno di ricevere quantità maggiori di ossigeno e glucosio attraverso il sistema vascolare. La macchina di risonanza magnetica riesce a creare un campo magnetico oltre 30 mila volte più forte del campo gravitazionale della terra e, sfruttando le proprietà magnetiche delle cellule di emoglobina nel sangue, ci consente di capire quali parti del cervello in un determinato momento stiano ricevendo più ossigeno, cioè quali parti del cervello siano più “attive”. La RMF, più di qualsiasi altra tecnica oggi, viene usata per capire quali parti del cervello siano attivate per vedere, ricordare e pensare. Ed è proprio la risonanza magnetica che, più di ogni altra tecnica oggi, dà colore ai nostri pensieri, come fece Golgi più di un secolo fa. Infatti, nella ricerca scientifica, è normale mostrare il risultato delle analisi di RMF come colori sovrapposti su un’immagine del cervello. Ad esempio, se potessimo guardare con la RMF nel vostro cervello mentre leggete queste righe, vedremmo, come nella Figura 4, che i centri visivi nella parte posteriore del vostro cervello hanno bisogno – relativamente – di più ossigeno (così come i vostri centri del linguaggio che vi permettono di capire il senso delle parole scritte su questa pagina). Con la RMF oggi si può fare ancora di più: si possono “vedere” i pensieri di una persona. Chiudete gli occhi (prima finite di leggere il paragrafo!) e immaginate di essere su un campo da tennis. Immaginate di avere con voi una racchetta e di essere al centro del campo che giocate con un amico. Concentratevi bene
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Figura 4 – Immagine di risonanza magnetica mentre una persona sta guardando un’immagine. I colori rosso e giallo indicano le parti del cervello, qui i centri della vista nel lobo occipitale, che necessitano di un aumento di energia.
sul movimento immaginario delle vostre braccia. Se foste in una macchina di risonanza magnetica, quello che vedremmo è che una zona nella parte centrale del vostro cervello, la cosiddetta area motoria supplementare (Figura 5), diventa molto “attiva,” cioè richiede molto ossigeno. Questa parte del cervello è importante per eseguire sequenze motorie complesse e sarebbe attiva anche se steste giocando a tennis veramente. Ora, immaginate di Figura 5 – Area del cervello (in arancione) che richiede più metabolismo quando una persona immagina di giocare a tennis.
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Figura 6 – Area del cervello (in azzurro) che richiede più metabolismo quando una persona immagina di camminare in luoghi che conosce.
camminare dal centro della città dove vivete fino a casa vostra. Immaginate tutto ciò che vedreste intorno a voi. Se potessimo guardare nel vostro cervello in questo momento, vedremmo che una parte molto diversa, il cosiddetto giro paraippocampale, una parte del cervello che ha a che fare con la memoria di luoghi che conosciamo, è molto attivo (Figura 6). Certo, queste tecnologie sono ancora abbastanza giovani e non ci permettono di capire se state immaginando un diritto o un rovescio o in quale luogo state immaginando di essere; ciononostante ci offrono un modo per cominciare a studiare la nostra mente. Oggi, le tecniche di neuroimmagine in vivo ci offrono una vera e propria finestra sul funzionamento del nostro cervello, aiutandoci a capire come più di cento bilioni di neuroni riescano, collettivamente, a creare i nostri pensieri, le nostre sensazioni e i nostri sentimenti – cioè quei tratti che definiscono chi siamo. Più di cento anni dopo il lavoro seminale di Golgi e molti altri neuroscienziati, il cervello umano è ancora un mistero irrisolto, ma grazie alle moderne tecniche di neuroimmagine siamo un passo più vicini a capire chi siamo. Martin Monti Professore di Neuroscienze Cognitive University of California di Los Angeles
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I vegetariani sono più empatici
Cosa succede nel nostro cervello quando muoviamo una mano, quando vediamo un bel paesaggio o quando pensiamo? Oggi le nuove tecniche di imaging funzionale permettono ai neuroscienziati di darci qualche informazione in più e di identificare le aree del cervello coinvolte in una determinata funzione (ad esempio, il movimento, la vista, le emozioni ecc.), la sequenza di attivazione delle aree coinvolte in un compito e che cosa succede sul funzionamento di questo aree quando ci troviamo di fronte a una patologia del sistema nervoso centrale, sia in ambito neurologico che psichiatrico. Elaborate da un computer, queste informazioni possono dare un’immagine degli organi esplorati dalla macchina. Si tratta di un esame con il grande pregio di non essere invasivo. Inoltre, i tessuti molli, come quelli del cervello e del midollo spinale, mentre sfuggono alle indagini con i raggi X, sono particolarmente adatti a essere studiati con la risonanza magnetica funzionale (RMF). Ci soffermeremo su alcuni esempi che negli ultimi anni hanno affascinato i ricercatori, la scoperta dei neuroni a specchio e la correlazione tra attività cerebrale e scelte alimentari. Neuroni a specchio I neuroni a specchio (mirror) sono un particolare tipo di neuroni che si attivano sia quando un individuo compie un’azione sia quando un individuo osserva un’azione eseguita da un altro individuo. Esistono molte ipotesi circa il ruolo di questo sistema di neuroni: comprensione dell’azione, facilitazione motoria e imitazione, comprensione dell’intenzione dell’azione, empatia e ruolo nello sviluppo del linguaggio. Questi neuroni speciali sono stati identificati direttamente negli animali come le scimmie, ma nell’uomo per lungo tempo se ne è solo postulata l’esistenza. I ricercatori sono stati in grado di identificare le aree del cervello in cui sono presenti neuroni a specchio anche nell’uomo proprio tramite studi di RMF. Un compito che facilmente attiva questi neuroni è la visione di una mano che compie un’azione, ad
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esempio una mano che afferra una mela. Le aree identificate e risultate omologhe nelle scimmie sono tre: la prima si localizza nel solco temporale superiore e la seconda nella parte rostrale del lobulo parietale inferiore e l’ultima nella corteccia frontale inferiore. Di rilievo è il fatto che questi neuroni sono risultati essere coinvolti non solo nell’apprendimento di un compito motorio e delle sue finalità, ma anche nei processi di empatia e condivisione di esperienze e sentimenti tra soggetti diversi. Empatia e scelte alimentari Vegetariani (coloro che non si cibano di carne e pesce, ma fanno uso di latte, uova e derivati) e vegani (coloro che non utilizzano alcun prodotto di origine animale) hanno una diversa empatia verso la sofferenza umana e animale rispetto a individui onnivori. Recentemente è stato dimostrato che l’attività encefalica degli individui che hanno deciso di escludere dalla loro dieta (in parte o completamente) l’utilizzo di derivati animali per ragioni etiche è modulata in seguito all’osservazione di scene di sofferenza umana o animale in maniera differente da quanto accade in chi non ha compiuto tale scelta. Gli autori dello studio hanno utilizzato la RMF per studiare 20 soggetti onnivori, 19 vegetariani e 21 vegani durante la visione di immagini di esseri umani o animali in situazioni di sofferenza estrema (mutilazioni, uccisioni, torture ecc.) alternate a paesaggi naturali. Rispetto a soggetti onnivori, vegetariani e vegani presentano una maggiore attivazione di aree del lobo frontale coinvolte nell’empatia quando osservano tali scene di sofferenza, indipendentemente dal fatto che queste prevedano il coinvolgimento di umani o di animali. Di rilievo è anche il fatto che l’attivazione di queste aree è maggiore nei vegetariani e vegani quando osservano scene di sofferenza animale piuttosto che umana. Lo studio ha inoltre evidenziato alcune differenze fondamentali tra vegetariani e vegani. Quando si trovano dinanzi a scene di sofferenza animale, i vegetariani presentano una maggiore attivazione del cingolo anteriore, mentre i vegani attivano maggiormente il giro frontale inferiore, bilateralmente. Il cingolo ha un ruolo importante nel determinare un corretto comportamento sociale. Il giro frontale inferiore è invece coinvolto in processi inibitori durante stimolazioni cognitive ed emotive. Questi risultati indicano la presenza di una maggiore risposta empatica alla
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Attivazioni correlate al movimento della destra in un soggetto sano
Anteriore
Anteriore
Lato destro
Area mano corteccia motoria
Lato destro
Lato sinistro
Area mano corteccia motoria
Lato sinistro
Attivazioni correlate al movimento della mano destra in un paziente con sclerosi multipla
Area mano corteccia motoria Cervelletto
Posteriore
Figura 1A – Attivazioni correlate al movimento della mano destra in un soggetto sano.
Cervelletto
Posteriore
Figura 1B – Attivazioni correlate al movimento della mano destra in un paziente con sclerosi multipla.
sofferenza intra e inter specifica in soggetti vegetariani e vegani rispetto a individui onnivori e suggeriscono che alle loro preferenze alimentari e alle loro attitudini morali corrispondono differenti attività di varie reti neurali. Riorganizzazione corticale in corso di patologia neurologica Cosa succede, invece, in un cervello in corso di una malattia neurologica? Il cervello ha la possibilità di compensare lesioni o danni cerebrali con meccanismi specifici? La “neuroplasticità” si basa fondamentalmente su due processi: la riorganizzazione funzionale dei circuiti neuronali e il riarrangiamento strutturale dei circuiti stessi. Nel caso della riorganizzazione funzionale il recupero è da attribuire a strutture integre che assolvono a nuove funzioni normalmente non di loro pertinenza senza che per questo esse siano costrette ad abbandonare le funzioni che fino a quel momento avevano normalmente svolto. Il riarrangiamento strutturale consiste, invece, in quei processi di ricostituzione anatomica dei circuiti stessi nei punti in cui essi erano stati interrotti dalla causa lesiva. Ad esempio, nei pazienti con sclerosi multipla numerosi studi di RMF, basati nella maggior parte dei casi sull’esecuzione di un compito motorio semplice con la mano destra (compito di flessione ed estensione della stessa) hanno evidenziato un aumentato reclutamento non solo della corteccia
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motoria primaria controlaterale, ma anche di altre regioni del cervello facenti parte di un complesso network sensitivo e motorio, tra cui la corteccia motoria primaria omolaterale, la corteccia somatosensitiva secondaria e varie regioni localizzate nei lobi frontale e parietale (Figura 1). Un maggiore reclutamento di aree cerebrali permette, nelle fasi iniziali di malattia, di superare i deficit clinici conseguenti al danno cerebrale, mentre nelle fasi più avanzate questo meccanismo fallirebbe e anzi potrebbe persino peggiorare la situazione clinica del paziente. Anche nei pazienti con ictus cerebrale in fase subacuta è emerso come esista un’attivazione preferenziale di strutture specifiche dell’encefalo, che sono le seguenti: – riorganizzazione omolaterale all’area peri-infartuale, con shift anteriore o posteriore della mappa motoria e aumento dell’estensione dell’attivazione nell’area motoria lesa; – disinibizione dell’emisfero controlaterale alla lesione, con attivazione bilaterale delle aree motorie; – incremento dell’attività delle aree motorie primarie e secondarie. Questi aspetti non sono solo speculativi, ma hanno anche l’ambizione di collaborare e contribuire a sviluppare nuovi approcci fisioterapici. Maria Assunta Rocca Unità di Ricerca di Neuroimaging, Istituto di Neurologia Sperimentale (INSpe), Divisione di Neuroscienze, Istituto Scientifico Universitario San Raffaele di Milano
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Perché i fachiri non sentono il dolore
Il dolore è necessario. Se inavvertitamente poggiamo la mano su un oggetto potenzialmente lesivo, dalla puntina da disegno alla piastra rovente, il sistema avvia la pronta retrazione dell’arto, cercando di evitare o minimizzare i danni. Se abbiamo una caviglia lussata, il sistema ci impedisce di caricarci il peso. Se sentiamo un dolore in qualche parte del corpo, andiamo dal dottore, non solo per alleviare il dolore, ma anche perché ci siamo messi in allerta e vogliamo sapere di che si tratta. In effetti, il dolore è il più delle volte l’inizitore, il primum movens del percorso diagnostico ed è utilissimo ai medici. Il dolore insomma è l’aspetto negativo di un sistema sensitivo indispensabile alla vita, detto in termini tecnici sistema nocicettivo, dal latino noxa e noc!re. I bambini con difetti congeniti della trasmissione o elaborazione percettiva dei segnali dolorifici (analgesia congenita) vanno incontro a una serie di lesioni di cui non si accorgono, sempre più gravi. Crescendo, possono riconoscere il pericolo attraverso l’educazione e l’esperienza, ma, senza l’allarme dato dal dolore, molte malattie possono evolvere senza che siano combattute per tempo, in una spirale che spesso può arrivare a conseguenze estreme. Come funziona il sistema nocicettivo? In tutto il corpo, sulla pelle, nei muscoli, nelle articolazioni, nelle ossa, nella maggior parte dei visceri, disponiamo di organelli detti nocicettori, che sorvegliano e rilevano le perturbazioni all’intorno, segnalando il rischio di danni. Dai nocicettori periferici i segnali vengono convogliati, attraverso i nervi, al midollo spinale. Nel midollo spinale attivano sia azioni immediate (i riflessi di difesa), sia alcuni fasci ascendenti, che devono trasportare l’informazione al cervello. I fasci ascendenti sono di due tipi, uno più moderno e uno più antico, nel senso che uno si è sviluppato in stadi più recenti dell’evoluzione, l’altro l’abbiamo ereditato dagli animali inferiori. Il sistema moderno è rapido e preciso, termina su aree molto specifiche della corteccia cerebrale. Si occupa degli aspetti “sensori-discriminativi” del dolore. In altre parole, ci dice “quanto e dove”: per
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esempio, piccola puntura sul polpastrello del dito indice. Questo tipo di percezione, detta nocicezione, non è ancora il dolore. Per avvertire quello che tutti chiamiamo dolore occorre che al cervello arrivino anche i segnali trasmessi dal sistema più antico. Questo secondo sistema è molto più lento e impreciso e raggiunge strutture cerebrali profonde e centrali, tra cui l’insula e il giro del cingolo, che si occupano degli aspetti “affettivo-motivazionali” del dolore. Entrambi i sistemi interagiscono con le aree corticali associative. È per questa ragione che, a parità di intensità dei segnali provenienti dalla periferia e cioè dell’effettivo rischio di danno, il dolore può essere variabilmente percepito. La percezione è influenzata da fattori individuali stabili, come il carattere e l’educazione, e contingenti, come la preoccupazione, l’ansia o il tono dell’umore di quel momento. Un famoso psicologo americano, al tempo in cui gli aerei si raggiungevano a piedi e poi si saliva sulla scaletta, aveva notato che quando un bambino inciampava e cadeva, guardava immediatamente verso la madre. Se la madre, con un sorriso, lo invitava ad affrettarsi e continuava a salire, il bambino si alzava e la raggiungeva, come se nulla fosse stato. Se la madre lo guardava preoccupata e accorreva in soccorso, allora si scatenavano pianti e urla. È noto che se ci si sveglia con un po’ di mal di testa molto dipende da quel che ci attende. Se è domenica mattina e decidiamo di restare a letto a vedere come va, sicuramente il mal di testa aumenta. Se invece avevamo un impegno urgente, magari una questione che ci coinvolge mentalmente e che riteniamo davvero importante, il mal di testa lo avvertiamo molto meno. Ma come fa il cervello a farci sentire il dolore di più o di meno? Il cervello sensoriale riceve talmente tanti segnali che, se dedicasse la stessa “attenzione” a tutti, non riuscirebbe più a lavorare. Deve continuamente selezionare che cosa è prioritario e cosa no. Ci riesce per mezzo di un controllo discendente che filtra i segnali in ingresso, potenziandoli o attenuandoli. Nel caso del dolore questo sistema di controllo discendente è particolarmente potente. Se ci troviamo di fronte a un dolore nuovo, acuto e da cui ci possiamo sottrarre – se, per esempio, camminando a piedi nudi finiamo su un pezzo di vetro – tutti i canali devono essere aperti per promuovere manovre di evitamento. Se, invece, il dolore è sempre il solito e non abbiamo manovre per sottrarci – un dente del giudizio
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che cresce storto – allora il nostro cervello cerca di minimizzarlo smorzando i segnali. Questo sistema di controllo discendente utilizza vari trasmettitori, tra cui l’endorfina, ovvero la nostra morfina endogena, fisiologica. Si dirà: ma allora come mai il dolore si continua a sentire? Quanto il cervello riesce ad attenuare il dolore dipende ancora da fattori cognitivi ed emotivi. Un esempio clamoroso sono i fachiri indiani. Grazie alla fede e al training, i fachiri riescono a modulare strutture cerebrali profonde, che per noi sono completamente irraggiungibili dalla volontà, e a rilasciare una gran quantità di endorfine, al punto da non sentire i chiodi o i tizzoni ardenti. Anche noi possiamo aumentare i livelli di endorfine, ma non volontariamente. Sicuramente lo facciamo in condizioni estreme, di furia o di pericolo, basti pensare all’uomo che continua a rialzarsi e andare avanti pur avendo ricevuto colpi mortali. Ma possiamo liberare le benefiche endorfine anche con metodi meno cruenti. Il metodo più semplice e vantaggioso è l’esercizio fisico. Un atleta, alla fine di una dura competizione, non sente nulla anche se punto con uno spillo. I medici consigliano attività sportive eseguite con ritmo regolare, senza finire in debito di ossigeno, ma per una durata abbastanza protratta da farci sentire i muscoli pesanti, come dopo una nuotata lunga e lenta. Ma il dolore, naturalmente, è innanzitutto qualcosa che tutti noi vorremmo evitare. Seppure vantaggioso in alcune circostanze, distrugge la vita di molte persone. Stiamo parlando del dolore cronico, una condizione in cui i segnali dolorifici non sono di alcuna utilità, anzi, oltre a produrre sofferenza, limitano grandemente le capacità funzionali, le relazioni sociali e la qualità di vita in generale. Il dolore cronico riguarda milioni di persone. Secondo le ultime stime, in Europa la prevalenza raggiunge circa il 27%, cioè ne soffre un cittadino europeo su quattro. Le condizioni che più frequentemente producono dolore cronico sono l’osteoartrosi (e le patologie della colonna vertebrale di varia origine), l’artrite reumatoide, la fribromialgia, la cefalea, il dolore neuropatico, che a sua volta include numerose malattie, come le neuropatie dolorose, l’herpes zoster (il cosiddetto “fuoco di Sant’Antonio”), le mielopatie traumatiche, la nevralgia trigeminale. Sfortunatamente, secondo le metanalisi più recenti e affidabili,
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meno della metà dei sofferenti cronici, anche con le più moderne terapie, ottiene una riduzione di almeno il 50% del dolore. Tra i pazienti “resistenti”, quelli cioè che non ottengono un beneficio sufficiente pur avendo provato tutte le terapie del caso, alcuni riescono comunque a farsene una ragione, a barcamenarsi e a tirare avanti. Molti, però, entrano in un circolo vizioso che li conduce infine a una grave perturbazione psicologica. Personalmente, sono convinto che all’origine del problema stia il fatto che il dolore non si vede. Nel corso della vita possiamo incorrere in disgrazie irreparabili. Poniamo la perdita di una mano a causa di un incidente. Il soggetto vede che la mano non c’è più, sa che potrà mettere una protesi, ma immediatamente capisce che la sua vita non sarà mai più la stessa. I suoi familiari, il datore di lavoro, i colleghi e gli amici, tutti vedono che la mano non c’è più. Tutti, incluso il diretto interessato, capiscono che dovrà cercare di riadattarsi, pur tra mille difficoltà, alla nuova condizione. Nel caso del dolore cronico, invece, il paziente stesso fatica a capire cosa sia successo ed è preoccupato che chi lo circonda gli creda. Spiega continuamente che soffre, che sta male davvero. Fa molta fatica ad accettare il concetto di irreversibilità, ovvero che non c’è nulla da fare e bisogna riadattarsi. Continua a rivolgersi sempre a nuovi medici, specialisti di tutti i tipi, nella speranza di trovare l’esperto giusto che lo faccia tornare come prima. Si infila in una spirale di ansie (di trovare finalmente il medico giusto) e frustrazioni (perché nessuno dei nuovi tentativi funziona) che lo porta a quella condizione di grave disturbo psicologico cui, nella letteratura anglosassone, qualcuno si riferisce con l’etichetta pain behaviour, o “comportamento basato sul dolore”. Si tratta di pazienti che restano tutto il giorno a letto, o comunque in casa, parlano solo ed esclusivamente del proprio dolore, diventano un grave peso anche per chi li circonda. È inutile provare a prescrivere farmaci sempre più forti e a dosaggi sempre maggiori. Dopo pochi giorni il paziente dirà che non fanno nulla di buono (anche se è restio a farne a meno). L’unica strategia ragionevole è l’inserimento in un programma di gestione: il paziente dovrebbe essere impegnato tutti i giorni, con un misto di “scuola” (a spiegare i meccanismi del dolore), psicoterapia, fisioterapia e movimento (possibilmente nuoto o comunque attività in acqua). In tal modo, ha per lo meno alcuni vantaggi: non si sente abbandonato,
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deve uscire di casa tutti i giorni, ottiene beneficio dalle endorfine liberate dall’esercizio fisico e, infine, evita l’eccesso di farmaci con effetti tossici sul fegato e sedativi sul sistema nervoso. Chiaramente bisognerebbe agire prima, per prevenire lo sviluppo di situazioni così disperate. Sia gli scienziati che l’opinione pubblica hanno negli ultimi anni preso coscienza del problema del dolore cronico, da un punto di vista etico. Con loro anche i governi e l’industria farmaceutica, per via degli enormi costi sociosanitari di tale forma di dolore. Questa convergenza sinergica ha fatto sì che la ricerca di nuove terapie per il dolore sia aumentata enormemente ed è quindi ragionevole attendersi che nei prossimi anni disporremo di strumenti più efficaci. Giorgio Cruccu Professore di Neurologia Dipartimento di Neurologia e Psichiatria Università di Roma La Sapienza
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Il mistero del linguaggio*
Esistono due fatti alla portata osservativa praticamente di ogni persona: da una parte, il linguaggio si pone come esperienza universale, elementare, così fondamentale e costitutiva dell’essere umano da diventare definitoria: l’essere umano è l’essere capace di linguaggio; dall’altra, la disarmante constatazione della diversità delle lingue, l’irriducibile esperienza del particolare, del ristretto, del caotico. Naturalmente ci sono differenze anche marcate nelle capacità espressive delle persone, soprattutto nel numero delle parole conosciute, ma non sono nulla rispetto alla sostanziale condivisione dell’immensa complessità del codice linguistico da parte di tutti gli esseri umani. Pensiamo al sistema dei tempi verbali o alla difficoltà quasi insormontabile di dare significati espliciti a parole di uso comune come, per fare un esempio, nel caso semplicissimo della parola forse. Non si tratta certo di una parola rara, eppure definirne il significato è un’impresa molto complessa che richiede calcoli e modelli formali sofisticati. Linguaggio e lingue: il tentativo di riconciliare questi due fatti è stato forse uno dei propulsori più importanti della storia della linguistica, certamente quello che oggi rappresenta la sfida più importante sulla natura della mente e, in definitiva, dell’uomo. A che punto siamo della ricerca sugli universali linguistici oggi? Facciamo un passo indietro. L’universalità delle forme del linguaggio Ruggero Bacone, il francescano soprannominato dai contemporanei Doctor Mirabilis, uno dei più grandi filosofi medievali, sintetizzava l’idea dell’universalità delle forme del linguaggio in modo * Il presente articolo è stato pubblicato con il titolo L’infinito presente. Gli universali linguistici sulla rivista “Atlante” (n. 20), Fondazione Sussidiarietà, Milano 2010, pp. 95-99. Per i riferimenti bibliografici dettagliati ai risultati scientifici descritti, si vedano i rimandi contenuti in Moro A., Che cos’è il linguaggio, Sassela, Roma (2010).
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inequivocabile: “La grammatica è una e una sola secondo la sua sostanza in tutte le lingue, anche se possono esserci delle variazioni accidentali”. Questa conclusione, dedotta letteralmente dall’ipotesi – garantita sul piano teologico – di una sostanziale simmetria tra percezione, lingua e realtà non potrebbe contrastare in modo più netto rispetto a quella di Martin Joos, linguista statunitense, che ben riassume le convinzioni imperanti nella metà del secolo scorso e ritenute inossidabili: “Le lingue possono differire le une dalle altre senza limite e in modi imprevedibili”. Si trattava anche in questo caso di una deduzione per così dire “ideologica”, cioè sostanzialmente basata su un pregiudizio filosofico, quello secondo il quale una lingua è in tutti i suoi aspetti una convenzione arbitraria. Questa visione irrimediabilmente caotica delle lingue è alla fine risultata falsa, sia sul piano formale che neuropsicologico, ma, al di là delle carenze sperimentali che la rendevano plausibile, è interessante notare come fosse stata abbracciata perché, oltre alla difesa del relativismo epistemologico cui si legava, si prestava perfettamente a giustificare quella visione tecnologica della mente che oggi sembra talvolta ritornare travestita da scoperta biologica. Inoltre, lo sforzo verso la riduzione delle facoltà cognitive a meccanismi formali e prevedibili una volta definite le condizioni contestuali – quella che un tempo si chiamava “cibernetica” e che oggi resiste, anche se in calo, con l’etichetta “intelligenza artificiale” – era anche sostenuto da una mobilitazione di fondi e di uomini che di fatto costituiva un modo per riciclare le esperienze accumulate nel settore delle comunicazioni militari durante la Seconda guerra mondiale. Anche in questo caso una testimonianza diretta mi pare sia più chiara di ogni altra elucubrazione. Chi parla è un logico matematico di grande fama e si sta riferendo al laboratorio di elettronica di uno dei più prestigiosi politecnici degli Stati Uniti, il MIT: “C’era al laboratorio la convinzione generale e irresistibile che con le nuove conoscenze di cibernetica e con le recenti tecniche della teoria dell’informazione si era arrivati all’ultimo cunicolo verso una comprensione completa della complessità della comunicazione nell’animale e nella macchina” (Bar-Hillel 1970). Fu proprio al MIT che, anche per la reazione a questo riduzionismo, a sua volta legato sul versante psicologico al comportamentismo e al
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costruttivismo, Noam Chomsky dimostrò, utilizzando un metodo matematico, che nessuno degli algoritmi noti poteva generare automaticamente una struttura complessa come quella di una lingua umana. Con questo, Chomsky riconosce da subito che il cuore delle lingue umane è costituito da una capacità di manipolare gli elementi primitivi (per semplicità: le parole) producendo strutture potenzialmente infinite (per semplicità: le frasi) secondo schemi che vanno scoperti così come si scoprono le leggi fisiche, tradizionalmente chiamati “sintassi”. La manifestazione dell’infinito sulla base di mezzi finiti – la sintassi – si qualifica quindi come il tratto distintivo di tutte le lingue umane, dunque del linguaggio. Questa scoperta ha di fatto rivoluzionato completamente non solo il panorama della linguistica ma anche quello delle neuroscienze in generale, rimettendo il linguaggio al centro dell’osservazione empirica e facendolo in molti casi diventare il modello per lo studio di altre capacità cognitive, come quelle legate alla matematica e alla musica. Esistono almeno tre conseguenze importanti che derivano da questa prima intuizione. La prima è riconducibile direttamente a Chomsky e si coglie immediatamente in questa citazione: “Il fatto che tutti i bambini normali acquisiscano grammatiche praticamente comparabili di grande complessità con una notevole rapidità suggerisce che gli esseri umani siano in qualche modo progettati in modo speciale per questa attività, con una capacità di trattare con i dati e di formulare ipotesi di natura e complessità sconosciute”. La seconda conseguenza è, in un certo senso, implicita in questa: se l’uomo è “progettato in modo speciale”, questo progetto deve in qualche modo essere stabilito biologicamente, dunque deve essere possibile rintracciare gli elementi neurobiologici che si correlano a esso e questi elementi non possono che essere universali, come universali sono tutti i tratti biologici degli esseri umani. Questa intuizione, che si basava su dati osservativi di tipo comparativo, è stata corroborata in modo sostanziale nell’ultimo decennio con esperimenti radicalmente innovativi eseguiti utilizzando le tecniche di neuroimmagine. La base clinica, che da sempre costituisce la via maestra per lo studio dei fondamenti biologici del linguaggio, viene infatti affiancata da metodi nuovi che superano la necessità di dover procedere solo in presenza di patologie.
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I confini di Babele Gli universali linguistici, almeno quelli relativi alla sintassi diventano dunque in qualche modo riconducibili alla struttura funzionale e neuroanatomica del cervello ridando voce nuova alle intuizioni così troppo sbrigativamente abbandonate dall’interpretazione convenzionalista del linguaggio nella prima metà del secolo scorso: i confini di Babele, dunque, non solo esistono, ma sono anche tracciati nella nostra carne prima di ogni esperienza; non sono l’effetto di una convenzione arbitraria1. Infine, la terza conseguenza consiste nella consapevolezza che questo modello linguistico, basato sulla capacità di costruire strutture infinite a partire da elementi finiti, è unico della specie umana. Tutti gli esseri viventi certamente comunicano, ma solo l’essere umano ha questa capacità di produrre strutture potenzialmente infinite. Malgrado alcune sorprendenti resistenze, che le cose stiano così si sa almeno a partire dagli anni settanta del secolo scorso e questa convinzione, per chi si occupa di struttura dei codici di comunicazione, è diventata talmente scontata da essere stata oggetto della conferenza plenaria della società di linguistica americana, un evento che, com’è facile immaginare, riveste un carattere decisamente ecumenico. Questa caratteristica di unicità, combinata con la proprietà di produrre strutture potenzialmente infinite, ha a sua volta una conseguenza fondamentale che non può essere dimenticata in nessuna
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La tecnica scelta per indagare il cervello negli esperimenti qui descritti è stata la cosiddetta tecnica per neuroimmagini: in pratica, lo studio dell’attività metabolica delle regioni encefaliche tramite la misura del flusso ematico (emodinamica). Le due tecniche principali sono la risonanza magnetica funzionale (o RMF) o la tomografia a emissione di positroni (PET). È importante mettersi al riparo da facili illusioni. La ricerca sulle reti neuronali con tecniche di neuroimmagine può in un certo senso essere paragonata all’immaginario tentativo di ricostruire la mappa delle principali città del nostro pianeta avendo come unico dato il flusso dei passeggeri negli aereoporti: si può sperare al massimo di avere un’idea approssimativa delle dimensioni dei centri abitati. Il paragone è addirittura ottimistico: il numero dei circuiti possibili costituiti dai cento miliardi di neuroni che mediamente costituiscono un cervello umano è dell’ordine di 10 seguito da un milione di zeri: una rete inimmaginabile se si pensa che il numero delle particelle di cui è composto l’universo si stima intorno a 10 seguito da 72 zeri (Edelman et al. 2000). Dunque poco si riesce a vedere: ma non niente.
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speculazione sull’evoluzione del linguaggio, o meglio sulla sua filogenesi. Va infatti ribadito a chiare lettere che, essendo il carattere specifico del codice di comunicazione umana la capacità di produrre strutture potenzialmente infinite, non è nemmeno ammissibile in senso teorico che esista una gradualità di questo tratto tra le specie animali: l’infinito, infatti, o c’è tutto o non c’è. Non può essercene un pezzo. Dunque, non ci possono essere linguaggi “simili” a quello umano così come nessun insieme per quanto grande può assomigliare all’infinito. Da ultimo, una spallata anche al relativismo linguistico basato non sulle regole ma sull’inventario delle parole: negli anni cinquanta del secolo scorso prese forma canonica un’ipotesi che in modi più o meno espliciti stava circolando da tempo, vale a dire l’idea che a lingue diverse corrispondessero visioni diverse del mondo per via del diverso vocabolario che le lingue possiedono (la cosiddetta “ipotesi Sapir-Worf”). Misurare la visione del mondo Si noti: non semplicemente modi più o meno rapidi di agire nel mondo – questo è fin troppo ovvio come sa chiunque nel tentativo di impadronirsi di una tecnica deve contemporaneamente assumerne il glossario di base – ma vere e proprie percerzioni sensoriali differenti. Non è difficile capire quanto dietro a questa forma di relativismo si nascondesse di fatto il tentativo più o meno esplicito di fornire graduatorie di merito tra le lingue, quasi alcune fossero più adatte di altre a percepire la realtà. Insito: percepire. È chiaro, ad esempio, che una lingua come il tedesco dove la costruzione di composti è molto più frequente che in italiano ci sia maggior agio nel costruire nuovi comodi termini che permettano di evitare parafrasi e perifrasi, ma da questo a dire che chi parla tedesco vede un transistor (o un tramonto) in modo diverso da chi parla italiano c’è un salto logico non ammissibile. Da quel che risulta, a ogni modo, al di là di ogni giudizio etico, questa ipotesi semplicemente non è vera alla prova dei fatti. Intanto, avere una misura della “visione del mondo” non è possibile: non esiste nemmeno in teoria una metrica in grado di farci capire se chi parla diciamo italiano o tagalog percepisce il mondo in modi diversi. Occorrerebbe infatti preliminarmente accordarsi su cosa si intende per percezione del mondo. Ma nei pochi casi
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dove è possibile condurre una sperimentazione accettabile, risulta che al variare delle lingue la percezione del mondo non cambia affatto; semmai – come si diceva – può cambiare l’interazione con esso. Il caso delle indagini sui nomi dei colori è paradigmatico. Persone chiamate a distinguere diversi colori di una tavolozza (senza dar loro un nome) non reagiscono in modo diverso: la percezione rimane identica anche al variare del dizionario. Ma anche questa visione universalista ha dei rischi riduzionisti. Non dimentichiamoci che lo studio scientifico della sintassi nasce nella seconda metà del secolo scorso per fornire solo la descrizione dei gradi di variabilità della classe delle lingue umane: la predizione di come e cosa un individuo possa dire in un certo momento in un certo contesto, al di là di casi banali, non rientra nel programma di ricerca né in ambito quantitativo, né neuropsicologico né molecolare; la creatività linguistica non è per questo meno vera, esattamente come non lo è la coscienza, per il fatto di non essere misurabile in termini quantitativi. Ma non si tratta affatto di una rinuncia nichilista, di un pensiero “debole”, così come non fu una rinuncia nichilista né un pensiero debole la decisione di Newton di descrivere la gravità come azione a distanza rinunciando all’ortodossia della meccanica dei contatti di Cartesio. È una coincidenza impressionante che proprio a Cartesio si richiami Chomsky quando nel definire la capacità fondamentale del linguaggio umano, quella di cogliere e produrre un insieme infinito di frasi, riconosce che al centro del linguaggio sta il mistero. Andrea Moro Professore Ordinario di Linguistica Scuola Superiore Universitaria a Ordinamento Speciale IUSS di Pavia
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Non una, ma tante intelligenze
Il recente poderoso sviluppo delle neuroscienze da un lato e della genetica dall’altro sta contribuendo a una sostanziale revisione dei processi che caratterizzano il cervello umano e più in particolare delle attività mentali. A ciò hanno fortemente contribuito la disponibilità di potentissime tecniche di neuroimaging, quali la risonanza magnetica funzionale e la tomografia a emissione di positroni e di sofisticate metodiche di analisi dei segnali elettromagnetici e bioelettrici cerebrali. Queste tecniche, utilizzate individualmente o in combinazione, hanno consentito di studiare le strutture nervose coinvolte nella produzione delle attività mentali umane in condizioni fisiologiche e di analizzare le modificazioni in individui con malattie neurologiche e psichiatriche. Il peculiare e privilegiato punto di osservazione di neurologo operante in un grande centro di cura e di ricerca, che sin dalla sua fondazione ha posto le neuroscienze cognitive come obiettivo principale della sua esistenza, dotandosi per questo dei più sofisticati strumenti di indagine, mi consente di formulare alcune riflessioni sull’affascinante tema dell’intelligenza. La corrispondenza tra mente e cervello si basa sull’assunzione che quando la mente è attiva il cervello è a sua volta attivo e che inoltre a determinate attività mentali corrisponda l’attivazione di determinate aree e circuiti nervosi. Le nostre conoscenze specifiche su queste corrispondenze sono però ancora molto limitate, per esempio non sappiamo bene che cosa la mente stia facendo quando il cervello è attivo e anche le conoscenze sulle sequenze di attivazione delle popolazioni neuronali coinvolte in una specifica attività della mente sono assai primitive, per i limiti intrinseci alle tecniche di indagine: la bassa risoluzione spaziale delle indagini elettrofisiologiche e la ridotta risoluzione temporale delle neuroimmagini. Appare quindi immediatamente chiaro come qualsiasi riflessione sull’intelligenza, espressione dell’attività mentale, si basi su fondamenti piuttosto fragili. L’intelligenza, per la sua intrinseca complessità costituisce la massima espressione della mirabile macchina cerebrale. Essa è
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stata vista in passato come una funzione unica, che riassume in sé l’insieme delle funzioni superiori di coscienza. La frenologia (Figura 1), che ha goduto di grande interesse all’inizio del secolo
Figura 1 – La frenologia è una disciplina che mirava a individuare la localizzazione nel cervello delle diverse attività mentali e a trovare delle corrispondenze tra caratteristiche personologiche e aspetti morfometrici del capo.
scorso, pretendeva di localizzare tutte le funzioni proprie dell’intelligenza, ma in un simile errore sono caduti a lungo anche gli esperti di neuroimmagini. In realtà, l’organizzazione delle funzioni cognitive è estremamente più complessa e si avvale di competenze ampiamente distribuite nel cervello, anche se determinate aree e circuiti possono avere un ruolo chiave per una determinata funzione. Vi sono poi alcuni funzioni, come la vigilanza, l’attenzione, la concentrazione e le diverse forme di memoria la cui integrità è un requisito fondamentale per l’efficienza dei processi cognitivi. L’evidenza che il nostro cervello funziona per processi
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seriali e paralleli, serviti da circuiti specifici, è stata alla base dell’individuazione di diversi sottotipi di intelligenza. Lo psicologo statunitense Howard Gardner ne distingue ben 9 (Tabella 1), Tabella 1 – I 9 sottotipi di intelligenza secondo Howard Gardner - Intelligenze multiple - Logico-matematica - Linguistica - Visuo-spaziale - Musicale - Cinestetica o procedurale - Interpersonale - Naturalistica - Esistenziale
ma altri ricercatori hanno proposto suddivisioni diverse. Sotto il profilo neurologico si distinguono due sistemi complessi, quello limbico e quello dei lobi frontali, con le loro ampie connessioni, in parte peraltro condivise. In modo semplificato potremmo dire che il sistema limbico, che controlla le emozioni e l’affettività, serve l’intelligenza emotiva, un termine coniato da Daniel Goleman. Questo psicologo statunitense, in un fortunato libro, Emotional Intelligence, del 1995 ha posto in evidenza che la conoscenza di se stessi, la persistenza e l’empatia sono tra gli elementi che nascono dall’intelligenza umana, forse quelli che influenzano maggiormente la vita dell’uomo. Le aree cerebrali coinvolte nel sistema limbico includono quelle della memoria, quelle che controllano appetito, sessualità, ritmi sonno veglia e ritmi ultracircadiani, e la corteccia vegetativa, che controlla l’attività dei visceri. Potremmo in qualche modo considerare questo come un’intelligenza antica, in senso evoluzionista, in stretto rapporto funzionale con l’intelligenza logica, orientata alla soluzione dei problemi, che ha come centro primario la neocorteccia frontale, la parte di cervello che più si è espansa nell’uomo. Il famoso caso di Phineas Gage del 1868, relativo a un soggetto sopravvissuto a un’esplosione che aveva provocato la distruzione dell’intera regione prefrontale da parte di una barra di ferro larga 3 cm e lunga 1 m, che come unica conseguenza aveva sviluppato un brusco cambiamento di personalità, indicava l’importanza strategica della parte anteriore del cervello nel comportamento. La parte dorsolaterale di questa regione funziona da supervisore nella pianificazione e sviluppo
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delle azioni, quella orbitofrontale controlla i comportamenti socialmente rilevanti e inibisce attività inappropriate: una sua lesione è associata all’emergere di tratti ossessivo compulsivi. La parte frontale mediale è coinvolta nei processi motivazionali: ischemie di questa regione determinate da occlusione dell’arteria cerebrale anteriore portano a una condizione di apatia e adinamia. Si tratta dell’intelligenza diretta al problem solving, un processo mentale volto a trovare un percorso che porta il cambiamento da una situazione iniziale a una disposizione finale. Caratteristica di questa forma di intelligenza è quindi la capacità di apprendere come quella di effettuare le scelte migliori. È questa l’intelligenza alla quale si riferiscono coloro che lavorano nel campo della intelligenza artificiale, per i quali infatti l’intelligenza è la capacità di raggiungere un obbiettivo, qualunque esso sia e in qualsiasi contesto ambientale. Essa è anche quella principalmente valutata dai test psicometrici. Tra i sistemi operanti nella parte dorsolaterale della corteccia prefrontale rientra anche il sistema mirror, localizzato nella parte inferiore. Studi recenti, soprattutto a opera di un importante neuroscienzato italiano, Giacomo Rizzolatti, e del suo gruppo, hanno evidenziato l’esistenza nella scimmia dei cosiddetti neuroni a specchio che si attivano allorché l’animale osserva un gesto, come ad esempio prendere una mela, riproducendo “internamente” la sequenza di attività motorie contemplate da quel gesto. Questa riproduzione da parte del cervello delle sequenze necessarie per produrre un gesto ne consente la comprensione e in qualche modo permette anche di predirne le conseguenze. Il ragionamento che sta alla base della connessione tra osservazione e comprensione del comportamento dell’altro è il seguente: io so che cosa egli abbia l’intenzione di fare con quel gesto in quanto so che cosa intenderei fare, se io stesso facessi ciò che vedo fare da lui. L’esistenza del sistema mirror spiega non solo l’empatia, ma anche la capacità di comprendere stati emotivi ed affettivi con processi di tipo intuitivo. In altre parole, la parte dorsolaterale della corteccia prefrontale sarebbe alla base dell’intelligenza “intuitiva”, mentre la parte mediale avrebbe un ruolo chiave nell’intelligenza analitica. Appare assai interessante l’osservazione che il sistema dei neuroni a specchio potrebbe essere alla base dei processi di transfer e controtrasfer
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che caratterizzano i processi psicoanalitici, anche se va detto che le conoscenze nell’uomo su questo sistema appaiono ancora insufficienti per confermare simili interpretazioni. Il dibattito tra ruolo genetico e dell’ambiente nella determinazione dell’intelligenza, che tanto ha appassionato ricercatori e non il secolo scorso e che periodicamente ritorna, anche per le ovvie implicazioni sociopolitiche, appare oggi meno rilevante alla luce dei risultati degli studi dell’ultimo decennio che hanno dimostrato che il cervello è dotato di una straordinaria plasticità, non soltanto nell’età evolutiva, ma anche successivamente. La plasticità cerebrale è la base dell’apprendimento. In un certo senso, la genetica progetta i circuiti, ma è l’interazione con l’ambiente a plasmare il cervello, a realizzare individui unici e irripetibili proprio attraverso l’infinita e largamente incontrollabile varietà di impulsi esterni e interni che continuamente fluiscono dai sensi al cervello, attivando nuovi contatti tra i neuroni, selezionando e rinforzando specifiche connessioni rispetto ad altre, disattivando altri circuiti e determinando la morte di determinati neuroni. Gli studi sulla plasticità cerebrale che esplorano funzioni relativamente semplici, come quella motoria, hanno dimostrato che nella fase di acquisizione di un’informazione vi è un’espansione del tessuto cerebrale coinvolto nel pianificare ed eseguire l’atto motorio, ma mano a mano che l’individuo perfeziona il controllo di quel movimento specifico l’area di tessuto cerebrale coinvolta tende a ridursi. In altre parole, il processo di acquisizione passa attraverso una prima fase di chiamata in gioco ridondante della popolazione neuronale potenzialmente interessata a quella funzione e, mano a mano che con la ripetizione di quella funzione specifica il cervello apprende come realizzarla al meglio, tutti i neuroni (e i circuiti) non indispensabili vengono progressivamente silenziati ed esclusi dalla realizzazione della funzione specifica. Vi sono evidenze che ciò vale non solo per i processi di analisi degli input sensoriali e per la programmazione e realizzazione delle risposte motorie, ma anche per la realizzazione di attività mentali. Studi con la tomografia a emissione di positroni hanno dimostrato che le persone dotate di intelligenza più brillante nel risolvere un problema presentano un minor consumo di glucosio da parte della corteccia cerebrale. Tuttavia, studi successivi hanno consentito di evidenziare che ciò succedeva solo per compiti nuovi e
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semplici o per compiti anche di discreta complessità, ma solo una volta che si aveva un apprendimento consolidato delle soluzioni del compito. Tutto questo è in linea con quanto atteso in base agli studi sull’apprendimento motorio. Tuttavia, è anche emerso che per compiti particolarmente complessi che potevano essere risolti solo da menti particolarmente brillanti, l’acquisizione della soluzione richiedeva un’attivazione maggiore delle aree corticali, suggerendo che la genialità richiede una capacità non comune di attivare il cervello. Ancora una volta proprio le malattie neurologiche hanno fornito una controprova della complessità dei fenomeni di plasticità cerebrale. In caso di patologie che danneggiano in modo diffuso il tessuto cerebrale, la plasticità consente in una prima fase che al danno strutturale non corrisponda un danno funzionale, proprio grazie all’attivazione di popolazioni neuronali e circuiti accessori che abitualmente vengono utilizzati solo per la soluzione di compiti più complicati (Figura 2). Per riconoscere il volto di una persona nota dobbiamo attivare una regione più estesa delle aree visive primarie e accessorie, ma se il danno aumenta questa compensazione a un certo punto diviene insufficiente e non ci riesce più di dare un nome a quella faccia. Se è vero che quando la mente è attiva il cervello deve mostrare qualche forma di attività, non è altrettanto vero che ogni attività cerebrale determina attività mentali. Ne consegue che malattie del cervello possono compromettere le funzioni intellettive solo se coinvolgono strutture nervose deputate alla conoscenza. Se ciò avviene potremo avere due tipi di alterazione dell’intelligenza: una riduzione globale e sostanzialmente omogenea delle abilità intellettuali, in caso di disturbi di origine tossica o dismetabolica che compromettono la funzionalità pressoché di tutta la corteccia cerebrale, o una compromissione elettiva di uno o più funzioni cognitive, come tipicamente avviene nelle patologie focali o multifocali del cervello. Va considerato inoltre che il coinvolgimento di quelle funzioni, come la vigilanza, l’attenzione, la concentrazione, che servono le funzioni superiori di coscienza e che richiedono in particolare l’integrità del tronco dell’encefalo e delle strutture centroencefaliche, possono a loro volta compromettere in modo globale le attività mentali. Per quanto concerne le alterazioni focali o multifocali ci potremmo chiedere a quale punto si può considerare che vi sia una diminuzione dell’intelligenza.
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Figura 2 â&#x20AC;&#x201C; Risonanza magnetica funzionale.
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Ad esempio, un paziente che presenta un’importante disfunzione di una regione dell’emisfero sinistro con compromissione del linguaggio e della capacità di fare calcoli mantiene intatta la sua capacità logico astrattiva e anche se ha un’evidente menomazione di alcune abilità intellettuali non viene ritenuto mentalmente compromesso secondo i criteri comuni che definiscono l’intelligenza. Ma se le stesse compromissioni sono nel contesto di una malattia di Alzheimer probabilmente, in considerazione della sua certa evolutività verso una demenza, troveremmo tutti concordi nel ritenere l’intelletto di quella persona in fase declinante. Quante funzioni specifiche deve perdere un individuo perché si debba classificare la sua condizione intellettuale come alterata? Diverse malattie neurodegenerative, come le demenze, minacciano globalmente l’integrità funzionale del cervello, disarticolano il mirabile concerto fatto di scariche neuronali che interagiscono secondo uno spartito spazio-temporale sino a produrre il pensiero in tutte le sue articolazioni. Il progressivo deterioramento dell’intelligenza, o meglio delle multiple forme di intelligenza, fino allo stravolgimento dell’identità, che caratterizza le fasi più avanzate di queste patologie, è come un viaggio a ritroso nella storia evolutiva dell’uomo. Ma, anche in queste malattie, il cervello inizialmente si difende, fronteggia le crescenti difficoltà mentali reclutando popolazioni accessorie di neuroni, aprendo nuove connessioni, e la resistenza è tanto più strenua quanto maggiore è stato il livello di sviluppo delle abilità cognitive nel corso della vita. L’origine dell’intelligenza umana e la sua natura intrinseca presentano ancora molti aspetti misteriosi, ma la disponibilità di nuovi strumenti di studio a livello del macroimaging e del microimaging, fino a quello molecolare, la possibilità di manipolare le fasi di sviluppo del sistema nervoso nei modelli animali, i grandi progressi delle strategie computazionali, la produzione di modelli di intelligenza artificiale promettono di gettare nuova luce su questo tema affascinante che va all’essenza della natura umana. Giancarlo Comi Istituto di Neurologia Sperimentale e Dipartimento Neurologico Università Vita-Salute San Raffaele di Milano
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Ragione e passione unite per decidere bene
Nelle decisioni di tutti i giorni spesso ci inganniamo. Un po’ come Charlie Brown che rimane confuso e interdetto quando incontra la ragazzina dai capelli rossi, anche la nostra testa è spesso “calda e stupida”. Quando si tratta di risparmiare, spendere e investire non siamo quei razionali e fulminei calcolatori di “utilità” che popolano i modelli matematici dei libri di economia. Anzi, il particolare computer che ci portiamo a spasso tra le orecchie ha un processore molto lento, poca memoria e più bachi di quanto siamo disposti ad ammettere. Come se non bastasse, nella vita quotidiana gioia, paura, rabbia, gelosia, invidia, disgusto e molti altri sentimenti che condizionano le nostre decisioni in modo ben poco “calcolato”. Alcuni degli errori che commettiamo sono la regola e non l’eccezione. Sono ostinati e insidiosi e ci portano, proprio come le illusioni ottiche, a credere vere delle impressioni false. Sia le illusioni visive sia quelle cognitive sono indotte da processi automatici e spontanei, attraverso i quali filtriamo la realtà in maniera rapida e intuitiva, ma anche approssimativa e fuorviante. A studiare le nostre decisioni come il prodotto di un’incessante negoziazione tra processi “automatici” e processi “controllati”, tra “affetti” e “cognizione” e del gioco di sinapsi delle aree cerebrali corrispondenti è una nuova disciplina, la neuroeconomia, che mira precisamente a fornire una teoria delle nostre scelte economiche a partire da ciò che sappiamo sul funzionamento del cervello. Per troppo tempo abbiamo trattato la natura umana come se fosse una cosa o l’altra. Siamo razionali o irrazionali. Ci basiamo sulla logica oppure ci affidiamo all’istinto. La logica apollinea contro le sensazioni dionisiache; l’id contro l’ego; il cervello rettile contro i lobi frontali. Queste dicotomie non sono solo false, sono distruttive. Platone pensava che lo scopo della corteccia prefrontale fosse di metterci al riparo delle nostre emozioni. Ma Platone, in fin dei conti, non faceva esperimenti – e meno che mai con le moderne tecniche di imaging cerebrale. I recenti e ingegnosi esperimenti delle neuroscienze delle decisioni
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mostrano che la cognizione umana è il risultato sia di processi intuitivi sia di processi deliberati, i quali, insieme, concorrono alla rappresentazione del mondo e al modo in cui interagiamo con esso. Se a prevalere sia una modalità o l’altra dipende dalla natura del problema, dal momento della giornata, dal nostro umore, dalle nostre competenze, dalle nostre esperienze ecc. Per esempio: monitorando il battito cardiaco, la pressione sanguigna, la temperatura corporea e la conduttanza cutanea di un gruppo di traders durante una giornata in cui prendono un migliaio di decisioni finanziarie per una quarantina di milioni di dollari, si è potuto osservare come i loro parametri fisiologici fossero correlati con emozioni molto intense. Ciò non significa affatto che costoro stessero agendo “irrazionalmente”. Anzi, le peggiori decisioni risultarono scaturire nelle situazioni in cui le emozioni erano o completamente mute oppure del tutto travolgenti. Per fare l’investimento giusto le intuizioni devono esistere in un dialogo con l’analisi razionale. Il motivo per cui le intuizioni sono “intelligenti” è che esse catturano la saggezza dell’evoluzione. Vi sono pertanto casi in cui la cosa giusta è affidarsi a loro, perché sanno più di quanto sappiamo noi. Un aspetto da non trascurare alla prossima visita all’Ikea! Come ha mostrato un esperimento – non tra le pareti asettiche di un laboratorio, ma sul campo, cioè tra la folla di un grande magazzino – più tempo le persone passano a vagliare deliberatamente i pro e contro dell’acquisto di un divano (all’Ikea ne esistono più di trenta modelli), meno soddisfatti saranno della propria decisione. Meglio, in questi casi, scegliere per istinto (e lo stesso sembra valere per marmellate, vino, cereali, dentifricio ecc.). Allo stesso modo, però, sarebbe meglio non abbassare la guardia di fronte alle seduzioni dell’intuizione e quindi controllare sempre le risposte automatiche e viscerali che provengono dall’“inconscio cognitivo”. Neppure di questo importante alleato ci si può fidare. Per come è emerso nel corso dell’evoluzione, il nostro cervello è simile all’ultimo “sistema operativo che è stato messo in commercio con troppa fretta”, afflitto com’è dagli stessi problemi che caratterizzano ogni nuova tecnologia: “ha un sacco di difetti progettuali e un software pieno di bachi”, come emerge con evidenza nelle situazioni in cui i prodotti della nostra intuizione contraddicono le leggi della logica o della statistica.
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Considerate per esempio i seguenti due problemi, molto simili a quelli escogitati dallo scienziato cognitivo del Massachusets Institute of Technology (MIT), Shane Frederick. Essi sono parte di un vero e proprio test (Cognitive Reflection Test) per misurare la nostra capacità di “riflettere” sui ragionamenti che mettiamo in atto quando risolviamo un problema comune. Primo quesito: Un paio di scarpette e un pallone da calcio costano insieme 110 euro; le scarpette costano 100 euro più del pallone; quanto costa il pallone? Secondo quesito: In un prato c’è una zolla d’erba. Ogni giorno la zolla raddoppia di dimensione. Ci vogliono 48 giorni per coprire l’intero prato. Quanti giorni ci vogliono per coprire metà prato? (Non procedete fino a che non avete risposto) L’ipotesi avanzata dal Premio Nobel per l’economia Daniel Kahneman (e molti altri) è che l’elaborazione dell’informazione nella nostra mente sia presieduta da due distinti sistemi cognitivi, che per comodità chiameremo (come fa lui) sistema 1 e sistema 2. Nel primo risiedono i processi “intuitivi”: veloce, automatico, associativo, è relativamente difficile da controllare e si mette in moto con poco o nessuno sforzo consapevole. Il secondo, di contro, è deputato allo svolgimento di operazioni che richiedono sforzo, motivazione e concentrazione, all’esecuzione di regole apprese (come quelle del modello di razionalità economica): esso è quindi lento, deliberato, seriale, può essere controllato e modificato, ma soprattutto richiede un maggior impegno di attenzione e di memoria. L’interazione dei due sistemi suggerisce una sorta di anatomia dell’errore. Sbagliamo quando di fronte a un dato problema si attiva un processo cognitivo (sistema 1) che, nelle condizioni specifiche, genera una risposta scorretta; e il sistema 2, che dovrebbe esercitare un’azione di controllo (razionale), non controlla affatto e lascia passare appunto la risposta scorretta. Riflettete sul primo quesito. La formulazione della domanda rende immediatamente accessibile alla mente la risposta 10 euro. Questa è infatti la soluzione errata suggerita dal sistema 1; il quale separa, per così dire, naturalmente 100 e 10. Infatti quasi tutti hanno l’iniziale tendenza a rispondere così. “10 euro” è una risposta quasi impulsiva. Anche chi dà la risposta corretta, 5 euro, sentirà per un attimo l’attrazione della spontanea
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segmentazione in 100 e 10. In questo caso, catturare l’errore consiste immediatamente nello scoprire la risposta giusta. E per catturare l’errore occorre attivare il sistema di controllo: cioè il sistema 2. La maggior parte di noi, tuttavia, non lo fa; non riesce ad arginare la tentazione di rispondere 10 euro. Il “controllo di qualità” del ragionamento da parte del sistema 2 fallisce; la soluzione intuitiva, “a braccio”, innescata dal sistema 1 ci convince istantaneamente e ha la meglio. Il sistema 2 si rivela troppo permissivo e cadiamo nel trabocchetto come polli. Un “errore di pigrizia”, che commettiamo in molte situazioni di tutti i giorni quando ci affidiamo al primo giudizio plausibile che ci viene in mente (o che abilmente ci è fatto venire in mente dalla pubblicità, dai media, dagli organi di informazione ecc.), senza prenderci il disturbo di controllare con un minimo di riflessione. Lo stesso vale per il secondo quesito: se la zolla raddoppia ogni giorno, e di giorni ce ne vogliono 48 per tutto il prato, quanti giorni ci vogliono per metà prato? Reazione impulsiva del sistema 1: “24 giorni”; ovvio no? No. Infatti, se diamo tempo al sistema 2 di attivarsi, di monitorare e di censurare il sistema 1, scopriremo che la risposta corretta è 47 giorni. I risultati sperimentali dicono che solo il 20% degli studenti risponde correttamente alle domande di un test di questo tipo. Fanno eccezione gli studenti di economia del MIT, che arrivano al 48%. La cosa interessante è che coloro che ottengono alti punteggi nel Cognitive Reflection Test hanno solitamente risultati accademici sopra la media, si rivelano razionali in scelte economiche di tipo intertemporale (per esempio scegliendo di aspettare per guadagnare di più, piuttosto che ricevere una ricompensa inferiore immediata); e non mutano attitudine nei confronti del rischio se la stessa scelta è incorniciata in termini di perdite o di guadagni. Per quanto ne sappiamo, l’economia neoclassica cattura pertanto tutt’al più solo la metà delle decisioni di questa élite di Boston. Essa sarà anche una buona teoria delle scelte della nostra corteccia dorsolaterale prefrontale (quella regione cerebrale, per intenderci, in cui si attiva il sistema 2); ma per quanto ci dicono oggi gli studi di neuroeconomia, quando si tratta di risparmiare, spendere e investire, le nostre decisioni quotidiane sono molto più realisticamente fondate sul principio della “minimizzazione dello sforzo” che non sul principio della “massimizzazione dell’utilità”.
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Più che un homo oeconomicus, l’uomo di strada è un homo piger. Ecco un altro grandioso esperimento che individua con precisione non solo un modello mentale della decisione, ma addirittura le specifiche aree di attivazione del cervello mentre stiamo risolvendo un problema decisionale di natura finanziaria. Mettiti ancora alla prova: pesa più un chilo di fieno o un chilo di piombo? Preferisci un maglione 80% puro cachemire o 20% misto lana? Uno yogurt 95% magro o uno 5% grasso? Ancora: se vinci 50 euro, preferisci tenertene 20 o restituirne 30? Stiamo parlando sempre della stessa cosa. Ma il linguaggio usato per descrivere le opzioni può influenzare sistematicamente ciò che scegliamo. È il noto “effetto incorniciamento”. Scoperto e verificato sperimentalmente sempre dal genio di Daniel Kahneman, che ne aveva dato comunicazione nel 1981 su Science. A venticinque anni di distanza, una ricerca di Benedetto De Martino (cervello napoletano in forza al Caltech) pubblicata sulla stessa prestigiosissima rivista, conferma su basi neurobiologiche la felice intuizione del Premio Nobel. Al contempo, infligge un altro duro colpo a uno dei cardini della razionalità economica – il cosiddetto principio di “invarianza”, per cui dovremmo manifestarci logicamente coerenti nelle nostre decisioni, indipendentemente dal modo in cui ci si presentano le scelte disponibili. L’esperimento ha coinvolto venti studenti la cui attività cerebrale è stata monitorata con la RMF. Ciascun partecipante è stato dotato inizialmente di una somma di 50 euro, quindi invitato a compiere in successione una serie di scelte, ognuna delle quali prevedeva due opzioni: la prima comportava una certezza (di conservare o di perdere una parte del denaro); la seconda una scommessa (espressa come x probabilità di conservare tutto o di perdere tutto). Nota bene, di ciascuna “opzione certezza” esistevano due formulazioni: una incorniciata in termini di vincita (per esempio, conserva 20 euro su 50); la seconda incorniciata in termini di perdita (per esempio, perdi 30 euro su 50). La formulazione dell’“opzione scommessa” era sempre uguale: una rappresentazione grafica della probabilità di conservare o di perdere tutto (nel nostro esempio, la probabilità del 40% di conservare tutti i 50 euro e del 60% di perderli). I dati rivelano un’interessante relazione tra i diversi comportamenti individuali e l’attivazione di differenti aree cerebrali.
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L’amigdala, una regione neurale del celebre sistema limbico deputata a processare emozioni (come la paura), si attiva vigorosamente “intercettando” l’effetto incorniciamento in tutti i soggetti. Ma in maggior misura tra coloro che ne sono vittima: cioè tra coloro che scelgono l’“opzione certezza” nel caso in cui la scelta sia incorniciata in termini di vincita (tieni 20 euro su 50); ma l’“opzione scommessa” laddove la scelta sia incorniciata in termini di perdita (restituisci 30 euro su 50). Mentre una correlazione significativa emerge tra l’attivazione della corteccia prefrontale (mediale e orbitale) – la parte nobile del nostro cervello umano e più evoluta filogeneticamente – e le scelte razionali. Una maggiore attivazione di quest’area consente infatti di prevedere che il soggetto neutralizzerà l’effetto incorniciamento, manifestando coerenza nelle proprie decisioni. Come sanno bene gli esperti di marketing e di pubblicità, chi più chi meno, ci facciamo tutti influenzare dalle nostre emozioni. Nessuno, tranne forse l’homo oeconomicus o l’anaffettivo e iperrazionale vulcaniano dalle orecchie a punta Mr. Spock di Star Trek, ne è interamente libero. È degno di nota che alcuni partecipanti all’esperimento hanno successivamente dichiarato che lo sapevano benissimo di stare compiendo scelte incoerenti, ma che semplicemente non potevano farci nulla! Come se un piccolo omuncolo emotivo (asserragliato nell’amigdala) sbraitasse dentro di loro senza lasciarli riflettere. Ebbene, anche nei soggetti che hanno esibito un comportamento razionale l’amigdala era attiva (e l’omuncolo emotivo verosimilmente sbraitante), ma hanno mostrato di saper gestire e “sovrascrivere” il messaggio emotivo. Eppure, come ha documentato magistralmente Antonio Damasio, alla luce di numerosi casi di suoi pazienti con lesioni cerebrali nella regione prefrontale ventromediale, per prendere una decisione “giusta” non basta sapere quel che si dovrebbe fare, ma occorre anche che il corpo ce lo faccia “sentire”. Come se la “pura ragione” avesse bisogno di un’assistenza speciale per mettere in atto i suoi piani: un po’ di passione che la aiuti! Dopotutto, non è così sorprendente che gli individui razionali siano coloro i quali hanno una (meta)rappresentazione mentale più precisa e più raffinata dei propri condizionamenti emotivi e dei propri processi cognitivi. E la cui corteccia prefrontale sia
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in grado di integrare e modulare tali informazioni adattandole a seconda delle circostanze. Lo studio delle basi neurali della decisione sembrerebbe confermare proprio questo; e, come ha commentato Kahneman, “i risultati non potrebbero essere più eleganti”. L’evidenza sperimentale suggerisce pertanto un modo di intendere la razionalità che va contro molte credenze consolidate: non in contrapposizione con l’emozione, ma in cooperazione con questa. Le persone più razionali, cioè, non sono quelle che non provano emozioni; ma quelle che le sanno regolare meglio. Forse, se la nostra mente fosse governata esclusivamente da processi di tipo riflessivo e deliberato, e il nostro cervello costituito dalla sola corteccia prefrontale (quella parte cioè che ci distingue dai rettili e dagli altri mammiferi, dove hanno sede le attività cognitive “superiori”), allora l’economia tradizionale sarebbe una buona teoria delle nostre scelte reali. Ma in questo caso più che abitanti del pianeta Terra, saremmo degli extraterrestri. Magari dei vulcaniani dalle orecchie a punta, dotati di una notevole mente matematica, e del tutto incapaci di provare emozioni: proprio come Mr. Spock. Ma per fortuna la vita non si consuma sullo schermo piatto di un televisore e la nostra economia emotiva è molto più ricca, varia, viva, astuta, bizzarra, estrosa e divertente di quella che si trova sui libri di testo. Le vie dei circuiti neurali sono infinte e possono dispensarci lezioni diverse a seconda delle circostanze. Come hai potuto apprezzare, raramente si tratta di lezioni scontate. Matteo Motterlini Professore Ordinario di Logica e Filosofia della Scienza Università Vita-Salute San Raffaele di Milano
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Alzheimer: un suicidio – cellulare – di massa?* Il sistema nervoso, di cui il cervello costituisce la centrale operativa fondamentale, è l’organo del corpo dotato della massima complessità. Nell’uomo, un centinaio di milardi di cellule nervose, denominate neuroni, oltre a un numero ancora maggiore di elementi di supporto per la loro crescita e per l’espletamento delle funzioni più importanti, le cellule gliali, formano un intricato, estremamente complesso sistema di collegamento con il resto dell’organismo. Grazie agli studi condotti principalmente nel secolo scorso si sono compresi, fino al livello dei costituenti molecolari, i meccanismi che sono alla base del funzionamento di questi elementi cellulari e si è delucidato il codice di comunicazione tramite il quale i neuroni inviano e ricevono i segnali dagli altri elementi cellulari con i quali sono collegati. Il sistema nervoso, tuttavia, è caratterizzato, più di ogni altro organo o tessuto dell’organismo, da un paradosso. Nonostante tutte le conoscenze acquisite nel secolo passato e in continuo progresso in quello presente, il neurologo si trova spesso in una situazione di frustrazione e di senso di impotenza. Grazie a tutte le tecnologie a disposizione, che permettono di analizzare le funzioni e disfunzioni cerebrali a livello microscopico e submicroscopico, è in grado di identificare la lesione che colpisce il cervello del paziente spesso in modo estremamente preciso. In questo compito è anche aiutato dal fatto che l’hard wiring del cervello permette di valutarne eventuali malfunzionamenti come un elettricista o un informatico sono in grado di identificare un circuito alterato, poiché le vie nervose tramite le quali si elaborano le informazioni o si ricevono o inviano messaggi sono perfettamente conosciute. Tuttavia, sebbene il medico sia in grado spesso di raggiungere una diagnosi precisa dell’affezione che colpisce il cervello del paziente, molto spesso non ha a disposizione gli strumenti, soprattutto quelli di natura farmacologica, per curare la malattia della quale ha raggiunto brillantemente la diagnosi. * Tratto da Il corpo e la mente, in XXI secolo, Istituto della Enciclopedia Treccani, 2004.
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Tutte le malattie denominate neurodegenerative, fra le quali si annoverano il morbo di Parkinson, la sclerosi laterale amiotrofica, la sclerosi multipla, il morbo di Huntington, la malattia da pioni detta della mucca pazza e, ovviamente, il morbo di Alzheimer sono caratterizzate da questo tremendo paradosso. Inoltre, gli studi condotti negli ultimi decenni hanno portato alla luce diverse analogie molecolari fra queste malattie, che tuttavia non hanno permesso fino a oggi di trarne nuovi determinanti attacchi terapeutici. Per esempio, del morbo di Alzheimer (mdA), i cui costi umani e sociali raggiungono soglie elevatissime e che è destinato ad aumentare proporzionalmente all’invecchiamento della popolazione, si conoscono ormai le cause che ne sono alla base, ma ancora oggi non esiste una cura efficace, che almeno contribuisca ad arrestare il lento, inesorabile progresso fino alla morte, in totale amenza, di chi ne è affetto. Come avremo modo di approfondire in seguito, sappiamo che la degenerazione e morte di intere popolazioni neuronali preposte alle funzioni cognitive che si verifica in questa affezione è dovuta al malfunzionamento soltanto di due proteine – la proteina tau e la proteina precursore dell’amiloide – (amyloid precursor protein o APP) rispetto alle decine di migliaia che operano con funzioni specifiche dentro la singola cellula nervosa. È come se una cittadina di 20-30.000 abitanti, la professione di ciascuno dei quali è assimilabile a quella di una proteina neuronale, fosse destinata a perire per il cattivo funzionamento di cittadini devoluti a espletare soltanto due professioni. Purtroppo, le terapie per ovviare al malfunzionamento di queste due proteine e alla morte dei neuroni, entro i quali esse degenerano, sono ancora parzialmente sintomatiche e mai risolutive, anche se le conoscenze acquisite sulle cause della malattia lasciano ben sperare in tempi relativamente rapidi di scoperte più decisive. Epidemiologia e costi sociali Il mdA fa parte della più vasta categoria delle demenze senili che colpiscono il 5,3% degli uomini e il 7,2% delle donne dopo i 65 anni di età. Ciò è attribuito al fatto che queste ultime hanno un’aspettativa di vita maggiore e quindi il rischio, che è proporzionale all’età, aumenta di concerto. Il mdA costituisce il 50-80% di tutte le demenze senili, mentre un altro 11-24% dei
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casi è di origine vascolare. In Italia il numero di pazienti affetti da mdA assomma a circa 500.000 ed è destinato ad aumentare rispetto alla popolazione per l’incremento progressivo dell’età e poiché l’Italia è fra le nazioni del mondo con il più alto numero di anziani. È stato calcolato che negli USA la spesa annua per singolo paziente, comprese le spese mediche e i costi indiretti come la perdita di reddito, è pari a 150.000 dollari. Nel nostro Paese la famiglia svolge ancora un ruolo cardine nell’assistenza al malato di mdA e tuttavia i costi arrivano a superare i 45.000 euro per anno per i pazienti più gravi. Mentre l’incidenza delle principali cause di morte (fattori circolatori come infarto o danni ischemici e tumori di varia natura) è in lenta ma progressiva diminuzione grazie alle terapie farmacologiche e agli stili di vita e alimentari, le cause di morte da mdA sono paradossalmente in crescendo lineare per il motivo dell’allungamento della vita e forse di altre cause ancora totalmente sconosciute. Pensare e agire come antidoto fisiologico Studi condotti in diverse parti del mondo indicano che l’incidenza del mdA è inversamente proporzionale al livello di educazione scolastica. Nonostante le analisi epidemiologiche non possano tener conto facilmente di tutti gli effetti collaterali – essendo la forma sporadica della malattia presumibilmente di natura multifattoriale – una serie di studi condotti sugli animali di laboratorio sottolinea in modo marcato l’importanza di una vita ricca di stimoli raffrontata a una povera. Ricorrendo alle formidabili tecnologie che permettono di manipolare il corredo genetico di un animale, un gruppo di ricercatori che operano in alcune università americane ha creato topi transgenici nel cui corredo genetico sono stati inseriti alcuni geni che simulavano a livello molecolare, e indirettamente comportamentale, una sindrome del morbo di Alzheimer. Questi topi, infatti, sovraesprimevano l’attività di due geni che forniscono le informazioni per la sintesi di due proteine, APP e PS1 (presenilina-1), che sono le principali cause della malattia. Un alterato metabolismo di queste proteine, infatti, porta a un accumulo di un peptide denominato beta-amiloide che provoca la morte delle cellule nervose circostanti. Questi animali sono stati suddivisi in due gruppi: un gruppo era tenuto
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nelle gabbie in uso negli stabulari di laboratorio, che non sono certo luoghi confortanti, ma si attengono a norme internazionali severissime per qualità e pulizia. L’altro gruppo veniva esposto per tre ore al giorno a un cosiddetto ambiente arricchito, consistente in gabbie di dimensioni più grandi nelle quali gli animali potevano arrampicarsi su delle ruote rotanti, addentrarsi in piccoli tunnel colorati, giocare a loro piacere. Dopo le tre ore quotidiane di questo relativo benessere psicofisico e comportamentale questo gruppo di animali veniva ricondotto in gabbie analoghe a quelle del gruppo meno fortunato di controllo. Il trattamento in ambiente arricchito veniva nel complesso protratto per sei mesi, al termine dei quali gli animali erano sacrificati e i loro cervelli analizzati con numerose tecniche sofisticate che comprendevano una misura della quantità del peptide neurotossico beta-amiloide, la quantità e l’estensione delle placche (dette senili) alle quali danno luogo i depositi di questo peptide, l’attività dell’enzima cerebrale che normalmente è deputato a distruggere il peptide stesso e molti altri parametri biomolecolari che caratterizzano nell’uomo e nell’animale il morbo di Alzheimer. I risultati ottenuti da questo gruppo di ricercatori dimostra che il mantenimento in un ambiente arricchito (che nell’uomo potrebbe essere assimilato a un ambiente fisicamente e intellettualmente stimolante) esercita un’azione incredibilmente positiva nell’animale, con una marcata riduzione del peptide tossico e delle placche senili, un’aumentata attività dell’enzima che distrugge il peptide e demolisce le placche e una tendenza notevole a una conversione verso un tipo di cervello “normale”. Lasciamo al lettore le conclusioni di questo studio, che in ogni caso costituisce per tutti coloro che assistono i pazienti affetti da questa malattia un invito ad “arricchire”, per quanto possibile, la vita dei loro assistiti, coscienti che il loro sforzo non è vano o di semplice assistenza passiva, ma può costituire una cura efficace e, caso molto raro, senza effetti collaterali negativi. Aspetti genetici e molecolari della malattia Le cause di questa affezione non sono ancora note e si ritiene che nella maggior parte dei casi essa sia dovuta a una variegata serie di interazioni di fattori ambientali e componenti genetiche. Appare accertato che queste ultime sono responsabili uniche del
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10% circa di ogni mdA e di tutti i casi di mdA che insorgono prima dei 40-50 anni. Nelle forme su base genetica vi sono tre geni che sono causalmente coinvolti. Mutazioni del gene che codifica per la proteina denominata APP (amyloid precursor protein), situato sul cromosoma 21, provocano l’1% dei casi di mdA e si manifestano intorno ai 45-55 anni. Mutazioni del gene che codifica per la proteina denominata PS1 (presenilina-1), situato sul cromosoma 14, causano la malattia nel 4% dei casi ed essa si manifesta tra i 30 e i 50 anni. Infine, nell’1% dei casi la malattia è dovuta a mutazioni del gene che codifica per la presenilina-2, situato sul cromosoma 1, e i primi sintomi si manifestano fra i 40 e 50 anni. Vi sono poi geni che, se in forma mutata, rappresentano causa di maggiore suscettibilità per l’insorgenza della forma tardiva della malattia. Fra questi ricordiamo il gene APOE4. Sebbene la causa sporadica della malattia, che rappresenta il 90% del mdA, non sia ancora conosciuta, la maggior parte degli specialisti concorda nella conclusione che, come numerose altre affezioni di tipo degenerativo le cause sono molteplici. Il fattore di rischio maggiore, come accennato, è il crescere dell’età, a parte le cause strettamente genetiche, che rappresentano tuttavia una percentuale minima del mdA. Si calcola che nell’età compresa fra i 65 e 75 anni l’incidenza è del 2-3% e colpisce il 50% degli individui con età superiore ai 90 anni. Nel mdA il trasferimento di informazioni fra i neuroni inizia a declinare progressivamente, poiché progressivamente diminuiscono il numero di sinapsi, la loro efficienza e lo stesso numero di neuroni. I sintomi clinici che caratterizzano il mdA, tuttavia, sono da attribuirsi principalmente alla perdita di sinapsi più che alla morte dei neuroni. Nelle fasi terminali della malattia le dimensioni del cervello e il numero di elementi nervosi è drammaticamente diminuito. Questa progressiva perdita di sinapsi e una loro inefficienza funzionale è stata attribuita all’azione alterata della proteina tau e alla produzione eccessiva di peptidi derivati dall’APP, la proteina precursore dell’amiloide. Placche e tangles, i segni dell’Alzheimer Quando il neuropatologo Alois Alzheimer per primo descrisse un insieme di dati comportamentali e anatomopatologici che in seguito avrebbero connotato con il suo nome la malattia, notò due alterazioni che in seguito furono considerate come
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patognomoniche: all’interno dei neuroni ormai in fase di avanzata degenerazione o già morti egli riportò l’esistenza di strutture fibrillari denominate neurofibrillary tangles o NFT. In seguito, si trovò che gli NFT sono principalmente formati da una proteina denominata tau. Inoltre, all’esterno degli stessi neuroni in via di degenerazione egli notò l’esistenza di aggregati di varie dimensioni evidenziabili con particolari colorazioni già allora disponibili, che denominò placche senili e che in seguito si sarebbe scoperto essere costituite principalmente da un peptide di piccole dimensioni denominato beta-amiloide (ba). Questo peptide origina da una proteina situata nella membrana citoplasmatica delle cellule nervose, denominata APP, la cui funzione non è ancora stata definita in modo inequivocabile. Baptisti, tauisti e apoptosi Mentre tutti i neurologi concordano nell’identificare nei tangles e nelle placche senili i due reperti caratteristici del mdA, nell’ultimo decennio sono nate due vere e proprie scuole di pensiero per quanto riguarda la priorità di insorgenza di queste due formazioni. Sono i depositi di beta-amiloide che formano le placche senili a iniziare una serie di eventi biochimici (produzione di radicali liberi, aumento nell’entrata di ioni calcio ecc.) che portano all’attacco proteolitico di tau con successivo collasso dei microtubuli e morte della cellula? O, al contrario, i primi eventi sono a carico di tau e il suo alterato funzionamento provoca di conseguenza un alterato metabolismo di APP con conseguente produzione di betaamiloide e danno tossico alle cellule circostanti in un meccanismo a cascata che si estende a macchia d’olio? I sostenitori della prima ipotesi si definiscono scherzosamente come “baptisti”, prendendo spunto dal termine beta-amiloid precursor protein, che denomina l’APP. I secondi, per converso, poiché identificano il primum movens dell’evento patogenetico nella proteina tau, si definiscono “tauisti”. Vi sono argomenti a favore dell’una e dell’altra ipotesi, ma la domanda cruciale, che si pone “a monte” di queste ipotesi è: per quale motivo, e tramite quali meccanismi molecolari iniziali, una di queste due proteine, che svolge un ruolo essenziale nell’economia dei neuroni, va incontro a quei cambiamenti che si materializzano nella formazione di placche e tangles?
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Un’ipotesi unificante sulle cause della malattia identifica in processi di apoptosi a carico di vaste popolazioni neuronali l’evento scatenante. Nell’ultimo decennio è emersa una nozione interamente nuova nel panorama della moderna biologia. Ogni cellula è dotata non solo del complesso di geni che presiedono alla sua specializzazione funzionale per divenire cellule nervose, cellule muscolari, cellule epiteliali e così via. Nel nucleo di ogni cellula si trova un gruppo di geni – il cui numero e le cui funzioni si vanno rapidamente identificando – che è devoluto ad avviare con precisione ed efficienza teutonica le cellule verso l’esito finale, cioè la morte. Per questo motivo si parla anche di morte cellulare programmata. Il processo è stato anche denominato da coloro che per primi lo hanno descritto con il termine di apoptosi dal greco apo (da) e ptosi (caduta), che nell’antica lingua greca era usato per descrivere la caduta delle foglie o dei petali dei fiori. Questo programma svolge un ruolo fondamentale di natura “fisiologica” nel corso dello sviluppo del cervello e della formazione dei circuiti nervosi, provvedendo a eliminare tutti i neuroni che non hanno formato circuiti appropriati e ben funzionanti. In altri termini, tutte le cellule che non hanno formato i circuiti funzionanti seguendo “direttive” in parte di natura genetica e in parte ambientale (tipicamente stimoli sensoriali di varia natura) si autoeliminano e i loro detriti vengono rapidamente digeriti da apposite cellule per evitare un ingombro dannoso e un eccessivo consumo energetico ai neuroni, che in questa corsa sono riusciti a stabilire contatti funzionali con altre cellule. Si tratta, com’è stato denominato da J.P. Changeux, di una sorta di darwinismo neuronale, nel quale sopravvivono i neuroni più adatti al funzionamento dell’organo che costituiscono, il cervello. Ma se questi fenomeni di autoeleminazione venissero “accesi”, nel cervello dell’adulto si potrebbero provocare danni irreversibili. Si verificherebbe infatti una progressiva perdita di intere popolazioni neuronali, che nell’arco di qualche anno condurrebbero l’individuo a quell’insieme di sintomi devastanti descritti in precedenza. Al contrario dei tumori, che non obbediscono all’ordine di attivare i propri geni apoptotici, i neuroni compierebbero l’errore di attivarli, venendo a mancare loro i segnali, che di norma li tengono repressi. In queste cellule, com’è comprensibile, il congegno a orologeria che attiva questi geni deve essere bloccato per tutta
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la vita dell’organismo. Quando questo blocco viene a mancare, le cellule nervose si autoeliminano e, a seconda delle funzioni che svolgono nel cervello, vengono a essere gravemente compromesse memoria, intelligenza, movimento. È interessante notare che fra i segnali che tengono sotto controllo la morte per apoptosi, sia in colture di neuroni sia in animali transgenici, sono il NGF e altre neurotrofine, la cui mancanza in animali da laboratorio ha dimostrato condurre a una sindrome comportamentale e anatomopatologica simile a quella che caratterizza il mdA. Com’è stato ampiamente dimostrato in passato, il NGF e altre proteine con funzione analoga, denominate appunto neurotrofine, svolgono un ruolo cruciale nella vita e nel differenziamento di intere popolazioni di neuroni in diverse parti del cervello. Non è pertanto azzardato ipotizzare che fra le cause scatenanti di quest’affezione neurologica sia da annoverarsi un diminuito rifornimento di NGF o di altre neurotrofine; diminuzione provocata dalle più diverse cause, quali una ridotta sintesi da parte delle cellule vicine o da un arresto o un rallentamento del trasporto assonale retrogrado. Sebbene nel suo insieme la sindrome molecolare descritta sia fortemente suggestiva di quanto potrebbe accadere nell’uomo, saranno necessari molti studi prima di trarre una rapporto di causa ed effetto fra i due fenomeni. Pietro Calissano Vice Presidente dell’European Brain Research Institute (EBRI), Roma
Rita Levi Montalcini Senatrice a vita, Premio Nobel per la Medicina nel 1986
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Il cervello che invecchia
Sicuramente tutti avrete sentito raccontare la storia allarmante della “perdita di neuroni”. Si tratta di uno dei classici “neuromiti”. Viene spesso citato come un dato di fatto che circa 100.000 neuroni muoiono ogni giorno. In realtà si tratta del risultato di un calcolo molto approssimativo, perché contare i neuroni in un soggetto vivente è tuttora del tutto impossibile. Quest’affermazione è basata sull’osservazione che una riduzione di volume del nostro cervello si registra in modo progressivo a partire dall’età di 18-20 anni. Ovviamente questa perdita non riflette solamente la morte dei neuroni, ma anche delle altre componenti del tessuto cerebrale. Gli studi più recenti ci dicono che certamente invecchiando perdiamo neuroni, ma il fenomeno è quantitativamente molto più limitato e, soprattutto, non riguarda diffusamente tutto il cervello, ma alcune aree in particolare. Il fatto che alcune di queste aree, come una struttura dalla forma molto particolare (l’ippocampo), siano responsabili della formazione delle tracce di memoria spiega alcuni dei fenomeni che si riscontrano nel normale processo di invecchiamento, come la difficoltà a ricordare nuove informazioni. Inoltre, bisogna ricordare che quando il cervello invecchia, e noi con lui, le modificazioni non vanno solo nel senso di un calo del numero di neuroni. Si possono osservare anche cambiamenti qualitativi, come una riduzione del numero ed estensione delle ramificazioni (dendriti) che costituiscono il sistema di trasmissione delle informazioni tra una cellula e l’altra. Diminuisce, poi, anche la possibilità di formare nuovi neuroni, che nel cervello adulto è piuttosto limitata ma esistente, contrariamente a quanto si credeva sino a non molto tempo fa. Questo insieme di fenomeni spiega le modificazioni delle capacità fisiche e cognitive che si accompagnano, con grande variabilità tra un soggetto e l’altro, all’invecchiamento fisiologico. A livello fisico, ad esempio, i movimenti diventano più lenti e la coordinazione meno precisa; a livello mentale, oltre alle difficoltà di memoria, anche la capacità di mantenere l’attenzione subisce dei cambiamenti, dei quali i soggetti anziani
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sono di regola pienamente consapevoli. Va comunque in ogni caso sottolineato che l’entità di questi cambiamenti verso il peggio è molto variabile tra i singoli individui e che accanto a processi mentali “fragili”, come quelli menzionati, ci sono capacità che di regola non sono intaccate dall’invecchiamento normale o possono addirittura migliorare con l’età. Un esempio classico è l’estensione del vocabolario, che si può verificare in persone che mantengono una ricca attività intellettuale. Come fa il cervello che invecchia a mantenere o addirittura migliorare le proprie prestazioni? La formazione di nuovi neuroni sembra avere un ruolo limitato. La possibilità di studiare quanto accade nel cervello al lavoro, che ci è fornita dai moderni metodi di visualizzazione dell’attività cerebrale, come la risonanza magnetica funzionale, ha iniziato a fornirci qualche informazione utile a questo proposito. Tradizionalmente, un corollario dell’idea che abbiamo un numero fisso di neuroni alla nascita, destinato a ridursi inesorabilmente con l’età, era che le modalità di organizzazione del sistema nervoso centrale fossero anch’esse fissate alla nascita, con possibilità di cambiamento limitate, e in ogni caso limitate alle prime fasi della vita. Anche qui la ricerca in neuroscienze ha portato a una revisione di questi concetti. Sappiamo ora che l’organizzazione cerebrale (ad esempio, la formazione di “circuiti” tra aree cerebrali diverse) è notevolmente modificabile in base alle caratteristiche dell’ambiente e delle esperienze. Questi fenomeni di plasticità – è questo il termine usato per indicare i cambiamenti nell’organizzazione cerebrale che hanno luogo dopo la nascita – persistono anche nell’invecchiamento e hanno un ruolo importante per compensare le inevitabili perdite di neuroni. Alcuni esempi di questa compensazione sono ancora stati dimostrati con le neuroimmagini. La maggior parte dei compiti che eseguiamo nella vita di tutti i giorni richiede la collaborazione di più aree cerebrali. Spesso un emisfero ha un ruolo più importante dell’altro: di regola, l’emisfero di sinistra è l’attore principale se abbiamo a che fare con il linguaggio, il destro con informazioni non verbali (ad esempio, posizioni nello spazio). Quello che si può osservare in soggetti anziani, che sono in grado di svolgere un certo compito altrettanto bene dei giovani, è che la differenza di partecipazione tra i due emisferi presente nei giovani si riduce o si annulla, come se gli emisferi “si dessero
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una mano” per far fronte con efficienza alle richieste del compito. Fenomeni analoghi, detti di “compensazione mediante perdita di differenziazione”, sono stati osservati anche tra parti anteriori e posteriori di ciascun emisfero. Insomma, ci sono parecchi modi in cui il cervello fa fronte alle conseguenze negative dell’invecchiamento e l’efficienza variabile di questi meccanismi, legata sia a fattori ambientali che al patrimonio genetico di ciascuno di noi, fa sì che alcune persone “invecchino meglio” di altre. Le cose cambiano, e in modo drammatico, quando il cervello è colpito da una delle malattie legate all’invecchiamento. Fra queste, un ruolo particolarmente devastante è svolto dalle malattie cosiddette “neurodegenerative”, come l’Alzheimer. In questo caso a livello molecolare si verificano alcuni fenomeni presenti anche nell’anziano normale, ma in modo molto limitato. La parte del leone è svolta dall’accumularsi di proteine anomale, sia tra le cellule che nei neuroni stessi. Le conseguenze di questo accumulo sono molto gravi: i neuroni si ammalano, prima smettono di funzionare in modo efficiente e infine muoiono velocemente e in grande quantità. Il processo che porta a questo esito inizia verosimilmente prima dell’età avanzata e i meccanismi di compensazione sopra descritti ne mascherano gli effetti. Quando compaiono i primi sintomi, tipicamente difficoltà della memoria, purtroppo la perdita di neuroni in alcune strutture, come l’ippocampo, è già avanzata. A questo punto due domande sorgono spontanee. La prima è se sia possibile stabilire se le difficoltà di memoria che quasi tutte le persone anziane a un certo punto iniziano ad avvertire sono parte dell’invecchiamento normale o rappresentino la manifestazione d’inizio della malattia. La risposta spesso ci viene solamente con il tempo. Le difficoltà “fisiologiche” non progrediscono in modo significativo e possono essere compensate attraverso l’uso di strumenti come l’agenda o semplicemente organizzando meglio le proprie attività. Non sono invece da sottovalutare le difficoltà che si aggravano e che iniziano a interferire con le attività della vita di tutti i giorni. A giudizio di una specialista può essere opportuno effettuare degli approfondimenti, che si basano su test neuropsicologici ed esami strumentali, come la tomografia computerizzata o la risonanza magnetica funzionale. La seconda domanda è se sia possibile fare qualcosa per evitare
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che i deficit progrediscano. Negli ultimi anni numerosi studi hanno suggerito un effetto positivo dello stile di vita, in particolare per quanto riguarda fattori quali l’esercizio fisico, la dieta, l’attività intellettuale e l’impegno sociale. Anche se non è ancora chiaro attraverso quali meccanismi si attui questo effetto protettivo, il messaggio importante è che sicuramente è opportuno tenerne conto nella nostra vita quotidiana. Stefano Cappa Professore Ordinario di Neuropsicologia Università Vita-Salute San Raffaele di Milano
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L’ABC del cervello
Il sistema nervoso è il tramite fra il nostro organismo e l’ambiente. Grazie alla possibilità delle cellule che lo costituiscono, i neuroni, di attivarsi in risposta a stimoli, comunicare fra loro e inviare comandi ai muscoli e ad altri organi, esso consente di conoscere l’ambiente esterno e interagire con esso. Il sistema nervoso è suddiviso in un sistema nervoso centrale, contenuto nella scatola cranica (encefalo) e nella colonna vertebrale (midollo spinale) e un sistema nervoso periferico, costituito dai nervi diretti verso i muscoli, la cute e gli organi interni. L’encefalo a sua volta è suddiviso in cervello, cervelletto e tronco encefalico. Il midollo spinale e il tronco encefalico fungono da importante sistema di connessione fra encefalo e nervi periferici, sia in entrata (informazioni provenienti dall’esterno) che in uscita (comandi provenienti dal cervello) e partecipano a importanti funzioni riflesse. Il cervello riceve le informazioni provenienti dal midollo spinale e dal tronco encefalico, elabora le risposte più complesse e controlla le risposte riflesse, mentre il cervelletto partecipa soprattutto a coordinare precisione e fluidità dei movimenti. Il cervello è diviso in due emisferi – destro e sinistro – simili fra loro almeno dal punto di vista dell’aspetto esteriore (sebbene con differenze di funzione), ciascuno dei quali è a sua volta suddiviso in aree con diversa organizzazione dei tessuti e con diversa funzione, sebbene i compiti più complessi vengano svolti grazie all’attività coordinata di più aree. Per un’efficace coordinazione delle attività del sistema nervoso è inoltre necessaria l’integrità delle vie di comunicazione, costituite da prolungamenti di neuroni che si spingono a diverse distanze connettendo diverse regioni cerebrali in uno stesso emisfero (fasci associativi) oppure i due emisferi cerebrali fra loro (è il caso ad esempio del corpo calloso) o addirittura connettendo il cervello o il cervelletto al midollo spinale (fasci di proiezione). Il sistema motorio è costituito da una regione – la corteccia motoria primaria – che invia i comandi motori destinati ad attivare i muscoli, da regioni in cui i movimenti vengono programmati (area supplementare motoria e area premotoria), da strutture di
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controllo come i gangli della base e il cervelletto. I gangli della base sono raggruppamenti di cellule alla base del cervello che calibrano l’entità di attivazione delle aree di programmazione ed esecuzione del movimento. Il cervelletto, una struttura che si trova nella parte inferiore del cervello (sopra la nuca), contribuisce a coordinare l’attività dei diversi muscoli fra loro garantendo fluidità e precisione del movimento. Anche se nella corteccia motoria sono rappresentati tutti i muscoli del nostro corpo, le funzioni motorie nel nostro cervello sono organizzate in base a movimenti (che coinvolgono simultaneamente più muscoli) piuttosto che a contrazioni di singoli muscoli. Quando programmiamo un movimento, possiamo farlo decidendo autonomamente quale movimento fare e quando, senza utilizzare stimoli esterni, soprattutto grazie all’attivazione dell’area supplementare motoria in concerto con i gangli della base e con altre strutture di controllo. Per fare ciò possiamo impiegare anche da uno a due secondi prima di eseguire il movimento. Durante questo periodo è possibile, registrando l’attività elettrica dei neuroni della corteccia cerebrale in modo non invasivo, con un semplice elettroencefalogramma ottenuto appoggiando degli elettrodi sul cuoio capelluto, visualizzare l’attivazione delle aree motorie che di lì a poco invieranno il comando verso il midollo spinale e da lì ai nervi periferici che lo trasmettono ai muscoli. Infatti le oscillazioni ritmiche dell’attività elettrica proveniente dalla superficie cerebrale si modificano in corrispondenza delle aree che man mano si attivano. Ad esempio, quando leggiamo un testo i ritmi cerebrali si modificano in tempo reale in corrispondenza delle aree visive, mentre quando programmiamo un movimento cambiano i ritmi espressi dalle aree motorie (Figura 1). Queste modificazioni, che indicano un’attivazione cerebrale, sono spesso presenti e rilevabili anche se il soggetto è paralizzato a causa di lesioni del midollo spinale, dei nervi o dei muscoli. Infatti tali lesioni impediscono l’esecuzione dei comandi motori in uscita dal cervello, ma non interrompono lo scambio di comunicazioni all’interno del cervello che si verifica durante la programmazione del movimento. Sulla registrazione dell’attivazione cerebrale durante la programmazione del movimento si basa una tecnica di interfaccia cervello-computer – la cosiddetta brain computer interface. Questa metodica consente di decifrare in tempo reale i
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Figura 1 – Visualizzazione mediante mappe colorate, su una rappresentazione schematica del capo visto dall’alto, delle aree di attivazione cerebrale (rappresentate in rosso) durante diversi compiti. Tali aree sono identificate mediante analisi dell’attività oscillatoria elettrica cerebrale (elettroencefalogramma), registrata mediante elettrodi superficiali – qui rappresentati come dischi rosa. A sinistra si può notare l’attivazione dell’area della mano destra (posta nell’emisfero di sinistra) mentre il soggetto si sta preparando a chiudere la mano. A destra è rappresentata l’attivazione cerebrale che coinvolge le aree visive, poste nelle regioni posteriori del cervello, durante lettura di parole.
segnali cerebrali, offrendo la possibilità a persone paralizzate di interagire con l’ambiente esterno, ad esempio scrivere al computer o svolgere altre attività quotidiane grazie ad applicazioni nel campo della domotica (ad esempio, accendere e spegnere le luci, aprire la porta di casa, utilizzare elettrodomestici ecc.). Mentre paradossalmente la programmazione del movimento può essere preservata in soggetti paralizzati a causa di lesioni ad esempio del midollo spinale, che interrompono l’invio ai muscoli dei comandi motori, vi sono malattie nelle quali si verifica l’opposto. Nella malattia di Parkinson, ad esempio, le vie che conducono i comandi motori in uscita dal cervello sono integre ma è alterato quel concerto di comunicazioni coordinate fra gangli della base e aree di programmazione motoria, come l’area supplementare motoria, che consentono di programmare movimenti
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decisi autonomamente, senza bisogno di stimoli esterni. Di conseguenza, le persone con malattia di Parkinson non hanno perdita di forza bensì hanno difficoltà a programmare i movimenti, soprattutto autogenerati, che risultano meno fluidi, più lenti e più rari. Un modo per migliorare la funzionalità motorie in questi pazienti, oltre alla somministrazione di farmaci, è stimolare regioni che appartengono ai circuiti coinvolti nella programmazione ed esecuzione del movimento, mediante campi elettrici o magnetici. Noi eseguiamo anche movimenti in risposta a stimoli esterni, come ad esempio quando aspettiamo che il semaforo diventi verde per attraversare la strada. Questi stimoli – ad esempio il semaforo – vengono analizzati da aree cerebrali specializzate e convogliate ad altre aree di programmazione motoria. Questo meccanismo, in gran parte preservato nelle persone con malattia di Parkinson, le può aiutare a camminare meglio e più velocemente grazie a stimolazioni sensoriali che fungano da guida, come ad esempio la musica o le strisce pedonali. Inoltre in alcune aree di programmazione del movimento vi sono neuroni, denominati “neuroni a specchio” dal ricercatore che li descrisse, il professor Giacomo Rizzolatti, che si attivano non solo durante la programmazione di determinati movimenti ma in seguito a stimoli sensoriali che indicano che altri individui stanno eseguendo gli stessi movimenti. Ad esempio, neuroni che si attivano non solo quando rompiamo una noce ma anche quando lo vediamo o lo sentiamo fare da un’altra persona. Questi neuroni sono considerati importanti non solo per imparare ad eseguire i gesti compiuti da altri, ma anche per comprenderli. Anche quando poi il movimento viene finalmente eseguito è necessario che le aree motorie partecipino in modo coordinato. Ad esempio, per le azioni che richiedono una mano sola, come scrivere o aprire una porta, l’area motoria primaria di un lato invia il comando motorio attraverso il midollo spinale fino ai nervi e ai muscoli che determinano i movimenti della mano dal lato opposto. Per questo semplice movimento i neuroni dell’area motoria della mano devono attivarsi in modo da selezionare istante per istante determinati muscoli che devono contrarsi e altri che devono decontrarsi, simultaneamente. Inoltre, spesso l’altra mano non deve fare nulla (movimenti unimanuali), dunque occorre che i due emisferi si accordino velocemente su quale dei due debba
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attivarsi. Questo porrebbe dei “dilemmi” su quale mano usare nel caso si tratti di un’azione che si può effettuare indifferentemente con una mano o con l’altra (es. prendere un bicchiere di fronte a noi). Il fatto che negli esseri umani e in alcuni primati vi sia una preferenza manuale (e di conseguenza di emisfero) può essere un vantaggio in quanto occorre perdere meno tempo per prendere questa decisione che così diventa relativamente automatica. Occorre inoltre impedire alla mano opposta di interferire con l’azione in corso: consideriamo ad esempio ciò che ciascuna mano deve fare quando usiamo un cavatappi – una mano tiene ferma la bottiglia mentre l’altra toglie il tappo. Occorrono dunque sofisticati meccanismi di comunicazione che consentano di coordinare le due mani fra loro e, quando necessario, particolarmente per i movimenti che coinvolgano una mano sola (la destra nella maggioranza delle persone), inibiscano la mano che non viene utilizzata. Nei soggetti adulti che preferiscono utilizzare la mano destra, questo si traduce in una maggiore rappresentazione sulla superficie cerebrale dei neuroni (che si trovano nell’emisfero di sinistra) che controllano i muscoli della mano destra rispetto a quelli che controllano la mano sinistra. Ciò può essere dimostrato, nell’uomo, mediante stimolazione magnetica transcranica, una tecnica che consente di ottenere delle risposte muscolari attivando le aree motorie cerebrali in modo indolore e non invasivo, appoggiando sullo scalpo delle sonde con un raggio d’azione molto piccolo (1-2 cm). Questa tecnica consente, spostando lungo lo scalpo la sonda stimolante, di localizzare i neuroni che inviano i comandi motori ai diversi muscoli. All’uso preferenziale della mano destra, dunque, corrisponde una maggiore espansione delle relative aree motorie. Mentre non è ancora accertato se questa maggiore espansione sia innata o sia modificata con l’uso delle mani durante l’accrescimento dell’individuo, lo sviluppo di particolari abilità motorie è accompagnato da modificazioni della rappresentazione dei muscoli. Ad esempio, nei pianisti provetti, che effettuano movimenti molto fini delle due mani per molte ore al giorno, la rappresentazione dei muscoli sulla superficie cerebrale è più simmetrica, e nei soggetti che per diverse ore al giorno si allenano a utilizzare solo una mano (ad esempio il pallavolista specializzato nella “schiacciata”) la rappresentazione dei muscoli del braccio è più
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asimmetrica rispetto a chi pratica la corsa. Queste modificazioni, dimostrabili mediante stimolazione magnetica transcranica, sono un esempio di plasticità cerebrale, quel fenomeno che consente al cervello di cambiare la sua connettività e che è molto più efficiente nel neonato e nel bambino ma che è dimostrabile anche una volta raggiunta l’età adulta. Modificazioni plastiche della corteccia cerebrale sono state dimostrate anche in adulti colpiti da ictus che hanno avuto un danno alle vie motorie, parallelamente al recupero delle abilità motorie, sia spontaneo, sia dopo riabilitazione motoria, sia dopo neurostimolazione cerebrale. Quest’ultima, appare attualmente un approccio promettente da considerare insieme alle terapie farmacologiche e cellulari, allo scopo di migliorare la sopravvivenza, attività e connettività neuronali, nel trattamento di diverse malattie neurologiche. Letizia Leocani Unità di Neurologia Sperimentale (INSpe) Istituto Scientifico Universitario San Raffaele di Milano
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Il navigatore guida la mano del chirurgo
La neurochirurgia è la scienza dedicata a fornire cure e terapie ai pazienti che sono affetti da malattie del sistema nervoso, ovvero del cervello, del midollo spinale e dei nervi periferici. Negli ultimi dieci anni sono state adottate alcune nuove tecniche chirurgiche e metodologie terapeutiche che, frutto di molte faticose ricerche biologiche svolte in tutte le parti del mondo, aprono prospettive interessanti per alleviare la sofferenza dei pazienti e migliorare le prestazioni dei medici. Le malattie vascolari sono molto comuni, specie in una popolazione come quella dei Paesi occidentali, dove la durata della vita si allunga sempre di più. Per queste malattie vascolari si è sviluppata la possibilità di curare le malformazioni dall’interno delle arterie, con la chirurgia endovascolare, utilizzando speciali colle o microspirali metalliche appositamente costruite. Quando questo intervento non è possibile o consigliabile, tali malformazioni possono essere curate con la microchirurgia, che utilizza uno speciale microscopio in grado di migliorare la visione fino a 40 volte. Inoltre, con un programma di risonanza magnetica funzionale dedicata si può studiare il flusso del sangue nelle arterie cerebrali, fornendo indicazioni sull’utilità degli interventi di rivascolarizzazione cerebrale, per prevenire ischemie e ictus. In questi casi si usa un’arteria che è fuori dal cranio e la si connette con una intracranica, costruendo perciò un by-pass. Uno dei problemi della chirurgia è quello di raggiungere la lesione senza incertezze e senza errori di avvicinamento. Per questo è stata sviluppata la neurochirurgia guidata da immagini. Come esiste il navigatore nelle nostre auto e negli aerei, così c’è il navigatore per eseguire meglio e con maggiore precisione gli interventi neurochurgici. Le immagini vengono fornite dalla TC (tomografia computerizzata) e dalla RMF (risonanza magnetica funzionale). La TC e la angioTC ci permettono di visualizzare i vasi del cervello, le arterie e le vene, le loro eventuali malformazioni e i loro rapporti con le strutture
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ossee. La RMF ci consente invece di individuare, attraverso l’esecuzione di particolari compiti da parte del paziente in esame, i centri della parola, della visione, della memoria, della motricità degli arti superiori e inferiori e della mano. Questi dati vengono immessi in un computer dedicato che lavora in sala operatoria: con sistemi elettronici simili a quelli che vengono usati per l’auto e gli aerei, il neurochirurgo riesce a pianificare e a guidare la traiettoria di aggressione della lesione cerebrale, riducendo al minimo i rischi di danno alle strutture sane circostanti ed evitando, nei limiti del possibile, di attraversarle. Uno dei problemi di tutte le terapie mediche, ma soprattutto di quelle chirurgiche, sono gli effetti collaterali che possono comportare. Per quanto riguarda la chirurgia del cervello, è noto che i capelli portano il pericolo di infezioni; con piccole incisioni non è più necessario raderli come si faceva in passato, evitando conseguenti problemi psicologici per i pazienti. Eseguire incisioni e quindi cicatrici cutanee di piccole dimensioni è quindi molto importante. La grandezza delle aperture può essere limitata anche grazie alla guida delle immagini preoperatorie, permettendo così una migliore qualità degli interventi. Per questo è stata sviluppata e diffusa la neurochirurgia mininvasiva, cioè la pianificazione degli interventi, disegnati per il singolo paziente come un vestito tagliato e cucito su misura, utilizzando approcci minimi, rispettosi dei tessuti circostanti. Questo è vero per ogni parte del corpo, ma risulta tanto più importante quando si lavora con il cervello, che è la sede di innumerevoli funzioni, anche complesse, come la memoria e le funzioni cognitive, cioè la capacità di apprendere e di pensare. Inoltre, questa tecnica permette interventi davvero mirati, che, oltre a migliorare la qualità della vita del paziente immediatamente dopo l’intervento e anche in seguito, permettono di ridurre il periodo di ricovero in ospedale e anche di ottenere risultati migliori dal punto di vista clinico ed estetico. Vi sono situazioni in cui le lesioni sono così vicine ad aree dove risiedono funzioni molto importanti, per esempio quelle della parola, della visione o del movimento, che anche le immagini preoperatorie non sono sufficienti a ridurre il rischio di danni. Come nell’auto vi sono i sensori per il parcheggio, in chirurgia si possono evitare impatti devastanti grazie alla stimolazione
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elettrica delle strutture esposte a rischio, in modo da attivare un “campanello d’allarme” prima di rischiare di lederle. Ma per fare questo è necessario che il paziente sia in grado di rispondere. Così è stata messa a punto la neurochirurgia con paziente sveglio, la cosidetta awake surgery, cioè in anestesia locale, che consente a chi subisce l’intervento di collaborare con il chirurgo, affiancato da uno psicologo esperto di linguaggio e un neurofisiologo esperto di movimento. La presenza di questi specialisti si rende necessaria quando le lesioni sono vicine alle aree che governano il linguaggio, cioè la parola espressa e compresa, oppure quelle aree che fanno muovere la mano, le dita della mano o gli arti inferiori. Il paziente naturalmente viene istruito prima dell’intervento e deve collaborare eseguendo particolari movimenti o risolvendo semplici problemi di sintassi e di costruzioni di frasi. Riducendo sempre di più le aperture per entrare all’interno della scatola cranica o utilizzando aperture naturali quali il naso o la bocca in pazienti in anestesia generale, ci si è trovati nella necessità di usare strumenti che permettono di vedere in queste cavità con molta precisione. Per questo è stata sviluppata la neurochirurgia endoscopica, che utilizza uno strumento, l’endoscopio, che può essere inserito in piccoli fori nel cranio, detti minicraniotomie, oppure attraverso il naso e che permette di raggiungere e asportare lesioni della base del cranio, vicino ai nervi ottici per esempio. E anche di guardare, quando vengono usate ottiche inclinate a 30 e 45 gradi, nella zona oscura “dietro l’angolo”, cosa che invece il microscopio che usa una visione diretta non consente. Ma il cervello funziona anche in risposta a stimoli esterni che possono aumentare o diminuire l’attività di alcuni centri nervosi, detti nuclei (in quanto costituiti da un gruppo di cellule specializzate). Questa tecnica terapeutica si chiama neuromodulazione. È un particolare aspetto della neurochirurgia che utilizza la stimolazione di alcuni centri particolari del cervello per curare sintomi di malattie neurologiche quali il morbo di Parkinson, le distonie, il dolore cronico, alcuni tipi di epilessia. Questo tipo di interventi prevede l’inserimento nel cervello di alcuni elettrodi in modo estremamente preciso, con il casco stereotassico. Gli elettrodi sono quindi collegati a un pacemaker neurologico,
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che fornirà con la sua batteria computerizzata la corrente elettrica per la stimolazione, secondo parametri prestabiliti. Tali strumenti oggi sono a batteria esauribile o a batteria ricaricabile, molto piccoli, e come tutto il sistema vengono sistemati sotto la cute. Inoltre, vi sono anche elettrodi configurati in modo dedicato, speciale, che possono essere posizionati nella guaina che avvolge il midollo spinale e le radici dei nervi. Attraverso la loro stimolazione si possono controllare il dolore e la spasticità. Analogamente si possono inserire elettrodi sottocutanei in territori dolorosi delimitati o su alcuni nervi del collo, il nervo vago o della colonna spinale, con buoni risultati nell’alleviare il dolore cronico. Per curare certi tipi di tumori non asportabili chirurgicamente o per impedire loro di crescere nel tempo si è affinata la radioterapia, producendo macchine che possono essere utilizzate anche negli interventi di radiochirurgia. La radiochirurgia sfrutta l’energia dei raggi X emessi da un microacceleratore nucleare che è legato meccanicamente a un robot dedicato a questo scopo. In questo modo si possono curare con radiazioni molto delimitate e quindi meno invasive, lesioni tumorali anche in vicinanza di strutture delicate che quindi vengono risparmiate. In conclusione, la medicina e in particolare la neurochirurgia in questi anni si è molto evoluta e ha proposto grandi miglioramenti della qualità e della quantità delle cure per le malattie del sistema nervoso, ma molto resta ancora da fare. Per questo è fondamentale la ricerca sul cervello, che oggi coinvolge medici, ricercatori di varie discipline, esperti di computer, in uno sforzo congiunto che porta ogni giorno nuovi risultati per il benessere dell’umanità. Giovanni Broggi Dipartimento di Neurochirurgia, Fondazione Istituto Neurologico C. Besta Vice Presidente EANS (European Association of Neurosurgical Societies) Vice President WFSSFN (World Federation Societies of Stereotactic and Functional Neurosurgery)
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“IL COLORE DEL PENSIERO” - 4 APRILE 2011 - PICCOLO TEATRO GRASSI “IL PENSIERO GRIGIO. L’ALZHEIMER” - 5 APRILE 2011 - IRCCS SAN RAFFAELE
SOTTO L’ALTO PATRONATO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA ITALIANA CON IL
PATROCINIO DELL’ISTITUTO SUPERIORE DI SANITÀ
con il patrocinio e il contributo del Comune di Milano - Assessorati alla Salute e alla Ricerca
è stato organizzato da
BrainForumOnAir
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Finito di stampare nel mese di febbraio 2011 Arti Grafiche Colombo
!"#$#%&'(')(*+#(&,-.,))#/(0()1(%231(4'5( importante che l’uomo abbia mai affrontato e che dovrebbe costituire il motto socratico del nostro tempo.” Rita Levi Montalcini
Il sostegno di Human Life Fund ha reso possibile la realizzazione di questo libro. foto di copertina: “Ippocampo e corteccia cerebrale”, realizzata da Tamily A. Weissman e Jeff W. Lichtman nel laboratorio di Jeff Lichtman presso l’Università di Harvard. Per gentile concessione di Fundació “la Caixa” di Barcellona.